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Cinque corpi di pubblica sicurezza in Italia, chi sono e cosa fanno

Cinque corpi di pubblica sicurezza in Italia, chi sono e cosa fanno

Lorenzo Vendemiale – La Stampa

Senza il blocco dei contratti, il giro di vite sul turnover e norme più severe per premi individuali, come ha certificato poco tempo fa la Corte dei Conti, l’Italia non sarebbe certo riuscita a mettere sotto controllo il monte salari dei dipendenti pubblici. E invece da qualche anno a questa parte il peso sul bilancio dello Stato pian piano sta scendendo al punto che l’Italia è entrata a far parte del club dei Paesi più virtuosi, collocandosi ben sotto la media europea: nel 2016 scenderemo infatti sotto la soglia del 10% del Pil. Oggi siamo ancora al 10,5%, contro il 19% della Danimarca, il 14,4 della Svezia, il 13,4% della Francia e l’11,5 della Gran Bretagna. Tra i grandi Paesi solo la Germania, con l’8%, riesce a fare meglio.

Comunque sia, anche se gli stipendi medi non sono altissimi (34.576 euro di media nel 2012), si tratta pur sempre di un mucchio di soldi: parliamo di ben 164 miliardi di euro di spese complessive nel 2013, 8 in meno rispetto al 2010 (-4,6%) quando il blocco dei salari ha toccato tutti i settori e tutti i comparti della Pa. Stando all’ultima versione del Def 2014 non solo la discesa non sarebbe terminata, ma anzi si prevede un’ulteriore riduzione dello 0,7%. Solo dal 2018, per effetto della ripresa del turnover e del pagamento dell’indennità di vacanza contrattuale 2015-2017, è prevista una inversione di tendenza con un aumento dello 0,3 per cento della spesa.

Ovviamente parliamo di medie, se si scende nel dettaglio, in un mondo dove i dirigenti sono tra i più pagati in assoluto di tutta l’area Ocse e dove la «truppa» è invece agli ultimi posti delle graduatorie, si vede che a patire di più i tagli sono stati i dipendenti degli enti locali che hanno dovuto sopportare «per intero» la diminuzione della spesa, mentre il settore statale si è mantenuto su livelli stabili (+0,2%) ed i dipendenti degli enti previdenziali hanno messo a segno un lieve aumento (+1%).

Ma se è vero che la spesa dello Stato ha beneficiato di queste norme sempre più rigide sul pubblico impiego, è anche vero – lo ammette la stessa Corte dei conti – che si è trattato di «misure severe ed eccezionali, non replicabili all’infinito e non aventi natura di riforma strutturale». Dopo cinque anni e più sostengono i magistrati contabili, il blocco della contrattazione va superato. Perché ha di fatto «impedito» la piena attuazione della riforma del 2009 quando vennero «privatizzati» i contratti del pubblico impiego con l’obiettivo di aumentare la flessibilità e riforma il meccanismo di calcolo degli stipendi.

Se il governo, come ha più volte detto, vuole procedere con la riforma del salario accessorio, spingere l’acceleratore sul recupero dell’efficienza e la valorizzare del merito individuale è obbligato a riprendere l’attività negoziale. È una questione «fisiologica», sottolinea la Corte dei Conti. E certamente, dopo sette anni di blocco, non è immaginabile una contrattazione che riguardi solo le regole e non i salari. Il problema è che riaprire il «file» contratti ha un costo non indifferente. È lo stesso governo, nei documenti di bilancio, ad indicare in base agli aumenti medi concessi nelle tornate precedenti un costo che a regime arriverà a quota 6,5 miliardi di euro. Ecco spiegato l’impasse di questi giorni. Al quale difficilmente si potrà sopperire con ulteriori tagli del numero dei dipendenti, già scesi di 200 mila unità nel giro di 4 anni. Perché andrebbe utilizzata di nuovo la leva del turnover e questo farebbe ulteriormente aumentare l’età media dei nostri travet, che in larga parte (50%) già oggi hanno più di 50 anni contro una media europea del 30% e dove la quota di laureati (34%) sfigura se rapportata ad esempio a quella inglese (54%). Con tutto ciò che ne conseguenze in termini di competenza, efficienza e produttività.

Matteo si riprende gli 80 euro con il fumo

Matteo si riprende gli 80 euro con il fumo

Franco Bechis – Libero

Arriva la prima stangata sui fumatori di ogni genere firmata dal governo di Matteo Renzi. In un decreto legislativo trasmesso al Parlamento da Maria Elena Boschi a fine agosto è infatti previsto un riordino delle accise sui prodotti da fumo che non risparmierà né fumatori di sigarette e sigari tradizionali, né gli amanti delle sigarette elettroniche. La manovra consentirà allo Stato di incassare 163 milioni di euro all’anno in più di oggi grazie a un mix di disposizioni favorevoli, tra cui l’abolizione dell’imposta sui fiammiferi e di norme fiscali introdotte nel 2013 (-53 milioni di euro), e il rincaro di sigarette (+48 milioni di euro), di prodotti da fumo diversi (come i sigari: +36 milioni di euro) e soprattutto della sigaretta elettronica (+132 milioni di euro l’anno). Il conto finale è salato, e potrebbe portare a un aumento di circa 20 centesimi a pacchetto di sigarette, e a una vera stangata sulle ricariche con nicotina per le sigarette elettroniche, visto che viene invece esclusa la tassazione sui componenti elettronici.

Ma il mercato dei fumatori ha tirato negli ultimi due anni un brutto scherzo alle casse dello Stato. Il governo cerca infatti di fare quadrare attraverso continui aumenti di accise e di Iva sui prodotti da fumo due elementi che per principio sono in contrasto: la salute degli italiani (disincentivando il fumo) e quella dell’erario (che deve incassare sempre di più anche se si fuma meno). L’operazione per anni è riuscita, anche in tempi molto recenti. Come spiega il nuovo decreto legislativo nella sua relazione introduttiva, nel periodo 2006-2011 «il consumo di sigarette è diminuito di circa 8,3 milioni di chilogrammi (-8,89%), mentre il gettito – a titolo di accisa – è aumentato del 10,65%, con un maggiore gettito, nei sei anni, di 1 miliardo e 25 milioni di euro». Operazione perfetta: meno gente che fumava, più salute in generale (anche quella ha un costo per le casse dello Stato), ma quelli che rimanevano fumatori pronti comunque a mettere mano al portafoglio ad ogni aumento di accisa voluto dallo Stato.

Il sistema perfetto però si è inceppato in questi ultimi due anni, durante i quali sui prodotti da fumo si sono abbattuti contemporaneamente ben tre manovre sulle accise e due aumenti dell’Iva a distanza di poco tempo (prima dal 20 al 21% poi quella varata dal governo di Enrico Letta al 22%). Questa volta i fumatori si sono ribellati, e non hanno operato nemmeno scelte di ripiego tradizionali, come quella di passare a pacchetti di sigarette meno costosi (ma con le stesse accise degli altri, con effetto quindi netto sulle casse dello Stato).

Spiega mestamente il governo Renzi: «Negli ultimi due anni invece è stata registrata una riduzione dei consumi di circa 11,5 milioni di chilogrammi, cui è conseguita una contrazione del gettito – a titolo di accisa – di circa 500 milioni di euro. Metà del guadagno extra dello Stato dei cinque anni precedenti se ne è andato – bisogna proprio dirlo – in fumo nel biennio successivo. E non era mai accaduto. I consumatori per la prima volta si sono ribellati semplicemente non comprando più sigarette o facendosi durare di più il pacchetto acquistato, se proprio non riuscivano a smettere. «Gli aumenti di prezzo sono stati giudicati eccessivi dal mercato, il quale ha quindi registrato una forte riduzione dei consumi e di conseguenza una diminuzione delle entrate erariali», scrive l’esecutivo. E che si inventano per invertire la crisi? Un nuovo aumento delle sigarette. Sembrano schizofrenici, visto quel che hanno appena finito di spiegare, ma è così. Il fatto è che il governo se ne rende conto, e prova a spiegarsi: la manovra sulle accise colpirà soprattutto i pacchetti di sigarette venduti a prezzo più basso, perché i produttori si sono difesi dal calo dei consumi abbassandone il prezzo (e quindi danneggiando l’erario). Non ci dovrebbero essere contraccolpi sulla fascia alta dei fumatori. Vengono colpiti i più poveri quindi, ma secondo il governo non ci sarà effetto negativo per l’erario perché proprio in quella fascia di consumo la capacità reddituale è in aumento negli ultimi mesi. Non è citato direttamente, ma l’aumento è legato ai famosi 80 euro. Che il governo spera vivamente vadano in fumo.

Debito d’incoscienza

Debito d’incoscienza

Davide Giacalone – Libero

L’impressione, pessima, è che non vi sia consapevolezza di quanto il problema del debito pubblico sia drammatico e di come il tempo a nostra disposizione si stia accorciando. Leggo le dichiarazioni di Matteo Renzi e trasecolo. Le divido in tre concetti, riportandone il  testo: a. “non esiste nessuna operazione taglia debito”, nel senso che il governo non la sta né studiando né proponendo; b. “per risolvere il problema del debito dobbiamo tornare a crescere”; c. “se facciamo le riforme potremo avere più tempo per il rientro del debito”. Questa è una dottrina cieca, che porta alla rovina.

Ci siamo impegnati per anni nel dimostrare che la condizione del bilancio pubblico italiano non è compromessa. Che ci sono punti di forza. Che la voragine del debito può essere colmata, perché esistono vantaggi da sfruttare. Non ripeto il tutto, che i nostri lettori conoscono, o possono facilmente rintracciare. Ma il presupposto della riscossa è la consapevolezza. Quella che si mette in scena, invece, è l’Italia di Caporetto: arroganza, supponenza, incapacità dei comandi militari, totale ignoranza circa le forze in campo. Per arrivare all’Italia di Vittorio Veneto ci volle un trauma, costato fiumi di sangue. Ora che deve accadere? Con un governo che si propone di assumere 150mila dipendenti pubblici, nella scuola, strologando di riduzione delle tasse. E con che li si paga? So bene che la politica è anche propaganda. Che questo è uno dei succhi della democrazia. Ma quando la propaganda perde il senso della realtà è segno che il vuoto regna nella testa di chi parla.

Tra il 2001 e il 2004 il debito pubblico è costantemente sceso in rapporto al prodotto interno lordo, pur restando sopra la soglia patologica del 100% (dal 108,3 al 103,7). Frutto dei tanto vituperati tagli lineari e di una crescita ancora non cancellata dalla crisi del debito (prima privato e statunitense, poi sovrano ed europeo). Dal 2008 a oggi, dopo anni di tante tasse e pochi tagli, è costantemente cresciuto, passando dal 106,1 al 133%. Se la ricetta di Renzi consiste nel ridurre progressivamente quel rapporto, puntando sulla crescita del pil, posto che dobbiamo ancora vederla, l’Italia s’infila da suicida nel toboga del fiscal compact. Con questi ritmi ci mettiamo 30 anni per tornare ai livelli di produzione di prima della recessione, tempo che si allunga anche a causa degli oneri indotti dal debito. Che ogni hanno ci porta via circa 80 miliardi, divorando la sensazionale serie positiva degli avanzi primari, per i quali abbiamo un record mondiale. Con tale dottrina la riduzione del debito prende lo stesso passo, allungandosi nei decenni a venire.

Si può dire: ma neanche gli altri furono capaci di cose diverse. Vero. Non a caso si tratta di una classe dirigente fallimentare e fallita. Mi sfugge la ragione per cui ciò dovrebbe costituire un’attenuante, essendo un’aggravante. Per tale ragione, da anni, si riflette su modelli e sistemi diversi per operazioni straordinarie di abbattimento del debito, che sono la sola via praticabile. Senza entrare nei dettagli, tante altre volte illustrati: scambiare patrimonio pubblico contro abbattimento del debito. Molti sono colpevoli di non averlo saputo fare, ma ora Renzi lo esclude. Senza presentare alternative, che non ci sono.

Se faremo le riforme, però, avremo più tempo per rientrare dal debito. Questa è una dannazione, non una conquista. E’ la logica del galleggiamento, ma nella palta. A noi servono sia le riforme che l’abbattimento del debito. Le une funzioneranno meglio con il secondo. Le une al posto del secondo, invece, è solo svenamento. E di che riforme parliamo, poi, se nella scuola preferiamo l’occupazione alla formazione?

Renzi smentisce Padoan, sul punto delle privatizzazioni. Quando il ministro ha annunciato la cessione di un ulteriore 5% di Eni ed Enel, abbiamo obiettato: queste non sono privatizzazioni, ma vendite, e devono andare a riduzione del debito, non del deficit. Ma Renzi dice: quell’operazione non mi convince. Ma allora non tornano più i conti elaborati dal ministero dell’Economia. Il ministro, che svolge anche la funzione di garante dei nostri conti, ne esce demolito nella sua credibilità. E come si sostituisce, quel flusso di ricchezza, con la privatizzazione di Poste? E’ inimmaginabile nei conti del 2014.

Per dire di queste cose non basta non avere idee con cui risolvere i problemi, ci vuole anche inconsapevolezza dei problemi stessi. La cosa migliore che possa accadere, in tali condizioni, è che altri diluvi d’interviste correggano il tiro. Naturalmente dando la colpa a noi, che non siamo capaci di capire.

Ecco perché l’Italia non crescerà mai

Ecco perché l’Italia non crescerà mai

Stefano Feltri – Il Fatto Quotidiano

Se volete capire perché l`Italia non cresce e non crescerà, dovete parlare con Dario Scannapieco, il vicepresidente (italiano) della Bei, la Banca europea degli investimenti, l’istituto di proprietà dei 28 Paesi dell’Unione che finanzia infrastrutture e imprese per riempire i vuoti lasciati dal settore del credito che segue solo logiche di mercato. “Qui non riusciamo a fare quello che potremmo, non ci arrivano abbastanza progetti finanziabili. Per esempio servirebbe un’amministrazione in grado di scrivere un piano logistico per il sud, ma non c’è. E quindi i fondi europei vanno a pagare la sagra della porchetta”. Scannapieco, classe 1967, da otto anni è vicepresidente della Bei dopo essere stato un dirigente del ministero del Tesoro, uno dei più giovani della filiera dei Ciampi Boys. Incontra i cronisti nella sede della Bei di Roma per spiegare che cosa può fare (e quali sono i limiti), quello che molti governi considerano un bancomat taumaturgico.

Negli anni della crisi, la Bei ha prestato 455 miliardi di euro in Europa, nel 2014 saranno 70 come finanziamenti e 3,9 con il Fei, il fondo che entra indirettamente nel capitale delle aziende. L’Italia è il Paese che riesce a intercettare la fetta più considerevole degli interventi della Bei: tra 2007 e 2013 ben 61 miliardi di euro. La Bei agisce un po’ come i vecchi istituti di mediocredito pubblici: presta le somme necessarie a progetti a lungo termine a società come Terna e Autostrade. La Bei in Italia funziona e progetti da finanziare ne trova, come il sincrotrone di Trieste che trasforma la fisica più avanzata in applicazioni per la diagnostica medica.

Eppure i racconti di Scannapieco chiariscono perché le prediche inutili sulla necessità di aumentare gli investimenti in Italia resteranno tali. I minibond inventati dal Tesoro hanno funzionato, un miliardo di emissioni. Ma le aziende che li emettono sono troppo piccole per beneficiare della sottoscrizione della Bei. C’è stato bisogno di cartolarizzare i minibond di otto utility pubbliche (cioè impacchettarli in un unico maxi-bond) per permettere alla Bei di intervenire. E i famosi projectbond, quelli che finanziano direttamente le opere pubbliche? In Italia se ne parla da decenni ma partono, anche se sarebbero un impiego perfetto per le risorse della Bei. Unico esperimento col passante di Mestre. Poi c’è il piano scuola: “Siamo stati contattati già ai tempi del governo Letta e saremmo felici di finanziare gli interventi di edilizia scolastica”, dice Scannapieco. Ma la Bei sta ancora aspettando che le Regioni costruiscano la “anagrafe scolastica”, perché prima di spendere per risanare gli istituti bisogna sapere quanti sono, dove stanno e in che condizioni si trovano. Informazioni che in Italia non detiene ufficialmente nessuno. Inutile aspettare miracoli dalla politica monetaria e dalla Bce: le nuove operazioni straordinarie di Mario Draghi, le Tltro, andranno in buona parte a rifinanziare quelle del 2011-12, le Ltro che scadono l’anno prossimo, solo una parte dei soldi arriverà alle imprese, avverte Scannapieco. “Negli ultimi quindici anni la finanza è diventata più complessa, mentre il personale delle amministrazioni pubbliche si è indebolito proprio quando servirebbe una grande competenza tecnica”, sostiene il vicepresidente della Bei. Risultato: le risorse sono scarse e mancano idee e capacità per sfruttarle al meglio. Un esempio: il ministero dello Sviluppo economico voleva dare 100 milioni di euro presi dalla Bei per aiutare le imprese a pagare gli interessi sul debito, sollievo immediato ma impatto trascurabile. I tecnici europei di Scannapieco hanno suggerito che era meglio usare quei 100 milioni come garanzia per le prime perdite potenziali su quei prestiti alle imprese. Così, con l’effetto leva, alle aziende arriveranno 500 milioni, cinque volte l’impatto iniziale. Con pochi soldi veri, la finanza creativa va saputa usare.

La recessione ‘salva’ l’Italia, si allontana l’ipotesi della manovra

La recessione ‘salva’ l’Italia, si allontana l’ipotesi della manovra

Marco Zatterin – La Stampa

C’è la recessione, ma c’era anche di peggio. L’azienda Italia poteva produrre qualche magro decimo di punto di crescita e allora, salvo brusche correzioni di spesa e entrate, avrebbe corso il serissimo rischio di sentirsi chiedere altri «sforzi aggiuntivi» per realizzare gli impegni di bilancio presi coi partner europei. Invece no, il copione ora è un altro. Più fonti notano che due trimestri col Pil in rosso possono essere «fattori mitiganti» nella valutazione della contabilità nazionale e dunque che, qualora si arrivi agli esami autunnali senza le carte in regola, Bruxelles potrebbe fermarsi ai rimbrotti. Così, almeno per la competenza 2014, una manovra correttiva costretta dal rispetto degli eurovincoli potrebbe essere in buona sostanza scongiurata.

Sono sensazioni e non verdetti. Il dibattito sulle correzioni possibili a cui potrebbe essere costretto il governo Renzi ha animato l’estate, coi palazzi romani attenti a smentire l’esigenza di tagli improvvisi o tassazioni impopolari. La stessa Commissione non ha in questa fase un vero potere cogente, si limita a misurare la pressione e poi a dire la sua sulle condizioni di salute del paziente. Ci sono però dei percorsi su cui ci si è accordati nei palazzi a dodici stelle. Tradirli minaccia la credibilità e, allo stesso tempo, può comportare un costo secco se la sfiducia dei mercati si traduce in un più oneroso servizio del debito.

L’Italia corre sull’orlo del crepaccio. Da tempo. Bruxelles ha avuto parole di apprezzamento per il programma di riforme di Matteo Renzi e ne chiede una rapida attuazione. Roma punta molto sugli investimenti e la crescita, e sembra aver allentato sulla flessibilità, consapevole che l’ossigeno ottenibile da questa fonte è minore di quello che si potrà avere dal piano da 300 miliardi che la Commissione Ue ha promesso entro metà febbraio. Il problema è arrivarci senza inciampi. E il nodo centrale è il saldo di bilancio strutturale. La tabella originale prevedeva il raggiungimento del pareggio nel 2014. Roma ha chiesto il 2016, l’Ue le ha concesso il 2015. L’ultimo dato nazionale sul deficit strutturale (senza spesa per interessi e una tantum) è di 0,6% del Pil quest’anno che si scontra con lo 0,8 della stima ufficiale della Commissione (circa 3 miliardi di differenza secondo le previsioni di maggio). Il divario per l’anno prossimo è dello 0,5 (0,2 dicono i nostri; 0,7 afferma Bruxelles), cioè 7,5 miliardi, che salgono a 10 se vuole davvero il pareggio.

Ancora. Il Patto di Stabilità richiede un aggiustamento del debito in eccesso ad un passo di un ventesimo l’anno dal 2016, ma anche che per i paesi in fase di transizione perché usciti dalla procedura di deficit eccessivo (come l’Italia) vi sia un percorso cifra di rientro anche prima. Per il 2014, Bruxelles ha richiesto una correzione di 0,7 punti di Pil contro lo 0,1 promesso dall’Italia (cioè 9 miliardi); per il 2015 siamo a 1,4 contro lo 0,1 suggerito da Roma, son quasi 20 miliardi di divario. «Occhio che sono numeri diventati puramente indicativi», avverte una fonte Ue. Vero. Negli ultimi mesi è saltata ogni previsione, la crescita s’è rivelata più fiacca per tutti, per l’Italia soprattutto, ma anche per la Germania. I calcoli per il Bel Paese sono basati su una ripresina dell’0,6% nel 2014 e un’inflazione allo 0,9, dati di giugno, già irrealistici. Fra un mese ci saranno i nuovi e allora – si spera – maggiore sarà la chiarezza.

Il commissario per l’Economia Katainen (destinato a rimanere capo di fila anche con Juncker, pare) attende le leggi di bilancio il 15 ottobre. A dicembre il nuovo esecutivo avrà un quadro preciso di quanto avviene nelle capitali e di come va la congiuntura. Solo allora capiremo cosa l’Ue pensa dell’Italia, quali sono le distanze e i margini di dialogo. Pochi si aspettano che Roma abbia i conti compatibili con gli impegni. Se così fosse, la recessione potrebbe salvarci da azioni correttive per il deficit strutturale in vista dell’azzeramento, partita che si rigiocherebbe in primavera per il 2015. Se pure il terzo trimestre fosse pure negativo, sarebbe una pessima storia con un aspetto roseo. Ci regalerebbe «un fattore mitigante» utile a salvarci da manovre extra. Una ragione di sollievo parziale, forse. Ma che, dicono a Bruxelles, «non implica in alcun modo che si possa frenare sull’attuazione di riforme che non vanno ritardate se si vuole tornare a crescere e a creare occupazione».

Presidente, tiri fuori il coraggio

Presidente, tiri fuori il coraggio

Giorgio Mulè – Panorama

E non inizierò adesso con la tiritera che io l’avevo detto, io l’avevo previsto, io vi avevo avvertito. Però stiamo ai fatti. Il 29 agosto eravamo pronti per celebrare la scossa all’ltalia, anzi il big bang secondo i cantori renziani, e invece dalla sala stampa di Palazzo Chigi s’è udito in lontananza un ruttino forse dovuto alla cattiva digestione del cono gelato consumato poco prima per replicare stupidamente all’Economist. Dallo #sbloccaItalia s’è così passati allo #squagliaItalia e allo #sbroccaItalia: dei 40 miliardi annunciati ne sono rimasti appena un paio spalmati in tre anni e chi vivrà vedrà. Peanuts, noccioline sufficienti per un aperitivo striminzito. Per tacere del resto e cioè delle macerie in cui sono state trasformate le «grandi riforme» – scuola e giustizia su tutte – rinviate a data da destinarsi o ridotte a imbarazzanti e monchi disegni di legge. Agosto è finito male e settembre è iniziato pure peggio con l’inutile parata del «passo dopo passo», dei 1.000 giorni e – aridaje – del chi vivrà vedrà. Siccome però ci tocca vivere il 2014, eccoci ancora una volta a pregare il presidente del Consiglio di fare l’unica cosa sensata. Metta al bando i gelatini, trangugi piuttosto un’abbondante dose di filetto di tigre: abbia coraggio. Il coraggio proprio dei leader e degli statisti, l’orgogliosa rivendicazione di un piano serio per far ripartire il Paese.

Se, come ha fatto Renzi, si cita la Germania come modello di riforme sul lavoro, si legga la storia e si applichi quanto fece Gerhard Schröder nel 2003: una rivoluzione vera e bisturi in profondità nei tagli, nella riduzione delle prestazioni sociali, coraggio leonino nelle liberalizzazioni, negli sgravi fiscali, nelle riduzioni delle aliquote sul reddito (il Cancelliere tagliò dal 52 al 42% quella massima, per dire). Schröder pagò tutto questo, fu sommerso da proteste e impopolarità. Ma portò la Germania da vagone di seconda classe a locomotiva dell’Europa. Fu uno statista.

Badare invece al consenso, essere ossessionato come il nostro premier dal timore di perderlo non è serio: significa tradire quegli elettori, e sono stati tantissimi, che gli hanno accordato fiducia. Renzi sa come prendere il toro per le corna; ha opportunamente citato la Germania: dunque tiri fuori le palle e agisca di conseguenza. Metta da parte quel suo metodo, tanto semplice quanto infruttuoso, la cui prevedibilità è ormai diventata persino stucchevole: rivoluzione annunciata con tweet pomposo e demagogico (vedi i casi giustizia e lavoro, tanto per fare due esempi), successivo decretino legge da fumo negli occhi (ferie tribunali e contratti a termine) e consultazione popolare o legge delega per la riforma vera e propria destinata a vedere la luce chissà quando (non dimenticate che ci sono da smaltire ben 699 decreti attuativi accumulati da Monti, Letta e Renzi).

No, non è serio. Al pari del grande imbroglio sulla Tasi, la tassa comunale sulle abitazioni, che il governo fa finta di non vedere. Lo scorso anno non la pagammo. Quest’anno ci tocca versarla: ergo è una nuova tassa. E sarà un salasso. Un esempio? Nella presunta capitale della buona amministrazione, cioè la Firenze che fu di Renzi, il neosindaco Dario Nardella ha fissato l’aliquota per la prima casa al massimo. Per un appartamento di 120 metri quadrati si dovranno pagare 453 euro. Vogliamo continuare con la favoletta che gli 80 euro (per chi li ha presi) servono a rilanciare i consumi?

Conferma Ocse: Italia sempre più giù

Conferma Ocse: Italia sempre più giù

Tommaso Montesano – Libero

Peggio dell’Italia, che può vantare il poco lusinghiero sorpasso sull’Irlanda, hanno fatto solo Grecia, Spagna, Portogallo e Slovacchia. Un tasso che è destinato a salire al 12,9% nel quarto trimestre del 2014 per poi scendere al 12,2% nel quarto trimestre del 2015. In sei anni, inoltre, i giovani senza lavoro sono raddoppiati: dal 20,3% del 2007, sono passati al 40% del 2013. E ancora: l’Italia è il quarto paese dell’area Ocse per diffusione di false partite Iva, ovvero lavoratori che sulla carta sono liberi professionisti, ma che di fatto offrono prestazioni subordinate. Per non parlare dei guasti provocati dalla riforma del lavoro targata Elsa Fornero durante il governo di Mario Monti, che ha reso «decisamente meno conveniente» per le aziende assumere lavoratori con contratti di collaborazione. Più in generale, oltre il 70% dei lavoratori vive una «sfasatura» tra l’occupazione attuale e il percorso formativo. Nel senso che le qualifiche o sono troppo elevate, o sono troppo basse per il lavoro svolto.

È impietoso per l’Italia il quadro che emerge dal rapporto «Employment Outlook 2014» dell’Ocse. I numeri dei vari indici relegano l’Italia al 49esimo posto dell’indice di competitività, il Global competitiveness index. Il nostro Paese è preceduto, nella graduatoria guidata dalla Svizzera, perfino da Lettonia, Lituania, Azerbaijan ed Estonia. In Italia, nel confronto con gli altri Paesi avanzati, «non è solo elevata la quota di disoccupati, ma anche quella di occupati con un lavoro di scarsa qualità», sostiene l’Ocse.

Giuliano Poletti, ministro del Lavoro, prova a difendersi: «Conosco bene la drammatica situazione dell’occupazione nel nostro Paese, figlia di una crisi che ci sta colpendo da oltre 7 anni e aggravata dalle attuali tensioni del contesto europeo e internazionale e da cattive politiche del passato». Maurizio Sacconi, capogruppo del Nuovo centrodestra al Senato ed ex ministro del Lavoro, incalza: «Ormai è evidente a tutti che le istituzioni sovranazionali, dall’Ocse al Fondo monetario, dalla Commissione europea alla Bce, considerano la riforma del mercato del lavoro come il passaggio più emblematico dalla vecchia alla nuova dimensione della vita istituzionale, economica e sociale italiana». La Lega, invece, affonda il coltello sul governo. «Altro che cambia verso, il Pd ha messo il Paese nel verso del baratro», attacca il capogruppo alla Camera, Massimiliano Fedriga.

Non c’è più niente da ridere

Non c’è più niente da ridere

Carlo Puca – Panorama

«Esci da questo twitter, Matteo». La battuta, attribuita al ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, è sottilissima. Parafrasa il Renzi del 19 febbraio 2014 che, in diretta streaming con Beppe Grillo, pronunciò il celebre «Esci da questo blog, Beppe». Da allora i due, Matteo e Beppe, si sono amabilmente detestati. Padoan no, non è rancoroso. Quando il 25 agosto ha incontrato un Renzi distratto dallo smartphone, la buona educazione gli interessava poco o nulla. Ciononostante, a suo dire, la superfetazione di tweet stava «fomentando aspettative eccessive».

In sei mesi il premier ha promesso (e postato) di tutto e di più. Solo per rimanere all’essenziale: #lavoltabuona, #laSvoltabuona, #80euro, #italiariparte, #gufi, #amicigufi, #inpiazza, #unoxuno, #allafacciadeigufi, #centogiorni, #millegiorni, prodromo al sito internet passodopopasso.italia.it grazie al quale verificare l’attività di governo da qui al maggio 2017 e rispondere «alle accuse di annuncite». La verità è che #millegiorni segna la sua sconfitta nei confronti di Padoan e del suo sponsor principale, il presidente Giorgio Napolitano, solidale anche con il sottosegretario Graziano Delrlo. Insomma, è vero che la troika europea non è (ancora?) arrivata a commissariare Renzi. Però una troika italiota c’è eccome e già fa la guardia al premier.

I dati economici sono drammatici, La fiducia degli italiani scende, il Pil arretra, la deflazione impera, la disoccupazione è una piaga (siamo al 12,6 per cento). L’ottobre sarà caldo per i sindacati e nero per gli italiani, già a settembre alle prese con una tassazione pesantissima (e si vedrà con Tasi e Tari: altro che abolizione dell’Imu). Con la riforma del Senato e la nomina di Federica Mogherini a Lady Pesc la congiuntura cambia zero. La minoranza interna del Pd ha smesso di urlare, ma attende Renzi sulla riva del fiume parlamentare per martoriarne il cadavere (politico, per carità) . Forse il rimpasto di governo di fine ottobre porterà nell’esecutivo qualche ministro «meno leggero e più efficiente» (così Renzi, e nel mirino ci sarebbero anzitutto Federica Guidi, Angelino Alfano e Stefania Giannini), ma la legge di Stabilità si annuncia lacrime e sangue. Mentre, di sicuro, poco o nulla hanno prodotto gli 80 euro. Con i quali, al limite, ci si mangia un gelato al giorno. Nel caso di Renzi, nel cortile di Palazzo Chigi.

Il cono del premier ha cristallizzato la sua insolenza istituzionale, ma fin qui è soltanto questione di stile. È la parte decisionale che più preoccupa la troika italiana. Nei suoi colloqui con il Quirinale, Padoan riporta il surrealismo di taluni Consigli dei ministri, con il premier proponente cambiamenti impossibili, tipo la riduzione per decreto delle prefetture o l’assegnazione delle competenze delle autorità portuali ai Comuni. Ma lo stile di lavoro renziano che Padoan più considera «dilettantesco» riguarda il bilancio dello Stato. Il premier, è noto, ha studiato le carte: «Conosco ogni voce di spesa a memoria» rivendica. Ecco, esattamente come fanno i sindaci, che spostano qualche migliaio di euro dall’illuminazione alle bocciofile, così Renzi intenderebbe spostare risorse da una voce all’altra. Solo che «un conto sono scuole e bocciofile, un altro è toccare le pensioni, assumere insegnanti, chiudere municipalizzate». Per realizzare tutte queste cose «devi prepararti all’impopolarità e 100 giorni non bastano, ne occorrono almeno 1.000» ha ringhiato il ministro il 25 agosto. «E smettiamola di dare addosso alla Germania» ha aggiunto «anzi cavalchiamo le riforme imposte da Gerhard Schroder».

Guarda un po’, il 1° settembre Renzi ha cambiato linea: «La Germania è un nostro modello, non un nostro nemico» bisogna «rendere il nostro mercato del lavoro come quello tedesco». Ora Angela Merkel sorride, Napolitano pure e Padoan sembra Claudio Baglioni mentre pianifica i «mille giorni di te e di me». Ma Renzi è consapevole che questo è tutt’altro che «un piccolo grande amore». Anzi, siccome «la vita è adesso», magari porta il Paese al voto in primavera. Vuoi mettere la gioia (popolare) dell’annunciare rispetto alla noia (impopolare) del fare? 

Lavoro in Italia: gli stranieri trovano un’occupazione più facilmente rispetto agli italiani

Lavoro in Italia: gli stranieri trovano un’occupazione più facilmente rispetto agli italiani

SINTESI DEL PAPER

L’analisi dei tassi di occupazione degli stranieri in Europa ci consegna un dato davvero curioso: l’Italia è uno dei pochi paesi dell’Unione Europea in cui gli stranieri sono occupati più e meglio dei cittadini nazionali. Lo rivela un’elaborazione del Centro Studi “ImpresaLavoro” sulla base dei dati Eurostat del 2013.
L’Italia sconta un basso tasso di attività tra i suoi cittadini residenti (59,5%), di circa 9 punti inferiore alla media europea. Quel che colpisce maggiormente è però il fatto che, all’interno di un mercato del lavoro così complesso, il nostro Paese sia uno dei pochi in grado di garantire agli stranieri residente un tasso di occupazione migliore (61,9%) di quello che riescono a far segnare i cittadini italiani. Si tratta di un dato in controtendenza con tutti i maggiori Paesi dell’Europa a 28. Ad esempio il confronto tra il tasso di occupazione dei francesi (70,6%) e quello degli stranieri residenti in Francia (55,9%) segna un -14,7%; quello tra il tasso di occupazione dei tedeschi (78,7%) e degli stranieri residenti in Germania (65,0%) segna un -13,7%; quello tra il tasso di occupazione degli spagnoli (59,5%) e degli stranieri residenti in Spagna (52,8%) segna un -6,7%; quello tra il tasso di occupazione dei britannici (75,4%) e degli stranieri residenti nel Regno Unito (70,4%) segna un -5,0%; quello tra il tasso di occupazione dei greci (53,4%) e degli stranieri residenti in Grecia (50,3%) segna un -3,1%.
Il dato è particolarmente significativo se si osserva il confronto relativo ai cittadini extracomunitari. Solo altri tre paesi – oltre all’Italia – hanno tassi di occupazione più alti tra la popolazione extracomunitaria rispetto a quanto avviene per i propri connazionali. In Svezia il tasso di occupazione dei soggetti extracomunitari è più basso del 31% rispetto a quello degli svedesi. E il dato è molto simile anche nelle economie che sono per noi un benchmark naturale: nel Regno Unito la differenza è del 13,5%, in Germania del 20,2%, in Francia del 22%, in Spagna del 9,5%, in Grecia del 3,7%. In media, i paesi dell’Unione a 28 registrano tassi di occupazione tra i loro cittadini di circa 13 punti percentuali superiori a quelli degli extracomunitari residenti. L’Italia, come detto, fa eccezione e seppur di poco il tasso di occupazione dei cittadini extracomunitari (60,1%) supera quello dei cittadini italiani (59,5%) ponendo il nostro Paese al quarto posto in Europa, dietro soltanto a Cipro, alla Repubblica Ceca e – di pochissimo – alla Lituania.
Anche i soggetti che vengono in Italia da altri paesi UE sembrano avere una maggior capacità di collocamento rispetto ai nostri connazionali. Il tasso di occupazione degli stranieri comunitari nel nostro Paese (65,8%) è infatti di ben 6,3 punti superiore a quello dei cittadini italiani (59,5%). Davanti a noi, in Europa, ci sono solo la Polonia e la Slovacchia. Anche in questo caso, larga parte delle economie continentali avanzate riesce ad occupare meglio i propri connazionali che gli stranieri comunitari con differenziali che vanno dal 15% della Slovenia al 3,5% della Germania, passando per lo 0,5% della Francia e l’1,3% della Spagna. Fa eccezione, in questo caso, la Gran Bretagna che riscontra un tasso di occupazione tra i cittadini comunitari di quasi 4 punti superiore a quello dei sudditi di Sua Maestà.
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