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Debiti Pa, Altieri (Cor): Governo incapace di far pagare imprese

Debiti Pa, Altieri (Cor): Governo incapace di far pagare imprese

“Le pubbliche amministrazioni impiegano, in media, 131 giorni per pagare i fornitori. Due anni fa Renzi aveva promesso che tutti i pagamenti sarebbero stati completati in pochi mesi. Erano le solite bugie. Come rivela il rapporto di ImpresaLavoro pubblicato oggi, i tempi di attesa per i pagamenti restano interminabili”. E’ quanto sottolinea in una nota il deputato di Conservatori e Riformisti, Nuccio Altieri. “A dicembre 2015 – aggiunge – i debiti dello Stato nei confronti delle imprese che erogano beni e servizi superavano i 61 miliardi di euro. A questa somma spropositata vanno aggiunti 5,4 miliardi di euro che rappresentato il costo per il ritardo dei pagamenti di questi debiti. Gia’ le nostre imprese devono subire la pressione asfissiante del fisco e della burocrazia. Pagarle con così tanto ritardo vuol dire assestare al nostro sistema produttivo un colpo mortale”. “Uno Stato incapace di pagare merci e servizi danneggia le imprese ma fa male all’intera economia del Paese perché sottrae risorse dovute che potrebbero essere utilizzate per investimenti e assunzioni. I ritardi e le bugie del governo Renzi stanno paralizzando il Paese”, conclude.

Debiti PA: lo stock ammonta ancora a 61,1 miliardi

Debiti PA: lo stock ammonta ancora a 61,1 miliardi

Nonostante i reiterati annunci del premier Matteo Renzi, in questi ultimi due anni la Pubblica amministrazione non ha ridotto i lunghissimi tempi di pagamento di beni e servizi, mantenendo sostanzialmente invariato lo stock di debito commerciale contratto nei confronti delle imprese fornitrici. Secondo la stima di ImpresaLavoro, su dati Intrum Justitia, lo scorso 31 dicembre questo ammontava infatti a circa 61,1 miliardi di euro (in leggero calo rispetto ai 67,1 miliardi del 2014).

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Questo dato non fa che confermare quanto denunciato a più riprese dal Centro studi ImpresaLavoro: i debiti commerciali si rigenerano con frequenza, dal momento che beni e servizi vengono forniti di continuo. Pertanto liquidare (e solo in parte) i debiti pregressi di per sé non riduce affatto lo stock complessivo: questo può avvenire soltanto nel caso in cui i nuovi debiti creatisi nel frattempo risultino inferiori a quelli oggetto di liquidazione.

Ne consegue altresì che il ritardo del Governo nel pagamento di questi debiti nel 2015 è costato alle imprese italiane la cifra di 5,4 miliardi (in leggero calo rispetto ai 6,1 miliardi del 2014). Questa stima è stata effettuata prendendo come riferimento l’ammontare complessivo dei debiti della nostra PA, l’andamento della spesa pubblica per l’acquisto di beni e servizi (così come certificato da Eurostat) e il costo medio del capitale (pari all’8,84% su base annua) che le imprese hanno dovuto sostenere per far fronte al relativo fabbisogno finanziario generato dai mancati pagamenti.

Il fenomeno dei ritardi di pagamento della nostra PA mantiene dimensioni che non hanno pari rispetto ai nostri principali partner europei. Per pagare i suoi fornitori lo Stato italiano impiega infatti in media 131 giorni: 16 giorni più della Grecia, 33 giorni più della Spagna, 55 giorni più del Portogallo, 73 giorni più della Francia, 91 giorni più dell’Irlanda, 101 giorni più del Regno Unito e addirittura 116 giorni più della Germania.

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La nemesi della libertà

La nemesi della libertà

Questa volta non trattiamo di un paper economico ma di un volume collettaneo (curato da Dean Reuter e John Yoo Liberty’s Nemesis: the Unchecked Expansion of the State pubblicato dall’editore Encounter. Sono ben 576 pagine e si può acquistare per $ 32,99. È un volume americano, che tratta di temi istituzionali ed economici tipici degli Stati Uniti, ma che si consiglia di leggere mentre ci si prepara al referendum elettorale, accoppiandolo, se possibile, ad un breve saggio di Walter Bagehot: Napoleone III. Lettere sul Colpo di Stato Francese del 1851, edito nel 1997 da Ideazione ma ancora acquistabile su internet per € 8.26.

I due libri riguardano rispettivamente la Francia delle metà dell’Ottocento e gli Usa di questi anni. Cosa hanno in comune con l’Italia e con i temi che possono interessare i lettori italiani? Ambedue illustrano come si passa da Repubblica, con garanzie repubblicane, a Monarchia. Le lettere di Bagehot lo descrivono tramite un osservatore straniero, corrispondente a Parigi, di un giornale britannico, prima di creare The Economist. I saggi raccolti da Dean Reuter e John Yoo sono lavori accademici di politologi, sociologi ed economisti sulla trasformazione strisciante del sistema istituzionale americano.

Così come il 3 giugno 1946, numerosi italiani si chiesero se, al referendum istituzionale, avesse vinto la Monarchia o la Repubblica. Nel 1787, una “delegata”, la Signora Powell pose una domanda analoga a Benjamin Franklin che rispose: La Repubblica… se riusciamo a mantenerla tale.

L’analisi, asettica, dei saggi nel volume prende l’avvio dalla Presidenza Wilson che, all’inizio del secolo scorso, iniziò a cambiare la Costituzione “sostanziale” repubblicana con una seria di autorità “indipendenti” (la Federal Reserve, la Federal Trade Commission, la US Tariff Commission e via discorrendo) che, nella realtà effettuale delle cose rispondevano alla Casa Bianca. Attenzione: il Presidente ebbe la complicità del Congresso, che in tal modo, si sgravava di compiti difficili e noiosi, nonché tali da scontentare parte dell’elettorato. La Corte Suprema ci mise del suo.

Ma, sottolineano i saggi raccolti nel volume, negli ultimi otto anni c’è stata un’accelerazione: dalla “amnistia” di Obama in materia di immigrazione clandestina all’espansione delle funzioni della Environment Protection Agency, e via discorrendo. In breve la combinazione di potere regolatorio senza limiti e di delegazione senza limiti è aggravata da una frattura tra l’Esecutivo ed il Congresso. L’analisi è dettagliata e richiede una conoscenza del sistema istituzionale americano per apprezzare il mutamento effettivo delle garanzie repubblicane negli Usa. “Se i conservatori – scrive Yoo nella conclusione – vogliono far fare marcia indietro ad un Esecutivo ed ad autorità indipendenti ormai autoreferenziali, devono cambiare fondamentale il loro approccio al diritto costituzionale ed all’Esecutivo […] l’America è benedetta da una magnifica Costituzione se riesce a riconquistarla”.   

La spesa per il consenso genera solo debiti crescenti

La spesa per il consenso genera solo debiti crescenti

Massimo Blasoni – Metro

Il rilievo della nostra spesa pubblica e il peso delle tasse, che fanno dello Stato «l’azionista di maggioranza» di ogni famiglia e impresa italiane, hanno posto al centro della nostra vita la politica. Quest’ultima ha speso per il consenso, senza però particolare costrutto. Quanti eletti preferirebbero un salutare taglio delle tasse alla possibilità di assegnare finanziamenti? Il primo è utile, ma non genera ricadute elettorali dirette. I secondi, invece, hanno nomi e cognomi: quelli di chi li assegna e di chi li riceve.

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Pil pro capite, regione per regione: la crisi ha aumentato il divario tra Nord e Sud

Pil pro capite, regione per regione: la crisi ha aumentato il divario tra Nord e Sud

Dal 2008 al 2014 (anno di cui sono disponibili i dati più recenti), il Pil pro capite degli italiani è sceso del 10,4%, passando da 28.194 a 25.257 euro (-2.937). Ma questo calo non si è distribuito in modo uniforme su tutto il territorio nazionale. È questa la conclusione a cui è arrivato il Centro studi ImpresaLavoro, analizzando i dati del Prodotto interno lordo per abitante (concatenati all’anno di riferimento 2010).

Nessuna Regione italiana è riuscita ancora a tornare sui livelli pre-crisi, ma in alcuni casi il calo del Pil è stato più sensibile. In fondo alla graduatoria ordinata per variazione percentuale negativa, troviamo Campania (-15,7%), Umbria (-15,2%), Liguria (-14,0%), Calabria (-13,2%) e Lazio (-12,8%). Ma restano al di sotto del dato nazionale anche Piemonte (-12,4%), Sicilia (-12,2%), Friuli-Venezia Giulia (-11,9%) e Marche (-11,3%). In termini assoluti, sono Lazio (-4.467 euro) e Liguria (-4.448 euro) le Regioni più in difficoltà.

Meno colpite, anche se sempre in territorio negativo, sono state invece Trentino Altro Adige (-3,5%), Valle d’Aosta (-4,1%), Toscana (-7,5%), Puglia (-8,0%) e Basilicata (-8,5%). Mentre hanno una performance superiore alla media nazionale anche Abruzzo (-8,8%), Molise (-9,1%), Veneto (-9,4%), Sardegna (-9,6%), Emilia-Romagna (-9,7%) e Lombardia (-9,9%).

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Questa distribuzione non uniforme del calo del Pil pro capite, ha cambiato la classifica regionale che descriveva la situazione pre-crisi. La Lombardia non è più in prima posizione ma è scivolata in terza, scavalcata da Valle d’Aosta e Trentino Alto Adige, che nel 2008 occupavano rispettivamente il secondo e il terzo gradino del podio. Perdono due posizioni anche Liguria e Campania (nel 2008, rispettivamente in sesta e diciassettesima posizione). Guadagnano invece posizioni la Toscana (da decima a settima) e la Puglia (da diciannovesima a diciassettesima). E fanno un piccolo passo avanti – oltre a Valle d’Aosta e Trentino Alto Adige – anche Emilia Romagna e Veneto, che nel 2014 si piazzano rispettivamente in quarta e sesta posizione. Resta ultima al ventesimo posto la Calabria, il cui Pil pro capite è sceso in termini assoluti (sempre concatenati all’anno 2010) di 2.326 euro.

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Sarà interessante vedere se la pur lieve ripresa dell’ultimo periodo porterà variazioni significative a questa graduatoria. Intanto è possibile notare come la crisi abbia aumentato il divario tra il Nord e il resto del Paese. Nel 2008 la media del Pil pro capite delle Regioni del Sud e del Centro era inferiore rispetto alla media delle Regioni del Nord rispettivamente del 40,3% e dell’11,3%. Nell’ultimo dato disponibile (2014) questa forbice si amplia arrivando al 41,2% e al 13,7%. Una tendenza confermata anche dal rapporto tra il Pil pro capite delle prime tre Regioni in classifica e quello delle ultime tre: se nel 2008 la media delle ultime tre Regioni (17.929 euro) rappresentava il 49% della media delle prime tre Regioni (36.506 euro), nel 2014 questa proporzione è scesa al 46% (15.806 contro 34.370 euro).

L’Italia e la legge di Okun

L’Italia e la legge di Okun

Chi ricorda ancora la Legge di Okun? Prende il nome dall’economista Arthur Melvin Okun (che la propose nel 1962). È una legge empirica che collega il tasso di crescita dell’economia tramite le variazioni nel tasso di disoccupazione. Secondo questa legge, se il tasso di crescita dell’economia cresce al di sopra del tasso di crescita potenziale, il tasso di disoccupazionediminuirà in misura meno che proporzionale. Ne consegue che le variazioni di produzione influiscono in modo meno che proporzionale sulla disoccupazione. Questo perché, a fronte di una crescita della domanda, le imprese preferiscono chiedere ai loro dipendenti di fare straordinari piuttosto che assumere nuova manodopera ed è possibile che parte dei nuovi assunti non fossero precedentemente previsti nella forza lavoro essendo classificati come lavoratori scoraggiati. Inoltre, data tale relazione, varrà che se la crescita è inferiore al tasso normale, la disoccupazione sarà maggiore di quella del periodo precedente.

La legge di Okun è stata associata a considerazioni di tipo Keynesiano, in quanto suggerisce che per poter raggiungere il tasso di disoccupazione considerato come obiettivo di politica economica è necessario che la crescita del PIL superi quella potenziale di una determinata misura. È una “legge” particolarmente pertinente all’Italia in questa fase in cui si analizzato le implicazioni del Jobs Act.

A fine aprile, poco prima della pubblicazione dei dati INPS che hanno fatti sorgere molti dubbi sulla efficienza e la efficacia di quello che sarebbe l’architrave delle riforme economiche strutturali del Governo, la rivista telematica di ricerca economica Empirica ha messo online un lavoro di Lucan Zanin di Prometeia (The Pyramid of Okun’s Coefficient for Italy) che ha stimato i parametri cruciali per verificare la Legge di Okun in Italia in modo disaggregato, ossia per età e genere.

I dati sul tasso di disoccupazione per età e genere non sono disponibili nelle statistiche ufficiali; quindi Zanin li ha stimati sulla base delle indagini Istat delle forze di lavoro per il periodo 2014. Vengono utilizzate due misure del tasso di disoccupazione: la misura tradizionale che include i lavoratori con o senza esperienza di lavoro. Quando la Legge di Okun è stimata utilizzando il tasso di disoccupazione ristretto a coloro con esperienza di lavoro, i lavoratori giovani risentono meno del ciclo economico. Man mano che la forza di lavoro invecchia, il divario di reattività al ciclo economico diminuisce, specialmente per il segmento della forza di lavoro con più di trent’anni. Infine l’analisi statistica individua che non ci sono differenze significative di genere.

Le conclusioni sono abbastanza evidenti: non sono i ritocchi alla normativa sul lavoro o gli incentivi a breve termine a ridurre la disoccupazione, specialmente quella dei giovani, ma una crescita economica vigorosa che riporti le imprese ad assumere.