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La buona e la cattiva spesa pubblica

La buona e la cattiva spesa pubblica

di Paolo Ermano

Riassunto

La spesa pubblica in Italia ha rappresentato uno strumento fondamentale per sostenere l’economia in anni di caduta del PIL. Questo centro studi più volte ha sottolineato l’importanza di ridurre l’impegno pubblico. Purtroppo è un fatto che l’impegno pubblico negli ultimi 15 anni sia aumentato significativamente, ben oltre quanto il pubblico si possa immaginare.

Entrate o uscite?

Spesso le parte in campo nel gioco della politica sostengono che la spesa pubblica è troppa o incide solo in parte allo sviluppo del Paese; che la spesa pubblica è male indirizzata o che abbiamo per fortuna servizi pubblici di prima qualità; che le tasse sono alte o che le tasse sono alte solo per chi le paga. Altri argomenti, non sempre ben strutturati, vengono avanzati ogni volta che si discute sul peso che dovrebbe avere il pubblico nell’attività economica. La misura più utilizzata per valutare l’impatto dello Stato sull’attività economica è il Total Tax Rate che, dietro un’espressione inglese di sicuro impatto, cela un semplice rapporto fra il totale delle entrate pubbliche e il PIL. Questa è una misura efficace per l’agone politico ma poco significativa perché non dice alcune cose importanti: primo fra tutte, chi contribuisce alle entrate, le imprese o i dipendenti, i consumi o i redditi, i ricchi o i poveri; secondo, non fornisce alcuna indicazione su come verranno utilizzate queste risorse, se per ridurre il debito, per rilanciare gli investimenti, per pagare pensioni inique o per mantenere enti o funzioni obsoleti se non dannosi.

Per contribuire a capire meglio come si stia muovendo il nostro Paese in questi anni di cambiamenti strutturali delle economie e delle società, molto più interessante è andare ad analizzare la spesa pubblica. E’ qui che si annidano l’altra parte delle informazioni sulle azioni messe in campo dalle varie amministrazioni pubbliche (nazionali, regionali o locali) per fronteggiare il cambiamento. Entrare nei dettagli della spesa è un’attività molto complessa resa però più semplice dal dettagliato lavoro svolto dalla Ragioneria Generali dello Stato attraverso il progetto sui Conti Pubblici Territoriali (CPT). Attraverso una ricostruzione puntuale delle voci di entrata e di spesa divise per settore e aree amministrative, i CPT danno la possibilità a chi interessato di analizzare in maniera puntale l’attività dello Stato.

Quanto incide la spesa?

Per quanto riguarda la spesa, i CPT ci permettono di valutarne l’ammontare totale e diversi tipi di parziali secondo il principio contabile di competenza per cassa: vengono registrate le spese nel momento in cui l’Amministrazione pubblica eroga i fondi ad una controparte. Così, se andiamo a vedere com’è variata la spesa pubblica negli ultimi 10 anni, ci accorgiamo di un suo aumento sia in termini assoluto che in termini pro-capite (tabella 1).

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Lo Stato è presente e incide sulla nostra vita più di quanto possiamo immaginarci: si tenga conto che dal 2005 al 2014 la spesa pubblica pro-capite è crescita di più di €1.600. Per averne un’idea prendiamo il dato sulla crescita del PIL e sulla crescita della spesa pubblica. La tabella 2 mette ben in luce qual è il contributo della variazione della spesa sulla crescita del PIL (1).

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Nel confronto fra le variazioni del PIL e della spesa effettiva, si osserva come in alcuni anni la crescita del PIL sia stata ottenuta sostanzialmente modulando la spesa pubblica. Si prenda ad esempio il tasso di crescita nel 2008: senza una vigorosa iniezione di denaro pubblico la crescita dell’economia si sarebbe attestata ad un -4,5%; così, nel 2014 la anemica crescita dello 0,4% si è ottenuta in un momento di riduzione della spesa effettiva: con le stesse risorse pubbliche del 2013 si sarebbe ottenuto una crescita superiore al 2,5%.

Troppo pubblico?

Ben venga, a parere di chi scrive, la spesa pubblica se ha una funzione contro ciclica di tipo keynesiano: quando i privati non generano reddito, l’intervento dello Stato a sostegno della domanda può essere funzionale alla ripresa economica. Intervento che però deve essere modulato e ben indirizzato; in caso contrario il rischio è quello di trovarsi dipendenti dalla spesa pubblica, una dipendenza difficile da eradicare (tabella 3). Un dato su tutti: come già accennato, mentre la spesa pubblica pro-capite aumentava di €1600 fra il 2005 e il 2014, il PIL pro-capite cresceva della metà.

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Dalla tabella si evince chiaramente come la componente generata dall’attività privata e non da attività pubbliche (una distinzione utile più al ragionamento che corretta dal punto di vista sostanziale) si è progressivamente ridotta: se nel 2005 lo spazio privato creava il 50% del reddito individuale, nel 2014 siamo al 45%.
Un bel problema, soprattutto se l’obiettivo è, ad esempio, quello di ribaltare queste proporzioni, portando il pubblico al 45% e il privato al 55%.

Conclusioni

La presenza della spesa pubblica come generatore del PIL è maggiore di quanto si possa attendere. Questa considerazione deve far riflettere quella qualità della spesa e sulla sua pervasività in maniera più incisiva e costruttiva di quanto si faccia ora. Uno dei problemi è che la discussione politica e tecnica affronta la questione da prospettive che servono a colpire il pubblico, più che a formare un’opinione strutturata basata sui dati. Per questo l’utilizzo dei CPT, insieme ai molti altri importanti strumenti messi a disposizione del pubblico negli ultimi anni (un plauso ai vari enti che si sono prodigati per aumentare la trasparenza della cosa pubblica), rappresentano un valido strumento per sminare diversi luoghi comuni sul ruolo dello Stato nella nostra economia.


(1) Ricordiamo che il PIL è formato dalla somma di alcune voci che caratterizzano l’impiego di risorse in un Paese. Ricordando l’equazione principale della macroeconomia che viene insegnata il primo anno di ogni corso di laurea in economia, il PIL è dato dalla somma di: consumi, investimenti privati, spesa pubblica (consumi e investimenti pubblici), bilancia dei pagamenti. Ove una componente si riduca, per mantenere costante il valore del PIL è necessario che aumenti un’altra componente

Come ridurre il debito pubblico

Come ridurre il debito pubblico

Lo Yale Jornal of International Law ha dedicato il suo ultimo numero (disponibile in versione telematica) a come ridurre il fardello del debito pubblico, tema che chiunque sarà al governo in Italia dovrà affrontare con urgenza. In tal senso alcuni saggi sono particolarmente utili e meritano essere segnalati anche a fini operativi.

Il lavoro di Matthias Goldoman del Max Planck Institute for Comparative Public Law alla Goethe Univesitaat di Francofore, nel saggio “Putting Your Faith in Good Faith: A Principled Strategy for Smoother Sovereign Debt Workouts” (Mettere la tua fede in buona fede: una strategia per alleggerire gradualmente il debito sovrano) sottolinea come per portare a termine una trattativa per la riduzione graduale del debito sovrano occorra far perno sulla buona fede delle parti in causa. Questa fa si che gli Stati debitori e i loro creditori riescano a iniziare bene una trattativa nel caso di una crisi e a raggiungere soluzioni ragionevoli senza ricorrere ad arbitrati o a vertenze giudiziarie.

Un altro saggio firmato da numerosi autori è frutto di un lavoro congiunto tra il Yale Journal of International Law e il Segretario dell’UNCTAD (The United Nations Conference on Trade and Development), che ha grande esperienza di soluzione di problemi del debito sovrano specialmente dei Paesi in via di Sviluppo. Il rapporto conclusivo individua un meccanismo e una road map nonché una guida operativa per giungere a una significativa riduzione del  debito sovrano. La proposta consiste un approccio graduale e incrementale utilizzando una vasta gamma di strumenti. La guida operativa è stata approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2015. Il fascicolo include i paper tecnici a corredo della guida: una vera e propria miniera di analisi e considerazioni.

Gli aguzzini delle multe: Milano batte Firenze

Gli aguzzini delle multe: Milano batte Firenze

di Adriano Scianca – La Verità

Le multe stanno diventando una tassa occulta per gli italiani. È Milano la città che, in rapporto ai cittadini maggiorenni residenti, incassa di più dalle multe (138,90 euro a testa, per un gettito medio annuo di circa 158 milioni di euro). Il dato emerge dallo studio effettuato dal Centro studi ImpresaLavoro a partire dai dati del Siope, il Sistema informatico sulle operazioni degli enti pubblici. Oltre al capoluogo lombardo, la città più tartassate da sanzioni amministrative, ammende e oblazioni sono Firenze (99,61 euro a testa, per un gettito medio annuo di circa 32,58 milioni di euro), Parma (95,12 euro a testa ogni anno, per un gettito medio annuo di circa 15,47 milioni di euro), Bologna (94,61 euro a testa, per un gettito medio annuo di circa 31,47 milioni di euro) e Torino (67 euro a testa, per un gettito medio annuo di circa 50,84 milioni di euro).

In generale, negli ultimi tre anni i Comuni italiani hanno incamerato 3,87 miliardi di euro di gettito extra-tributario grazie alle multe. Le risorse che i municipi ogni anno derivano da questa fonte di guadagno è stabile nel triennio, attestandosi a circa 1,3 miliardi di euro su base annua. Nel 2016, i bilanci dei Comuni potranno contare su incassi complessivi per 1 miliardo 257 milioni di euro. Un dato in leggera discesa rispetto a quello del 2015, quando gli incassi da multe erano arrivati a 1 miliardo 362 milioni e leggermente superiore al dato del 2014 (1 miliardo 254 milioni).

Si noterà che, nella speciale classifica delle città con i contribuenti più «spremuti», manca Roma. C’è in realtà una spiegazione «tecnica»: nel 2016, per problemi legati alla contabilizzazione e comunicazione degli incassi al sistema centrale Siope, i dati della capitale non sono disponibili in forma completa e quindi manca al conteggio complessivo una fetta importante delle sanzioni incassate nel 2016 dall’amministrazione romana. «Quest’anno – ha spiegato Elisa Qualizza, ricercatrice di ImpresaLavoro citata da Repubblica – abbiamo notato valori anomali legati al Campidoglio: se nel 2014 a questo punto dell’anno stimavamo 153 milioni di incassi, e nel 2015 eravamo in linea con 145 milioni, per il 2016 avremmo dovuto scrivere un dato di 46 milioni. Chiaramente non è giustificabile ma imputabile a un difetto contabile». Ecco perché il dato complessivo del 2016 può dirsi sottostimato.

Di sicuro si sa che l’amministrazione Raggi intende attingere proprio al bacino delle multe per colmare la ciclopica voragine dei conti capitolini, a partire da quelle non riscosse, che a Roma sarebbero addirittura più di quelle incassate. In una delibera propedeutica al bilancio previsionale 2017, già approvata dalla Giunta a Cinque Stelle e in attesa del nulla osta dell’aula Giulio Cesare, per l’anno venturo si stima un incremento di 21 milioni nelle entrate derivanti dalle multe rispetto all’anno precedente. Per quanto riguarda le multe già staccate e non ancora riscosse, la Raggi punta a un incremento di oltre un terzo degli incassi, da 115 a 155 milioni di euro. Va detto che, in generale, nel quinquennio 2010-2015 il gettito extra-tributario per sanzioni amministrative, ammende e oblazioni riscosso dai Comuni italiani è diminuito di 272,5 milioni di euro. Le cifre complessivamente incamerate sono infatti passate da 1 miliardo 529 milioni nel 2010 a 1 miliardo 257 milioni nel 2015 (-17,82%). Nel 2015 il trend delle riscossioni era rimasto sostanzialmente stabile (+o,24%, pari a circa 3 milioni di euro), passando da 1 miliardo 254 milioni di euro nel 2014 a 1 miliardo 257 milioni di euro nel 2015.

Ciò non toglie che spesso, anziché essere sacrosante punizioni per automobilisti indisciplinati, e quindi potenzialmente pericolosi o dannosi per il prossimo, le multe si rivelano essere facili scorciatoie per amministratori in crisi di ispirazione, con lo specifico obiettivo di fare cassa, costi quel che costi. Anche con l’aiuto delle nuove tecnologie. I vigili urbani, per esempio, sono appena entrati in possesso di «Nuvola It urban security-street monitoring», un dispositivo in grado di segnalare in tempo reale diverse infrazioni, come il passaggio nelle zone a traffico limitato, la mancata revisione del veicolo, la sosta irregolare o l’assicurazione scaduta. Il sistema per ora è stato adottato dal Comune di Pisa ma presto potrebbe essere preso in considerazione da altri Comuni. Ai vigili basterà il numero di targa e verranno rilevate tutte le irregolarità. Per non parlare di Pegasus, sorta di «elicottero-radar» già in uso in Spagna e che sta per arrivare in Italia. Si tratta di un sofisticato sistema comprendente un radar, attraverso cui è molto piu semplice monitorare il traffico e quindi chiunque infranga i limiti di velocità. In termini numerici, lo scato rispetto ai radar fissi è notevole: 17% di controlli contro il 3%.

Blasoni: «Non mi uniformo a Confindustria, io voto No»

Blasoni: «Non mi uniformo a Confindustria, io voto No»

di Antonio Signorini – Il Giornale

Per nulla convinto dal merito delle riforme, sicuro che il governo Renzi abbia sbagliato bersaglio rinunciando a favorire la vera innovazione, quella che si fa con le aziende e nella pubblica amministrazione. Massimo Blasoni è un imprenditore di successo. Al referendum del 4 dicembre voterà No, quindi non seguirà le indicazioni di viale dell’Astronomia. «Non tutti gli imprenditori si uniformano a Confindustria. L’idea che votare Sì rappresenti un momento di innovazione contrasta palesemente con la realtà», spiega al Giornale il presidente del Centro studi ImpresaLavoro.

Eppure secondo il ministro Boschi chi vota No è contro il cambiamento…

«Ci sono due modi diversi di dire No: quello della sinistra più retriva che non vuole cambiare, ma anche quello di chi vuole più innovazione e vuole cambiare o rimuovere tutto ciò che impedisce al Paese di ripartire. Chi vuole dare una risposta al fatto che l’Italia è ancora sotto i livelli di Pil pre crisi, intorno all’uno per cento, contro il 3% di Spagna e Irlanda. La Costituzione va cambiata».

La Carta ha un peso sulla competitività del Paese?

«In negativo, perché risente della presenza nell’Assemblea costituente di un Partito comunista allora rilevantissimo. Va cambiata consentendo più facilmente l’innovazione».

Cosa cambierebbe?

«L’articolo 41».

Perché?

«Al primo comma recita che l’iniziativa privata economica e libera, ma poi si contraddice al terzo comma, stabilendo che l’attività pubblica e privata debba essere finalizzata ai “fini sociali”. Questa pretesa dello Stato di coordinare l’attività economica è un grande freno per l’impresa»›.

Altra obiezione del fronte del Sì: se vince il No, è rischio la stabilità del Paese. Condivide questi timori?

«Il rischio di instabilità nel nostro Paese non si risolve con un Senato di nominati. Pesa semmai la nostra incapacità di fare riforme economiche. La situazione delle pensioni resta grave, così come quella del credito o della giustizia civile. Chi può avere voglia di investire in Italia quando per regolare una qualunque contesa sono necessari anni? A settembre del 2016 il debito è cresciuto di oltre 37 miliardi. Il costo degli interessi è sceso ma la spesa corrente e il debito continuano a crescere. Sono queste le vere cause della instabilità del Paese. La riforma costituzionale è fatta male proprio perché non incide su quei dati strutturali che sono la causa dell’instabilità del Paese».

Nel merito, le riforme del governo la convincono?

«Da cittadino riesco a immaginare con fatica senatori, non eletti ma nominati, che dovranno svolgere il doppio lavoro di rappresentanti in Parlamento ed eletti nei consigli. Le riforme non semplificano il procedimento legislativo come sostiene il governo. Sarebbe stato meglio superare definitivamente il bicameralismo abolendo il Senato».

Che prospettive vede per il dopo voto?

«Io spero che vinca il No, ma ritengo che in ogni caso il Paese abbia bisogno di andare a votare, ha bisogno di una leadership eletta che comprenda fino in fondo i temi dell’economia. Un governo che distribuisca meno bonus e faccia più riforme».

 

Perché la digitalizzazione può far impennare la produttività

Perché la digitalizzazione può far impennare la produttività

di Massimo Blasoni – Formiche.net

Se malauguratamente ci tocca un ricovero in una città che non è la nostra scopriamo che gli ospedali non dialogano informaticamente tra loro, nemmeno in una stessa regione. Eppure cartelle cliniche condivise potrebbero salvarci la vita. Difficilmente in Italia potremo prenotare in via telematica i nostri esami o riceverne a casa l’esito.

Il basso livello di digitalizzazione non riguarda solo la sanità e nemmeno solamente la Pubblica Amministrazione. L’Aci ad oggi tiene aggiornato il Pubblico Registro Automobilistico che contiene informazioni sulle nostre vetture mentre allo stesso compito attende il ministero dei Trasporti attraverso la Motorizzazione. I due archivi gestiscono informazioni analoghe senza comunicare e con un’evidente sovrapposizione. Solo il 10 per cento delle imprese italiane vende anche online i propri prodotti e siamo tra gli ultimi per quanto riguarda l’informatizzazione aziendale.

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Multe: nel 2016 i Comuni incasseranno 1,25 miliardi di euro. Milano, Firenze e Parma le città con il gettito pro-capite più elevato.

Multe: nel 2016 i Comuni incasseranno 1,25 miliardi di euro. Milano, Firenze e Parma le città con il gettito pro-capite più elevato.

Negli ultimi tre anni i comuni italiani hanno incamerato 3,87 miliardi di euro di gettito extratributario per sanzioni amministrative, ammende e oblazioni. Le risorse che i municipi ogni anno derivano dalle “multe” è stabile nel triennio, attestandosi a circa 1,3 miliardi di euro su base annua.

Secondo la stima effettuata da ImpresaLavoro su dati SIOPE, nel 2016 i bilanci dei comuni potranno contare su incassi complessivi per 1 miliardo 257 milioni di euro. Un dato in leggera discesa rispetto a quello del 2015, quando gli incassi da multe erano arrivati a 1 miliardo 362 milioni e leggermente superiore al dato del 2014 (1 miliardo 254 milioni).

A pesare, oltre a un calo strutturale di questa voce che è rimasta negli ultimi tre anni sempre molto lontana dal “picco” di 1,53 miliardi del 2010, c’è anche un dato tecnico: nel 2016, per problemi legati alla contabilizzazione e comunicazione degli incassi al sistema centrale Siope, i dati di Roma non sono disponibili in forma completa e quindi manca al conteggio complessivo una fetta importante delle sanzioni incassate nel 2016 dall’amministrazione capitolina.

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ImpresaLavoro ha poi effettuato un’analisi incrociata dei dati SIOPE e Istat sulle sanzioni e ammende riscosse nel periodo 2014-2016 in un campione rappresentativo dei principali Comuni italiani. È risultato così che Milano è la città che in rapporto ai cittadini maggiorenni residenti incassa di più da sanzioni, ammende e oblazioni (138,90 euro a testa, per un gettito medio annuo di circa 158 milioni di euro), seguita da Firenze (99,61 euro a testa, per un gettito medio annuo di circa 32,58 milioni di euro), Parma (95,12 euro a testa ogni anno, per un gettito medio annuo di circa 15,47 milioni di euro), Bologna (94,61 euro a testa, per un gettito medio annuo di circa 31,47 milioni di euro) e Torino (67 euro a testa, per un gettito medio annuo di circa 50,84 milioni di euro).

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**Dati 2008-2015 definitivi, dati 2016 stima ImpresaLavoro su andamento incassi dell’anno in corso.

Cosa frena o accelera la competitività delle PMI in Italia

Cosa frena o accelera la competitività delle PMI in Italia

Il Rapporto Cerved PMI è dedicato all’analisi delle piccole e medie imprese italiane (PMI), individuate in base alla classificazione della Commissione Europea (CE). In particolare, il documento analizza il complesso di società di capitale non finanziarie che soddisfano i requisiti di dipendenti, fatturato e attivi definiti dalla Commissione. In base agli ultimi bilanci disponibili soddisfano i requisiti di PMI 137.046 società, tra le quali 113.387 rientrano nella definizione di ‘piccola impresa’ e 23.659 in quella di ‘media impresa’.Queste società, che rappresentano più di un quinto (il 22%) delle imprese che hanno depositato un bilancio valido, hanno occupato 3,9 milioni di addetti, di cui oltre la metà lavorano in aziende piccole o piccolissime.

Le PMI realizzano un volume d’affari pari a 838 miliardi di euro, un valore aggiunto di 189 miliardi di euro (pari al 12% del Pil) e hanno contratto debiti finanziari per 255 miliardi di euro. Rispetto al complesso delle società non finanziarie, pesano per il 36% in termini di fatturato, per il 41% in termini di valore aggiunto e per il 30% in termini di debiti finanziari. Sono, quindi, una realtà importante e dinamica dell’economia italiana.

Come si può estendere il loro potenziale, specialmente in materia di innovazione? Alcune risposte interessanti sono nello studio “Design Contribution to the Competitive Performance od SME: The Role of Innovation Capabilities” appena pubblicato nella rivista Creativity and Innovation Management (Vol. 25 No.4 pp. 484-499) a cura di Claudio Dell’Era, Gregorio Ferraloro, Roberto Verganti (Politecnico di Milano), Paolo Landoni (Politecnico di Torino), Helena Karlsoon (Malerden University) e dell’economista Mattia Peradotto. Il loro lavoro merita di essere letto e studiato per comprendere meglio il ruolo dell’innovazione attraverso lo studio di sei piccole e medie imprese in Lombardia che hanno recentemente ricevuto finanziamenti per l’innovazione, analizzando il nesso tra questa e la loro accresciuta competitività sui mercati.

Il mandato di Donald Trump

Il mandato di Donald Trump

di Pietro Masci

Dopo oltre 15 giorni dal voto storico dell’8 novembre, le analisi del voto continuano e si accentuano previsioni e speculazioni sulla nuova amministrazione, anche in relazione alle prime scelte che Donald Trump sta effettuando. L’analisi del voto rimane centrale per capire cosa è accaduto e per orientarsi sulla futura evoluzione politica negli Stati Uniti e del Partito Democratico e di quello Repubblicano e per comprendere le sfide – ma anche le opportunità – alle quali la nuova amministrazione dovrà far fronte e in che misura il Presidente eletto ha un mandato per realizzare il suo programma.

L’insofferenza vince le elezioni

Nell’articolo scritto a ridosso dell’elezione avevo sottolineato che l’esito dell’elezione sarebbe dipeso da tre categorie di elettori: coloro che voteranno Trump senza dirlo; coloro che voteranno per Hillary Clinton controvoglia nel timore di un salto nel vuoto; coloro che si asterranno dal voto perché non intendono essere complici di un sistema che mostra crepe evidenti. Tutte e tre queste tre categorie hanno contributo in modo diverso all’elezione di Trump.

Quanto alla prima categoria, durante la trasmissione maratona di CNN nella notte dell’8 novembre, mentre si osservavano i sorprendenti risultati, un commentatore, Jack Tapper, racconta che durante una sua recente visita in Pennsylvania ha intervistato un pasticciere (di origine italiana). Il pasticciere dice al commentatore: “I see a lot of leaners over here!”  Il commentatore replica stupito: “Leaners? who are the “leaners“? Il pasticciere spiega: “Leaners are those who lean towards you and whisper in your ear so other people cannot hear: I think I am going to vote for Trump this time!”. I “leaners” costituiscono la categoria che potremmo definire dei pendenti o degli esitanti. Infatti, Trump ha battuto Clinton tra i bianchi senza un titolo universitario – la c.d. white working class – di 18 punti percentuali nel New Hampshire, 21 in Colorado, 22 in Arizona, 24 in Wisconsin, 31 in Michigan, e 35 in Missouri. Il margine diventa enorme negli Stati del Sud: 34 punti percentuali in Florida, 40 in North Carolina, 64 in Georgia.

La seconda categoria – coloro che hanno sostenuto Clinton per paura del salto nel vuoto con Trump – non sembra che si sia materializzata. Addirittura, Clinton è andata male con gruppi storicamente favorevoli ai democratici: gli afro-americani non hanno sostenuto Clinton nello stesso numero che avevano appoggiato Obama nel 2008 e nel 2012; i Latinos, che rappresentano circa l’11% dell’elettorato, l’8 novembre, hanno votato per Clinton meno del previsto. Secondo gli exit polls, il Presidente eletto Trump ha ottenuto il 29 per cento dei voti dei Latinos, un dato migliore del 27% ottenuto da Mitt Romney nel 2012. Clinton ha ottenuto solo il 65% dei voti dei Latinos, meno del 71% che il Presidente Barack Obama aveva conseguito quattro anni fa. Inoltre, Clinton non è riuscita ad attrarre i giovani tra 18 e 29 anni : nel 2012 Obama aveva ottenuto il 60% del voto dei Millenials; Clinton ha ottenuto il 55% e Trump il 37%.

Relativamente alla terza categoria, coloro cioè che non hanno votato per disaffezione con il sistema politico, ha votato il 57% circa degli aventi diritto al voto. Un dato in calo rispetto al 58,6% nel 2012 e al 61,6% nel 2008 (il dato più alto degli ultimi 40 anni). Il voto anticipato è cresciuto mentre è crollato quello nel giorno dell’elezione. La partecipazione al voto si è ulteriormente ridotta come reazione a una campagna politica priva di contenuti e negativa. Peraltro, il 4% complessivo dei voti ricevuti dai candidati del Partito Libertario (Gary Johnson) e del Partito Verde (Jill Stein) si può considerare un’ulteriore prova della disaffezione verso i candidati presidenziali principali.

Si può quindi concludere che il risultato finale del voto è stato determinato in una maniera significativa dai pendenti o esitanti, dal basso numero di coloro che hanno votato per Clinton solo per paura di Trump e da coloro che non hanno votato perché indifferenti o insoddisfatti. A decidere l’elezione di Trump sono stati quindi l’insofferenza e la delusione. 

La gestione della campagna

Alcuni eventi significativi possono aver in qualche modo influenzato l’opinione pubblica. Ad esempio le interferenze del FBI che ha archiviato, poi riaperto e infine archiviato di nuovo l’inchiesta sull’utilizzo improprio della posta elettronica della Clinton. Il fattore rilevante che ha favorito la vittoria di Trump resta però la gestione della campagna elettorale. Clinton disponeva di maggiori risorse finanziarie e di un Partito Democratico completamente a sua disposizione ma Trump ha gestito in modo molto più efficace la contesa, sia pure con minori risorse e con un Partito Repubblicano dubbioso sulla sua candidatura. Clinton e la sua macchina elettorale hanno avuto l’arroganza di pretendere che gli Stati che si sono rivelati fondamentali avrebbero comunque votato democratico. Non è stato compreso che non era sufficiente spendere milioni di dollari nella pubblicità televisiva, oppure contare sull’appoggio di varie celebrità della musica e dello spettacolo (ad esempio Beyoncé, Jay Z, Madonna, Jennifer Lopez) e neppure sul sostegno esplicito del Presidente Barack Obama. Erano invece fondamentali la presenza fisica, il contatto con gente che si è sentita abbandonata. Mentre coloro che avrebbero dovuto ottenere l’attenzione diretta di Clinton vedevano la ex-first lady in televisione (magari vicina a qualche celebrità), i sostenitori di Trump affollavano i roboanti, appassionati raduni del candidato repubblicano. 

Alla Clinton sono venuti meno gli Stati della c.d. Rust Belt – la Cintura della Ruggine – anche perché l’organizzazione della sua campagna li ha considerati scontati, e invece nel giorno dell’elezione i sostenitori “garantiti” sono rimasti a casa. Gli esempi più rilevanti si possono verificare in tre Stati (Wisconsin, Michigan e Pennsylvania) tradizionalmente democratici che hanno determinato la vittoria di Trump. Si può infatti affermare che queste  elezioni presidenziali sono state decise da circa 100mila persone su oltre 120 milioni di voti espressi. Secondo gli ultimi conteggi, Trump ha vinto Wisconsin di 0,9 punti percentuali (27.257 voti), Michigan di 0,2 punti (11.837 voti) e Pennsylvania di 1,1 punti (68.236 voti). Se Clinton avesse vinto tutti e tre gli Stati, avrebbe ottenuto 278 collegi elettorali (contro i 260 di Trump) e sarebbe diventata Presidente degli Stati Uniti. In Wisconsin, Clinton è andata una sola volta durante l’elezione e ha perso lo Stato per circa 27.000 voti, consegnandolo ai Repubblicani (non accadeva dal 1984). Clinton ha trascurato anche il Michigan mentre Trump vi ha concentrato gli sforzi nella settimana finale, inclusa la sua presenza nel giorno dell’elezione.  In Pennsylvania, la storia è diversa. Clinton vi ha dedicato più tempo e risorse (mobilitando un esercito di volontari) ma Trump ha fatto meglio, riuscendo a mobilitare gli elettori della classe operaia e rurale e delle piccole città.

In sostanza, la campagna di Clinton non è stata sbagliata ed è stata probabilmente l’unica che si poteva condurre. Indubbiamente, il Partito Democratico conosceva i limiti di Clinton, un candidato che raccoglie molte antipatie, e le difficoltà che avrebbe avuto a vincere le elezioni. Ma né il partito né il Presidente Obama hanno avuto il coraggio di sfidare Clinton che peraltro controllava l’apparato del partito e non ha permesso ad un outsider come Bernie Sanders di emergere.  Trump ha insomma prevalso per i suoi meriti (in condizioni estremamente difficili, osteggiato dal suo stesso partito e dalla stragrande maggioranza dei media) ma anche per la debolezza della sua avversaria.

Le ragioni politiche del voto

Clinton e Trump sono stati i più sgraditi candidati presidenziali nella storia americana. Quali sono le ragioni politiche per le quali un candidato inaffidabile – Trump – con tanti aspetti discutibili ha vinto? L’ immediata risposta è che l’avversario era ugualmente se non più discutibile. Come detto, Clinton è profondamente mal vista da una quota elevata dell’elettorato americano. Quando ha avuto responsabilità nel Congresso e come Segretario di Stato, ha commesso errori colossali (voto a favore della guerra in Iraq, intervento in Libia, gestione della crisi in Siria, tensione dei rapporti con la Russia, gestione della posta elettronica con un server nello scantinato di casa durante il periodo come Segretario di Stato, rapporti con la Fondazione Clinton). Tutte queste circostanze hanno portato molti americani a considerarla inaccettabile. 

Trump, il candidato inaffidabile, ha invece avuto la capacità di ascoltare e dare voce alle frustrazioni di una gran parte di americani – sopratutto la classe lavoratrice bianca- che sono stati dimenticati; ha compreso la rabbia di coloro che si sentono minacciati – a ragione o meno – dall’immigrazione, dalla delocalizzazione, dal terrorismo, dalla tecnologia. Si è presentato come il candidato contro il sistema, colui che si è schierato contro il Partito Democratico, contro i media (sopratutto quelli televisivi) e lo stesso Partito Repubblicano, colui che può riformare un sistema “truccato” che opera contro gli interessi del cittadino. 

Trump è visto come l’outsider, il non-politico che suscita passione ed entusiasmo oltre a dubbi e timori. Clinton ha avuto difficoltà a trasmettere la sua solidarietà e sostegno per i lavoratori, quando contemporaneamente riceve ingenti contributi dalle istituzioni finanziarie che hanno avuto grosse responsabilità nella crisi economica e che hanno determinato tante perdite di posti di lavoro.

D’altra parte, gran parte del dibattito tra i due candidati si è incentrato sul carattere di entrambi e non sulla sostanza delle loro proposte. Gli attacchi di Clinton su Trump non idoneo per la Presidenza erano in gran parte visti come il riconoscimento che Clinton si preoccupava del carattere del suo avversario, ma non della situazione economica e sociale che molti americani soffrono. Dal canto suo Trump colpiva duro e aveva un impatto quando diceva che Clinton non ha fatto nulla nei 30 anni della sua vita politica, mentre lui ha creato milioni posti di lavoro. In tale contesto, Clinton non è riuscita a valorizzare la circostanza che avrebbe potuto essere la prima donna Presidente degli Stati Uniti. Non è stata capace di controllare il voto femminile: pur ottenendo la maggioranza del voto femminile (54% secondo gli exit polls) ha perduto il sostegno del voto femminile non di colore, che si è rivolto per il 53% a favore di Trump.

La coalizione che ha portato Trump alla vittoria non va considerata – come Sanders ha sottolineato – come una coalizione di razzisti e di “deplorables” (deprecabili), anche se tali personaggi non mancano nel panorama che lo sostiene. Il tema unificante è l’insoddisfazione con la classe dirigente e con un sistema che non riconosce i bisogni della gente. Un rigetto del conformismo delle élites che pretendono di dettare agli altri i comportamenti da tenere; degli esperti che perdono indipendenza e si appiattiscono al potere; dei media che hanno speso il tempo discutendo di offese e insulti tra i due candidati, di scandali, slogan, gossip e non dei problemi che riguardano la gente comune e delle rilevanti politiche che i candidati propongono. La vittoria di Trump va quindi interpretata come un voto per il cambio, analogo a quello del 2008 per Obama. Gli elettori – soprattutto quelli che sono alla base della piramide – erano stanchi di vuote promesse e non erano disposti a concedere un terzo mandato – comunque storicamente raro – ad un democratico.

La divisione dell’America

Per verificare visivamente la divisione del Paese basta andare fuori dalle grandi città, osservare le manifestazioni soprattutto studentesche, parlare con la gente e addirittura ascoltare l’appello durante lo show musicale Hamilton, a New York. La tensione, i timori, le paure sono palpabili. La ragione profonda della divisione – a mio avviso – è che il paese del multiculturalismo e delle opportunità per tutti ha creato nel tempo interessi prestabiliti, rendite di posizioni che ora riducono l’uguaglianza delle opportunità.

La circostanza che, a livello nazionale, Clinton ha ottenuto circa due milioni di voti più di Trump (il risultato tuttavia non è ancora definitivo) evidenzia quanto l’elezione presidenziale del 2016 abbia diviso il Paese. Va precisato che l’elezione del Presidente negli Stati Uniti si decide Stato per Stato e non a livello nazionale. Tale circostanza – talvolta dibattuta – è accettata come la soluzione che non penalizza i piccoli Stati. Peraltro, i casi di Presidenti che non hanno vinto il voto popolare a livello nazionale, oltre ai collegi elettorali statali, sono rari (l’esempio più significativo è quello di Al Gore che nel 2000 vinse il voto popolare, ma perse quello elettorale e Bush diventò il 43esimo Presidente degli Stati Uniti). Tuttavia, la mancata vittoria a livello nazionale ha implicazioni sulla legittimità del “mandato” del Presidente di realizzare il programma che ha presentato durante la compagna elettorale.

D’alta parte, Trump ha trascinato il Partito Repubblicano a vincere le elezioni al Senato e alla Camera sicché questo ora controlla la Presidenza e il potere legislativo e potrà introdurre cambi anche radicali (ad esempio nel settore della salute). Inoltre, esiste la chiara opportunità di influenzare in senso conservatore le scelte dei giudici della Corte Suprema. Il Presidente dovrà scegliere un candidato per rimpiazzare Antonin Scalia ed è prevedibile che, data l’età di almeno tre giudici attualmente in carica, nei prossimi 4 anni potrà effettuare altre nomine di giudici alla Corte Suprema che ulteriormente orienterebbero la Corte in senso conservatore. Infine, a livello statale, il Partito Repubblicano ha Governatori in 33 Stati (su 50), il livello più elevato dal 1992 e controlla Camera e Senato in 32 Stati. In tale situazione, la c.d. “tirannia della maggioranza”, che i padri fondatori della Costituzione americana hanno sempre considerata come il peggiore dei mali, è una distinta possibilità che si può verificare ed esacerbare ulteriormente le divisioni. È vero – e democratico – che l’esito delle elezioni ha conseguenze. Tuttavia, varie delle proposte elettorali di Trump sono contradittorie e radicali e se adottate alla lettera rischiano di accentuare la divisione e la polarizzazione dell’America e l’intolleranza.

Il mandato

Il Presidente Trump ha la legittimità e l’autorità necessarie per realizzare il programma che ha presentato durante la campagna elettorale? Potrà adottare i cambi presentati durante la campagna elettorale tra i quali quello di “drain the swamp” (prosciugare la palude), ossia eliminare rapporti e interessi precostituititi – spesso esemplificati dai lobbisti – che assediano le istituzioni e influenzano, determinano e corrompono le decisioni del governo? Si tratta di un tema complesso che qui non può essere certamente esaurito.

Trump non ha un compito semplice e dovrà giostrarsi tra le promesse elettorali e la possibilità di dividere ulteriormente il Paese. Dovrà dimostrare concretamente di occuparsi di tutti gli americani e lavorare con il Congresso (Senato e Camera), con i rappresentanti direttamente eletti dai cittadini e destinati a garantire controlli ed equilibri del sistema democratico, dando all’opposizione l’opportunità di esprimere punti di vista e interessi e pervenire a soluzioni che spesso sono compromessi, come normalmente accade in democrazia. Trump dovrà navigare tra i pesi e contrappesi del sistema americano – che saranno messi alla prova – cercando di rispettare le più importanti promesse elettorali senza cercare di governare in modo autocratico.

Su due obiettivi è probabile che gran parte degli americani sia d’accordo: rinvigorire la crescita economica in modo tale da creare posti di lavoro ed opportunità; ristabilire principi, valori e regole alla base dell’esperimento americano. In tale ottica, il Presidente non potrà operare come il “padrone” di una compagnia privata nemmeno quotata in Borsa, anche se la tentazione esiste. L’eliminazione dei conflitti d’interesse tra Trump Presidente e Trump uomo d’affari è fondamentale anche se – a termine di legge – le cautele da intraprendere per evitare conflitti d’interessi si applicano a tutti coloro che ricoprono cariche pubbliche ma non al Presidente degli Stati Uniti che è considerato al di fuori di conflitti d’interessi. Come pure è vitale che Trump operi in modo trasparente spiegando le scelte politiche e di personale, evitando soluzioni di sorpresa ed immotivate come è nello spirito dell’uomo di affari. 

Il compito principale del nuovo Presidente nel realizzare in modo coerente e con una visione di lungo periodo le contraddittorie proposte elettorali è quello di compattare il Paese e riportarlo ai valori originari e pertanto prosciugare la palude e ricreare le condizioni per la crescita economica e sociale e la concreta realizzazione del sogno americano. Questo è il vero mandato che dovrà conquistarsi giorno per giorno. In tal senso, Trump ha una grande opportunità e sarà interessante osservare in che modo intende afferrarla. È presumibile che i primi chiarimenti verranno quando il nuovo Presidente avrà completato la sua squadra di governo e sceglierà le politiche ed iniziative che intende avviare. Tuttavia, le iniziative e decisioni di Trump dovranno essere considerate non pregiudizialmente da rigettare, ma andranno valutate alla luce dei valori, principi e regole del sistema americano. Solo facendo tangibilmente riferimento ai principi ispiratori si potrà essere più ottimisti in relazione all’unità del Paese e si potrà assicurare che lo spettacolo delle elezioni presidenziali del 2016 sarà irripetibile.

Crisi e contagi

Crisi e contagi

Venti sempre più forti di nuove grande tensioni sui mercati finanziarie. La grande incertezza non viene, come dicono alcuni, dal piccolo referendum italiano il cui esito influirà sui mercati rionali più che su quelli internazionali ma dall’altra sponda dell’Atlantico dove l’Amministrazione Trump ha in animo tagli al gettito fiscale pari al 4% del Pil e un programma di aumento della spesa pubblica per le infrastrutture americane di ben 550 miliardi di dollari. Anche se il Congresso modererà questi programmi e se lo stimolo di bilancio agevolerà la crescita USA, unitamente all’imminente svolta della Federal Reserve, è facile prevedere un forte aumento dei tassi interesse che attirerà lo scompiglio sui mercati mondiale ed europei anche in quanto i capitali (il flusso è già in atto) voleranno verso la sponda americana dell’Atlantico.

Come potrà contagiare i mercati mondiali ed europei? Krystina Ters e Jörg Urban (Banca dei Regolamenti Internazionali) se lo chiedono nel lavoro”The Transmission of Euro Area Sovereign Risk Contagion: Evidence from Intraday CDS and Bond Markets” (“La trasmissione del contagio del rischio sovrano nell’area dell’euro”), pubblicato nell’ultimo fascicolo del Financial Crisi E-Journal. La loro analisi riguarda i mercati obbligazionari e dei certificati di deposito come canale di trasmissione del contagio del rischio di credito nell’arco di tempo della crisi finanziaria.

L’analisi raffronta le transazioni quotidiane per Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna (Paesi considerati più fragili) con quelle di Francia e Germania. I risultati suggeriscono che, prima della crisi, nei mercati delle obbligazioni e dei certificati di deposito gli effetti erano simili nei due gruppi di Paesi. Durante la crisi, il ruolo dei mercati obbligazionari ha gradualmente perso importanza come canale di trasmissione. Durante la crisi c’è stata una fuga ‘verso la salvezza’, ossia flussi di dismissioni di obbligazioni dai Paesi ritenuti fragili, verso i titoli a reddito fisso tedeschi. Utilizzando nell’analisi uno shock esogeno prodotto da news giornalistiche (ossia informazioni di stampa sulla crisi nei singoli Paesi), il paper dimostra che, nell’arco di tempo della crisi, il rischio di credito sovrano non era correlato all’andamento di fondo dell’economia reale quanto dagli annunci in materia in materia di programmi di aggiustamento. Il rischio percepito diminuiva dopo tali annunci. Dopo la creazione nel 2011 dell’European Financial Stability Facility c’è stato una forte riduzione del contagio e un effetto stabilizzante anche nei mercati dei Paesi fragili.

Trent’anni di mercato unico

Trent’anni di mercato unico

Stefano Micossi, attualmente direttore generale dell’Assonime, ha scritto un’ottima sintesi dei successi e degli insuccessi dei trent’anni di mercato unico. Il Center for European Policy Studies lo ha pubblicato come special report e merita un’ampia divulgazione (chi vuole può chiederne copia a stefano.micossi@assonime.it). Il paper sottolinea come negli ultimi tre decenni il mercato unico sia stato il core business, l’attività principale, dell’Unione Europea. E’ stato fatto un progresso enorme, e superiore alle aspettative, in termini di ampliamento dell’attività economica soggetta tanto a normativa europea quanto a legislazioni nazionali così come nell’approfondire gli acquis communautaires (i risultati già raggiunti in termini d’integrazione dei mercati) per superare punti incerti in aree già regolate a livello europeo.

Tuttavia l’evidenza empirica prova che l’integrazione dei mercati si è arenata su diversi fronti e soprattutto che i benefici economici attesi – in materia di maggiore crescita della produzione, dell’occupazione e dei redditi – è stata inferiore alle aspettative, specialmente nel gruppo dei 15 Stati più a lungo componenti dell’Unione. La situazione non è migliorata dalla introduzione delle moneta unica. Il paper passa in rassegna l’evoluzione delle attività legislative e regolatorie del mercato unico negli ultimi tre decenni e sottolinea le aree in cui i gap dove appaiono più evidenti nonché i problemi recenti prodotti dall’insorgere di crescenti pulsioni anti-europeiste.