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Nicolò (FI): “La ‘ripresina’ di Renzi è affetta da rachitismo cronico”

Nicolò (FI): “La ‘ripresina’ di Renzi è affetta da rachitismo cronico”

“La ‘ripresina’ tanto propagandata dal Governo Renzi è affetta da rachitismo cronico e a nulla, finora, sono serviti i tentativi di rilancio dell’economia nonostante le continue iniezioni di danaro deliberate dalla Bce”. Lo afferma in una nota il capogruppo di Forza Italia a Palazzo Campanella, Alessandro Nicolò.

“I dati del centro studi ‘Impresa-Lavoro’, elaborati con riferimento ai riscontri Istat – prosegue Nicolò – delineano un profilo invero inquietante per la Calabria. Nel periodo considerato, ovvero il 2014 ed il 2015, Catanzaro, Reggio Calabria, Crotone e Vibo Valentia, insieme, marcano un saldo negativo di posti di lavoro di quasi 19 mila unità! Un risultato – continua Alessandro Nicolò – che segna irreversibilmente il fallimento delle politiche di sviluppo del Governo Renzi e di questa Giunta regionale. Si tratta di una chiara certificazione di stato di coma dell’apparato produttivo calabrese, peraltro, seriamente indebolito dal calo delle esportazioni dovuto anche ai provvedimenti di embargo contro la Russia. Le ‘pezzuole’ congiunturali varati dalla Giunta Oliverio non riescono quindi a chiudere le ampie toppe risultanti dall’inclemenza di un dato che origina dall’assenza di provvedimenti speciali, di masterplan annunciati e di cui non si vede ombra, del Governo e dei suoi supporter calabresi. Simile al maglio di una gigantesca catena – prosegue il capogruppo di Forza Italia in Consiglio regionale – la crisi occupazionale nelle province calabresi si abbatte non solo sulle imprese che chiudono, ma sulle famiglie, sui giovani che scappano via, impoverendo ulteriormente il nostro territorio. Governo e Giunta regionale, quindi, devono necessariamente trovare un momento di confronto per mettere in campo le necessarie iniziative orientate a salvare quel che ancora rimane del tessuto produttivo calabrese, magari preconizzando interventi speciali, per frenare quel che appare come una vera e irreversibile tragedia, con aziende falcidiate e dipendenti licenziati”.

“E invece – asserisce Alessandro Nicolò – continuiamo a rimanere appesi alle decisioni dei vertici del Pd calabrese, alle croniche ‘notti dei lunghi coltelli’ dei vari colonnelli renziani, senza che un solo posto di lavoro sia, addirittura, salvato! “Il Consiglio regionale, alla luce di tali risultanze, deve ritornare ad essere il motore di ogni strategia di sviluppo. Abbiamo appena concluso un approfondito dibattito sulla sanità ed espresso liberamente le nostre opinioni, una iniziativa senza dubbio positiva. Adesso, con maggiore preoccupazione e senso di responsabilità, dobbiamo porre al Governo tutta la partita delle infrastrutture e dei tempi tecnici per realizzarle”.

“Le dorsali tirreniche ed adriatiche si stanno adeguatamente attrezzando per l’alta capacità e l’alta velocità di merci e persone; da Salerno e da Taranto si impiega quasi lo stesso tempo per raggiungere i confini del Paese, e Genova e Trieste si ripropongono come le arterie più di punta per il trasferimento da e per il nordeuropea delle merci. Il Governo ci dica allora cosa se ne vuol fare del porto di Gioia Tauro, di questa immensa infrastruttura a cui lentamente, ma progressivamente, vengono erosi volumi di traffico! La Calabria, e meno che mai la provincia di Reggio, possono sopportare ulteriori perdite di posti di lavoro! Governo e Regione parlino chiaro, dicano ai calabresi come immaginano il futuro di questa regione; ci spieghino cosa si intende fare con i fondi dell’Agenda 2014/2020. Non chiediamo altro se non portare il nostro contributo di programma e di proposte in Consiglio regionale, che rimane l’unico riferimento istituzionale per tutto il popolo calabrese. Ecco perché Forza Italia chiede, senza indugiare una seduta dell’Assemblea sulle politiche di sviluppo e sul lavoro. Lì verificheremo le reali volontà di Renzi e del centrosinistra per il rilancio della Calabria”.

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Confimprenditori: venti anni per ritornare ai livelli pre-crisi

Confimprenditori: venti anni per ritornare ai livelli pre-crisi

I dati che emergono dalla ricerca effettuata dal Centro Studi ImpresaLavoro certificano di come sia lenta la ripresa in Italia. Nel nostro paese, dal 2014 al 2015, il numero degli occupati è passato da 22.278.917 a 22.464.753, con una crescita di 185.836 unità in valore assoluto e dello 0,83% in termini percentuali. Questo leggero aumento dell’occupazione, però, non si è distribuito in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale,  tra le 110 province del nostro Paese solo  67 hanno visto salire il numero degli occupati nel 2015, mentre addirittura in 43 hanno conosciuto un arretramento rispetto ai livelli occupazionali del 2014.

Andando avanti così occorrono venti anni per tornare ai livelli pre-crisi  Tra il 2008 e metà 2014, in Italia  infatti sono stati persi 1,2 milioni di posti di lavoro. Solo la Spagna ha fatto peggio, bruciando 3,4 milioni di posti di lavoro. Dopo l’Italia, la Grecia che ha perso un milione di posti di lavoro su una popolazione complessiva, però, molto più piccola. Nello stesso periodo al contrario  in Germania i posti di lavoro sono aumentati di 1,8 milioni e nel Regno Unito di novecentomila.

La morsa del fisco che penalizza le pensioni dei giovani

La morsa del fisco che penalizza le pensioni dei giovani

Andrea Giacobino – Avvenire

Si aprirà il prossimo 5 aprile a Milano il “Salone del risparmio”, un’importante manifestazione organizzata da Assogestioni, che raggruppa per tre giorni nello spazio fieristico del Mico tutti i principali attori del mondo degli investimenti, a cominciare dai fondi comuni. Il “Salone” è diventato in questi anni un vero e proprio punto di riferimento anche per gli interlocutori della politica e così non stupisce che il ministro dell’economia Pier Carlo Padoan sia ospite della conferenza inaugurale intitolata «Risparmio al centro. Demografia, liquidità, sviluppo» mentre il viceministro Enrico Zanetti tirerà le fila di un dibattito sul futuro della previdenza. L’hashtag scelto per simboleggiare lo spirito del Salone è #risparmioalcentro. Ma c’è da chiedersi se davvero il risparmio degli italiani sia al centro delle scelte della politica.

Dal 2011 allo scorso anno le tasse sul risparmio hanno registrato un incremento progressivo del 130%, pari a 9 miliardi di euro. A tanto, infatti, ammonta l’aumento del prelievo complessivo dello Stato sulle attività finanziarie, passato da 6,9 miliardi nel 2011 ai 15,9 del 2015, stando a una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro basata su dati e indici Banca d’Italia, Abi, Mef e Fideuram. Tale cifra si deve per 4,7 miliardi all’aumento delle aliquote sui rendimenti, per 4 miliardi all’introduzione dell’imposta di bollo proporzionale e per solo 0,3 miliardi alla Tobin Tax.

Lo studio rileva come, secondo i più recenti dati di Bankitalia, il totale delle attività finanziarie detenute dalle famiglie supera i 3.800 miliardi di euro. Su questa massa di attivi si è registrato, a partire dalla fine del 2011, un «progressivo e repentino inasprimento fiscale». Questo incremento nella tassazione del risparmio appare vertiginoso anche in considerazione del drastico calo della redditività dei titoli di Stato e dei depositi bancari. A inasprire la situazione dall’inizio del 2015 è entrato in vigore un “giro di vite fiscale” anche sulla rivalutazione di fondi pensione, casse previdenziali, e Tfr. Lo studio mostra che l’incremento delle aliquote sui fondi pensione al 20% ridurrà il montante contributivo atteso dei giovani lavoratori di una percentuale compresa tra il 5% e l’8,6%.

In tale contesto il futuro della previdenza italiana è tutto in salita. E bene fa il Salone a mettere al centro dell’attenzione i Pepp, acronimo scelto dalla Commissione Europea per i Pan european personal pensions, piani di pensione individuali pan-europei che dovrebbero introdurre nei paesi dell’Unione quel “terzo pilastro” previdenziale volto a coprire il gap che ancora caratterizza molte nazioni. Ma a questi prodotti, per decollare davvero, serviranno benefici fiscali: e anche questo tocca è responsabilità della politica.

Confcommercio: la ripresa resta debole

Confcommercio: la ripresa resta debole

Il peggioramento rilevato a febbraio sul versante dell’occupazione (-97mila rispetto a gennaio) e della disoccupazione (+7mila) è l’ennesima conferma della debolezza della ripresa. Il confronto su base annua indica un miglioramento della situazione del mercato del lavoro (+96 mila occupati, -136mila disoccupati), ma i ritmi registrati dall’occupazione a partire dallo scorso mese di settembre non consentono facili ottimismi.Saranno molto lunghi i tempi di recupero degli occupati persi durante la crisi, ad oggi ancora oltre le 700mila unità rispetto al massimo di aprile 2008. Infine, occorre ricordare che i dati mensili sono provvisori e soggetti a forti revisioni che, talvolta, modificano radicalmente verso e intensità della variazione degli occupati osservata in un primo tempo.

Cna: in micro e piccole imprese continua crescita degli occupati

Cna: in micro e piccole imprese continua crescita degli occupati

L’Istat rileva che a febbraio il tasso di disoccupazione è tornato a crescere rispetto al mese precedente. Ma su base annua, quindi in un arco di tempo più ampio e attendibile, gli occupati sono saliti dello 0,4 per cento, mentre sono diminuiti dello 0,7 per cento gli inattivi e del 4,4 per cento i disoccupati. È verosimile che a determinare questa inversione di tendenza rispetto agli anni in cui la crisi ha picchiato più duro siano state le micro e le piccole imprese (Mpi). Lo testimoniano i dati dell’osservatorio mercato del lavoro Cna, che monitora l’occupazione in un campione di 20.500 Mpi con 125mila dipendenti.

Lo scorso febbraio  gli addetti delle Mpi sono aumentati dello 0,4 per cento rispetto a gennaio e del 2,5 per cento su febbraio 2015, l’aumento mensile più elevato degli ultimi quindici mesi. Sono numeri che dimostrano inequivocabilmente, ancora una volta, la centralità e la vivacità delle Mpi nel sistema produttivo italiano e la loro capacità di cogliere al volo anche i più timidi accenni di ripresa.

Occupazione: 72 province italiane ancora sotto i livelli pre-crisi. Nel 2015 perdono posti di lavoro Verona, Padova, Monza e Firenze

Occupazione: 72 province italiane ancora sotto i livelli pre-crisi. Nel 2015 perdono posti di lavoro Verona, Padova, Monza e Firenze

In Italia, dal 2014 al 2015, il numero degli occupati è passato da 22.278.917 a 22.464.753, con una crescità di 185.836 unità in valore assoluto e dello 0,83% in termini percentuali. Questo leggero aumento dell’occupazione, però, non si è distribuito in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale. Secondo un’analisi del Centro Studi “ImpresaLavoro”, su dati Istat, tra le 110 province del nostro Paese 67 hanno visto salire il numero degli occupati nel 2015, mentre 43 hanno conosciuto un arretramento rispetto ai livelli occupazionali del 2014.

In cima alla graduatoria delle province con il migliore saldo positivo, si segnalano Milano (+28.167) e Torino (+16.846), che sono due tra le cinque province del Nord nelle prime 15 posizioni, insieme a Bergamo (+9.828), Vicenza (+9.230) e Genova (+9.039), rispettivamente al sesto, nono posto e decimo posto. Ben rappresentato anche il Mezzogiorno d’Italia, con Cosenza (+11.783) e Trapani (+10.533) in terza e quarta posizione, davanti a Bari (+9.753), Palermo (+9.542), Salerno (+8.590) e Sassari (+8.231), rispettivamente al settimo, ottavo, dodicesimo e tredicesimo posto. La provincia del Centro con l’aumento dell’occupazione più marcato dal 2014 al 2015 è Lucca (+9.882) in quinta posizione, davanti a Frosinone (+8.639), Pistoia (8.226) e Perugia (+7.950), rispettivamente all’undicesimo, quattordicesimo e quindicesimo posto della classifica. Fuori dalle prime quindici posizioni, ma comunque con un saldo occupazionale positivo, tra le province maggiori segnaliamo Venezia (+7.909), Cagliari (7.446), Napoli (7.349), Lecce (+6.698), Roma (+4.538) e Catania (+3.602).

In fondo alla graduatoria, invece, spiccano due province del Nord-Est con saldo fortemente negativo – Verona (-15.221) e Padova (-11.589) – appena davanti a Monza e della Brianza (-11.289). Male, al Nord, anche Varese (-6.057), Brescia (-4.260), Udine (-3.714), Mantova (-2.030), Treviso (-1.909) e Rovigo (-1.705). La performance peggiore al Sud è quella di Catanzaro (-8.683), ma arretrano sensibilmente rispetto al 2014 anche Reggio Calabria (-4.956), Agrigento (-3.541), Caserta (-3.447), Barletta-Andria-Trani (-3.289), Vibo Valentia (-3.006), Crotone (-2.512) e Avellino (-2.466). Al Centro, infine, la graduatoria è chiusa da Firenze (-9.325), che fa peggio di Pescara (-6.091), Latina (-4.878), Pesaro e Urbino (-4.332), Parma (-3.534) e Bologna (-1.438).

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Il Centro Studi “ImpresaLavoro” ha anche analizzato il saldo occupazionale dal 2007 al 2015 per effettuare una comparazione con i livelli pre-crisi. In questo caso i numeri di alcune province, create dopo il 2007, sono stati aggregati per rendere i dati omogenei (Barletta-Andria-Trani con Bari e Foggia; Fermo con Ascoli Piceno; Milano con Monza e Brianza; tutte le province della Sardegna).

Rispetto alla situazione pre-crisi, su 99 casi esaminati (il numero non corrisponde alle 110 province italiane proprio per l’aggregazione di cui sopra) solo 27 sono tornati sopra al livello occupazionale del 2007. Negli altri 72 casi, invece, il dato del 2015 è ancora inferiore – a volte in modo sensibile – rispetto a quello del 2007.

La performance migliore è quella della provincia di Roma, con un saldo positivo di 163.100 unità, molto davanti a Milano con Monza e Brianza (+31.207), Firenze (+17.326), Bolzano (16.744) e Viterbo (+13.302). Bene, al Nord, anche Pavia (+13.142), Trento (+10.696), Lodi (+4.928), Alessandria (+3.956) e Verona (+2.217). Al Centro emergono i risultati di Rimini (+11.475), Pisa (+8.568), Forlì-Cesena (+7.564), Livorno (+6.474) e Bologna (+5.069). Mentre tra le province del Sud l’unica ad avere un saldo leggermente positivo rispetto al 2007 è Brindisi (+591).

Nel Mezzogiorno d’Italia, al contrario, abbondano le province con un saldo occupazionale negativo rispetto agli anni pre-crisi. Particolarmente significativi i dati di Napoli (-65.460), Barletta-Andria-Trani più Bari e Foggia (-62.186), Palermo (-41.012) , Cosenza (-29.239) e Messina (-28.455). È molto negativa anche la performance delle province sarde che, aggregate, perdono 40.862 posti di lavoro rispetto al 2007. Al Nord, le province con il peggiore saldo occupazionale sono Torino (-23.356), Padova (-21.305), Varese (-17.344) e Udine (-15.385). Mentre al Centro spiccano, in senso negativo, Pesaro e Urbino (-17.369), Ferrara (-14.767) e Modena (-9.598).

La crisi, insomma, sembra aver ulteriormente ampliato il divario tra le aree economicamente più avanzate del Paese e quelle – soprattutto al Sud –che invece sembrano ancora stentare nel riprendersi dalla crisi economica cominciata ormai otto anni fa.

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Le pensioni lunghe non fanno bene alla salute

Le pensioni lunghe non fanno bene alla salute

di Giuseppe Pennisi

Il libro “A vent’anni da un’occasione mancata?” di Fabrizio e Stefano Patriarca (rispettivamente un figlio e un padre che coltivano il medesimo interesse per le problematiche del lavoro e del welfare) rivela un enorme incremento delle pensioni di anzianità caratterizzate da età di pensionamento attorno ai 57-58 anni per gli anni 2000-2010 (favorite, peraltro, anche dalla liberalizzazione del cumulo tra pensione e reddito) ossia prima che terminasse il periodo di transizione della riforma del 1995. Ne derivano diverse conseguenze: in Italia il tasso di occupazione della popolazione in età compresa tra i 55 e i 64 anni è il più basso di tutti i Paesi considerati e si situa al di sotto sia della media europea che di quella dell’Eurozona; la permanenza media sul mercato del lavoro è ben di cinque anni inferiore alla media europea, di sette anni più bassa di quella della Germania e del Regno Unito e di quasi 10 anni rispetto a quella olandese.

Queste conseguenze non fanno certamente bene alla finanza pubblica. Fanno bene alla salute di chi va in pensione relativamente giovane? Gabriem Heller Sahalgren della London School of Economics ha appena posto on line un paper (Retirement Blues) in cui vengono analizzati gli effetti sulla salute (in particolare quella mentale) in dieci Paesi europei. Lo studio utilizza sia le “età ufficiali” del pensionamento sia il comportamento degli individui rispetto alla possibilità di anticipare l’andare in quiescenza. I risultati mostrano che nel breve termini gli esiti non sono significativi. Nel lungo termine, però, la decisione di lasciare l’occupazione presto sono negativi. Sotto il profilo statistico, il risultato è “robusto” e riguarda sia le donne sia gli uomini quale che sia il loro livello d’istruzione. A conclusioni analoghe sono giunti studi americani, giapponesi e coreani. In sintesi, ritardare l’età della pensione non fà bene solo alle casse degli enti ma anche alla sanità di mente ed alla produttività.

*Presidente del board scientifico di ImpresaLavoro

Blasoni: “Diamo libertà di scelta ai lavoratori”

Blasoni: “Diamo libertà di scelta ai lavoratori”

Massimo Blasoni – Panorama

L’ormai strutturale deficit di gestione dell’Inps è l’emblema dell’insostenibilità del nostro impianto previdenziale: un modello che per anni ha eluso il mercato e che ora sta provando a salvarsi con una tardiva transizione al sistema contributivo. I numeri ci dicono che si tratta di uno sforzo probabilmente non sufficiente, il cui costo verrà fatto pagare alle giovani generazioni: non esiste infatti alternativa alI’adozione di un sistema liberale basato sulla scelta del cittadino.

La gestione pubblica e monopolista della nostra previdenza ha infatti fallito, bruciando in cinque anni più di 40 miliardi di patrimonio Inps a cui si aggiungono i disavanzi annualmente ripianati dalla fiscalità generale. Ai lavoratori deve essere finalmente lasciata la possibilità dl decidere dove investire i propri contributi, optando tra una molteplicità di soggetti finanziari accreditati e vigilati dalla Stato.

Inps, sui conti pesano i crediti non riscossi

Inps, sui conti pesano i crediti non riscossi

Raffaella Cantone – L’Occidentale

Brutte notizie per INPS. Secondo uno studio di ImpresaLavoro, la perdita di bilancio di INPS dal 2012 ammonterebbe a oltre 11 miliardi l’anno, da quando cioè l’istituto ha incorporato l’Enpals e Inpdap, perdita che secondo le stime dovrebbe registrarsi anche al termine del 2016. Il patrimonio netto di INPS, che cinque anni fa misurava oltre 40 miliardi di euro, si sta quindi erodendo progressivamente, compresi i 21 miliardi di euro incassati tramite un intervento straordinario di ripianamento delle perdite fatto negli anni scorsi.

Secondo il Centro studi ImpresaLavoro, a fine 2016 i conti dell’Istituto potrebbero essere ancora peggiori: negli esercizi 2015 e 2016 il disavanzo è ancora una previsione, e, sempre secondo gli esperti di ImpresaLavoro, in passato i consuntivi hanno fatto registrare delle perdite ben più ampie di quelle inizialmente preventivate. Il patrimonio netto fotografato al 31 dicembre 2016 non andrebbe oltre gli 1,8 miliardi, comportando quindi un nuovo intervento di ripiano da parte dello Stato. Un costo che INPS continuerebbe a sottostimare è quello della svalutazione dei crediti, quella parte dei contributi che l’ente previdenziale si attende inizialmente di riscuotere ma che nei fatti viene persa.

Non si tratta solo di evasione, ma anche di debitori falliti o liquidati oppure deceduti senza eredi, o ancora crediti caduti in prescrizione o per i quali ne viene accertata l’insussistenza. La massa dei contributi non incassati, secondo le stime, dovrebbe superare a fine anno per la prima volta la quota dei 100 miliardi, crescendo al ritmo medio di 740 milioni di euro al mese. Al momento i crediti non incassati corrisponderebbero a 104 miliardi, di cui oltre la metà (56,3) sottoposti a svalutazione. Due i parametri su cui si calcolano questi crediti, l’anno di riferimento e la gestione specifica a cui si riferisce.

ImpresaLavoro ha scoperto che proprio negli ultimi bilanci questi criteri sono stati rivisti al ribasso. Quelli risalenti fino al 2009, vengono svalutati al 99%, riconoscendone quindi la sostanziale irrecuperabilità salvo episodi del tutto sporadici. Per il triennio successivo la svalutazione è del 55% per le gestioni dei lavoratori dipendenti e gli agricoli, mentre è del 30% per gli artigiani e i commercianti e si limita al 10% per la gestione separata. Sui crediti relativi all’ultimo triennio è proposta una svalutazione media del 10%.

Secondo ImpresaLavoro le gestioni che mostrano le più basse probabilità di recupero sono quelle più rilevanti: 56,7 miliardi di crediti non incassati (il 54,3% del totale) si riferiscono alle gestioni dei lavoratori dipendenti (incluso le prestazioni temporanee) mentre in minoranza troviamo quelle dei commercianti (20,7%) e artigiani (15,3%). Solo per il 2,3% dei mancati incassi (e con anzianità dei crediti piuttosto bassa) pesa la gestione separata di parasubordinati e autonomi.

Leggi l’articolo sul sito de “L’Occidentale”

Inps, rischio che sia necessario nuovo ripiano dallo Stato

Inps, rischio che sia necessario nuovo ripiano dallo Stato

Il Fatto Quotidiano – 3 aprile 2016

Dal 2012 l’Inps registra regolarmente una perdita di bilancio di oltre 11 miliardi l’anno che si attende sarà confermata anche per il 2016. Il suo patrimonio netto, che cinque anni fa misurava oltre 40 miliardi di euro, è ormai diretto verso la completa erosione e con esso i 21 miliardi di euro incassati tramite un intervento straordinario di ripianamento delle perdite risalente a due anni fa. Il dato emerge da una analisi del Centro studi ImpresaLavoro. A fine anno i conti dell’Istituto potrebbero essere ancora peggiori, innanzitutto perché per gli esercizi 2015 e 2016 il disavanzo è ancora una previsione, e in passato i consuntivi hanno fatto registrare delle perdite ben più ampie di quelle inizialmente preventivate. Anche se i dati per una volta risultassero in linea con le attese, il patrimonio netto fotografato al 31 dicembre 2016 non andrebbe oltre gli 1,8 miliardi, con la sostanziale imminente necessità di un ulteriore ripiano da parte dello Stato.

Uno degli aspetti più delicati, rileva Impresa Lavoro, è proprio la stima di quanti crediti verranno effettivamente incassati e su quanti invece l’Inps dovrà inevitabilmente gettare la spugna. Ad oggi le svalutazioni previste o effettuate si basano essenzialmente su due parametri ben definiti: il primo è l’anno di riferimento del credito (più lontano è nel tempo e minore è la probabilità di recuperarlo); il secondo è la gestione specifica a cui si riferisce (per alcune gestioni il recupero è più difficile che in altre). Impresa Lavoro ha scoperto che proprio negli ultimi bilanci questi criteri sono stati rivisti al ribasso. Quelli risalenti fino al 2009, indipendentemente dalla gestione cui si riferiscono (42,8 miliardi secondo gli ultimi dati disponibili), vengono svalutati al 99%, riconoscendone quindi la sostanziale irrecuperabilità salvo episodi del tutto sporadici. Per il triennio successivo la svalutazione è del 55% per le gestioni dei lavoratori dipendenti e gli agricoli, mentre è del 30% per gli artigiani e i commercianti e si limita al 10% per la gestione separata. Sui crediti relativi all’ultimo triennio è proposta una svalutazione media del 10%.

La gravità delle stime è in aumento sia per i parametri utilizzati (ben più pessimistici rispetto all’ultimo consuntivo), sia per il fatto che materialmente il recupero crediti non sembra sinora riuscito a sostenerle: di anno in anno il volume di contributi non incassati cresce e nel contempo cresce pure la quota che l’Inps deve accantonare al rispettivo fondo di svalutazione. Impresa Lavoro osserva infatti che le gestioni che mostrano le più basse probabilità di recupero sono quelle più rilevanti: 56,7 miliardi di crediti non incassati (il 54,3% del totale) si riferiscono alle gestioni dei lavoratori dipendenti (incluso le prestazioni temporanee) mentre in minoranza troviamo quelle dei commercianti (20,7%) e artigiani (15,3%). Solo per il 2,3% dei mancati incassi (e con anzianità dei crediti piuttosto bassa) pesa la gestione separata di parasubordinati e autonomi.

In particolare, c’è un costo che l’Inps ha finora sempre regolarmente sottostimato nei suoi bilanci preventivi: quello derivante dalla svalutazione dei crediti, ovvero di quella parte dei contributi che l’ente previdenziale si attende inizialmente di riscuotere ma che nei fatti viene persa. Il fenomeno – si legge nello studio – è dovuto a cause diverse: a parte gli evasori, si va dal caso di debitori falliti o liquidati oppure deceduti senza eredi che ne abbiano accettato l’eredità a quello di crediti caduti in prescrizione o per i quali ne viene accertata l’insussistenza. Per dare un’idea delle dimensioni del problema, la massa dei contributi non incassati dovrebbe superare a fine anno per la prima volta la quota dei 100 miliardi, crescendo nel frattempo al ritmo medio di 740 milioni di euro al mese (una tendenza ormai consolidata). Il loro ammontare esatto supererebbe quindi i 104 miliardi, di cui oltre la metà (56,3) sottoposti a svalutazione.

Sul fronte dei dati previdenziali, in Italia ci sono oltre 474.000 pensioni liquidate prima del 1980, quindi in vigore da oltre 36 anni. Il dato emerge dalle tabelle Inps sugli anni di decorrenza delle pensioni sugli assegni di vecchiaia (comprese le anzianità) e ai superstiti del settore privato, esclusi quindi sia gli assegni di invalidità previdenziale, sia quelli agli invalidi civili sia le pensioni sociali oltre naturalmente ai trattamenti degli ex dipendenti pubblici. Per le pensioni di vecchiaia l’età media alla decorrenza era di 54,9 anni mentre per quella ai superstiti l’età media era di 41,3 anni. In questi dati non sono compresi i baby pensionati del pubblico impiego che sono riusciti a uscire dal lavoro prima del 1992 con almeno 14 anni, sei mesi e un giorno di contributi se donne sposate con figli. L’Inps infatti al momento non diffonde statistiche anche sugli anni di decorrenza delle pensioni del settore pubblico.

Guardando solo al settore privato sono in pensione di vecchiaia da oltre 30 anni (pensioni con decorrenza antecedente al 1986) oltre 800.000 persone mentre altri 527.000 assegni sono ai superstiti. Una parte dei trattamenti potrebbe riferirsi alla stessa persona (nel caso abbia già prima di trent’anni fa avuto diritto alla pensione di vecchiaia e essendo anche superstite di assicurato). L’età media alla decorrenza era molto inferiore all’attuale perché ci si ritirava per vecchiaia a 55 anni se donne e a 60 se uomini. Se si guarda solo alle pensioni antecedenti al 1980 (quindi in vigore da almeno 36 anni) erogate per ragioni diverse dalla vecchiaia e dall’essere superstiti, le invalidità previdenziali sono 439.718 (44,5 l’età alla decorrenza) le pensioni sociali 24.308 (33 anni l’età media alla decorrenza) e 96.973 le pensioni agli invalidi civili (23,21 anni l’età alla decorrenza). Nel 2015 le pensioni liquidate per anzianità sono state 238.400 con un età media alla decorrenza di 62,55 anni mentre quelle ai superstiti sono state 173.378 con un’età media alla decorrenza di 73,89 anni.