About

Posts by :

Massimo Blasoni a “Fatti e Misfatti” – TgCom24

Massimo Blasoni a “Fatti e Misfatti” – TgCom24

Il presidente di ImpresaLavoro interviene al TgCom24 e illustra i contenuti della prima ricerca pubblicata dal nostro centro studi, che riguarda i debiti della Pubblica Amministrazione verso le imprese italiane.
Blasoni commenta anche i dati negativi diffusi da Istat riguardo il Pil italiano, facendo notare come, in questo scenario, sarà difficile per il governo mantenere la promessa di saldare il debito della PA entro la data del 21 settembre 2014.

Pil, Blasoni: “Con questi numeri impossibile pagare i debiti della PA entro il 21 settembre”

Pil, Blasoni: “Con questi numeri impossibile pagare i debiti della PA entro il 21 settembre”

NOTA DEL CENTRO STUDI IMPRESALAVORO

L’Italia è in recessione tecnica: il Prodotto Interno Lordo, così come certificato dall’Istat, diminuisce per il secondo trimestre di fila e fa registrare un dato peggiore di quello già negativo stimato dai principali analisti. Non è un numero “freddo”, quello che stiamo commentando, ma un fatto reale che produrrà conseguenze reali: senza crescita finiranno per peggiorare tutti gli indicatori di finanza pubblica (rapporto deficit/pil, debito/pil, ecc) e saranno ancor più ristretti i margini di manovra che il governo italiano avrà per mettere in campo misure utili a stimolare la crescita.
C’è poi un aspetto che riguarda molto da vicino lo studio che ImpresaLavoro ha presentato lunedì sul costo che le aziende sostengono per i ritardi di pagamento dello Stato: con questi numeri il governo rischia di trovarsi le mani legate. Da un lato ha molte meno risorse libere da impiegare per lo sblocco dei crediti della Pubblica Amministrazione, dall’altro non potrà ricorrere agevolmente a nuovo debito per procurarsi le dotazioni necessarie al pagamento completo di queste somme, così come immaginato in un primo momento.
«Diventa sempre più complesso, insomma, garantire il pagamento dei debiti della Pubblica Amministrazione entro il 21 settembre così come annunciato nei giorni scorsi dal Governo» osserva il presidente di ImpresaLavoro Massimo Blasoni. «Il rischio concreto è che, anche per il 2014, le imprese saranno costrette a “subire” costi indotti dall’inefficienza pubblica del cattivo pagatore statale per 7 miliardi di euro: una tassa occulta che rischia di diventare insostenibile per un sistema produttivo già fortemente provato dalla difficile congiuntura economica, dalla stagnazione dei consumi e dalla stretta creditizia».
La nostra burocrazia è già fallita

La nostra burocrazia è già fallita

Edoardo Narduzzi – Il Foglio

Le recessioni non vanno mai sprecate perché sono una formidabile occasione per riformare. Ma le recessioni sono anche uno choc che mette a nudo le debolezze di un sistema. Nelle situazioni normali o tranquille, quando la barca galleggia, debolezze e criticità restano nascoste. Poi, quando il ciclo economico volge al brutto, tutto viene a galla. È quanto è successo al sistema Italia con la peggiore recessione dal secondo Dopoguerra. Una crisi profonda che ha fatto sparire il 10 per cento del Pil e azzerato le capacità di crescita di un Paese incatenato alle politiche economiche di sempre: più tasse, più imposte, più tributi. Perché non si vuole vedere negli occhi la verità della crisi italiana. E la verità è, invece, chiarissima: è bastata una recessione con la erre maiuscola per certificare quello che tutti sapevano della Pubblica amministrazione italiana. Che è un postificio costruito con decenni di lottizzazione a vantagio dei partiti e dei sindacati, sulla pelle delle imprese e dei cittadini che competono nel mercato globale. Una macchina senza alcuna produttività che è stata messa facilmente knock out dal iù lungo ciclo negativo dal 1929.

Sarebbero circa 800 le norme varate dagli esecutivi Monti e Letta ancora in attesa di attuazione da parte della Pa. Norme pensate per attirare politiche antcicliche, quindi pro sviluppo, che una amministrazione terzomondista, del tutto irresponsabile per quello che non fa e per i danni che arreca al Paese, ha lasciato marcire nei suoi cassetti ministeriali. Si possono fare decine di esempi di norme abbandonate sulla Gazzetta ufficiale e mai diventate operative. Mancano i decreti amministrativi di attuazioni o le circolari ministeriali. Le recessione vera ha messo alle corde la burocrazia italiana, il vero spread con il resto dell’Eurozona che condanna il Pil alla stagnazione. Il monopolio di una cultura giuridica formale totalmente sganciata dalla logica del risultato da conseguire è alla base di questo autentico default sistemico. Del resto, come poteva essere altrimenti. Per decenni la Pa è stata militarmente occupata dalla non-meritocrazia. Monopolizzata dalle assunzioni familiari, sindacali, politiche, particolari, così è diventata un abnorme strumento para-keynesiano per dare finta occupazione agli amici e ai protetti. I processi sono diventati una eventualità e la qualità dei servizi da erogare a cittadini e imprese un’estrazione del lotto.

Il sistema burocratico italiano era già fallito negli anni Novanta, ma la capacità dell’economia di produrre un minimo di crescita nascondeva questa realtà. L’ultima recessione ha tolto la maschera alla Pa: una truppa di giuristi fanatici dei bollini, dei timbri, delle firme e della carta. Una realtà migliaia di chilometri distante dalla Googleconomics, 45 giorni a far diventare operativa una piattaforma informatica che è stata partorita ben 26 mesi dopo la norma che la concepiva, il dl “Cresci Italia” del giugno 2012. Così nulla è salvabile, non esiste nessun eccezionalismo imprenditoriale italiano che può farsi carico di un tale fardello.

Cosa fare? In tempi non sospetti, negli ani Sessanta del boom economico, uno dei più formidabili matematici che l’Italia del Novecento ha avuto, Bruno de Finetti, proponeva di fare una bad company della Pubblica amministrazione per riformarla ex novo. Ed erano anni nei quali la burocrazia italiana, rispetto a quella contemporanea, era un gioiello. Nel suo scritto del 1962 intitolato “Sull’opportunità di perfezionamenti e di estensione di funzioni dei servizi anagrafici”, il padre delle tavole di mortalità ancora oggi utilizzate dall’Istat invitava a utilizzare le nuove tecnologie dell’epoca per rivoluzionare i processi burocratici.

«Gioverebbe ben poco dotare di mezzi migliori il servizio anagrafico se esso continuasse a essere concepito come fine a se stesso, capace di comunicare con altri solo tramite la fabbricazione di tonnellate di certificati, di cui ogni mentecatto burocrate o legislatore può obbligare i concittadini a munirsi per ogni futile motivo», e invitava a realizzare quella che oggi chiameremmo una Pubblica amministrazione orientata a erogare servizi in maniera univoca e da un unico punto per tutti.

Rottamare in toto la Pa direbbe Renzi oggi, per rifondarne una nuova su nuove regole e con una nuova cultura. Ora, inevitabilmente, servono decisioni mai viste prima. Il premier David Cameron nel Regno Unito ha avuto il coraggio di licenziare 500mila dipendenti pubblici e ora il suo Pil corre al più 3,1 per cento. In Italia nulla si taglia, nulla si riforma e il Pil resta fermo a zero. Del resto alternative non ce ne sono: o si rivoluziona la Pa oppure la burocrazia ci porta al default.

Le speranze (mal) riposte

Le speranze (mal) riposte

Dario Di Vico – Corriere della Sera

Gli economisti che si erano detti favorevoli agli 80 euro e non a un maxi-taglio dell’Irap per le imprese avevano sostenuto il provvedimento confidando che i redditi medio-bassi, beneficiari del primo e significativo taglio delle tasse deciso da tempo, spendessero immediatamente i soldi in più trovati in busta paga. La domanda interna ne aveva e ne ha un bisogno enorme e ci si augurava che gli italiani cogliessero al volo l’occasione. Purtroppo dobbiamo constatare che non è andata così. Non c’è stata trasmissione di input tra la riduzione dell’Irpef e l’aumento dei consumi e il motivo prevalente della débacle è abbastanza chiaro: c’erano in parallelo troppe (altre) tasse da pagare e quindi il popolo degli 80 euro ha dovuto abbassare le penne, ha rinunciato a fare shopping e ha malinconicamente accantonato i soldi per ridarli allo Stato sotto forma di Tasi, Tares e quant’altro. Tassa entra e tassa esce. Una partita di giro, se non addirittura una beffa.

Con il senno di poi viene da dire che la trasmissione ai consumi che non si è avuta avrebbe potuto essere stimolata da qualche accorgimento in più, ci volevano politiche di accompagnamento. Se commercianti e albergatori avessero preso a modello il marketing aggressivo di Ikea – solo per fare un esempio – e avessero promosso sconti e offerte speciali qualcosa forse si sarebbe mosso ma arrivati a questo punto è inutile palleggiarsi le responsabilità e litigare, come è accaduto ieri tra Confcommercio e Palazzo Chigi.

A questo punto bisogna essere più pazienti e più determinati allo stesso tempo, non decretare con troppa fretta il fallimento di un’operazione che rimane giusta e da settembre tornare a batere il chiodo con maggiore convinzione e spirito di iniziativa. Gli 80 euro in più restano comunque in busta paga per tutto il 2014, piuttosto non si sa se saranno confermati il prossimo anno e se la platea dei beneficiari verrà allargata, come pure sarebbe giusto. Ben vengano, dunque, i tagli alle tasse anche se bisogna sapere che miracoli non se ne fanno. L’attesissima ripresa dell’economia italiana si è spostata più in là e dovremo aspettare il 2015 per intravedere un incremento del Pil degno di questo nome. Ma dobbiamo anche sapere che la Grande Crisi ci consegna un’economia diversa rispetto a sei anni fa, i cicli non saranno più durevoli come in passato e le imprese dovranno attrezzarsi a fare i conti con mercati in eterna fibrillazione e consumatori impauriti. Facciamoci gli auguri.

L’export non è questione di buona volontà

L’export non è questione di buona volontà

Antonio Armellini – Corriere della Sera

Le esportazioni italiane tirano, ma non quanto sarebbe necessario, e l’internazionalizzazione del «Sistema Paese» arranca. Il mercato globale richiede tanto una forte capacità di organizzazione da parte delle imprese, quanto una visione strategica da parte dei governi: le parole chiave sono sinergie e gioco di squadra. Come stanno da noi le cose?

L’Italia ha una grande abbondanza di strumenti per il sostegno delle esportazioni. Ci sono le ambasciate, con compiti di supporto generale e di coordinamento; l’Istituto per il commercio estero (Ice) per le analisi di mercato e l’assistenza agli operatori; la Servizi assicurativi del commercio estero (Sace), per l’assicurazione crediti all’esportazione; la Società italiana per le imprese all’estero (Simest), per il sostegno agli investimenti esteri; le Camere di commercio estero. La catena di comando è barocca: ambasciate e Ice fanno capo rispettivamente al ministero degli Esteri e a quello dello Sviluppo economico; di Sace e Simest è stata decisa la privatizzazione e sono entrate nell’orbita della Cassa depositi e prestiti; le Camere di commercio hanno una propria struttura federale. Molti Paesi hanno un numero di strumenti pari, se non superiore, al nostro: essi dispongono in genere di risorse ben maggiori e possono sopportare il peso di qualche ridondanza che, in clima di spending review, non potremmo permetterci. La vera differenza sta nel fatto che, diversamente da noi, la prassi di mettere a fattor comune esperienze e risorse è da tempo consolidata.

Di razionalizzazione si è parlato per anni, ma lo scontro fra incrostazioni burocratiche e logiche corporative ha finito per portare a un nulla di fatto. Nel tentativo di por mano alla situazione il governo Monti ha dato vita a una «cabina di regia per l’internazionalizzazione» che, riunendosi almeno una volta l’anno, dovrebbe fissare le linee strategiche della nostra politica per l’esportazione. L’intenzione è lodevole, ma tradisce il vecchio vizio italiano di affrontare i problemi non già creando linee operative snelle, bensì creando comitati dal carattere consociativo in cui non si capisce bene chi faccia cosa. Alla «cabina di regia» partecipano tutti, dai ministeri alle associazioni industriali, dalle autonomie alle Regioni: quello che ne viene fuori è un’azione informativa magari utile ma non certo una indicazione effettiva di priorità.

Lasciando alla «cabina» la sua funzione di cornice, sarebbe urgente stabilire una linea di comando univoca all’interno: oggi, come detto, essa è divisa fra due ministeri, costantemente tesi alla reciproca sopraffazione, mentre il rapporto con le istituzioni finanziarie – Sace e Simest – rimane in un limbo affidato alla buona volontà dei singoli. La riforma Monti una tale catena l’ha creata, ma solo per l’estero, affidandola alle ambasciate. Basterebbe eliminare la discrasia fra i due modelli per evitare ambiguità e recuperare efficienza. Non importa tanto a chi debba incombere la responsabilità finale: quel che conta è che – in analogia con quanto stanno facendo i nostri partner – questa sia chiara.

Siamo rimasti uno dei pochissimi Paesi in cui il supporto pubblico all’export è gratuito, o quasi, e la cosa non ha più alcuna ragione di esistere. Quello che è gratis è ritenuto spesso senza valore: succede così che quando il servizio è inadeguato – e la cosa succede, ovviamente – viene accettato come il portato delle carenze del settore, con il risultato di aggravarne le inefficienze. È necessario far pagare le attività di supporto agli operatori, a prezzi di mercato: otterremmo da un lato un miglioramento – necessario – della qualità e, dall’altro, una presa di coscienza del fatto che il supporto pubblico non è una concessione del sovrano ma un diritto del cittadino. Il gioco di squadra non riguarda solo il pubblico. L’«effetto chioccia» comune in tanti Paesi a partire dagli Usa – per cui le grandi multinazionali fanno da traino con le loro commesse a interventi a cascata di piccole e medie imprese che, da sole, non avrebbero alcuna possibilità – è da noi praticamente sconosciuto. I pochi grandi gruppi rimasti – Eni, Fiat (ma l’Iri dei tempi d’oro non era da meno) – hanno sviluppato diplomazie parallele, in autonomia e talvolta in contrasto con quella istituzionale, e l’idea di favorire l’inserimento complementare di altre imprese – quando non appartengano al loro stesso gruppo – non fa parte del loro lessico industriale.

Ci siamo cullati per anni con «piccolo è bello», nella convinzione che la flessibilità delle nostre piccole e medie imprese bastasse a garantirne il successo, ma la sfida della globalizzazione richiede dimensioni adeguate. Le nostre imprese sono perlopiù restie a unire gli sforzi, così come da tempo fanno i loro concorrenti, e finiscono spesso per ingaggiare lotte sfibranti fra loro sui mercati esteri per poi cedere, esauste, a concorrenti stranieri che hanno saputo consorziarsi. È stupefacente che il Paese che ha inventato i distretti industriali – nati per sfruttare al meglio le sinergie produttive – non sia stato capace di riprodurre questo modello al di là dei confini della provincia o, al massimo, della regione. C’entrano la nostra storia, la diffidenza nei confronti dello Stato visto come alieno, il peso dei localismi e l’individualismo della nostra società. L’uomo con la ventiquattrore della nostra mitologia industriale ha comunque fatto il suo tempo: potrà ogni tanto mettere a segno qualche colpo, ma andare oltre sarà vieppiù difficile. Pubblico e privato devono imparare a muoversi sempre più in maniera coordinata, per affrontare una concorrenza che non è agguerrita solo nei mercati emergenti, ma anche in quelli dove l’Italia ha occupato tradizionalmente posizioni di forza.

A.A.A. Cercasi lavoro, rigorosamente in nero

A.A.A. Cercasi lavoro, rigorosamente in nero

Loredana Di Cesare – Il Tempo

«Nun ce prova à a toccamme er vetro!», urla dal finestrino un automobilista al semaforo rosso. All’incrocio tra via Carlo Felice e via di Santa Croce in Gerusalemme, nel quartiere San Giovanni, a Roma, armati di spazzola e olio di gomito, vestiamo i panni del lavavetri. Non è facile, tra i veri professionisti si contano soprattutto cingalesi e rom che come noi ricevono ogni tipo d’insulto. Siamo italiani e non fa differenza per nessuno. Il commento più gentile: «Siete fastidiosi, non vedete che ho il vetro pulito?». C’è chi si posiziona lontano dal semaforo, chi aziona il tergicristallo, chi alza il finestrino. Un ragazzo riconosce che siamo italiani e sdegnato commenta: «Che ci fate qui? È un lavoro per immigrati». «Non ho spiccioli, non posso pagare», dice una ragazza, ma noi le puliamo lo stesso il vetro e lei ci manda “a quel paese”: «Vi ho detto che ero senza monete, adesso vi attaccate». Tra umiliazioni e insulti contiamo il nostro guadagno: è passata un’ora, il nostro incasso è di 4,50 euro, in nero. Ma ci sono altri mestieri, più redditizi, che in tempi di crisi si possono prendere in considerazione. Ne abbiamo scelti 30.

HOSTESS Fino a 500 euro a sera
Selezionatissime. Il vaglio di curriculula è disponibile su internet, su appositi siti, tappezzati da decine di foto per ogni candidata. Il guadagno è notevole: le più qualificate possono incassare anche 500 euro per una serata.

MAGO 100 euro a serata
Regalare pochi istanti d’illusione può valere anche 70 euro. Per una performance in una festa privata si possono chiedere dai 50 ai 100 euro. Ma non ci s’improvvisa: serve esercitazione costante e un bagaglio di trucchi.

SARTA 2000 euro al mese
Il taglia e cuci non conosce crisi, se in famiglia si lavora in due non c’è tempo per rammendare. Per le riparazioni si parte da 500 euro al mese. Più sei specializzata, più guadagni. Si può arrivare fino ai 2.000 euro mensili.

GIOCOLIERE 100 euro al giorno
Giocolieri con clavi, palline e bolas, trampolieri, maghi e prestigiatori al semaforo. Appena scatta il rosso va in scena il circo con la speranza di strappare un sorriso e una monetina all’automobilista. Questo mestiere richiede preparazione, capacità d’improvvisazione e simpatia. Molti degli artisti di strada guadagnano anche 100 euro al giorno.

TASSISTA ABUSIVO Da 30 a 50 euro a corsa
«Prego taxi…». Questa frase è un mantra all’uscita della stazione Termini. Pronunciata dai tassisti abusivi che si confondono tra quelli con regolare licenza. Non essendoci il tassametro, i guadagni sono il frutto di una trattativa piuttosto lunga con il cliente. Le tariffe variano a seconda dei passeggeri. Possono chiedere fino a 50 euro a persona.

GIARDINIERE 20 euro l’ora
Un mestiere molto richiesto. La rete pullula di offerte di potatura di giardini e aiuole sia per ville che per condomini. I guadagni sono difficili da quantificare con precisione. A volte si procede con cifre forfettarie, quando i lavori sono complessi e duraturi nel tempo. La formula «lavori a chiamata »è molto più redditizia: si guadagnano anche 20 euro l’ora.

DOG SITTER 12 euro l’ora
È un lavoro che richiede molta pazienza e attitudine nel gestire gli animali. A parte questo è necessario dotarsi di paletta e buste in plastica: per portare a passeggio i cani di padroni pigri o indaffarati si incassano circa 12 euro l’ora. Per ottimizzare i guadagni si portano a fare i bisogni più cani contemporaneamente. E la paga lievita.

BADANTE 800 euro l’ora
È il vero lavoro del futuro, considerato l’invecchiamento della popolazione e l’aumento delle malattie senili. È un mestiere prevalentemente al femminile. È necessaria una grande predisposizione al contatto con la sofferenza. Le badanti che vivono con un anziano chiedono circa 800 euro al mese. Le assistenti che sono pagate a ora: circa 8 euro.

CARTOMANTE 15 cent. al minuto
Per leggere il futuro basta un breve corso di formazione su tarocchi e costellazioni. La domanda è piuttosto elevata ma, se parliamo di divinazioni on line, per ogni minuto di consulenza, un cartomante guadagna circa 15 centesimi. Le consulenze dal vivo, invece, sono sempre più una rarità. Ma resistono per i clienti affezionati e per i più anziani.

PROSTITUTA 120 euro a prestazione
Patrizia, 28 anni, si presenta così in un annuncio on line: «Sono romana doc, tutta naturale. Se vieni a giocare in casa mia, ti offro massaggi ovunque tu desideri». Prima di iniziare a prostituirsi era segretaria in uno studio medico. Aveva un contratto e guadagnava 750 euro mensili. Oggi per ogni massaggio riceve 120 euro. Lavora solo nel weekend.

RIPETIZIONI 30 euro l’ora
Molto richieste e più retribuite quelle di matematica: 30 euro l’ora. Per le lezioni di Latino e greco si guadana intorno ai 20 euro l’ora. Per l’inglese il costo è 15 euro l’ora mentre per la stessa cifra si può insegnare anche via Skype.

SKIPPER Oltre i 2.000 euro al mese
Manovrare imbarcazioni al posto dei proprietari può portare a guadagnare oltre 2 mila euro al mese. Più la barca è grande, più si guadagna. Fuori stagione guadagni extra per portare le barche da un porto all’altro per i rimessaggi.

RACCOGLITORE 7 euro l’ora
I raccoglitori stagionali di frutta sono di solito stranieri. Se italiani. sono molto giovani: dai 17 ai 25 anni. Grande fatica fisica e orari da levataccia per una paga oraria di circa 7 euro l’ora. Molte le donne impiegate nel settore.

FIORISTA 30 euro al giorno
Il fiorista ambulante è sempre in cerca di gentleman – sempre più rari – da convincere a un gesto d’amore per la propria signora. E non se la passa benissimo. Giorno e notte in giro per portare a casa tanti «no» e solo 30 euro.

IMBIANCHINO 50 euro al giorno
È un mestiere per cui i prezzi si pattuiscono a giornata o a progetto completato. Per imbiancare e ristrutturare un appartamento, per esempio, vengono richiesti in media almeno 50 euro a giornata.

VU’ CUMPRÀ 7.000 euro a stagione
Quelli «da spiaggia» come veri e propri campionari ambulanti. Teli da mare, pashmine, collanine, braccialetti, occhiali da sole e paccottiglia varia nei borsoni: il loro guadagno stagionale che può valere circa 7 mila euro.

MECCANICO Fattura o sconto?
Con fattura, o no, le tariffe del meccanico che sfugge al fisco restano comunque elevate. Un esempio: per cambiare la cinta di distribuzione di un’auto, in nero, ci è stato chiesto 300 euro. Con fattura costa poco più di 350 euro.

PARRUCCHIERE 15 euro per un taglio
Esercitano la professione nelle case delle clienti. Armati di forbici e bigodini, per lavaggio e piega chiedono 10 euro. Con il taglio si arriva a 15 euro a cui si aggiunge la tinta che, se comprata dal cliente, vale 3 euro in più.

CAMERIERA 5 euro l’ora
Nei pub è richiesta la bella presenza. Preferibili donne tra i 20 e i 30 anni. La paga è di circa 5 euro l’ora per uno standard di dieci ore al giorno. Stesso discorso per il personale dei ristoranti dove però non conta l’aspetto fisico.

CALL CENTER 700 euro al mese
Gli outbound – centralinisti che vendono prodotti e servizi – sono i più spietati e pagati a provvigione: si guadagna in base agli appuntamenti fissati. Elenco telefonico alla mano e tanta fortuna. Si arriva a 700 euro al mese.

BABY SITTER 30 euro al giorno
È uno dei mestieri più diffusi tra le studentesse. Per badare a bimbi molto piccoli la media giornaliera del guadagno raramente supera i 30 euro per otto ore di lavoro. E c’è chi, per la stessa cifra, richiede anche le pulizie.

COLF 800 euro al mese
Lo stipendio è spesso integrato con vitto e alloggio. Le paghe medie sono di 800 euro al mese. Requisiti: negli annunci a volte è preferita un’età massima di 40 anni. Sono sempre molto gradite «ottime conoscenze» in cucina.

ESTETISTA 200 euro al giorno
Mestiere molto diffuso e molto redditizio. Per una manicure e pedicure a casa, 10 euro. Per una ceretta completa 25 euro. Le entrate migliori arrivano d’estate: si può viaggiare anche sui 200 euro al giorno d’incasso.

FACCHINO 5 euro l’ora
Il lavoro, più adatto agli uomini, consiste nel caricare e scaricare cassette di frutta e ortaggi nei mercati generali. Occorre recarsi una volta alla settimana nei punti vendita e chiedere la disponibilità. Paga media: 5 euro l’ora.

GIGOLÒ 10 mila euro al mese
Quando si preannuncia questa parola viene subito in mente il giovane Richard Gere del film «American Gigolò». Giovani, palestratissimi e aitanti, i loro annunci viaggiano su internet e a volte sui quotidiani. Mestiere in crescita, anche se meno diffuso dell’omologo femminile, con tariffe sempre piuttosto elevate: arrivano a guadagnare 10 mila euro al mese.

PIZZA BOY 30 euro al giorno
Lo stipendio è legato a molte variabili. Le pizzerie che consegnano a domicilio di solito offrono un fisso tra i 15 e i 20 euro a serata, più una percentuale sulle consegne. Con le mance si può guadagnare fino a 30 euro al giorno.

LAVAPIATTI 7 euro l’ora
C’è molta richiesta. Sul web, nell’ultima settimana, ne abbiamo contate oltre 400. Il salario medio – per esempio in una tavola calda – non supera i 7 euro l’ora. A cui, in alcuni casi, può aggiungersi parte delle mance raccolte in sala.

ANIMATORE 25 euro l’ora
Il mestiere si sta affermando sempre più, anche per gli spazi creati nei grandi centri commerciali per intrattenere i più piccoli. Per una festa di due ore si possono chiedere 50 euro per un massimo di 15 bimbi.

DANZATRICE 100 euro a esibizione
Per quelle «del ventre» si parte dai 100 euro a esibizione ma il guadagno può salire parecchio a seconda della durata dello spettacolo e dal tipo di evento (feste pubbliche o private). Necessario un adeguato abbigliamento.

Non basta più tirare a campare

Non basta più tirare a campare

Giuliano Cazzola – Il Tempo

Quando Giulio Tremonti, ancora “folgorante in soglio”, osò affermare che con la cultura non si mangia, fu subissato giustamente di critiche. Eppure, adesso, tutti sembrano voler credere che la manomissione del Senato potrà risolvere i problemi dell’economia e riavviare uno sviluppo che non decolla. Del resto, che cosa possiamo aspettarci da un premier che, pochi giorni or sono, ha dichiarato: «Che la crescita sia dello 0,30, dello 0,80 o dell’1,5% non fa alcuna differenza per le persone»? Oggi l’Istat farà la fotografia dei principali indicatori economici del Paese. Come reagirà il governo se i trend saranno – come si teme – peggiori del previsto? Molti dei nodi dei nostri problemi possono essere sciolti a Bruxelles. Ma il governo italiano è davvero impegnato, grazie al turno di presidenza, a mettere in cantiere nuove regole e politiche innovative o si accontenta di sistemare Federica Mogherini al posto di Lady Pesc, soltanto per avere l’occasione di un giro di poltrone in patria? Certo, è in arrivo la conversione in legge del decreto competitività che dovrebbe sbloccare finanziamenti in opere pubbliche, ma il Jobs act è slittato in autunno. E la questione dimenticata del Mezzogiorno? L’economia sommersa ha un peso decisivo in quelle realtà. E riesce a taroccare anche le statistiche sull’occupazione. L’evasione fiscale è la condizione per la sopravvivenza di pezzi di economia. Non sarà, allora, che la società meridionale non è in condizione di attenersi a regole, anche contrattuali, forzatamente uniformi? Tutti ne siamo consapevoli; ma piuttosto che accettare una realistica diversificazione, al limite del dumping sociale, preferiamo chiudere un occhio e tirare avanti così.

Lo Stato che non paga ci è costato 6 miliardi

Lo Stato che non paga ci è costato 6 miliardi

Davide Giacalone – Libero

Non ci saranno manovre autunnali, niente ulteriori tasse, il deficit rimarrà sotto il 3%, anche se il prodotto interno lordo non cresce. Matteo Renzi dixit. Come quando il prestigiatore annuncia che taglierà in due la formosa valletta, noi tutti sappiamo che c’è il trucco, ma restiamo in attesa di assistere al prodigio. Se riesce, l’applauso è meritato. Il numero precedente non è riuscito, nel team dei prestigiatori di prima c’è chi si trova, ora, sotto al palco e bofonchia malmostoso: c’è il trucco. Lo sappiamo, tutto sta a vedere come lo si maneggia. Che Stefano Fassina, già bocconiano, già responsabile economia del Pd, già viceministro all’economia, mastichi amaro, è comprensibile, ma dice cose interessanti. Ogni tanto vale la pena fare i conti con la realtà reale, sfuggendo ai frizzi dell’illusionismo.
Lascio da parte le sue considerazioni sulle “favole liberiste”. Potrei rispondere dandogli del marxista collettivista, ma servirebbe solo ad aumentare il già inquietante volume delle minchionerie. Non c’è liberismo, nel nostro presente, né selvaggio né addomesticato. Non c’è collettivismo nel nostro futuro. Siamo alle prese con un problema difficile, che in Italia diventa devastante. E scarseggiano idee all’altezza, la cui mancanza non si compensa affatto lanciando epiteti a casaccio. Fassina ha ragione: la spesa primaria corrente italiana è fra le più basse dell’eurozona, naturalmente in rapporto al pil. Questa verità, però, non serve a stabilire se va tagliata o meno (va tagliata), ma a capire la gravità del male che ci affligge. Difatti, posto che la spesa pubblica corrente è troppo alta in tutta Europa, tanto che è l’area meno capace di crescere e più impantanata, da noi è il costo del debito pubblico a renderla patologica. Fassina dice che la spesa primaria è bassa. Noi ripetiamo che gli avanzi primari italiani sono dei record mondiali. Stiamo dicendo la stessa cosa, ma entrambe i dati soccombono quando ci si mangia sei punti di pil in venti anni, più del doppio degli altri, per pagare il costo del debito.
Questo porta a conseguenze perniciose. Giusto ieri il centro studi “Impresa Lavoro” calcolava in 6.3 miliardi il costo annuo, per le imprese, dei mancati pagamenti dovuti dalla pubblica amministrazione. La cattiva spesa pubblica avvelena il tessuto produttivo, costituendo un vantaggio per le imprese di altri paesi. Indebolite le imprese diminuiscono ricchezza e lavoro, quindi i consumi, intorcinandosi nella spirale recessiva. E noi lì siamo.
Dice Fassina: la nostra spesa pubblica va radicalmente riqualificata e riallocata. Sottoscrivo, ma è ipocrita quando aggiunge: non tagliata. Stiamo giocando con le parole. Vuol dire: il monte complessivo della spesa non è troppo alto, ma si devono tagliare, con brutalità, le spese sbagliate e dirigere i soldi dove serve. E questa è politica. O quel che la politica dovrebbe essere. Convengo con Fassina che pensare alla spesa pubblica solo in termini di risparmi e sprechi è inutile moralismo. Ma casca sul punto decisivo: dove prendiamo i soldi necessari? Egli dice: dall’evasione fiscale che da noi è doppia della media europea. Verrebbe da dire: magari!
Presto saranno disillusi. Il governo medita che il ricalcolo del pil, secondo i nuovi criteri statistici europei, che includono l’economia nera, alleggerirà la posizione italiana. Il che fa scopa con la supposizione di Fassina: scopriremo nuove lande dell’avasione fiscale. Sbagliato: quel ricalcolo dimostrerà che la nostra economia, includendo il nero, s’avvantaggia meno, in assoluto e in percentuale, di quella tedesca. L’idea che l’Italia abbia il primato della disonestà è sbagliata. Manco quello. Giorni fa ragionavamo del contante: se l’Italia è il Paese europeo con più vincoli, inesistenti in Germania, è ragionevole supporre che il maggior nero non si trova da noi. Il ricalcolo lo dimostrerà. Basta attendere. Noi siamo primatisti in disfunzionalità, spesa pubblica sprecata, paura di cambiare e cambiamenti di mera apparenza.
E allora, dove troviamo i soldi per uscire dalla trappola? Se abbiamo la minore spesa primaria, il più alto avanzo primario, ma pur sempre una spesa complessiva altissima e un deficit che si comprime solo con il fisco, senza riuscirci, è segno che il nostro macro problema ha un nome: debito pubblico. Mostro che porta con sé una pressione fiscale da suicidio. Serve un serio piano di dismissioni patrimoniali e abbattimento del debito. Accanto: riforme del mercato interno, per rendere più facile dare e ricevere lavoro, senza pagare il pizzo alla spesa improduttiva. La strada c’è. E non importa un fico secco che la si chiami liberista o socialista. Conta che non sia il mero rimandare, fra un gioco di prestigio e l’altro. Che stufano e costano.

Così stato e banche ammazzano le imprese: i pagamenti in ritardo costano 6 miliardi l’anno e le aziende che si fidano finiscono in rovina

Così stato e banche ammazzano le imprese: i pagamenti in ritardo costano 6 miliardi l’anno e le aziende che si fidano finiscono in rovina

Carola Olmi – La Notizia

Pagare paga. Ma saldando i suoi debiti in tempi biblici, alla fine la Pubblica amministrazione genera un costo mostruoso per i suoi fornitori: sei miliardi l’anno; 30 miliardi tra il 2009 e il 2013. Una media del 4,2% sul fatturato che se ne va fissa solo per farsi anticipare le fatture dalle banche o per far fronte con mezzi propri ai ritardi nel saldo di quanto dovuto. Secondo un rapporto del Centro Studi ImpresaLavoro, siamo di fronte a un furto in piena regola, che insieme alla stretta creditizia sta condannando ormai da anni migliaia di imprese sane a chiudere i battenti. Aziende la cui unica colpa è stata fidarsi dello Stato o degli enti locali per i quali hanno lavorato. In quelle gare vinte districandosi spesso tra richieste di tangenti e burocrazia, c’era infatti un costo occulto che non ha pari in Europa. Se per far fronte al ritardo dei pagamenti le imprese di casa nostra devono sacrificare quasi il 5% dell’intero fatturato (sempre che le banche facciano la loro parte) l’incidenza di questi stessi costi è pari a 4 volte meno per le attività omologhe francesi e 7 volte meno per quelle tedesche.

Nonostante il problema sia arcinoto al Governo, che si era impegnato ad accelerare i pagamenti senza però mantenere fino in fondo la promessa, il ritardo nei pagamenti ai fornitori e i debiti fuori bilancio della pubblica amministrazione continuano ad assumere un’urgenza crescente. A questo contribuiscono il peggioramento delle condizioni economiche generali, in particolare quelle delle imprese e il crescente fabbisogno finanziario sia dello Stato, sia degli enti territoriali. I ritardi nei pagamenti hanno iniziato ad accumularsi sia in termini di tempo che di quantità molto prima che il fenomeno fosse riconosciuto e definito come emergenza economica.

Secondo uno studio di Intrum Justitia (2013) i pagamenti del committente pubblico italiano arrivano in media dopo 170 giorni dal ricevimento della fattura, mentre i fornitori privati di norma pagano dopo 60 o 90 giorni a seconda dei termini concordati. Questo mismatching di uscite ed entrate aggrava la situazione finanziaria di migliaia d’imprese esponendole nei casi più gravi al rischio default. Il fenomeno ha assunto rilevanza maggiore a seguito dell’attuale congiuntura economica, poiché ha condotto a un progressivo aggravio della situazione di liquidità delle imprese in anni di severa restrizione del credito bancario. Nonostante le dimensioni e la rilevanza del fenomeno, allo stato attuale non esiste però una stima precisa dei debiti della nostra pubblica amministrazione verso le imprese. Secondo l’Istat la stima relativa al 2011 indicava un ammontare di 67,3 miliardi (62,5 miliardi nel 2010) di crediti commerciali delle imprese fornitrici della Pubblica amministrazione. Ma un’altra rilevazione condotta da Emanuele Padovani (2013) in collaborazione con Bureau Van Dijk, stima un’ammontare di residui scaduti interni ai bilanci di comuni, province e regioni di 136,9 miliardi. Banca d’Italia, che utilizza un’ulteriore metodologia per le sue stime, basandosi sulle rilevazioni campionarie dell’indagine Invid, nella rilevazione più recente (2011) prevede un ammontare di 91 miliardi (erano 84 nel 2010).

Che abbia ragione l’Istat o la Banca d’Italia, si tratta comunque di moltissimi soldi che finiscono per sottrarre capitale alle imprese. L’ammontare dei crediti commerciali infatti costituisce uno degli elementi fondamentali di fabbisogno di capitale circolante. Per farvi fronte, secondo un’indagine del 2013 dell’Ance (i costruttori), le aziende hanno fatto ricorso all’anticipo fatture in banca (72% del campione), nonché all’apertura di credito in conto corrente (22%), il 20% ha richiesto un finanziamento “a breve”, e il 18% complessivo ha provveduto a cedere (pro-soluto o pro-solvendo) il credito. Ma per le imprese costrette a usare lo scoperto di conto corrente senza affidamento, ovvero senza l’autorizzazione della banca (e sono sempre più numerose), il costo del finanziamento è stato nettamente superiore. Sei miliardi l’anno bruciati. E per tanti anche la beffa del fallimento.

Pagamenti PA, i ritardi costano 6 miliardi

Pagamenti PA, i ritardi costano 6 miliardi

Adolfo Spezzaferro – La voce sociale

Come se non bastasse la crisi economica, a spezzare le nostre imprese ci si mette pure la pubblica amministrazione. Infatti il ritardo dei pagamenti ai fornitori della Pa ha finora determinato un costo del capitale a carico delle imprese italiane di oltre sei miliardi di euro all’anno, pari a quasi 30 miliardi nel periodo 2009-2013. Il dato emerge da una ricerca realizzata dal centro studi ImpresaLavoro di Udine, promosso dall’imprenditore Massimo Blasoni e il cui board scientifico è presieduto dal professor Giuseppe Pennisi (economista, consigliere del Cnel e docente all’Università Europea di Roma, già Banca Mondiale e dirigente generale dei Ministeri del Bilancio e del Lavoro).

Lo studio sottolinea come ci si debba peraltro accontentare in questo campo di una stima prudenziale, dal momento che le stesse amministrazioni pubbliche non dispongono di una sistematica e organizzata documentazione sui crediti dei propri fornitori e sulle fatture associate, a causa delle insufficienze nei sistemi di contabilizzazione delle transazioni. Finora, infatti, le stime sulla dimensione del fenomeno si sono basate sull’impiego di metodologie statistiche e di indagini campionarie. «Quel che invece si sa con certezza – osserva il presidente Massimo Blasoni – è che i pagamenti del committente pubblico italiano arrivano in media dopo 170 giorni dal ricevimento della fattura, mentre i fornitori privati di norma pagano dopo 60 giorni. Questo mismatching di uscite ed entrate aggrava la situazione finanziaria di migliaia di imprese, esponendole nei casi più gravi al rischio default. Il fenomeno ha assunto rilevanza maggiore a seguito dell’attuale situazione di congiuntura economica, la quale ha provocato anche una riduzione del credito concesso dalle banche alle imprese, con conseguente aggravio della situazione finanziaria di queste ultime».

Secondo le stime prudenziali di ImpresaLavoro, l’ammontare per il 2013 è di circa 74,2 miliardi di euro, pari a circa il 4,8% del PIL. Lo stock di debito commerciale della nostra Pa risulta in calo: nel 2010 aveva toccato la cifra record di 87,3 miliardi di euro, pari al 5,5% del Pil. La diminuzione dello stock è dovuta alla riduzione della spesa pubblica relativa all’acquisto di beni e servizi, nonché dei tempi di pagamento concordati con i fornitori. Non è quindi diminuito il ritardo medio nel pagamento delle fatture.

La ricerca rivela inoltre come, a livello europeo, sia in termini nominali che relativi, l’Italia risulti essere il Paese col maggiore stock di debito. Già dal 2010, ha infatti il peggior rapporto tra debiti commerciali e PIL, superando tanto la Spagna quanto la Grecia, le uniche in Europa (a parte l’Italia) a superare il 3% in questo rapporto. Per un’impresa italiana che lavora con PA, l’incidenza di questi costi sulla singola fornitura risulta così pari al 4,2%: un dato circa 4 volte superiore a quello sostenuto da un’impresa francese (1,2%) e circa 7 volte superiore a quello sostenuto da un’impresa tedesca (0,6%). E nel caso di Francia e Germania stiamo parlando di economie non disastrate come la nostra.