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Tutele del lavoro, produttività e accesso al credito in Italia

Tutele del lavoro, produttività e accesso al credito in Italia

Una delle più antiche e autorevoli riviste internazionali di economia, The Economic Journal, ha pubblicato in uno dei suoi ultimi fascicoli (Vol. 126,No: 595, pp. 1798-1822) un saggio che dovrebbe essere letto e meditato da politici e sindacalisti. Riguarda in che modo la normativa generale sul lavoro ha effetti sulla produttività, sugli investimenti e sull’accesso al credito. Ne sono autori economisti al di sopra di ogni sospetto di essere di parte: Federico Gingano della Banca d’Italia, Marco Leonardi dell’Università di Milano. Julian Messina della Banca Mondiale e Giovanni Pica dell’Università di Milano. Il titolo è “Employment Protection Legislation, Capital Investment and Access to Credit: Evidence from Italy”.

Il saggio – che ha aspetti molto tecnici e utilizza una metodologia rigorosamente quantitative – stima l’impatto casuale (ossia la deteminante) dei costi di licenziamento sulla preferenza nei confronti di investimenti a forte contenuto di capitale (capital deepening). Si sofferma anche sulle riforme recenti (quali il Jobs Act) che hanno in effetti tenuto sostanzialmente inalterato il dualismo tra imprese con meno di 15 dipendenti e le altre in termini di costo di licenziamento. L’analisi mostra che l’aumento dei costi di licenziamento (presentissimo anche nei contratti ‘a tutele crescenti’) ha indotto a un aumento nel rapporto capitale-lavoro ed è una delle determinanti di un declino della produttività multifattoriale nelle piccole imprese rispetto alle medie e grandi imprese poiché le seconde hanno miglior accesso al credito delle prime e il credito è essenziale per il capital deepening. A sua volta il capital deepening è più pronunciato ai livelli meno elevati della distribuzione del capitale, dove la riforma ha inciso in modo più pesante, e tra le imprese dotate di una forte liquidità. Inoltre la normativa a protezione dei lavoratori aumenta la percentuale di dipendenti di lungo corso e mediamente più anziani. Il che dimostra la complementarità tra capitale fisico e capitale umano in un contesto dove la normativa lavoristica è moderata.

Il saggio solleva interrogativi inquietanti che meriterebbero di essere discussi dalle parti sociali e portati all’attenzione della politica.

 

Presentazione “La Buona Spesa” al Circolo degli Esteri

Presentazione “La Buona Spesa” al Circolo degli Esteri

In collaborazione con: Circolo degli Esteri e Fullbright Association

Mercoledì 12 ottobre 2016 – ore 19

Lungotevere dell’Acqua Acetosa, 42 – Roma

Presentazione del libro

LA BUONA SPESA: DALLE OPERE PUBBLICHE ALLA SPENDING REVIEW. GUIDA OPERATIVA
di Giuseppe Pennisi e Stefano Maiolo

Introduce e modera

l’Ambasciatore Alberto Schepisi

Interverranno:

Professore Antonio Marzano
Già Ministro delle Attività Produttive, Presidente del CNEL

Professoressa Maria Teresa Salvemini Ristuccia
Università di Roma – La Sapienza

Professore Giuseppe Di Taranto
Università LUISS

Massimo Blasoni
Imprenditore, Presidente del Centro Studi Impresa Lavoro

 

La Riforma della Costituzione Italiana e il Referendum

La Riforma della Costituzione Italiana e il Referendum

di Pietro Masci

Esperto di politiche pubbliche e docente dell’Istituto Studi Europei.


Introduzione e Sommario

Il 22 settembre scorso sono state definite le domande per il referendum costituzionale di modifica della Costituzione italiana che si terrà il 4 dicembre. Gli elettori italiani sono chiamati ad approvare o respingere la riforma costituzionale, che prevede un significativo cambiamento nella struttura del Senato ed altre modifiche relative al funzionamento dello Stato ed i rapporti con le Regioni.
Il referendum non prevede un quorum, vale a dire che non ci sarà bisogno di un numero minimo di votanti per considerarne valido l’esito. Il voto referendario prevede “si” per l’approvazione della riforma e “no” per il rifiuto della riforma.
Il referendum riguarda numerosi temi abbastanza complessi e tecnici e con molte implicazioni e appare difficile definire un testo dei quesiti chiaro, esplicativo, esauriente ed allo stesso tempo neutrale. Al di là delle varie giustificazioni e interpretazioni che le parti sostengono in merito ai quesiti, è sufficiente leggere il testo che sarà sottoposto agli elettori – riportato qui di seguito – per concludere che i quesiti soddisfano il requisito della chiarezza, ma non quello della neutralità. Il Movimento 5 Stelle ha presentato ricorso.

Quesiti referendari:

o “Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario”
o “Riduzione nel numero del parlamentari”
o “Il contenimento dei costi del funzionamento delle istituzioni”
o “Soppressione del CNEL”
o “Revisione del Titolo V della parte II della Costituzione”.

Il presente articolo intende rispondere alle seguenti domande:

• quale sono le conseguenze della proposta di riforma costituzionale sul sistema giuridico-politico?;
e
• quale è l’impatto della proposta riforma costituzionale sulla crescita economica del Paese?

Per verificare le due domande, l’articolo segue un percorso noto in letteratura che involve qualità delle istituzioni, governance, corruzione, decadimento istituzionale e riduzione delle opportunità e della crescita economica (Dixit, A. 2009. Governance Institutions and Economic Activity. The American Economic Review, 99(1), 3-24). Il metodo d’analisi utilizza la letteratura in materia e l’esperienza nel funzionamento dei sistemi politici di vari paesi e sopratutto Italia e Stati Uniti che conosco meglio.

L’analisi delle conseguenze che la riforma della Costituzione italiana soggetta a referendum potrà avere sul sistema giuridico-politico e la c.d. governance- vale a dire le tradizioni e le istituzioni attraverso i quali è esercitato il potere – fa riferimento a come la riforma proposta influenza alcuni principi fondamentali: il ruolo della Costituzione nell’ordinamento giuridico e particolarmente il tema della superiorità dei principi, valori e regole inseriti nella Carta Costituzionale; il ruolo della maggioranza in un regime democratico; la stabilità; il collegamento tra eletti nelle istituzioni ed elettori; la riduzione dei costi dell’apparato statale. In tale contesto, l’analisi considera come la riforma intacchi principi fondamentali per il funzionamento democratico: l’esigenza di c.d. pesi e contrappesi – checks and balances – che servono a tutelare la minoranza ed evitare la dittatura della maggioranza, e la c.d. rule of law (nota 1) , cruciale per il corretto funzionamento di una democrazia e per la sua sostenibilità (Gosalbo-Bono Ricardo. 2010. The Significance of the Rule of Law and its Implications for the European Union and the United States. University of Pittsburgh Law Review, ISSN: 0041-9915, Vol: 72, Issue: 2).

L’articolo considera poi le misure della governance utilizzate dalla Banca Mondiale e applicate ai vari paesi -inclusa la corruzione – e come la carenza di regole efficaci che disciplinano gli aspetti fondamentali della vita politica riduca la qualità delle istituzioni ed il livello della governance e faciliti la corruzione e il ruolo del denaro in politica determinando una spirale di decadimento istituzionale, politico e sociale ed economico. In tale contesto, l’articolo si sofferma sulle possibili conseguenze economiche della riforma costituzionale proposta.

Le conclusioni s’incentrano sulla necessità che un sistema giuridico-politico mantenga la qualità dell’assetto istituzionale e riesca ad identificare gli incentivi che facciano emergere e premino comportamenti virtuosi e permettano un corretto funzionamento delle istituzioni. In tal senso, l’elezione diretta dei rappresentanti costituisce un elemento essenziale al funzionamento democratico e concorrenziale, permette il controllo degli eletti e fornisce legittimità a tutto il sistema.

La Proposta di Riforma Costituzionale e alcuni Principi Fondamentali

a. Il ruolo della Costituzione nell’ordinamento giuridico.

La Costituzione – sotto qualsiasi latitudine- rappresenta il testo fondamentale del sistema giuridico-politico di un paese, dove emergono i valori, i principi e le regole ai quali l’ordinamento giuridico s’ispira. Per tale ragione, la Costituzione e le sue modifiche non possono che essere un testo largamente condiviso, raggiunto con compromessi che coinvolgono le varie forze politiche.

La Costituzione italiana – nata dopo la Seconda Guerra Mondiale e la Resistenza- costituisce la legge fondamentale, influenzata principalmente dalle culture cattolica e socialista e dall’esperienza fascista. La Costituzione rappresenta il risultato di un lavoro lungo e di un largo

consenso nonchè di compromessi, proprio perchè stabilisce valori, principi e regole condivisi per alcuni dei quali esiste anche una diversa impostazione (e pertanto è spesso necessario un compromesso).

L’argomento che talvolta viene utilizzato per giustificare la modifica della Costituzione s’incentra sulla circostanza che sono trascorsi circa 70 anni dalla sua approvazione, i tempi sono cambiati e pertanto la Carta Costituzionale deve adattarsi. In proposito, si trascura la circostanza che valori, principi e regole non sono temporanei, ma di lungo periodo. In ogni caso, l’età della Costituzione non fa venir meno, anzi rafforza, il requisito fondamentale per le modifiche: un vasto consenso. La Costituzione degli Stati Uniti risale al 1789 – ed è stata modificata solo 27 volte – e i principi e valori ispiratori rimangono intatti e in essi gli americani si riconoscono.

La letteratura della scuola di public choice, che spiega il processo politico secondo le regole dell’economia, è unanime sul punto dell’esigenza di un vasto accordo per l’adozione di regole costituzionali (Buchanan, James M., and Gordon Tullock. 1962. The Calculus of Consent. Ann Arbor: University of Michigan Press).

b. Il ruolo della maggioranza in un regime democratico.

Le proposte modifiche della Costituzione italiana – sottoposte a referendum- sono intese a garantire la stabilità governativa, nel senso di durata e capacità di prendere decisioni da parte dell’Esecutivo e della maggioranza, sopratutto eliminando l’equivalenza di Camera e Senato – il c.d. bicameralismo perfetto- che, secondo l’attuale Costituzione, hanno identici compiti e poteri (ad esempio, entrambe le Camere votano la fiducia all’Esecutivo e approvano tutte le leggi). Il Senato delineato nella riforma non voterà la fiducia all’Esecutivo; avrà un numero limitato di competenze sulle quali legifererà insieme alla Camera (ad esempio riforme costituzionali, tutela delle minoranze linguistiche, referendum, enti locali e politiche europee).

In tal senso, la riforma costituzionale proposta modifica un principio fondamentale iscritto nella Carta Costituzionale, vale a dire l’equivalenza tra Camera e Senato che costituisce uno dei capisaldi di pesi e contrappesi del sistema giuridico-politico italiano. L’equivalenza tra le due Camere – peraltro analoga a quella che esiste negli Stati Uniti dove Camera e Senato entrambe approvano le stessi leggi – fu adottata dai costituenti a garanzia di un più sicuro funzionamento democratico dell’iter legislativo. Il bicameralismo perfetto può allungare i tempi delle decisioni e favorire il mantenimento di posizioni di rendita. Tuttavia, il bicameralismo perfetto riduce il potere dell’Esecutivo e costituisce una garanzia per la minoranza nella definizione di leggi e regolamenti contro lo strapotere della maggioranza. Tale meccanismo costituisce un principio fondamentale che può essere modificato solo con un ampio consenso delle forze politiche (nota 2) (D. Argondizzo. 2013. 1945-1947 Il bicameralismo in Italia tra due modelli mancati: Congresso USA e Stortinget, Quaderni della Rivista Il Politico, n. 59, Soveria Mannelli, Rubbettino).

Ulteriore importante implicazione della riforma è il ruolo preponderante dell’Esecutivo e della maggioranza nell’approvazione di leggi e regolamenti. Infatti, l’Esecutivo in carica e la maggioranza potranno predisporre disegni di legge – attuativi del “programma di Governo” – da approvare dalla Camera che è allineata all’Esecutivo. Tale circostanza riduce le iniziative legislative parlamentari (che dovrebbero scaturire dalle esigenze che i cittadini rappresentano ai propri rappresentanti) che già sono pari solo al 20% delle iniziative complessive ed evidenziano il distacco tra istituzioni ed elettori, anche perchè i rappresentanti che siedono al Parlamento hanno principalmente rapporti con le segreterie dei partiti piuttosto che con gli elettori del territorio che dovrebbero rappresentare (Associazione OpenPolis. 2015. Premierato all’Italiana. Osservatorio sulle leggi nella XVII Legislatura. Edizioni OpenPolis, Roma).

Altra implicazione – non secondaria – è che gli incarichi nella Pubblica Amministrazione e nelle c. d. Agenzie indipendenti siano attribuiti ad individui che raccolgono la fiducia della maggioranza al potere, senza aver riguardo alla conoscenza ed esperienza nel settore specifico e alla capacità di svolgere con efficacia ed integrità la funzione ricoperta. La prima implicazione di tali nomine è che i “nominati” avranno l’inclinazione ad emettere normative secondo gli interessi e le direttive del potere politico (Cochrane, John, 2015. The Rule of Law in the Regulatory State, prepared for The Foundation of Liberty: Magna Carta After 800 Years, Hoover Institution Conference, June). La seconda implicazione è che, naturalmente, le nomine dipendono dall’Esecutivo in carica e possono essere modificate dal successivo Esecutivo con un’impostazione diversa. Queste due circostanze accentuano l’instabilità istituzionale e la certezza e durata delle regole.

Pertanto, le modifiche costituzionali – associate al premio di maggioranza alle elezioni per la Camera in vigore a partire dal luglio 2016 (il c.d. Italicum, vedi in seguito e nota 7) – eliminano il bicameralismo perfetto ritenuto da molti causa di inefficienze e lentezze, attribuendo all’Esecutivo ed alla maggioranza un ruolo preponderante nelle decisioni. L’Esecutivo deciderebbe i tempi e la sostanza dei lavori dell’unica assemblea legislativa rilevante, la Camera, peraltro con maggioranza allineata all’Esecutivo. Il ruolo egemonico dell’ Esecutivo nell’approvazione delle leggi va contro le regole che risalgono alla teoria della divisione dei poteri secondo la quale l’Esecutivo ha il compito di eseguire le leggi approvate dal Parlamento.
Inoltre, l’Esecutivo svolge attività “legislativa”, attraverso la Pubblica Amministrazione e le Agenzie indipendenti che emettono provvedimenti con sostanza di legge senza un effettivo controllo del potere legislativo (il Parlamento). Tale circostanza viola il principio della rule of law(nota 3) e rischia di instaurare la rule by law con il ruolo dominante dell’Esecutivo e della maggioranza, che produce la c.d. ”tirannia della maggioranza” che potrebbe sfociare nell’autoritarismo autocratico e plebiscitario. Tali situazioni di potere esclusivamente basato sull’espressione popolare si manifestano in vari paesi (ad esempio, Turchia di Erdogan; Russia di Putin; e Venezuela di Chavez che ora sta attraversando con Maduro una crisi di gigantesche proporzioni), dove vige il concetto della rule by law e non della rule of law . In tale proposito, Diamond Larry and Marc F. Plattner Editors. 2015. Democracy in Decline, John Hopkins University Press.

c. La stabilità

La riforma costituzionale sottoposta al referendum parte da un concetto di stabilità peraltro ampiamente diffuso –la governabilità – che come sopra accennato si riferisce alla stabilità dell’Esecutivo ed alla sua capacità di durare e prendere decisioni. Il concetto di stabilità di un ordinamento giuridico non può essere esclusivamente fondato sulla circostanza che l’Esecutivo sia in carica e produca norme. Elemento di maggior rilevanza è che un sistema giuridico-politico funzioni attraverso i c.d. pesi e contrappesi e secondo regole e procedure certe e prevedibili. In altre parole, è la qualità della governabilità, non la governabilità che ha rilievo.

Negli Stati Uniti, le modifiche costituzionali, come pure le leggi ordinarie, sono difficili da realizzare proprio perché, malgrado gli Stati Uniti siano una Repubblica Presidenziale, il potere è diffuso e il sistema è permeato da checks and balances – tra i quali come indicato sopra la parità di Camera e Senato e la circostanza che solo un membro del Congresso può proporre un disegno di legge accentuando il rapporto tra eletti ed elettori (nota 4) – che riducono il potere del Presidente e della maggioranza e tutelano la minoranza (si pensi, ad esempio, alla difficoltà ad approvare leggi sull’immigrazione). In proposito, spesso si ricorda un aneddoto significativo. Le deliberazioni che portarono alla definizione della Costituzione degli Stati Uniti furono tenute in gran segreto e molti cittadini – curiosi e ansiosi di cosa si stesse decidendo- si riunirono fuori della Independence Hall, in Filadelfia, dove si svolgevano le riunioni per scrivere la Costituzione. Si racconta che una donna, la signora Elizabeth Powell (che sembra fosse un’amica di George Washington), preoccupata, chiese a Benjamin Franklin, “Dottore, che cosa abbiamo, una repubblica o una monarchia?” Senza esitazioni, Franklin rispose: “Una Repubblica, signora, se sarete capaci di conservarla”. Questo aneddoto attesta l’importanza centrale che rivestono pesi e contrappesi nella Costituzione statunitense.

Uno dei temi centrali e ricorrenti del dibattito politico negli Stati Uniti è quello del c.d. divided Government – il Governo diviso (nota 5) . Tale situazione dipende principalmente dalla circostanza che non solo non è infrequente che il partito del Presidente non è quello che ha la maggioranza nel Congresso (Camera e Senato), ma anche quando Presidente e maggioranza nel Congresso sono dello stesso partito, i parlamentari debbono rispondere agli elettori nel territorio che li ha eletti e non agli ordini del partito. In tale contesto, il raggiungimento di un accordo per approvare le leggi è complicato, spesso richiede compromessi, altre volte le proposte non riescono a diventare leggi proprio per i pesi e contrappesi che esistono nel sistema e che sono soprattutto a tutela della minoranza, della rule of law e del funzionamento democratico.

A tale proposito, le attuali elezioni presidenziali negli Stati Uniti sono un esempio molto interessante da esaminare. Uno dei candidati – Donald Trump – sostiene, che una volta eletto Presidente, introdurrà cambi radicali (ad esempio, denuncierà gli accordi commerciali, costruirà il muro tra Stati Uniti e Messico; e così via). Tuttavia, questi cambi proposti sembrano non tener conto delle regole del gioco che prevedono l’accordo del Congresso che approva le leggi e che è tutt’altro che scontato.
Il sistema statunitense ha costruito gli anti-corpi – i pesi e contrappesi – che evitano situazioni autocratiche, o come viene chiamata la Presidenza Imperiale, e la tirannia della  maggioranza (nota 6). Il sistema si muove secondo cadenze e procedure prevedibili, regolate dalla legge alla quale tutti sono sottoposti e dove la maggioranza deve confrontarsi con la minoranza. La chiarezza istituzionale, vale a dire la trasparenza delle regole del gioco, costituisce il meccanismo che garantisce la stabilità, e la prevedibilità dell’evoluzione del sistema e sostanzialmente la sua legittimità, credibilità e sostenibilità.

Tra decisionismo e bilanciamento dei poteri, il sistema statunitense favorisce il secondo meccanismo. Questo non significa che il sistema sia perfetto, efficiente, funzioni sempre e in ogni circostanza, e non presenti difetti (le attuali elezioni presidenziali sono un buon esempio in proposito). Esistono vari elementi distortivi come quello del ruolo del denaro nella politica, ed il mantenimento di posizioni di rendita, ma alla lunga i checks and balances a tutela della minoranza, della rule of law e del funzionamento della democrazia, riducono i pericoli di dittature e tirannie mascherate dal consenso popolare (De Tocqueville Alexis. 2016. De la Démocratie en Amérique: Édition Intégrale Tome I + II, Create Space Independent Publishing Platform) e hanno dato risultati molto positivi per oltre 200 anni in termini di sviluppo economico e sociale.

L’accentramento di forti poteri all’Esecutivo, anche derivanti da un “mandato popolare”, o da elezioni che producono una certa maggioranza, non solo costituisce un pericolo per la democraticità del sistema, ma non è efficiente e può essere dannoso alla stessa stabilità. Un Esecutivo forte, ancorchè legittimato dal voto popolare, può prendere decisioni che però possono essere sconfessate dal successivo Esecutivo forte che ha anch’esso la legittimazione popolare, ma un’impostazione diversa dal precedente Esecutivo.
In proposito, al di là del merito della decisione, si può esaminare il caso della candidatura di Roma per le Olimpiadi del 2024 presa dall’Esecutivo a livello centrale con il sostegno della Giunta e del Consiglio di Roma, all’epoca allineati con l’Esecutivo a livello centrale. La decisione, però, era controversa e con varie opposizioni. La vittoria del Movimento 5 Stelle nelle recenti elezioni per Giunta e Consiglio della città di Roma ha portato al rifiuto di partecipare alle Olimpiadi determinando incertezza, spese effettuate e non recuperabili, perdita d’impegni, investimenti e credibilità.

Inoltre, non è da escludere lo scenario di una minoranza, nell’ambito della maggioranza, capace di esercitare un potere di veto con effetti nocivi sulle decisioni con situazioni di richiesta di contropartite di qualsiasi genere.

In altre parole, il decisionismo può essere sconfessato dal successivo decisionismo di segno opposto e determinare instabilità, vale a dire quella situazione che si sarebbe voluto eliminare. In aggiunta, il decisionismo basato su vittorie elettorali contingenti può essere solo apparente, non esclude lotte interne alla maggioranza con effetti paralizzanti e non assicura la durata e la tenuta dell’Esecutivo.
Un ruolo preponderante dell’Esecutivo e della maggioranza non elimina l’incertezza e può generare cicli d’impegni e succesivi rifiuti che sono la caratteristica dell’instabilità.

d.  Il collegamento tra elettori ed eletti

Il popolo è sovrano, come recitano molte costituzioni. Le istituzioni elettorali costituiscono una condizione necessaria e sufficiente per la pratica e il consolidamento della democrazia. Senza regole elettorali per l’elezione del potere esecutivo e di quello legislativo, la democrazia rappresentativa non è praticabile. Le regole determinano la natura del Governo che emerge dal voto, le modalità in cui il pubblico può verificare la responsabilità degli eletti nella gestione del potere e favoriscono il senso d’inclusione del cittadino (Mala Htun and G. Bingham Powell, Jr. Editors. 2013. Political Science, Electoral Rules, and Democratic Governance. Report of the Task Force on Electoral Rules and Democratic Governance. American Political Science Association (APSA)).

In Italia, l’evoluzione del sistema elettorale, dopo l’entrata in vigore della Costituzione nel 1946, ha portato ad un progressivo indebolimento del rapporto tra elettori ed eletti (nota 7) e la circostanza – sopra riportata- del basso livello d’iniziative legislative parlamentari rappresenta un significativo indicatore dello scollamento che esiste tra elettori ed eletti.
La riforma costituzionale soggetta al referendum parte da una corretta, ma non nuova, intuizione che una delle due Camere (il Senato) debba avere una rappresentatività su base regionale (Mangiameli Stelio Editore. 2012. Il regionalismo italiano tra tradizioni unitarie e processi di federalismo. Contributo allo studio della crisi della forma di stato in Italia, Giuffre). Tuttavia, l’attuazione nega l’intuizione ed accentua la prevalenza eccessiva della maggioranza, come discusso sopra, e la carenza di rappresentatività delle realtà regionali in quanto il futuro Senato sarebbe composto da membri prescelti indirettamente e senza un rapporto diretto con il territorio. In effetti, i rappresentanti destinati a ricoprire il ruolo di senatore sono selezionati dalle Assemblee regionali; svolgono le proprie funzioni a titolo individuale; e possono ricoprire nello stesso tempo la carica di consigliere regionale o di sindaco- senza vincolo di mandato. Tali rappresentanti, pertanto, tenderanno ad esprimere le posizioni del partito che li ha nominati e non gli interessi territoriali che dovrebbero tutelare. Riprendendo il parallelo con gli Stati Uniti, il 17° emendamento – adottato nel 1911 dalla Camera dei Rappresentanti e ratificato da tre- quarti degli Stati nel 1913- ha stabilito l’elezione diretta dei senatori che prima erano scelti dalle Assemblee legislative dei vari stati. Negli Stati Uniti a nessuno verrebbe in mente di tornare al sistema che le Assemblee legislative dei vari stati dell’Unione designino i senatori federali. Gli estensori della riforma costituzionale italiana soggetta a referendum non hanno considerato rilevante questa fondamentale esperienza storica (Friedman, Joseph S. 2009. The Rapid Sequence of Events Forcing the Senate’s Hand: A Reappraisal of the Seventeenth Amendment, 1890-1913. March. CUREJ: College Undergraduate Research Electronic Journal, University of Pennsylvania).

In aggiunta, la riforma – con la revisione del Titolo V della parte II della Costituzione – prevede una riduzione dell’autonomia delle regioni, soprattutto in campo finanziario e organizzativo e in una serie di “competenze concorrenti”, cioè materie delle quali potevano occuparsi, nello stesso tempo, stato e regioni. Con la riforma, molte competenze torneranno in maniera esclusiva allo Stato. In tal senso, la riforma comporta una centralizzazione del potere e un de-potenziamento significativo dell’autonomia legislativa delle Regioni costituzionalmente riconosciuta. Senza considerare che la riforma determina un vuoto normativo in quanto le Regioni a statuto speciale sono escluse, fino a una futura revisione degli statuti attraverso nuove leggi costituzionali d’intesa con le Regioni interessate.
La riforma rinforza l’idea di una concorrenza politica che s’incentra sui partiti e non sui candidati, e non garantisce il funzionamento di un regime genuinamente democratico che coinvolga l’elettore.

Sulla base dell’esperienza del Senato degli Stati Uniti – composto di 100 parlamentari- 2 per ogni Stato, in l’Italia si sarebbe potuto pensare ad un Senato composto da 60 a 80 parlamentari, 3 o 4 per ciascuna regione, direttamente eletti. Si sarebbe così compiutamente realizzata l’idea di accrescere la rilevanza di ciascuna regione, indipendentemente dalla sua popolazione che è invece la caratteristica della Camera dei Deputati.

Anche se può non essere immediatamente comprensibile, la diversità delle regioni italiane è un patrimonio da preservare ed arricchire e non da ridurre (Putman Robert D. 1994. Making Democracy Work: Civic Traditions in Modern Italy. Princeton University Press; Phillips Katherine W. 2014. How Diversity Makes Us Smarter. Scientific American October).

e. Il contenimento dei costi

L’attività politica e il funzionamento di un sistema democratico costituiscono un costo che il cittadino sostiene. Il finanziamento privato dell’attività politica – e in generale il ruolo del denaro in politica – deve essere limitato e trasparente e non ostacolare la concorrenza democratica. Il finanziamento pubblico della politica– a carico del cittadino che paga le tasse – per il mantenimento del sistema democratico non deve creare spechi, inefficienze e rendite (Zamora Kevin Casas and Daniel Zovatto. 2015. The Cost of Democracy: Campaign Finance Regulation in Latin America. Latin American Initiative, Brookings Institution).

L’eliminazione del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL) – un organismo riconosciuto dalla Costituzione – costituisce una soluzione indubbiamente positiva per ridurre i costi dell’apparato statale ed eliminare Enti che esercitano funzioni scarsamente rilevanti. Il CNEL è generalmente considerato un “ente inutile”, che non e mai stato messo in condizione di svolgere efficacemente la sua funzione di organo indipendente di consulenza tecnica per il Parlamento.

La diminuzione del numero dei parlamentari (i senatori passano da 315 a 100) può essere altresì considerata positiva nell’ottica di un risparmio per il funzionamento dell’ordinamento. Tuttavia, il minor costo – peraltro opinabile e che comunque appare non significativo – comporta lo scadimento della rappresentatività territoriale, accentua il decisionismo della maggioranza, e presenta il rischio d’instabilità determinata da decisionismi nel tempo che si annullano tra di loro.
Peraltro i costi derivanti dall’attuazione dell’eventuale modifica della Costituzione e dai possibili ricorsi giurisdizionali –principalmente tra Stato e Regioni- rimangono un’incognita.

La riduzione dei costi della gestione dello Stato è da valutare positivamente. Tuttavia, il risparmio finanzario non compensa il “costo” ingente di ridurre o eliminare importanti principi fondamentali, come abbiamo visto sopra. Peraltro il contenimento dei costi si sarebbe potuto conseguire in vari altri modi, ad esempio riducendo ulteriormente il numero dei senatori (a 60 o 80), diminuendo il numero dei rappresentanti alla Camera (ad esempio dagli attuali 630 a 435 come nel caso degli Stati Uniti che ha una popolazione 6 volte quella dell’Italia) ed eliminando 2/5 dei giudici della Corte Costituzionale (i giudici costituzionali passerebbero da 15 a 9 come nel caso della Corte Suprema degli Stati Uniti).

Qualità delle Istituzioni, Governance, Corruzione e Crescita Economica

La governance – come detto, le modalità di esercizio del potere – presenta vari aspetti operativi come la scelta e il rimpiazzo del Governo; l’utilizzo del potere; la capacità del Governo di adottare e realizzare politiche pubbliche; il rispetto dei cittadini e delle istituzioni che regolano le interazioni tra i cittadini. La Tavola 1, qui di seguito, sottolinea alcuni indicatori di Governance – elaborati dalla Banca Mondiale per il periodo 2008-2015 – per vari paesi avanzati (nota 8).

Tavola 1- Indicatori di Governance

tavola1

Sources: EIU, 2015; World Bank, 2015; The World Economic Forum, 2015; Transparency International, 2015; The Heritage Foundation, 2015.

 

La Tavola 1 mostra in modo molto evidente che l’Italia, in molti indicatori (ad esempio quello dell’accountability, quello dell’effettività del Governo), occupa posizioni lontane da quelle dei paesi avanzati .

Per quanto riguarda la corruzione – definita dalla Banca Mondiale “l’abuso dell’ufficio pubblico per gudagni privati” – la ricerca con verifiche empiriche ha sostanzialmente confermato che quando la governance e le istituzioni non funzionano, lobbies, denaro e corruzione hanno buon gioco ad impossessarsi dei meccansmi decisionali e dirigerli nel proprio interesse e la governance è ulteriormente indebolita (Kaufmann, Daniel. 2005. Myths and Realities of Governance and Corruption. Global Competitiveness Report 2005-06 (October 2005): pp. 81-98). Un elevato livello di corruzione significa che il potere pubblico è esercitato per guadagni privati (ad esempio attraverso opere pubbliche, politiche, regolamentazione) di modo che lo Stato è ”catturato” da intesssi privati che esercitano un ruolo “estrattivo” delle risorse pubbliche (Acemoglu, Daron and James Robinson. 2012. Why Nations Fail, Crown Business).

Grafico 1 – Indicatori di Corruzione nelle Principali Economie

Estimate of governance (ranges from approximately -2.5 (weak) to 2.5 (strong) governance performance) - World Bank Governance Indicators 2015

Estimate of governance (ranges from approximately -2.5 (weak) to 2.5 (strong) governance performance) – World Bank Governance Indicators 2015

Il Grafico 1 mostra, per il periodo 1996-2015, gli indicatori delle prestazioni dei vari paesi in materia di corruzione – che variano tra -2.5 (debole) e +2.5 (forte) – e si può facilmente visualizzare la modesta posizione dell’Italia affiancata alla Grecia.
La Tavola 1 ed il Grafico 1 mostrano che la situazione della governance e corruzione in Italia è pericolosa non solo per un corretto funzionamento democratico, ma anche per per lo sviluppo economico. In realtà, lobbies, denaro e corruzione s’intrecciano e determinano comportamenti diretti a premiare interessi particolari non sempre allineati con l’interesse generale e con la crescita economica (Kuhner Timothy K. 2014. Capitalism v. Democracy Money in Politics and the Free Market Constitution, Standford University Press). La situazione per l’Italia non è migliore in materia d’indicatori della rule of law, vedi nota 1 e Agrast, M., Botero, J., Ponce, A. 2016. World Justice Project Rule of Law Index 2016. Washington, D.C. The World Justice Project.

I dati italiani su governance e corruzione (uno degli indicatori della governance) testimoniano altresì lo slegamento tra eletti ed elettori e l’alienazione dei cittadini elettori che si sentono estranei e non partecipi al sistema giuridico-politico. Ogni Governo dovrebbe seriamente preoccuparsi di migliorare i parametri della governance.

La riforma costituzionale sottoposta al referendum comporterà – se approvata – il ruolo dominante della maggioranza e dell’Esecutivo, una riduzione di pesi e contrappesi e un affievolimento della rule of law e presumibilmente produrrà un ulteriore distacco di molti elettori dalla politica. Pertanto, non è improbabile che lobbies, denaro e corruzione avranno un peso maggiore e che si formi un gruppo di potere e di sostegno finanziario che determinerà le sorti di molte iniziative. Di conseguenza, gli indicatori della governance non solo rischiano di non migliorare, ma addirittura di peggiorare.

Sotto il profilo delle implicazioni economiche, la ricerca, attraverso verifica empirica, sostanzialmente concorda che una democrazia partecipativa e istituzioni autorevoli e legittime- piuttosto che governi autocratici – particolarmente in società che presentano diversità e divisioni (etniche, linguistiche, geografiche, e altre divisioni) – hanno un impatto positivo sullo sviluppo economico (Rodrik Dani. 2000. Participatory Politics, Social Cooperation, and Economic Stability. The American Economic Review Vol. 90, No. 2, Papers and Proceedings of the One Hundred Twelfth Annual Meeting of the American Economic Association (May), pp. 140-144). Istituzioni democratiche riducono l’impatto negativo che corruzione e denaro nel processo politico esercitano sulla crescita evonomica (Drury, A.C., Krieckhaus, J. and Lusztig, M., 2006. Corruption, democracy, and economic growth. International Political Science Review, 27(2), pp.121-136).
L’impatto della riforma costituzionale sopposta a referendum sulla crescita economica dipenderà dalla “qualità” delle istituzioni che usciranno se la riforma costituzionale sarà confermata dal referendum (Venard Bertrand. 2013. Institutions, Corruption and Sustainable Development. Economics Bulletin, 33 (4), pp.2545-2562).

Naturalmente previsioni economiche in generale e nello specifico debbono essere caute. Tuttavia, dalle considerazioni sviluppate più sopra, appare probabile che la riforma costituzionale sottoposta al referendum avrà un impatto negativo sulla “qualità” delle istituzioni e sul loro funzionamento e di conseguenza implicazioni non favorevoli per la crescita economica italiana.

Ulteriori Considerazioni

Nessun ordinamento giuridico e sistema politico è perfetto e ogni decisione comporta uno scambio – trade-off – tra principi, valori ed obiettivi.

In un sistema sostanzialmente funzionante come si può considerare quello degli Stati Uniti, il sistema dei checks and balances è una garanzia per la minoranza, anche se costituisce un meccanismo che rallenta i cambi e tende a proteggere rendite di posizione.
Recentemente – con un’ interpretazione estensiva della Corte Suprema – negli Stati Uniti è stata introdotta la possibiltà di contributi finanziari illimitati ed anonimi a partiti e candidati. Tale possibilità accentua il ruolo che il denaro e le lobbies già esercitano sul processo politico e sta corrompendo il sistema e minando la concorrenza e il funzionamento democratico e il rapporto tra eletti ed elettori (come le attuali elezioni presidenziali stanno evidenziando).
Tuttavia, il mantenimento di checks and balances a tutela della minoranza, il rispetto del principio della rule of law, nonchè l’elezione diretta dei rappresentanti rimangono capisaldi per assicurare il corretto funzionamento del sistema democratico e in qualche modo limitare il ruolo di lobbies e denaro nella politica e la corruzione.

Inerente al meccanismo di pesi e contrappesi, è che la neccessità di ampio consenso – auspicato particolarmente per modifiche a principi, valori e regole – può comportare compromessi non salutari per l’ordinamento democratico – i c.d. “inciuci”- che determinano o perpetuano privilegi e rendite di posizione.
Altro pericolo è che i rappresentanti possono non rispondere alle esigenze degli elettori che rappresentano.
Lo stretto collegamento tra elettori ed eletti consente in principio agli elettori di sanzionare i comportamenti degli eletti.

Peraltro, il continuo corretto funzionamento democratico dipende molto dalla libertà di giudizio ed integrità dei parlamentari nel rappresentare gli interessi nazionali (Deputati) e territoriali (Senato) a cui corrisponde un senso diffuso di onestà nella società e di controlli sull’attività governativa. In tale ottica, è importante che nel disegnare un sistema politico e le istituzioni rappresentative si stabiliscano gli incentivi che permettano che i pregi sopra menzionati emergano e vengano valorizzati; che si svolga una concorrenza delle idee; e che il meccanismo sia capace di generare controlli e sanzioni.

In definitiva, appare fondamentale che gli eletti siano espressione diretta degli elettori e dipendano dagli elettori per il mantenimento della loro posizione. Ciò consente un migliore controllo democratico dell’elettore nei confronti dei suoi rappresentanti che può svolgere un ruolo significativo anche in presenza di interventi finanziari nella politica.

Conclusioni

Per quanto riguarda la prima domanda – quale sono le conseguenze politico-giuridiche della proposta riforma costituzionale? – la riforma costituzionale sottoposta al referendum – se approvata- ridurrà pesi e contrappesi e rinforzerà il ruolo predominante della maggioranza e dell’Esecutivo. Presumibilmente, ciò produrrà una concentrazione del potere, ed ulteriore distacco di molti cittadini dalla politica.

Per quanto riguarda la seconda domanda – quale è l’impatto per la crescita economica del Paese? – l’impatto economico della proposta di riforma costituzionale dipenderà principalmente dalla “qualità” delle istituzioni che risulterebbero in caso la riforma fosse approvata. La proposta riforma costituzionale – se approvata – consentirà l’accentramento di un potere rilevante nell’Esecutivo e può determinare conseguenti cicli d’instabilità e peggioramento della qualità istituzionale e della governance. In tale contesto lobbies, denaro e corruzione influenzeranno molti iniziative con negative ripercussioni sulla crescita economica del Paese.

In conclusione, le argomentazioni di quest’articolo permettono di giungere alla conclusione che esiste un collegamento tra i vari aspetti esaminati e sopratutto tra l’esigenza di un largo consenso per modifiche costituzionali ed il controllo dell’elettore sugli eletti. In tale prospettiva, sembra ragionevole pensare che una riforma costituzionale “migliorata” potrebbe aumentare la probabiltà di un effetto positivo sulla crescita economica.
Appaiono ragionevoli modifiche nel senso dell’elezione diretta dei senatori su base regionale (3 o 4 senatori per ogni regione) – che sostanzialmente equivale ad un sistema uninominale che bilancerebbe il sistema di più di un candidato eletto nei singoli collegi elettorali per la Camera; opportuni correttivi per un più efficiente funzionamento dell’approvazione delle leggi, senza però intaccare in maniera significativa l’uguaglianza di funzioni delle due Camere.
Tale impostazione consentirebbe quel largo consenso necessario quando si modificano principi e regole alla base dell’ordinamento; e permetterebbe di compattare il paese e fornire nuovo slancio, invece di dividerlo. Purtroppo, l’impressione è che la campagna referendaria non è basata sulla sostanza dei cambi e le implicazioni, sopratutto a medio e lungo termine. Insomma, il Paese sta perdendo un’ennesima occasione per ammodernarsi seriamente.


Note
(1) La definizione del concetto rule of law è ampia e complessa. Il World Justice Project (WJP) computa annualmente il punteggio e la graduatoria dei vari paesi, vedi Agrast, M., Botero, J., Ponce, A. 2016. World Justice Project Rule of Law Index 2015. Washington, D.C. The World Justice Project. In prima approssimazione, per rule of law s’intende che tutti i membri della società sono soggetti alla legge – incluso l’Esecutivo- e che la legge dipende da principi e valori comuni e prestabiliti.
(2) Il referendum sulla legge di modifica della Costituzione si rende necessario perchè la legge è stata approvata con una maggioranza semplice e non con quella dei 2/3 che costituisce la misura dell’ampio consenso.
(3) Per rule of law – vedi nota 1- s’intende che tutti i membri della società sono soggetti alla legge – incluso l’Esecutivo- e che la legge dipende da principi e valori comuni e prestabiliti. Per rule by law s’intende ogni atto del Governo che impone certi comportamenti in modo arbitrario e discriminatorio.
(4)Ad eccezione della legge di Bilancio che è proposta dal Presidente
(5) Nell’accezione anglo-sassone per Government – Governo- s’intende tutto l’apparato che gestisce lo Stato e comprende l’Esecutivo (la Presidenza), il Congresso, e il Sistema giudiziario.
(6) Esistono molte conferme dell’operatività di pesi e contrappesi nel sistema americano, sicchè non è necessaria l’elezione di Donald Trump alla Presidenza per un’ulteriore verifica.
(7) Dopo la nascita della Repubblica Italiana, nel 1946 fu approvata la legge proporzionale che, salvo piccole modifiche, ha regolato lo svolgimento delle elezioni politiche italiane fino al 1993.Per l’elezione della Camera dei deputati, il territorio nazionale era suddiviso in 32 circoscrizioni plurinominali assegnatarie di un numero di seggi variabile a seconda della popolazione; ogni elettore aveva a disposizione un massimo di quattro voti di preferenza. Il sistema elettorale per il Senato della Repubblica prevedeva correttivi in senso maggioritario, mantenendo un carattere ampiamente proporzionale. La legge Mattarella, in vigore fra il 1993 e il 2005, introdusse un sistema elettorale ibrido: a.maggioritario uninominale a turno unico per i tre quarti dei seggi del Senato e i tre quarti dei seggi della Camera; b.ripescaggio proporzionale dei più votati fra i candidati non eletti per l’assegnazione del rimanente 25% dei seggi del Senato; c. proporzionale con liste bloccate e soglia di sbarramento al 4% per il rimanente 25% dei seggi della Camera. Nel 2015, per l’elezione della Camera dei Deputati, è stato approvato un nuovo sistema elettorale attualmente vigente – l’«Italicum» – operativo a partire dal 1º luglio 2016, che prevede un meccanismo proporzionale con sbarramento al 3% e premio di maggioranza, (o di governabilità). La lista vincitrice può ottenere fino a 340 deputati, corrispondenti al 54% dei seggi della Camera, qualora abbia ottenuto almeno il 40% dei consensi a livello nazionale; ove tale circostanza non si verifichi, il premio di governabilità è attribuito dopo un ballottaggio fra le due liste più votate. Il numero dei seggi assegnati a ciascun partito è determinato sulla base dei suffragi ottenuti sul territorio nazionale. Le candidature sono presentate all’interno di venti circoscrizioni regionali, suddivise complessivamente in 100 collegi plurinominali, a ciascuno dei quali spetta un numero prefissato di seggi compreso fra tre e nove. Fanno eccezione i nove collegi uninominali delle circoscrizioni Valle d’Aosta e Trentino-Alto Adige. Ogni elettore, nell’ambito della lista prescelta, ha due voti di preferenza per candidati che non siano i capilista. In ogni collegio, nel limite dei seggi spettanti in proporzione a ciascun partito, sono eletti i capilista e i candidati che hanno conseguito il maggior numero di preferenze.
(8) Per una critica degli indicatori di governance, vedi Thomas, M.2010. What do the Worldwide Governance Indicators Measure? European Journal of Development Research 22, 31-54.


Bibliografia essenziale

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La fine del diritto pesante del lavoro: due ipotesi

La fine del diritto pesante del lavoro: due ipotesi

di Maurizio Sacconi

I due disegni di legge allegati per un Testo Unico denominato “Statuto dei Lavori” e per una regolazione più semplice e più efficace in materia di salute e sicurezza nel lavoro, sono parti di un unico disegno riformatore. Cambiano i modelli organizzativi della produzione, cambiano i lavori nella quarta rivoluzione industriale.

Ma nessuno può prevedere la velocità e la dimensione dei cambiamenti. Sappiamo solo che viene meno il vecchio mondo, fatto di gerarchie verticali e di mera esecuzione seriale degli ordini impartiti. Il vecchio mondo su cui è stato costruito tutto il pesantissimo diritto del lavoro, fatto di regole protettive del “contraente debole” che ora diventano spesso un freno alla occupabilità e alla migliore tutela dello stato di salute.

Lo stesso Jobs Act contiene apprezzabili modifiche ma le compensa con definizioni ancor più rigide circa la separazione tra lavoro autonomo e subordinato proprio nel momento in cui la realtà li avvicina. I due testi vogliono quindi rappresentare altrettante ipotesi di fuoriuscita dalla vecchia regolazione del dopoguerra. Alla base di esse si pone una sorta di “salto” metodologico, quello per cui la fonte legislativa, per definizione rigida e perciò incapace di rincorrere i cambiamenti, si deve limitare alle norme fondamentali e inderogabili che sono espressione dei principi costituzionali e comunitari. Per tutto il resto si deve fare rinvio alla duttile contrattazione, soprattutto di prossimità, compresa quella individuale sviluppando la certificazione dei contratti; e per la sicurezza a quelle linee guida, norme tecniche, buone prassi la cui evoluzione e applicazione devono essere validate scientificamente.

All’origine di queste proposte sono le visioni di Marco Biagi, la sua diffidenza verso il formalismo giuridico, la sua intuizione sui cambiamenti dei lavori e sulla tutela sostanziale dell’apprendimento continuo. Esse provocheranno discussioni e forse anche le usuali invettive riservate a chi suggerisce riforme nel presupposto dell’antropologia positiva perché l’impresa non è fisiologicamente ritenuta il luogo dello “sfruttamento dell’uomo sull’uomo”. Farà discutere in particolare il radicale cambiamento ipotizzato per la prevenzione dei rischi nel lavoro.

Con i due colleghi che hanno condiviso firma e progettazione replicheremo pazientemente ai giudizi sommari e saremo aperti a recepire ogni critica costruttiva. Serenella Fucksia è medico del lavoro con esperienza. Hans Berger è albergatore in Alto Adige, già amministratore di quella Provincia autonoma ove si realizzano le migliori pratiche per quanto riguarda l’integrazione tra apprendimento teorico ed esperienza pratica. Non ci illudiamo che nell’attuale contesto politico e parlamentare sia possibile condurre ad approvazione questi DDL. Abbiamo però la volontà di concorrere con essi ad innovare la cultura regolatoria degli ultimi settanta anni con lo scopo di liberare la vitalità economica e di promuovere il lavoro di qualità.

Scarica il disegno di legge “Delega al governo per la definizione di un Testo Unico denominato Statuto dei Lavori”

Scarica il disegno di legge “Disposizioni per il miglioramento sostanziale della salute e sicurezza dei lavoratori”

PIL, gli sbagli del Governo

PIL, gli sbagli del Governo

di Massimo Blasoni – Metro

Preoccupa davvero che il ministro dell’Economia Padoan, nel replicare alle accuse di eccessivo ottimismo mossegli da Bankitalia (e non solo), abbia definito «ambizioso ma realizzabile» l’obiettivo di una crescita dell’1% del nostro Pil. Col risultato surreale di spacciare come un successo un eventuale “+ zero virgola qualcosa” quando tutti i nostri partner europei sono ormai da molto tempo ritornati ai livelli pre-crisi (con l’eccezione della Spagna, che pur senza un governo cresce comunque a una velocità tripla della nostra). A suscitare più di un interrogativo è poi la sostanziale inaffidabilità di questo tipo di previsioni: un dato che accomuna il governo Renzi a quelli che lo hanno preceduto.

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La sicurezza del Mef e gli errori (ripetuti) del passato

La sicurezza del Mef e gli errori (ripetuti) del passato

Il Tempo – di Massimo Blasoni

Nel replicare alle critiche mossegli in particolare da Bankitalia, il ministro dell’Economia Padoan ha difeso le previsioni di crescita messe nero su bianco nella nota di aggiornamento del Def, sostenendo che «le previsioni sul Pil non sono una scommessa». Sarà pure, ma la sua difesa imbarazzata non può certo appigliarsi sui numerosi precedenti in materia.

ImpresaLavoro ha preso in esame le previsioni di crescita del Pil (riferite all’anno successivo) contenute nei principali documenti di programmazione economica dei governi che si sono succeduti dal 2002 al 2016. Quindi le ha confrontate con i numeri effettivi della variazione del Prodotto interno lordo certificati dall’Ocse e con le previsioni per l’anno in corso contenute nella nota di aggiornamento del Def. Risultato? Quattordici errori su quindici, con 12 previsioni sbagliate per eccesso e soltanto due per difetto (2006 e 2010). Eccezion fatta per il 2007, anno in cui è stata centrata la previsione, la cruda realtà dei fatti si è insomma incaricata di smentire l’ottimismo di Palazzo Chigi e dintorni, non fondato ma utilissimo a rassicurare una preoccupata opinione pubblica.

Dal 2011 ad oggi, infatti, l’esecutivo italiano, in sede di predisposizione del Documento di Economia e Finanza ha sempre sbagliato le sue previsioni, sovrastimandole per cifre che vanno dallo 0,4% di quest’anno al 4,1% del 2012. Stupisce in particolar modo il fatto che, anche durante i periodi di crisi, nessun documento di programmazione economica abbia mai previsto una crescita negativa (che purtroppo, invece, si è verificata in 5 anni su 15).

Preoccupa che Padoan definisca «ambizioso» l’obiettivo della crescita del Pil all’1% ma ancor di più che da sei anni di fila, sistematicamente, sovrastimiamo il tasso di sviluppo della nostra economia. Su queste ipotesi si basano infatti le simulazioni di sostenibilità sia del nostro debito pubblico sia del nostro sistema previdenziale nel medio-lungo periodo. Se i governi non riescono a fare previsioni accurate per l’anno successivo, come possiamo pensare che ci riescano con orizzonti temporali più ampi?

Quanto è vasto il sommerso in Italia?

Quanto è vasto il sommerso in Italia?

La vastità dell’economia sommersa in Italia è un interrogativo che si pongono in molti, soprattutto da quando, diversi anni fa, uno studio Ocse stimò l’economia sommersa (e illegale) in Italia pari a circa un terzo del Prodotto interno lordo (Pil). Un contributo utile viene dal Dipartimento del Tesoro del Ministero dell’Economia e delle Finanze con il paper di Cecilia Morvillo “Evoluzione delle determinanti dell’economia sommersa: analisi panel di regioni italiane” (NT) No1/2016.

Il lavoro è volto ad analizzare empiricamente la relazione esistente tra l’economia sommersa e alcune variabili esplicative. A tal fine si dispone di dati panel riguardanti le 20 regioni italiane con 12 osservazioni annuali comprese tra il 2001 ed il 2012, per un totale di 240 osservazioni. Nel paper l’economia sommersa viene identificata con il tasso di irregolarità del lavoro, pubblicato dall’Istat e calcolato come la quota percentuale delle unità di lavoro irregolari sul totale delle unità di lavoro. Le variabili esplicative sono invece in parte dedotte da una rassegna di studi econometrici relativi all’economia sommersa, tra le quali la densità di popolazione e il tasso di industrializzazione, proprie della dimensione e della struttura economica regionale; il Pil pro capite e la partecipazione femminile al mercato del lavoro, quali variabili di controllo dell’economia sommersa; una proxy dell’intensità della regolamentazione in grado di fornire una fotografia del contesto istituzionale italiano. Dopo una breve descrizione dei dati, supportata da una rappresentazione cartografica a livello regionale delle variabili più rappresentative delle diverse condizioni economiche delle regioni italiane, l’analisi empirica si declina in una stima di quattro distinti modelli panel dai quali emergono risultati sui quali riflettere.

Prendendo spunto da molti studi esistenti sull’economia sommersa, il lavoro si incardina nel filone di approfondimenti con approccio modellistico. L’approccio econometrico ha riscosso negli ultimi anni molto successo in quanto è in grado di studiare l’economia sommersa attraverso le sue cause, non limitandosi solamente all’analisi degli aspetti puramente fiscali, ma individuando anche fattori di carattere sociale ed economico che in misura diversa influenzano il fenomeno. In accordo con l’ipotesi che il lavoro irregolare è “il principale fattore produttivo su cui si basa il funzionamento dell’economia sommersa”, la variabile in esame viene in questo contesto identificata con il tasso di irregolarità del lavoro.

Il presente studio è stato applicato dapprima su un campione di dati costituito da un panel bilanciato relativo alle 20 regioni d’Italia e composto da 6 variabili con 12 osservazioni annuali comprese tra il 2001 e il 2012, per un totale di 240 osservazioni. L’analisi è stato successivamente arricchita con ulteriori fattori sociodemografici ed economici. I modelli esaminati, oltre a confermare alcune relazioni già esistenti, hanno fatto emergere due risultati importanti. La relazione tra economia sommersa e intensità della regolamentazione non risulta positiva. Ciò dipende dalla modalità di costruzione dell’indicatore, dal campione di riferimento utilizzato e dalla tecnica di stima applicata. L’interpretazione economica della nuova relazione trovata è perfettamente intuibile considerando la specifica scelta dell’indicatore. E’ infatti agevole ritenere che nelle zone con una maggiore presenza di dipendenti pubblici il sommerso sia meno radicato e ciò a dimostrazione della positiva opera dei pubblici dipendenti di tutte le istituzioni centrali e periferiche. Infine la relazione tra l’economia sommersa e la densità di popolazione mostra un segno negativo, poiché laddove la maggior densità è legata ad una necessità lavorativa, tale variabile può essere correlata negativamente all’economia sommersa.

Consigli e dati per affrontare la rivoluzione del lavoro fuori dai vecchi schemi

Consigli e dati per affrontare la rivoluzione del lavoro fuori dai vecchi schemi

Il Foglio – di Massimo Blasoni

I risultati ottenuti nell’ultimo biennio in tema lavoro nel nostro Paese sono positivi? Non è semplice rispondere atteso il balletto mensile di cifre che ci viene proposto e che si presta a diverse e talvolta capziose letture. Oggettivamente il numero degli occupati è salito anche se bisogna dire che restiamo al di sotto del 2007, ultimo anno pre crisi. Va riconosciuto tuttavia che al di là del dato strettamente congiunturale alcune previsioni del Jobs Act, quali il superamento dell’articolo 18, sono significative e cambiano in parte il nostro modo di concepire il lavoro. Superare l’idea di job property è fondamentale per un Paese dove risulta ancora difficile premiare il merito, assumere e licenziare e le relazioni sindacali sono troppo rigide e complesse. Il World Economic Forum ci classifica 126esimi su 144 Paesi per efficienza del mercato del lavoro. Dunque che fare? Occorre innanzitutto comprendere le profonde evoluzioni che si profilano.

Punto numero uno: una volta i tempi del lavoro li dava sostanzialmente la catena di montaggio: la prestazione dei singoli operai era tutto sommato resa omogenea. Oggi non è così. In una società, improntata ai servizi più che alla manifattura, il fatto che l’operatore del call center ovvero l’assicuratore ci dedichino maggiore o minore attenzione e siano più o meno competenti sortisce effetti estremamente diversi. I nostri contratti di lavoro, troppo rigidi, considerano la quantità di tempo impiegata dal lavoratore e non il numero e l’efficienza delle prestazioni rese in quel medesimo tempo.

Secondo: per il nostro sindacato il tema delle garanzie resta prioritario, quasi totalizzante. Tuttavia per un enorme numero di disoccupati – soprattutto giovani – il dato dirimente è lavorare o non avere un lavoro. Questo non vuol dire che dobbiamo puntare a una flessibilità selvaggia ma serve a comprendere perché in tema di occupazione gli effetti della decontribuzione sulle nuove assunzioni non sono stati esaltanti. Insomma, l’impresa non assume (malgrado gli incentivi) se ritiene che i costi siano troppo alti e che gli impegni presi siano indeterminati nel tempo.

Terzo: secondo uno studio del Labour Department degli Stati Uniti il 65% dei bambini che oggi vanno alle elementari faranno in età adulta un lavoro che oggi nemmeno esiste. Aggiungiamo: il lavoro del futuro per molti non verrà svolto in ufficio, non solo perché esiste Skype, ma soprattutto perché la connettività superveloce garantisce una sorta di ubiquità. Le prestazioni diventano “on demand” ed è possibile lavorare da casa per committenti fisicamente lontani e senza il vincolo di un orario prefissato. Non solo: l’attuale rivoluzione tecnologica incrementa produzione e innovazione ma ha bisogno di meno posti di lavoro.

Uno studio del World Economic Forum sostiene che entro cinque anni cinque milioni di persone rischiano di essere sostituite da automazione e automi e per il centro studi di Ubs nei prossimi vent’anni la tecnologia soppianterà metà delle attuali professioni. Peraltro l’aver studiato non basterà. Questo perché chi frequenta oggi un qualsiasi corso di informatica sa da principio che sta incamerando informazioni che saranno già superate entro la fine del suo percorso di studi. Negli ultimi tre anni sono state introdotte decine di applicazioni per i nostri iPhone o tablet che certo gli studenti non hanno trovato sui libri di studio. Se si parla di qualcosa che nemmeno esiste si deve avere anche l’umiltà di ammettere che non basta una trasmissione di nozioni statica e in ogni caso incompleta. Occorre piuttosto formazione permanente e che l’apprendimento non sia più una fase circoscritta della vita. Infine siamo di nuovo a chiederci: siamo preparati a queste evoluzioni del mercato? Come detto, pare di no.

Il nostro Paese è agli ultimi posti per numero di laureati, ricerca e innovazione; la velocità media di un download in Italia è di 8 mega per secondo, contro i 29 del Regno Unito. Secondo l’indice Desi siamo 25esimi su 28 Paesi in Europa per capacità digitale. Uscire da questa situazione non è impossibile ma occorre promuovere ancor di più un cambio radicale nella mentalità di governo, impresa, e sindacato e potenti investimenti in conoscenza e innovazione. I giovani che se ne vanno all’estero nel 2005 erano 25mila, nel 2014 sfioravano i 52mila. Un’emorragia che non possiamo permetterci.

Pensioni, giovani dimenticati

Pensioni, giovani dimenticati

di Massimo Blasoni – Metro

L’intesa sulle pensioni siglata tra Governo e sindacati non fa che perpetuare una cattiva abitudine: occuparsi dei pensionati e dei pensionandi a breve termine, dimenticando giovani che una pensione rischiano di non averla mai. La riforma Dini e i suoi successivi aggiustamenti immaginano purtroppo un mercato del lavoro che non esiste più. Per moltissimi il contratto a tempo indeterminato e la regolarità contributiva sono infatti una chimera: oggi si inizia a lavorare tardi e la condizione di precariato costringe a rapporti interrotti e discontinui. Si spiega così il caso dei contributi silenti, quelli che in centinaia di migliaia hanno versato e versano all’INPS ma in misura insufficiente a garantire loro un assegno previdenziale. Tutti soldi che non saranno loro restituiti e che vengono tranquillamente inghiottiti nel disastrato bilancio dell’Istituto.

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Tagliate l’assegno a chi ha versato pochi contributi

Tagliate l’assegno a chi ha versato pochi contributi

Libero – di Massimo Blasoni

In questi giorni si fa un gran parlare dell’introduzione del meccanismo dell’Ape per consentire una costosa, anticipata riscossione dell’assegno previdenziale. E così discorrendo si continua a eludere la questione centrale di un sistema pensionistico iniquo che verrà fatto ricadere sulle spalle dei giovani, molti dei quali rischiano di non avere mai la pensione. Ammettiamolo una buona volta: non esistono pensioni troppo basse o troppo alte, magari da sforbiciare in ragione di un astratto principio di solidarietà. In realtà esistono pensioni giuste (perché proporzionate ai contributi versati) e pensioni ingiuste, perché calcolate con il sistema retributivo e in molti casi maturate da quanti – grazie a leggine compiacenti – hanno potuto andare in pensione in tenera età. Tutta gente che da tempo ha riavuto indietro l’intero monte contributivo versato e che per molti anni ancora continueremo a mantenere.

Da molti anni la spesa per pensioni rappresenta la voce più importante dell’intera spesa pubblica italiana: nel 2015 è stata di quasi 260 miliardi, pari al 31,5% dei complessivi 826 miliardi di euro. Nel tentativo di contenerne la crescita – dovuta all’invecchiamento della popolazione e al basso tasso di occupazione – le diverse riforme previdenziali hanno via via ridotto il tasso di copertura, attraverso il rapido innalzamento dell’età di accesso alla pensione. Si tratta di un sistema alla lunga sostenibile? A prendere per buone le ottimistiche previsioni del Mef, la spesa pensionistica su Pil potrà rimanere all’incirca al livello attuale, scendendo di 1,9 punti percentuali da qui al 2060. Queste stime sembrano però basarsi su assunti tutt’altro che solidi: perché possano avverarsi la produttività del nostro Paese – rimasta quasi ferma negli ultimi 20 anni – dovrebbe infatti tornare “miracolosamente” ai tassi di crescita degli anni Settanta e Ottanta. Non solo: il tasso di occupazione, da sempre a livelli molto bassi in Italia, dovrebbe allinearsi molto rapidamente agli standard europei. Diciamolo con chiarezza: occorrono misure coraggiose per la crescita, ma anche provvedimenti che correggano retroattivamente gli eccessi del passato, riducendo le pensioni dove la sproporzione tra i contributi versati e quanto si riceve è troppo alta. Altrimenti condanneremo le future generazioni a pensioni incerte e misere.