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Confindustria sbaglia: non sarà questa riforma a farci ripartire

Confindustria sbaglia: non sarà questa riforma a farci ripartire

di Massimo Blasoni – Il Fatto Quotidiano

Confindustria e diverse altre organizzazioni si schierano apertamente per il Sì al referendum, sostenendo che questa riforma sarà in grado di velocizzare il processo normativo e creare le condizioni per una stabile ripresa economica. Sono un imprenditore anch’io – una realtà che occupa 2.000 persone – tuttavia non sono d’accordo e provo a spiegarne le ragioni.

Primo: le leggi non devono essere approvate velocemente ma semmai scritte bene e in maniera chiara affinché la loro applicazione non venga poi vanificata o ritardata da una pletora di ricorsi. D’altra parte il bicameralismo perfetto, che ora si vuole abolire, non ha mai impedito l’approvazione rapidissima di leggi considerate prioritarie (magari perché utili agli stessi partiti): a dettare i tempi in Parlamento è sempre e soltanto la volontà politica. Non hanno senso poi senatori dopolavoristi e non eletti direttamente.

Secondo: l’economia cresce se si consente agli imprenditori di creare ricchezza e dare lavoro. Non voglio fare il benaltrista, ma credo che sarebbe stato molto più utile modificare l’articolo 41 della Costituzione. Al primo comma recita che «L’iniziativa economica privata è libera». Un principio liberale fondamentale che purtroppo viene subito contraddetto al terzo comma: «La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali». È stata proprio l’osservanza a questo principio ideologico dell’indirizzo statalista che prefigura il “coordinamento” pubblico a costruire un eccesso di regole che frenano lo sviluppo delle aziende, trasformando la burocrazia in un micidiale ostacolo alla crescita economica. Già nel 2010 l’allora ministro Tremonti propose di sostituire quel comma con una frase semplice ma rivoluzionaria: «È permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge». Una formulazione che avrebbe introdotto, ad esempio, la totale autocertificazione per le Pmi e le imprese artigiane, spostando ex post il momento dei pur necessari controlli e verifiche dei requisiti richiesti per legge. Non se ne fece nulla allora, non se ne è discusso nemmeno questa volta. Ecco perché, al netto di molte altre ragioni, il 4 dicembre voterò no. Con buona pace di Confindustria.

La crescita può attendere

La crescita può attendere

di Massimo Blasoni – Panorama

Diciamolo con chiarezza, i tre anni di governo Renzi sono stati contraddistinti da previsioni di crescita puntualmente smentite – purtroppo in negativo – come le correlate previsioni su deficit e debito. È significativo che il deficit di bilancio resti sostanzialmente inalterato: era il 2,6% nel 2015, pressoché tale è rimasto quest’anno in barba a ogni impegno preso con il Fiscal Compact. Non riusciamo peraltro a uscire dalla spirale perversa di un debito pubblico che ci ripromettiamo di ridurre e che invece continua a crescere.

La crisi economica è globale ma vi sono in Italia aspetti peculiari le cui colpe vanno ascritte al nostro governo. Non si sono infatti ottenuti risultati significativi sul fronte della riduzione della spesa, peggio, si è contratta quella per investimenti mentre è cresciuta quella corrente. Eppure avremmo un gran bisogno di investimenti in infrastrutture fisiche e soprattutto digitali. Per capirci, mentre nel Regno Unito tra il 2010 e il 2015 la spesa per investimenti saliva da 58,6 a 68,1 miliardi, nel nostro Paese è scesa da 46,7 a 37,4 miliardi. Per converso la nostra spesa corrente, al netto degli interessi sul debito, è salita dai 671 miliardi del 2012 ai 701 del 2016. Nel Regno di Sua Maestà, invece, nello stesso periodo si è registrata minor spesa per più di 50 miliardi.

Non induca in errore il fatto che i trasferimenti agli enti locali – comuni e regioni – sono stati ridotti dal nostro governo, perché per contraltare si è ampliata la voragine dei conti INPS e si sono incrementate numerose altre voci di spesa. Nemmeno sul tema lavoro il governo merita la sufficienza. Il Jobs Act funziona poco e, ridotta la decontribuzione, l’occupazione a tempo indeterminato sta calando mentre resta preoccupante il dato relativo ai giovani. La disoccupazione giovanile oggi è 17 punti percentuali superiore a quella del 2007, peggio di noi fa solo la Grecia. Peraltro si investe poco sul futuro: restiamo tra gli ultimi in Europa per numero di laureati, capacità digitale e di innovazione. I vari bonus, partendo dagli 80 euro, non hanno sortito effetti visibili tanto che i consumi domestici languono e la povertà cresce. Nel 2015 le persone in condizione di povertà assoluta erano 4 milioni e 598 mila, il valore più alto registrato nell’ultimo decennio. I primi dati sull’anno in corso purtroppo sono anche peggiori. Infine le tasse: molto si può dire ma il dato oggettivo è che le entrate erariali a luglio di quest’anno erano di circa nove miliardi superiori a quelle incassate dallo Stato nello stesso periodo dell’anno scorso.

Sia chiaro, questo stato di cose – non siamo gufi – non è frutto di un ordine necessario e irreversibile. Abbiamo citato la spending review inglese, potremmo ricordare la crescita spagnola. Per conseguire risultati occorre però un cambio radicale nella mentalità di governo, impresa e sindacato. Un’evoluzione che Renzi non è stato in grado di indurre, troppo preso da interventi in chiave elettorale e poco capace di intuire il tempo a venire. L’attuale legge di Bilancio ne è un esempio: pochi investimenti e troppa attenzione al consenso.

Lavoro: mercato italiano ancora ultimo per efficienza in Europa

Lavoro: mercato italiano ancora ultimo per efficienza in Europa

Il mercato del lavoro italiano è ultimo per efficienza in Europa e 119esimo su 138 censiti nel mondo. In termini di efficienza ed efficacia si colloca infatti subito dopo quello dell’Honduras, del Brasile, dell’Isola di Capo Verde e del Kuwait. Lo rivela un’elaborazione del Centro Studi ImpresaLavoro sulla base dei dati contenuti nel “The Global Competitiveness Report 2016-2017” pubblicato dal World Economic Forum.

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Il Jobs Act continua ad avere un impatto positivo sulla complessiva performance del nostro sistema: anche nell’ultimo anno l’efficienza del nostro mercato del lavoro è migliorata a livello mondiale, passando dalla 126esima alla 119esima posizione. Nonostante questo segnale positivo, però, il nostro continua a restare il mercato del lavoro meno efficiente tra i 28 paesi dell’Unione Europea.
L’indicatore dell’efficienza è un aggregato di più voci che bene evidenziano le difficoltà che il nostro mercato del lavoro attraversa, nonostante il lieve miglioramento registrato negli ultimi due anni. Inoltre, i principali indicatori analizzati ci pongono agli ultimi posti per efficacia nel mondo e, quasi sempre, nelle retrovie della classifica europea.

Per quanto concerne ad esempio la collaborazione nelle relazioni tra lavoratori e datore di lavoro siamo al 111mo posto al mondo e penultimi tra i Paesi dell’Europa a 28 (ai primi tre posti ci sono Danimarca, Svezia e Olanda). Siamo invece al 131esimo posto al mondo e quart’ultimi in Europa per flessibilità nella determinazione dei salari, intendendo con questo che a prevalere è ancora una contrattazione centralizzata a discapito di un modello che incentiva maggiormente impresa e lavoratore ad accordarsi. E proprio in tema di retribuzioni siamo il peggior Paese europeo (nonché 127esimo nel mondo) per capacità di legare lo stipendio all’effettiva produttività. Dati questi che vanno letti assieme a quelli sugli effetti dell’alta tassazione sul lavoro: in Europa siamo 22esimi (e 130esimi nel mondo) per quanto riguarda l’effetto della pressione fiscale sull’incentivo al lavoro (facciamo peggio di Paesi come Lituania, Polonia e Portogallo). Anche la scarsa efficienza nelle modalità di assunzione e licenziamento mette in luce l’arretratezza del nostro Paese: per quanto riguarda questo aspetto siamo 124esimi nel mondo e quart’ultimi in Europa, mentre recuperiamo qualche posizione con riferimento alla capacità di trattenere talenti (107esimi nel mondo e 21esimi in Europa) e di attrarre talenti (105esimi nel mondo e 18esimi in Europa).

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«Il nostro mercato del lavoro – commenta Massimo Blasoni, imprenditore e presidente del Centro studi ImpresaLavoro – ha certamente difetti strutturali che possono essere risolti solo con politiche di medio-lungo periodo. Il Jobs Act ha invertito la tendenza all’irrigidimento delle regole che si era verificata con la cosiddetta Riforma Fornero, generando un positivo effetto sulla nostra competitività. Adesso è importante favorire un processo di innovazione anche sul versante della contrattazione e della produttività, incoraggiando contratti di prossimità e un maggior rapporto tra salari e produttività, anche e soprattutto attraverso regimi fiscali di favore nei confronti di accordi che premiano risultati ed efficienza».

 

Il debito dell’Eurozona si può ristrutturare

Il debito dell’Eurozona si può ristrutturare

Il debito pubblico sembra uscito dai temi di grande attenzione anche in questi giorni in cui Roma e Bruxelles discutono di legge di bilancio. Eppure, un aumento anche piccolo dell’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni o un tasso di crescita dell’economia reale inferiore a quanto previsto dal Governo italiano oppure ancora un incremento dei tassi d’interesse renderebbe estremamente critica la situazione dell’Italia. Il nostro debito supera il 130% del PIL ed è per la metà detenuto da fondi stranieri, pronti a sbarazzarsene al minimo fruscio dei mercati. In effetti, le autorità europee non sono ‘arcigne megere’ ma temono che, passato il referendum, alla prima trimestrale di cassa, il marchingegno su cui è costruita la legge di bilancio salti con implicazioni per il debito e contagi a go-go nel resto dell’Eurozona.

Il Public Economic: National Budget, Deficit and Debt E-Journal ha pubblicato un saggio stimolante di Ernesto Longobardi (Università di Bari) e Antonio Pedone (Università di Roma La Sapienza). È il working paper 06/2016 intitolato On Some Recent Proposals of Public Debt Restructuring in the Eurozone che avrebbe meritato grande attenzione dalla stampa nazionale, dal Governo e dal Parlamento, anche perché redatto in un inglese chiaro e in una forma non tecnica.

Augurandoci che qualcuno se ne accorga e legga il lavoro, meditandolo con attenzione, ne riproduciamo in italiano la sintesi. Il paper prende l’avvio dalla considerazione che, nelle circostanze attuali, di bassa crescita ci sono forte ragioni per ridurre il debito pubblico ed esamina in particolare la situazione dell’Eurozona. Esamina quindi le varie possibili strategie per ridurre il rapporto debito/Pil evitando al tempo una ristrutturazione. Il metodo, spesso adottato in passato, di ridurre il rapporto debito/Pil con una forte ondata di inflazione non è praticabile nell’Eurozona. D’altro canto, le opzioni alternative tramite strumenti di finanza straordinaria (patrimoniali di scopo, privatizzazioni, vendita di beni di proprietà dello Stato) possono dare risultati limitati. Quindi, la strategia attualmente applicata nell’Unione Europea – accumulazione progressiva di avanzi primari (la soluzione ‘dell’austerità’) – pare la sola fattibile.

Le possibilità di ristrutturazione sono state esaminate con crescente attenzione negli ultimi anni. Sono state seguite due prospettive distinte. Da un lato, alcune proposte trattano del debito ereditato dal passato. Altre riguardano la messa in atto di un sistema permanente di riduzione/risoluzione del debito sovrano. Il primo gruppo di proposte vuole evitare il coinvolgimento del settore privato e si basano su meccanismi complessi di cartolarizzazione di gettiti futuri degli Stati (tramite signoraggio e tassazione). Ci sono ragioni per ritenere che non sono sufficientemente differenti dalle strategie in atto e possono portare a maggiori crescita. Le altre intendono rendere efficace il principio di evitare i bail out ma sino ad ora si sono rivelate molto difficili da applicare, in assenza di una vera unione fiscale.

 

Per l’accoglienza dei profughi abbiamo già speso 12 miliardi

Per l’accoglienza dei profughi abbiamo già speso 12 miliardi

di Francesco Borgonovo – La Verità

Ieri Mario Morcone, capo del Dipartimento per l’Immigrazione del ministero dell’Interno, si è presentato davanti al Comitato Shengen per un’audizione. Il superprefetto alle dipendenze di Angelino Alfano è l’uomo che dovrebbe occuparsi di gestire l’emergenza immigrazione per conto del governo. Ma, stando alle sue dichiarazioni, pare che il suo compito sia piuttosto quello di sponsorizzare l’ospitalità. «L’accoglienza ci costa un miliardo e 200 milioni l’anno, ampiamente sotto quello che i migranti che vivono nel nostro Paese e lavorano legittimamente ci restituiscono sotto forma di Pil» ha detto ieri. Quello fornito da Morcone è un dato singolare, che fa a pugni con quanto dichiarato dal ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan nei giorni scorsi. Nel testo della manovra presentata dal governo, infatti, sta scritto che «al netto dei contributi Ue», il costo dell’accoglienza «è attualmente stimato a 2,6 miliardi di euro per il 2015, previsto a 3,3 miliardi per il 2016 e a 3,8 miliardi per il 2017, in uno scenario costante, assumendo che non ci siano escalation nella crisi».

Dove sta la verità? Quanto ci costa davvero accogliere gli stranieri? A fare chiarezza provvede una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro, che vi presentiamo in esclusiva. Le cifre che emergono non soltanto sono altissime, ma sono pure diverse sia da quelle diffuse da Morcone sia da quelle presentate da Padoan. Secondo ImpresaLavoro, infatti, «il conto complessivo negli ultimi sei anni supera gli 11 miliardi di euro, con una progressione impressionante: spenderemo nel 2016 cinque volte la cifra impegnata nel 2011, con un esborso per le casse dello Stato che arriverà a 4,11 miliardi di euro su base annua». Alla fine del 2016, infatti, «saranno sbarcate sulle nostre coste 162mila persone, 9mila in più rispetto allo scorso anno e 8mila in meno rispetto al picco fatto registrare nel 2014, quando arrivarono in Italia 170mila migranti».

C’è un aspetto ulteriore della questione: non soltanto aumentano i flussi, ma crescono le persone che affollano i centri deputati all’ospitalità. «Nel 2013 nel sistema di accoglienza erano ospitate 22.118 persone, praticamente triplicate l’anno successivo (66mila) per superare quota 100mila nel corso del 2015», spiegano gli esperti di ImpresaLavoro. «L’ultima ricognizione è del 18 ottobre e certifica 164mila presenze tra centri di accoglienza, strutture temporanee e sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati». Il settore dell’accoglienza, ad oggi, «assorbe 2,4 miliardi di euro, circa il 50% della spesa complessiva». Nelle voci di bilancio vanno considerati anche il fondo per i minori stranieri non accompagnati e le commissioni territoriali che esaminano le richieste di asilo politico. Poi ci sono le spese amministrative, comprese quelle del ministero dell’Interno. Infine, c’è il soccorso in mare, per cui «spenderemo quest’anno poco più di un miliardo che servirà sostenere le spese per gli uomini e i mezzi della Difesa, delle Capitanerie di porto e della Guardia di Finanza». Non è finita. A tutto ciò vanno aggiunte le spese relative alle cure ricevute dagli stranieri irregolari e rimborsate dal ministero dell’interno alle varie Asl. E come dimenticare i costi per l’istruzione degli alunni stranieri irregolari? «Al 31 dicembre di quest’anno per la somma di queste due funzioni avremo speso ulteriori 689 milioni di euro», dice ImpresaLavoro.

Vediamo allora di tirare le somme. Nel 2011, il totale dei costi dell’accoglienza ammontava a 828 milioni di euro. Nel 2012 siamo saliti a 834 milioni. Nel 2013 eravamo già a 1 miliardo e 255 milioni. Poi si verifica l’exploit: 2,045 miliardi nel 2014 e 2,616 miliardi nel 2015. Per il 2016, la previsione di ImpresaLavoro è di 4,115 miliardi. Significa che, dal 2011 alla fine di quest’anno, gli stranieri irregolari ci saranno costati quasi dodici miliardi (11,7 per la precisione). E per il 2017 la proiezione è di una spesa pari a 4,174 miliardi.

Domanda: come è possibile che le stime di Padoan – utili a ottenere la flessibilità dall’Europa – siano inferiori? Semplice: il ministero dell’Economia ha tenuto conto di un scenario costante». Cioè ha presunto che i flussi di stranieri in entrata non aumenteranno. Tuttavia, i dati forniti dal ministero dell’Interno mostrano un crescente aumento degli sbarchi, quindi le spese sono destinate a salire. Va notato, fra l’altro, quanto sia risibile il contributo dell’Europa. Bruxelles trasferisce al nostro Paese «in media 110 milioni su base annua. Erano 94 milioni nel 2011, sono arrivati a 160 nel 2014 e sono scesi a 112 nel 2016. Niente a che vedere con i 3 miliardi che sono stati riconosciuti alla Turchia».

Secondo Massimo Blasoni, imprenditore e presidente di ImpresaLavoro, «emerge con chiarezza che i costi per la gestione di questa emergenza stanno crescendo esponenzialmente di anno in anno. L’effetto è generato in parte dall’aumento degli sbarchi, in parte dalla lentezza con cui il nostro sistema esamina le richieste di asilo e dispone gli eventuali rimpatri». A parere di Blasoni, «senza una vera politica europea di redistribuzione dei profughi tra tutti i Paesi rischiamo di ritrovarci con una pericolosa bomba nei nostri conti pubblici». Una bomba le cui dimensioni, a quanto pare, sfuggono tanto a Morcone quanto a Padovan.

Le rimesse dei lavoratori stranieri in Italia

Le rimesse dei lavoratori stranieri in Italia

Un gruppo di economisti della Banca d’Italia (Giacomo Oddo, Maurizio Magnani, Riccardo Settimo e Simonetta Zappa) ha elaborato un paper interessante sulle rimesse dei lavoratori stranieri in Italia: una stima dei flussi invisibili del canale informale. Viene pubblicato nella serie di economia e finanza No. 332

Il lavoro analizza le determinanti delle rimesse in uscita dall’Italia e presenta una metodologia per quantificare la parte di esse che non transita via intermediari ufficiali (operatori money transfer, banche, poste) ma defluisce tramite canali informali, non rilevabili e quindi non inclusi nelle statistiche ufficiali. La presenza di deflussi di denaro invisibili è desumibile dalla relazione positiva e statisticamente significativa fra distanza del Paese beneficiario e importo medio pro capite della rimessa inviata, dopo aver controllato per tutte le altre variabili esplicative. Tale correlazione dovrebbe essere nulla o non significativa se il flusso fosse rilevato per intero. Sfruttando tale relazione empirica e avvalendosi dell’elevato dettaglio geografico dei dati raccolti dalla Banca d’Italia, la metodologia perviene a una stima del canale informale collocabile tra il 10 e il 30 per cento del flusso totale e attribuibile al gruppo di Paesi più vicini all’Italia. L’analisi indicherebbe inoltre una riduzione dell’incidenza del canale informale sul totale dei flussi osservati: nell’arco del decennio considerato essa si sarebbe ridotta di circa il 20 per cento.

Nelle conclusioni si sottolinea che le rimesse degli emigrati sono una fonte di finanziamento importante per un grande numero di paesi in via di sviluppo. Allo stesso tempo una corretta rilevazione dei flussi di rimesse in uscita è una priorità anche per i Paesi avanzati, sia per una valutazione non distorta di interventi di policy sia per una corretta compilazione della bilancia dei pagamenti nazionale. I lavori che affrontano il tema della quantificazione dei flussi che transitano attraverso i canali informali che non sono rilevati dalle statistiche ufficiali sono relativamente pochi e sono sempre incentrati sulla dimensione della popolazione straniera residente. Partendo dalla constatazione dell’esistenza di una relazione empirica positiva tra rimessa media pro capite inviata dall’Italia e distanza geografica del Paese A questo proposito occorre ricordare che i dati pre 2011di fonte Istat utilizzati in questo studio non sono ricostruiti sulla base del censimento del 2011. Il salto di serie potrebbe influire sulla dinamica delle stime.

II lavoro sviluppa una metodologia nuova per pervenire a una stima dei flussi informali non osservati e analizza i fattori che determinano le rimesse pro capite inviate dal nostro Paese. Queste ultime risultano negativamente correlate con la ripartizione per genere all’interno della comunità del migrante (maggiore il bilanciamento tra i sessi e minori sono le rimesse, verosimilmente per la maggiore incidenza di famiglie complete all’interno della comunità) e con la quota di minori nella popolazione (anche questa grandezza è correlata alla presenza di nuclei familiari completi), mentre appaiono positivamente influenzate dal differenziale di reddito tra l’Italia e il Paese ricevente e dall’indice di imprenditorialità della comunità straniera. La parte di varianza non spiegata da questi fattori ma spiegata invece dalla distanza geografica viene utilizzata, in base alla metodologia proposta, per pervenire a una stima dei flussi di rimesse che transitano attraverso il canale informale; a seconda della specificazione del modello, tali flussi sono tra il 15 e il 45 per cento delle rimesse “visibili”, ovvero tra il 10 e il 30 per cento di quelle complessive.

Secondo il modello più conservativo, circa 700 milioni di euro all’anno sarebbero inviati all’estero dagli stranieri residenti in Italia attraverso canali informali. Secondo lo stesso modello, il peso dei flussi invisibili risulterebbe diminuito di circa il 20 per cento nell’arco dell’ultimo decennio. Ciò è probabilmente dovuto da un lato alle politiche di abbattimento del costo dell’invio di denaro tramite intermediari ufficiali e, dall’altro, al naturale processo di integrazione dei migranti all’interno della comunità economica del Paese ospitante, di cui l’inclusione finanziaria è uno degli aspetti principali.

 

La politica croce e delizia di chi innova

La politica croce e delizia di chi innova

di Giuseppe Pennisi – Avvenire

L’inchiesta sulle “idee per riaccendere l’Italia” e sull’innovazione e le vere e proprie eccellenze, inducono a chiedersi se e come “la politica industriale” possa contribuire ad accelerare il rinnovamento. Per decenni, una linea di pensiero ha ritenuto che l’intervento dello Stato potesse non incoraggiare ma addirittura frenare l ‘innovazione: in un volume del 1972 ( “Il Governo dell’industria in Italia”, il Mulino 1972) definiva la pubblica amministrazione in supporto dell’innovazione «impicciona» e «pasticciona». A un giudizio quasi analogo si giunge dalla lettura di un recente volume di Franco Debenedetti. Il titolo è eloquente: “Scegliere i vincitori, salvare i perdenti: l’insana idea della politica industriale” (Marsilio, 2016).

Un punto di vista differente è quello di Salvatore Zecchini, presidente del Comitato Piccole e Medie Imprese dell’Ocse e vice segretario generale Ocse, nonché direttore esecutivo del Fondo monetario: “La politica per l’innovazione in Italia: criticità e confronti” (Centro Studi ImpresaLavoro, 2016). Il volume confronta gli interventi, da un lato con la realtà del fare innovazione in Italia, e dall’altro lato con le politiche e strategie attuate dai Paesi di maggior successo ed indica misure specifiche per chiudere le falle: a) dare al pubblico il ruolo di coordinatore e facilitatore; b) stimolare ricerca e innovazione in azienda; c) creare un contesto favorevole all’innovazione; d) sviluppare la domanda di R&I sia privata sia pubblica; e) rendere più efficaci le modalità d’intervento e di finanziamento; f) potenziare la valutazione economica degli interventi. Per ciascuno di questi temi vengono declinati provvedimenti puntali che saranno presto oggetto di un dibattito a Roma.

E il Nord guarda all’estero

E il Nord guarda all’estero

di Elisa Qualizza – Panorama

La fuga degli italiani all’estero è un fenomeno sempre più evidente, notevolmente aggravatosi negli anni della crisi fino a toccare livelli record a fine 2015. Lo scorso anno il numero di italiani andati a vivere oltreconfine ha superato per la prima volta la quota di 100mila unità: due volte e mezza la media registrata tra il 1995 e il 2010, e superiore di oltre 13mila unità al dato relativo all’anno precedente, come testimoniano i numeri presentati da una ricerca del Centro Studi ImpresaLavoro basata su dati Istat.

L’equivalente di un piccolo capoluogo di provincia ogni anno, dunque, emigra: un flusso che dal 2010 cresce in media del 21 per cento all’anno, e che potrebbe raggiungere le 123mila unità già nel 2016, a meno che la tendenza recente non si smentisca. Quest’anno, pertanto, a lasciare la propria nazione potrebbero essere oltre due italiani ogni mille, un livello già raggiunto lo scorso anno in Trentino-Alto Adige (ben il 2,5 per mille di italiani emigrati), Friuli-Venezia Giulia e Valle d’Aosta (per entrambe il 2,1 per mille), Sicilia e Lombardia (2 per mille).

Il fenomeno si sta aggravando ma con dinamiche differenti tra le regioni del Sud e quelle del resto d’Italia. Rispetto alla media 1995-2010, il flusso in uscita si è accentuato molto di più in regioni del Nord come Lombardia ed Emilia-Romagna: assieme a Veneto, Valle d’Aosta, Marche e Umbria, queste regioni hanno infatti visto il proprio tasso di espatrio quadruplicarsi in pochi anni. La crescita delle migrazioni è quindi diffusa ma ben altri numeri ne descrivono le dinamiche nelle regioni del Sud: anche qui i flussi risultano per la gran parte in crescita ma in termini relativi in alcuni casi non sono ancora raddoppiati (come in Sicilia e Puglia), in altri risultano stabili (Basilicata) o addirittura in leggera flessione (Calabria) rispetto alle medie storiche. Sono in linea con la tendenza nazionale (aumento del 150 per cento) invece i dati di Lazio, Liguria e Friuli-Venezia Giulia. La classifica delle regioni da cui si emigra di più verso l’estero si è rivoluzionata negli anni: rispetto al 2002 la Lombardia è passata dal 12° al 5° posto per espatri in rapporto alla popolazione ed è ora tra le regioni più colpite, mentre la Basilicata è scesa dal quarto all’ultimo posto e la Puglia dal quinto al quart’ultimo.

Un ulteriore aspetto riguarda gli italiani che decidono di rimpatriare. Il dato medio di circa 30mila unità all’anno è sostanzialmente stabile dal 2008, anche se inferiore di oltre un quarto rispetto al quinquennio precedente (picco di 47.500 unità annue riferito al 2003). Se si considera il saldo tra italiani che rientrano e italiani che emigrano, il bilancio appare strutturalmente negativo fino al 2001 per quasi 12mila unità annue in media, mentre è positivo nel triennio successivo e, seppur di poco, anche nel 2007. Dal 2008 in poi la tendenza si inverte nuovamente raggiungendo il saldo record di meno 38mila unità nel 2012 per poi arrivare a quello ancor più ampio di meno 72mila nel 2015.

I dati non consentono di rilevare sostanziali differenze tra classi d’età. A emigrare sarebbero più i giovani, ma la tendenza non sembra rilevante e il fenomeno è piuttosto stabile, con la metà degli espatri in una fascia d’età tra i 18 e i 39 anni. Qualche considerazione in più è invece possibile esprimerla sulla destinazione: nel 73 per cento dei casi si tratta di Paesi europei, con una tendenza più forte rispetto al passato. Il Regno Unito sembra aver acquisito maggiore attrattività ricevendo il 15,2 per cento degli italiani che emigrano: è una quota doppia in termini relativi e quintupla in termini assoluti se paragonata alle cifre del 2002. Ha ripreso quota anche la Germania (oltre il 16 per cento), destinazione preferita in assoluto secondo i dati più recenti, e la Svizzera (quasi il 12 per cento), in terza posizione. Per quanto riguarda i giovani, la meta più popolare è decisamente il Regno Unito: la sceglie uno su cinque. Più distaccate Francia (scelta in poco meno del 10 per cento dei casi), Spagna (il 5 per cento, in flessione) e Belgio (meno del 3 per cento).

L’emigrazione rischia di assumere i contorni di un fenomeno strutturale. Un numero sempre maggiore di connazionali sceglie infatti di emigrare e, se questa tendenza si consoliderà ai ritmi che stiamo osservando, lo faranno presto a una velocità tripla rispetto al passato. Un’accelerazione che non riguarda solo le aree più disagiate: già oggi l’aumento sembra colpire maggiormente Nord e Centro. Così come, dal punto di vista demografico, l’emigrazione riguarda, oggi, trasversalmente tutte le fasce della popolazione in età da lavoro e diversi territori: segnali che indicano una tendenza che si sta facendo via via una normalità e che non viene invertita da una ripresa economica debole, da un prodotto interno lordo ancora lontano dai livelli pre-crisi e da un mercato del lavoro che non pare in grado di offrire opportunità di occupazione e crescita.

«IN ITALIA MANCANO LE OPPORTUNITÀ»

di Massimo Blasoni – Imprenditore e presidente di ImpresaLavoro

Andare a lavorare per qualche tempo all’estero di per sé non è un male. Il problema è che poi moltissimi italiani decidono di non tornare in Italia perché privi di una qualsiasi prospettiva. Il nostro mercato del lavoro è infatti asfittico perché prigioniero di regole sbagliate. D’altronde i dati Ocse parlano chiaro, purtroppo. La disoccupazione giovanile in questi anni è aumentata nel nostro Paese di 17,4 punti percentuali, passando dal 21,4% (ultimo trimestre 2007) al 38,8% (ultimo trimestre 2015). Nello stesso periodo di tempo la categoria dei Neet, i giovani non occupati che non frequentano né scuole né corsi di formazione, è inoltre cresciuta di 7,4 punti percentuali (passando dal 19,5% al 26,9%). In entrambi i casi il nostro Paese si colloca ai gradini più bassi nelle rispettive classifiche a livello europeo.

 

Se la media nasconde importanti verità: analisi dei Pil regionali durante la crisi

Se la media nasconde importanti verità: analisi dei Pil regionali durante la crisi

di Paolo Ermano

RIASSUNTO
Andando oltre il dato nazionale sulla crescita economica, che vede un’Italia anemica e bisognosa di scosse, per indagare lo sviluppo regionale, si scopre allo stesso tempo sia un’Italia disgregata nella sua capacità di crescere dal 2000 ad oggi, sia un’Italia in cui la dinamica demografica condiziona le performance dei territori. Un Paese con il PIL sostanzialmente invariato dal 2000 al 2014, fino a quando non lo si pesa rispetto alla popolazione: nello stesso periodo, il PIL pro-capite è diminuito di 8 punti a causa dell’aumento demografico; con un Sud depresso e relativamente svuotato, un Nord che sembra resistere se non fosse per gli effetti migratori, e un Centro che pian piano cerca di avvicinarsi al Nord.

LA MEDIA DEL TASSO DI CRESCITA DEL PIL
E’ uno dei grandi caratteri italiani quello della diversità fra regioni e soprattutto fra Nord e Sud. Una varietà di atteggiamenti, paesaggi, storie che rende l’Italia uno dei paesi più vivi e ricchi del mondo. Ma queste molteplicità di forme si traducono, dal punto di vista della politica economica, in un serio problema di gestione della complessità. Ad esempio, ricette adatte allo sviluppo della Liguria potrebbero rivelarsi controproducenti in Sicilia, e viceversa. Da questo dovrebbe discendere la necessità di maggior autonomia dei territori nelle scelte di politica economica; autonomia da accompagnare a una maggiore responsabilità e a un difficile dialogo sulle modalità di redistribuzione delle risorse collettive. Il tema è complesso e molte fra le migliori intelligenze del Paese hanno più volte cercato di sbrogliare la matassa. Eppure, oltre le questioni di economia e di diritto, questa varietà, se non osservata adeguatamente, non permette di inquadrare bene la situazione del Paese al fine di proporre le giuste contromisure per affrontare la più profonda crisi economica dal dopo guerra a oggi. Una delle ragioni è presto detta: ogni volta che vengono forniti dati sulla situazione economica del Paese, spesso ci troviamo di fronte a dati aggregati che perdono quelle specificità dei territorio o delle macro aree (Nord, Centro, Sud) utili per avviare una seria riflessione sullo sviluppo del nostro Paese dopo il grande spartiacque del tracollo dell’economia mondiale del 2008.

LA SITUAZIONE DISAGGREGATA
Se prendiamo l’andamento del PIL dal 2000 al 2014 sia in Italia che nelle regioni che la compongono (tabella 1), la varietà di situazioni di cui si è accennato emerge con chiarezza. Come si può osservare, l’evoluzione dell’economia italiana dal 2000 al 2014 è tutt’altro che di facile lettura.

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Tutti i territori, come vediamo, hanno vissuto un periodo di crescita fra il 2000 e il 2007, dove il Nord e il Centro crescevano a una velocità rispettivamente doppia e tripla rispetto al Sud. Se non fosse intervenuta la crisi, c’è da immaginare che le distanze fra queste aree sarebbe rimaste molto ampie, con un Sud che rincorreva un’Italia certamente non brillante come altri Paesi ma non per questo priva di slancio. La discussione sul futuro del Paese sarebbe stata diversa in questo caso, essendo più facile gestire un divario economico in periodo di crescita economia che in un periodo di contrazione generale dell’economia. Invece, la realtà ci consegna una situazione in cui per quanto l’Italia nel suo insieme arretri dal punto di vista economico di 1 punto in 14 anni, il Sud ne perde 10, di punti, il Nord resta stabile mentre il Centro guadagna poco più di 2 punti. Nel 2007, 15 regioni su 21 crescevano meno dalle media nazionale; nel 2014 erano 14 le regioni che crescevano meno: ad eccezione delle regioni del Sud, Piemonte, Liguria, Friuli Venezia Giulia e Umbria sono le uniche regioni del Centro-Nord a crescere meno della media nazionale nell’arco di tempo considerato. E’ in questi luoghi che la scusa della crisi può essere giustamente considerata tale, visto che i limiti allo sviluppo emergono ben prima del 2008. Nel complesso dopo 14 anni emerge come il Centro abbia distanziato il Sud di oltre 11 punti, più per colpa dell’arretramento del Sud che per le brillanti performance del Centro. A livello aggregato, lo stipendio dell’italiano medio nel 2014 era dell’1% più basso rispetto allo stipendio del 2000. Ma se avessimo analizzato la situazione a Napoli, per esempio, avremmo constatato come in termini assoluti il territorio poteva definirsi nel 2007 più felice di molte altre aree del Sud, visto che il reddito complessivo era cresciuto di più del 5% in 7 anni. Il risultato si sarebbe ribaltato nel 2014 quando l’analisi dei dati avrebbe evidenziato sul reddito complessivo un crollo pari a più di 17 punti rispetto a quanto maturato nel 2007: un PIL decurtato di quasi 1/5 in pochi anni. Di contro, a Roma potevano vantare una crescita del reddito complessivo del Lazio di più di 6 punti in 14 anni: niente di straordinario, a confronto con altri partner europei, ma pur sempre un risultato degno di nota per una territorio ad una ora di macchina dalla Campania.

LA SITUAZIONE MIGRATORIA
L’analisi appena avanzata presenta due limitazioni. La prima è che ponendo pari a 100 il reddito prodotto dalle singole regioni (il PIL) nel 2000, si perdono le differenze assolute fra regioni. Per capirsi, nel 2007 il PIL della Lombardia era pari a circa €350 miliardi, cresciuto di poco del 10% dal 2000; il PIL della Campania era invece pari a €110 miliardi, cresciuto, come si diceva, del 5% rispetto al 2000. La crescita è in Campania è stata la metà di quella lombarda, ma i valori di partenza erano molto diversi: nel 2000, nello stesso tempo impiegato per produrre €1 in Campania, in Lombardia se ne producevano €3,18; nel 2014 il rapporto era €1 per €3,57. Differenze tutt’altro che marginali. La seconda riguarda gli abitanti. Mentre l’economia italiana era stazionaria, la popolazione dal 2000 al 2014 è cresciuta di poco più di 3 milioni di unità, circa il 6% in più. Usando lo stesso espediente applicato al PIL, se nel 2000 la popolazione era pari a 100, nel 2014 avrebbe raggiunto un valore poco superiore a 106. Quindi, dove nel 2000 a ogni persona corrispondeva una unità di reddito (100 unità di reddito per 100 persone), nel 2014 ogni persona deve accontentarsi di meno di una unità di reddito (98,7 unità di reddito per 106 persone: circa 0,92 unità di reddito pro-capite). Spesso si sorvola sul fatto che la popolazione cambia e che, alla fine, quello che conta è il reddito pro-capite, più che il valore assoluto del PIL. Per questo, non si deve dimenticare che alcuni territori hanno visto la propria popolazione crescere (Nord e Centro), altri no (Sud). Per certi versi è logico che sia così: al Nord e al Centro l’economia cresceva più che al Sud, creando così incentivi affinché le persone si muovessero dove potevano trovare più opportunità di lavoro. Il risultato complessivo dopo 14 anni, però, è dal punto di vista economico ancor più problematico (tabella 2).

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Pesando la crescita economica con la crescita della popolazione, la fotografia del paese è ancor più sciapida: fra il 2000 e il 2014 il reddito pro-capite è sceso di quasi 8 punti! Un’emorragia di produzione e redditi. Nel 2007, nessuna regione del Nord cresceva più della media italiana, e solo 6 Regioni potevano vantare una dinamica del PIL pro-capite superiore alla media. Nel 2014, solo 5 regioni superano la media nazionale. Andando un po’ più nel dettaglio, paradossalmente i dati sul Sud sono meno negativi di quelli del Centro-Nord. Dove il Sud vede un crollo del reddito pro-capite praticamente in linea con il valore complessivo dei redditi prodotti nel territorio, assorbendo con il flusso emigratorio la pessima performance dell’economia, il Nord, con una dinamica migratoria più vivace, non riesce a sostenere uno sviluppo adeguato alle sfide demografiche che sta affrontando: a livello pro-capite, la Lombardia perde più di 5 punti ma sono di nuovo il Piemonte, la Liguria e il Friuli Venezia Giulia a fare una pessima figura, ottengono un risultato peggiore della media del Sud Italia. Solo la Provincia Autonoma di Bolzano, uno dei territori meno popolati d’Italia, riesce a stare sopra alla pari. Preoccupante la situazione dell’Umbria. Ribadiamo che questo non significa che queste regioni sono ora più povere di altre regioni del Sud: ponendo pari a 100 il reddito pro-capite di tutti nel 2000, appiattendo le differenze, si perdono di vista le diverse condizioni di partenza. E’ però certo che guardare in questi termini lo sviluppo del Paese appare chiaro come i mostri sacri di un tempo, quelle regioni del Nord produttive e ricche, appaiono oggi altrettanto appesantite e rigide quanto lo erano e sono le regioni del Sud per anni bistrattate e lasciate a se stesse. Insomma, il Nord non è stato capace di curarsi e di rilanciarci quanto ci si sarebbe dovuto aspettare.

CONCLUSIONI
Una fotografia di un Paese dovrebbe restituire nel ritratto le caratteristiche del territorio descritto. Spesso in Italia si preferisce guardare la foto di gruppo per paura di dover descrivere e giudicare le singole aree che la compongono. In un periodo di forte crisi economica e culturale, in Italia come altrove, è ancor più necessario aver la forza di osservare nei dettagli i territori e le loro caratteristiche. Ciò che emerge da questa analisi basata su due indicatori, il PIL e il PIL pro-capite, è un’Italia a molte velocità, non facilmente definibili nelle categorie di Nord-Centro-Sud. Per questo è importante sottolineare che se le dinamiche economiche hanno condizionato lo sviluppo dei territori negli ultimi tre lustri, non meno hanno pesato le condizioni demografiche.