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La nemesi della libertà

La nemesi della libertà

Questa volta non trattiamo di un paper economico ma di un volume collettaneo (curato da Dean Reuter e John Yoo Liberty’s Nemesis: the Unchecked Expansion of the State pubblicato dall’editore Encounter. Sono ben 576 pagine e si può acquistare per $ 32,99. È un volume americano, che tratta di temi istituzionali ed economici tipici degli Stati Uniti, ma che si consiglia di leggere mentre ci si prepara al referendum elettorale, accoppiandolo, se possibile, ad un breve saggio di Walter Bagehot: Napoleone III. Lettere sul Colpo di Stato Francese del 1851, edito nel 1997 da Ideazione ma ancora acquistabile su internet per € 8.26.

I due libri riguardano rispettivamente la Francia delle metà dell’Ottocento e gli Usa di questi anni. Cosa hanno in comune con l’Italia e con i temi che possono interessare i lettori italiani? Ambedue illustrano come si passa da Repubblica, con garanzie repubblicane, a Monarchia. Le lettere di Bagehot lo descrivono tramite un osservatore straniero, corrispondente a Parigi, di un giornale britannico, prima di creare The Economist. I saggi raccolti da Dean Reuter e John Yoo sono lavori accademici di politologi, sociologi ed economisti sulla trasformazione strisciante del sistema istituzionale americano.

Così come il 3 giugno 1946, numerosi italiani si chiesero se, al referendum istituzionale, avesse vinto la Monarchia o la Repubblica. Nel 1787, una “delegata”, la Signora Powell pose una domanda analoga a Benjamin Franklin che rispose: La Repubblica… se riusciamo a mantenerla tale.

L’analisi, asettica, dei saggi nel volume prende l’avvio dalla Presidenza Wilson che, all’inizio del secolo scorso, iniziò a cambiare la Costituzione “sostanziale” repubblicana con una seria di autorità “indipendenti” (la Federal Reserve, la Federal Trade Commission, la US Tariff Commission e via discorrendo) che, nella realtà effettuale delle cose rispondevano alla Casa Bianca. Attenzione: il Presidente ebbe la complicità del Congresso, che in tal modo, si sgravava di compiti difficili e noiosi, nonché tali da scontentare parte dell’elettorato. La Corte Suprema ci mise del suo.

Ma, sottolineano i saggi raccolti nel volume, negli ultimi otto anni c’è stata un’accelerazione: dalla “amnistia” di Obama in materia di immigrazione clandestina all’espansione delle funzioni della Environment Protection Agency, e via discorrendo. In breve la combinazione di potere regolatorio senza limiti e di delegazione senza limiti è aggravata da una frattura tra l’Esecutivo ed il Congresso. L’analisi è dettagliata e richiede una conoscenza del sistema istituzionale americano per apprezzare il mutamento effettivo delle garanzie repubblicane negli Usa. “Se i conservatori – scrive Yoo nella conclusione – vogliono far fare marcia indietro ad un Esecutivo ed ad autorità indipendenti ormai autoreferenziali, devono cambiare fondamentale il loro approccio al diritto costituzionale ed all’Esecutivo […] l’America è benedetta da una magnifica Costituzione se riesce a riconquistarla”.   

La spesa per il consenso genera solo debiti crescenti

La spesa per il consenso genera solo debiti crescenti

Massimo Blasoni – Metro

Il rilievo della nostra spesa pubblica e il peso delle tasse, che fanno dello Stato «l’azionista di maggioranza» di ogni famiglia e impresa italiane, hanno posto al centro della nostra vita la politica. Quest’ultima ha speso per il consenso, senza però particolare costrutto. Quanti eletti preferirebbero un salutare taglio delle tasse alla possibilità di assegnare finanziamenti? Il primo è utile, ma non genera ricadute elettorali dirette. I secondi, invece, hanno nomi e cognomi: quelli di chi li assegna e di chi li riceve.

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Pil pro capite, regione per regione: la crisi ha aumentato il divario tra Nord e Sud

Pil pro capite, regione per regione: la crisi ha aumentato il divario tra Nord e Sud

Dal 2008 al 2014 (anno di cui sono disponibili i dati più recenti), il Pil pro capite degli italiani è sceso del 10,4%, passando da 28.194 a 25.257 euro (-2.937). Ma questo calo non si è distribuito in modo uniforme su tutto il territorio nazionale. È questa la conclusione a cui è arrivato il Centro studi ImpresaLavoro, analizzando i dati del Prodotto interno lordo per abitante (concatenati all’anno di riferimento 2010).

Nessuna Regione italiana è riuscita ancora a tornare sui livelli pre-crisi, ma in alcuni casi il calo del Pil è stato più sensibile. In fondo alla graduatoria ordinata per variazione percentuale negativa, troviamo Campania (-15,7%), Umbria (-15,2%), Liguria (-14,0%), Calabria (-13,2%) e Lazio (-12,8%). Ma restano al di sotto del dato nazionale anche Piemonte (-12,4%), Sicilia (-12,2%), Friuli-Venezia Giulia (-11,9%) e Marche (-11,3%). In termini assoluti, sono Lazio (-4.467 euro) e Liguria (-4.448 euro) le Regioni più in difficoltà.

Meno colpite, anche se sempre in territorio negativo, sono state invece Trentino Altro Adige (-3,5%), Valle d’Aosta (-4,1%), Toscana (-7,5%), Puglia (-8,0%) e Basilicata (-8,5%). Mentre hanno una performance superiore alla media nazionale anche Abruzzo (-8,8%), Molise (-9,1%), Veneto (-9,4%), Sardegna (-9,6%), Emilia-Romagna (-9,7%) e Lombardia (-9,9%).

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Questa distribuzione non uniforme del calo del Pil pro capite, ha cambiato la classifica regionale che descriveva la situazione pre-crisi. La Lombardia non è più in prima posizione ma è scivolata in terza, scavalcata da Valle d’Aosta e Trentino Alto Adige, che nel 2008 occupavano rispettivamente il secondo e il terzo gradino del podio. Perdono due posizioni anche Liguria e Campania (nel 2008, rispettivamente in sesta e diciassettesima posizione). Guadagnano invece posizioni la Toscana (da decima a settima) e la Puglia (da diciannovesima a diciassettesima). E fanno un piccolo passo avanti – oltre a Valle d’Aosta e Trentino Alto Adige – anche Emilia Romagna e Veneto, che nel 2014 si piazzano rispettivamente in quarta e sesta posizione. Resta ultima al ventesimo posto la Calabria, il cui Pil pro capite è sceso in termini assoluti (sempre concatenati all’anno 2010) di 2.326 euro.

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Sarà interessante vedere se la pur lieve ripresa dell’ultimo periodo porterà variazioni significative a questa graduatoria. Intanto è possibile notare come la crisi abbia aumentato il divario tra il Nord e il resto del Paese. Nel 2008 la media del Pil pro capite delle Regioni del Sud e del Centro era inferiore rispetto alla media delle Regioni del Nord rispettivamente del 40,3% e dell’11,3%. Nell’ultimo dato disponibile (2014) questa forbice si amplia arrivando al 41,2% e al 13,7%. Una tendenza confermata anche dal rapporto tra il Pil pro capite delle prime tre Regioni in classifica e quello delle ultime tre: se nel 2008 la media delle ultime tre Regioni (17.929 euro) rappresentava il 49% della media delle prime tre Regioni (36.506 euro), nel 2014 questa proporzione è scesa al 46% (15.806 contro 34.370 euro).

L’Italia e la legge di Okun

L’Italia e la legge di Okun

Chi ricorda ancora la Legge di Okun? Prende il nome dall’economista Arthur Melvin Okun (che la propose nel 1962). È una legge empirica che collega il tasso di crescita dell’economia tramite le variazioni nel tasso di disoccupazione. Secondo questa legge, se il tasso di crescita dell’economia cresce al di sopra del tasso di crescita potenziale, il tasso di disoccupazionediminuirà in misura meno che proporzionale. Ne consegue che le variazioni di produzione influiscono in modo meno che proporzionale sulla disoccupazione. Questo perché, a fronte di una crescita della domanda, le imprese preferiscono chiedere ai loro dipendenti di fare straordinari piuttosto che assumere nuova manodopera ed è possibile che parte dei nuovi assunti non fossero precedentemente previsti nella forza lavoro essendo classificati come lavoratori scoraggiati. Inoltre, data tale relazione, varrà che se la crescita è inferiore al tasso normale, la disoccupazione sarà maggiore di quella del periodo precedente.

La legge di Okun è stata associata a considerazioni di tipo Keynesiano, in quanto suggerisce che per poter raggiungere il tasso di disoccupazione considerato come obiettivo di politica economica è necessario che la crescita del PIL superi quella potenziale di una determinata misura. È una “legge” particolarmente pertinente all’Italia in questa fase in cui si analizzato le implicazioni del Jobs Act.

A fine aprile, poco prima della pubblicazione dei dati INPS che hanno fatti sorgere molti dubbi sulla efficienza e la efficacia di quello che sarebbe l’architrave delle riforme economiche strutturali del Governo, la rivista telematica di ricerca economica Empirica ha messo online un lavoro di Lucan Zanin di Prometeia (The Pyramid of Okun’s Coefficient for Italy) che ha stimato i parametri cruciali per verificare la Legge di Okun in Italia in modo disaggregato, ossia per età e genere.

I dati sul tasso di disoccupazione per età e genere non sono disponibili nelle statistiche ufficiali; quindi Zanin li ha stimati sulla base delle indagini Istat delle forze di lavoro per il periodo 2014. Vengono utilizzate due misure del tasso di disoccupazione: la misura tradizionale che include i lavoratori con o senza esperienza di lavoro. Quando la Legge di Okun è stimata utilizzando il tasso di disoccupazione ristretto a coloro con esperienza di lavoro, i lavoratori giovani risentono meno del ciclo economico. Man mano che la forza di lavoro invecchia, il divario di reattività al ciclo economico diminuisce, specialmente per il segmento della forza di lavoro con più di trent’anni. Infine l’analisi statistica individua che non ci sono differenze significative di genere.

Le conclusioni sono abbastanza evidenti: non sono i ritocchi alla normativa sul lavoro o gli incentivi a breve termine a ridurre la disoccupazione, specialmente quella dei giovani, ma una crescita economica vigorosa che riporti le imprese ad assumere.

Risparmiatori tremate!

Risparmiatori tremate!

Risparmiatori tremate: lo Stato non esita a colpirvi in silenzio e di nascosto. Nel 2015 il gettito derivante dalle imposte sulle rendite finanziarie ha infatti raggiunto quota 15,1 miliardi. Una cifra in crescita rispetto ai 14,9 miliardi del 2014 ma più bassa rispetto ai 15,9 previsti all’inizio dell’anno. Un lieve calo del gettito dipeso unicamente dalla brusca riduzione dei rendimenti degli strumenti finanziari più diffusi: lo scorso anno i tassi sui depositi bancari e postali sono scesi fino allo 0,50% medio, il rendimento delle obbligazioni bancarie al 3,04% e i titoli di Stato all’1,19%.

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Aggredire la spesa pubblica si può. Il saggio di Pennisi e Maiolo

Aggredire la spesa pubblica si può. Il saggio di Pennisi e Maiolo

di Daniele Capezzone – Giuditta’s Files

Tutto come previsto. Dopo il sostanziale via libera da parte della Commissione Ue sui conti dell’Italia (sia pure con doppia riserva: sul deficit e sul debito), il Governo si è lasciato andare a un trionfalismo francamente fuori luogo. Primo: perché i 14 miliardi di margine concessi andranno pari pari a disinnescare le clausole di salvaguardia (aumenti Iva) che altrimenti scatterebbero alla fine di quest’anno (quindi, per tagliare un euro di tasse, non si potrà contare su quel margine, ma occorrerà tagliare davvero un po’ di spesa). Secondo: perché, come ripeto da tempo, l’Italia si sta contendendo un’umiliante “maglia nera” della crescita europea con Grecia e Finlandia. E non mi sembra un motivo per caroselli e festeggiamenti: non dispiaccia al nocciolo etrusco che guida l’Esecutivo.

Comunque, a questo punto,almeno per 48-72 ore il reality-tv show della politica italiana fingerà di occuparsi del taglio della spesa pubblica: il Governo, per dire che sta già facendo una serissima spending review (il che, purtroppo, non è vero, avendo Renzi-Padoan respinto nelle ultime due leggi di stabilità emendamenti per un simultaneo taglio di spesa e tasse di 48 miliardi); le forze di opposizione, per dire in modo stentoreo ciò che andrebbe realizzato, ma dimenticando di non averlo fatto negli anni in cui erano in maggioranza.

Logomachie (e batracomiomachie…) a parte, per chi invece fosse davvero interessato al tema e alle soluzioni (non alle slides e agli alibi), una lettura obbligata è il recente bel saggio (per la Biblioteca del Centro Studi Impresa Lavoro) curato da Giuseppe Pennisi con Stefano Maiolo, dal titolo La buona spesa – Dalle opere pubbliche alla spending review. Guida operativa . Giuseppe Pennisi non ha davvero bisogno di presentazioni: dalla Banca Mondiale alle sue docenze italiane, dalla sua attività di saggista agli interventi sulla carta stampata, da decenni offre soluzioni concrete ispirate a limpidi principi liberali e pro-mercato.

Stavolta, insieme a Maiolo, Pennisi ha scelto di realizzare una vera e propria guida operativa, che ha come interlocutori ideali i dirigenti delle amministrazioni dello Stato, delle Regioni, degli altri enti locali, indicando in dettaglio metodi e tecniche per la valutazione della spesa e delle opere pubbliche. Dall’analisi dei costi e dei benefici (imposta nel 1981 da Reagan a tutti i settori del governo e a tutte le agenzie pubbliche, prima di varare qualunque intervento di spesa) alla valutazione degli impatti, dall’analisi del rischio in fasi di incertezza in contesti dinamici al valore della comunicazione (quindi, la procedura di valutazione come un approccio sistematico di informazione e di decisione informata), il volume di Pennisi e Maiolo è davvero uno strumento di lavoro, per chi questo lavoro voglia intraprenderlo sul serio…

Badate. Non si tratta di un’opera per “ragionieri”, per aridi contabili, o per freddi tagliatori di spesa sociale. C’è, al fondo, un punto di assoluto rilievo umano, e – vorrei dire- di profonda etica della responsabilità. Pennisi sottolinea che troppe volte, nelle decisioni politiche di spesa, si privilegiano gli interessi delle generazioni correnti (legittimi, per carità) rispetto a quelli delle generazioni future. Il piccolo “dettaglio” è che le generazioni future, per evidenti ragioni, sono senza voce, perché – oggi – non votano, non scioperano, non vanno nei talk show. C’è qualcuno disponibile a una battaglia politica in nome di chi oggi non ha diritto di parola? Pennisi e Maiolo citano un’eloquente (e direi terrificante) analisi di uno dei maggiori specialisti Usa di finanza pubblica, Alan Auerbach: per conservare intatto l’attuale livello di stato sociale italiano (quindi: ammortizzatori, sanità, pensioni, ecc), la prossima generazione dovrebbe pagare, nella propria vita, tasse e imposte pari a cinque volte quelle pagate dalla generazione oggi anziana. Ogni commento è superfluo.