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Intervista a Giuseppe Pennisi su La Discussione

Intervista a Giuseppe Pennisi su La Discussione

“In un Paese dove la Pubblica Amministrazione intermedia circa la metà del Pil, l’efficienza della macchina pubblica è cruciale. Dalla metà degli Anni Novanta l’immissione diretta di giovani a livello dirigenziale è avvenuta dopo una procedura concorsuale severa e un corso presso la Scuola Nazionale d’Amministrazione SNA” è quanto ha dichiarato Giuseppe Pennisi sul problema della formazione dei nuovi dirigenti pubblici. Ci ha concesso una piacevole intervista.
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Ammortizzatori sociali troppo onerosi in Italia

Ammortizzatori sociali troppo onerosi in Italia

di Massimo Blasoni – Metro

Nel 2014 la nostra spesa per ammortizzatori sociali è stata pari a 22 miliardi 976 milioni di euro, con un saldo negativo di 13 miliardi 824 milioni a carico della fiscalità generale dello Stato. Anche questa volta il sistema è stato pertanto finanziato solo parzialmente dalle imprese (per una quota di 9 miliardi 152 milioni di euro), chiamate a contribuire a diverso titolo e in base a norme specifiche a seconda della diversa tipologia di intervento.

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Formazione dei nuovi dirigenti pubblici: il modello statunitense contro la lottizzazione

Formazione dei nuovi dirigenti pubblici: il modello statunitense contro la lottizzazione

di Giuseppe Pennisi*

In un Paese dove la Pubblica Amministrazione intermedia circa la metà del Pil, l’efficienza della macchina pubblica è cruciale. Dalla metà degli Anni Novanta l’immissione diretta di giovani a livello dirigenziale è avvenuta dopo una procedura concorsuale severa e un corso (inizialmente di due anni e mezzo, includendo uno stage di sei mesi in impresa) presso la Scuola Nazionale d’Amministrazione SNA.

Nella Legge di Stabilità finalmente giunta in Parlamento si delinea un programma che dovrebbe affiancare, e forse sostituire, i concorsi-corsi SNA (che viene commissariata): l’assunzione nel triennio 2016-2018 di 50 dirigenti nelle amministrazioni, di altri 50 nella carriera prefettizia nonché di 10 avvocati dello Stato e 10 procuratori. Le risorse verrebbero da una riduzione delle posizioni dirigenziali nei vari comparti che si renderanno vacanti a ragione del raggiungimento dell’età della pensione degli attuali titolari.

La proposta ha già suscitato le proteste delle rappresentanze dei dirigenti. Il ringiovanimento della dirigenza pubblica è comunque prioritario, dato che mediamente la dirigenza PA italiana è la più anziana dei Paesi OCSE. Ma olezza di particolarismo il fatto che le modalità di selezione e la distribuzione dei vincitori tra i vari comparti vengano delegate a un decreto del Presidente del Consiglio. È ancora vivo il ricordo di quando – durante i quattro mandati di Palmiro Togliatti a ministro della Giustizia – vennero immessi nella magistratura ben 4.000 avvocati, tutti iscritti o fidelizzati al PCI.

Perché non rimuovere tale olezzo, mantenere un unico programma di immissione di giovani dirigenti e utilizzare il modello statunitense dei ‘White House Fellows’, creato nel 1964 durante la Presidenza Johnson e che da allora funziona con piena soddisfazione di tutti? Mira a formare una ventina di ‘eccellenze’ e propone non un’assunzione a tempo indeterminato ma un contratto annuale rinnovabile per un massimo di due volte. Durante questo periodo i giovani lavorano in stretto contatto con il Presidente o il Vice Presidente oppure con i Segretari (Ministri). Il loro lavoro è integrato da seminari, dibattiti, incontri con responsabili politici stranieri. Il programma è rigorosamente non partisan e i ‘White House Fellows’ non vengono selezionati dall’equivalente americano della SNA ma da una commissione di nomina presidenziale in cui due terzi circa sono leader di imprese e un terzo alte figure del mondo accademico.

Nell’adattare questo modello all’Italia si promuoverebbe così una scelta ‘non partisan’ di alte professionalità che intendono servire lo Stato prima di intraprendere carriere nell’industria, nella finanza e nel commercio. Verrebbe così fugato anche il timore di rimpiazzare dirigenti di carriera con ‘nominati’ perché fidelizzati a questo o quel partito.

*Presidente del Comitato scientifico del Centro studi ImpresaLavoro

Ammortizzatori sociali: nel 2014 sono costati allo Stato 13,8 miliardi

Ammortizzatori sociali: nel 2014 sono costati allo Stato 13,8 miliardi

In rapporto al Pil la spesa è cresciuta dallo 0,5% del triennio 2004-2006 all’1,6% del triennio 2011-2013

Nel 2014 la spesa per ammortizzatori sociali in Italia è stata complessivamente pari a 22 miliardi 976 milioni di euro (in calo di 0,6 miliardi rispetto al 2013, anno record) con un saldo negativo di 13 miliardi 824 milioni a carico della fiscalità generale dello Stato. Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro, realizzata su elaborazione di dati Inps ed Eurostat.

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Anche l’anno scorso il sistema è stato pertanto finanziato solo parzialmente dalle imprese (per una quota di 9 miliardi 152 milioni di euro), che sono state soggette a contribuzione a diverso titolo e in base a norme specifiche a seconda della diversa tipologia di intervento: 3 miliardi 737 milioni a copertura della cassa integrazione guadagni, sia essa ordinaria o straordinaria; 610 milioni a copertura dell’indennità di mobilità e la restante parte a copertura dell’indennità di disoccupazione e ASPI.
Nel triennio 2011-2013 la spesa per ammortizzatori sociali è stata in Italia di 432,17 euro per ciascun abitante, leggermente superiore alla media UE a 27 membri (411,84 euro). Nella classifica europea stilata su dati Eurostat, il nostro Paese risulta davanti a Regno Unito (198,86 euro per abitante) Portogallo (261,89 euro), Grecia (367,62 euro) e Germania (405,42) e dietro a Francia (599,48 euro) e Spagna (777,81).

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Dalla lettura dei dati Eurostat emerge soprattutto un dato significativo: se calcolata in rapporto al nostro PIL, la spesa italiana per ammortizzatori sociali è balzata dallo 0,5% del triennio 2004-2006 all’1,6% del triennio 2011-2013. Si tratta di un incremento superiore persino a quello registrato nella malandata Grecia (passata dall’1,2% al 2,0% del proprio PIL) e comunque in controtendenza rispetto a quanto avvenuto tra questi due trienni nel Regno Unito (spesa rimasta stabile allo 0,7%) e soprattutto in Germania (spesa scesa dal 2,1% all’1,3%) e Francia (spesa scesa dal 2,2% all’1,9%).

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«Già nel 2010, il MEF rilevava che il sistema degli ammortizzatori sociali in Italia risulta eccessivamente oneroso (per le imprese e per lo Stato), poco universale, iniquo nei sistemi di finanziamento e inadeguato a fronteggiare il mutato contesto economico e produttivo» ricorda Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «Mentre i beneficiari delle prestazioni corrispondono a un insieme circoscritto di soggetti (alcune categorie di imprese e alcune categorie di lavoratori), il sistema è finanziato in misura sempre più ampia dalla collettività nel suo complesso. Inoltre non vi è diretta corrispondenza tra flussi di entrata e in uscita nemmeno a livello di misure singole: le contribuzioni a carico delle imprese per la cassa integrazione guadagni ordinaria, ad esempio, coprono regolarmente anche le uscite (a favore dei lavoratori) per l’indennità di mobilità».

 

Roma è una metafora dell’Europa, corrotta dallo statalismo

Roma è una metafora dell’Europa, corrotta dallo statalismo

di Carlo Lottieri

Si può leggere la tragicommedia che ha avuto per protagonista il sindaco Ignazio Marino in vari modi. È possibile focalizzare l’attenzione sui peculiari limiti del personaggio, sul carattere davvero unico di una città tanto scettica quanto cinica e a più riprese indagata dal cinema (da Federico Fellini a Paolo Sorrentino), su questa Italia renziana che non riesce a passare dalle promesse ai fatti. Ma si può anche leggere questa vicenda avendo consapevolezza che Roma è in un certo senso l’avanguardia di un degrado che riguarda – sotto vari aspetti – l’intero continente.

Non c’è dubbio che l’Europa abbia avuto un grandissimo passato e che ancora oggi, tutto sommato, continui a essere un’area che permette un tenore di livello piuttosto alto ai propri abitanti e seguiti a esprimere – in qualche campo – eccellenze significative. Se una gran massa di persone lascia l’Asia o l’Africa per venire da noi un motivo c’è.

Bisogna però essere consapevoli che le civiltà passano: anche molto velocemente. Se andate a visitare l’Atene dei nostri tempi certamente non trovate molto della grandezza della città di Socrate e Aristofane, ma anche per Roma si può dire lo stesso: quello che fu il centro del mondo ora è soltanto la capitale di un Paese largamente screditato, oppresso da un debito pubblico colossale e caratterizzato da una cronica incapacità ad affrontare i suoi problemi, e cioè una burocrazia oppressiva, uno statalismo pervasivo, un Mezzogiorno bloccato proprio perché troppo assistito.

Roma è comunque Europa in un senso molto profondo. In Germania, Svezia o Danimarca possono anche sorridere di fronte a molti tratti della contemporaneità italiana, ma dovrebbero essere consapevoli come tutto il continente stia declinando a grande velocità. E se l’Italia non cresce, non si creda che il resto dell’Europa galoppi. Non è così, dal momento che da noi sono solo un po’ più accentuate una serie di difficoltà che ritroviamo anche altrove. E se si dice questo non è per minimizzare la malattia italiana (che è gravissima), ma solo per ricordare come anche il resto d’Europa abbia davvero tanti problemi.

Le società funzionano, o non funzionano, a causa delle loro istituzioni fondamentali, che sono – in primo luogo – di carattere informale. I costumi, le regole non scritte e le attitudini prevalenti sono cruciali nel favorire oppure ostacolare lo sviluppo della società. E quello che in Europa vediamo è il declino della volontà di fare figli, creare imprese, progettare il nuovo, immaginare mondi inediti e provare a farli venire alla luce.

L’Europa nel suo insieme appare stanca, disincantata, scettica: anche perché nel Vecchio Continente è difficile lasciarsi alle spalle una crisi le cui radici sono profonde. Il dissesto economico, in effetti, è stato causato da un coacervo di scelte stataliste compiute da chi gestisce la moneta, controlla le banche, distribuisce risorse che non ha, è incapace di limitare la spesa pubblica, e via dicendo. Di fronte a questo dissesto, per giunta, le risposte che i governi stanno dando sono tutte, o quasi, nel segno di un interventismo crescente.

L’incapacità degli europei di contrastare il crescente potere delle classi politiche è quindi figlia di una debolezza culturale che è davanti agli occhi di tutti. Nella mentalità contemporanea la pretesa del ceto politico, tanto nazionale come euro-comunitario, di disporre dei diritti e delle risorse degli europei trova sostenitori ovunque. Chi oggi prova ad opporsi al dispotismo della politica, rivendicando il diritto naturale dei singoli e delle comunità volontarie (a partire dalle famiglie) a vivere pacificamente e in piena autonomia, è guardato come un lunatico. Si è giunti al punto da definire “ladri” quanti tengono per sé i loro soldi, resistendo di fronte alle pretese di un fisco sempre più vorace, e non già gli esponenti di una classe politico-burocratica che si considera autorizzata a entrare costantemente in casa di altri per sottrarre il frutto del loro lavoro.

In questa Europa è ormai quasi inimmaginabile che si possa assistere a una “rivolta fiscale” che contrasti l’assolutismo del Principe in nome della libertà dei singoli. Senza valori e senza midollo, gli europei sembrano ormai costantemente impegnati nel cercare di partecipare al banchetto di chi si spartisce il bottino ottenuto grazie alla tassazione. Per la maggior parte di quanti vivono nei paesi europei, le tasse rappresentano una fonte di reddito parassitario (basti pensare agli agricoltori e alla Pac, ma l’elenco sarebbe lungo) e chi oggi non dispone di ciò spera soltanto di poter averlo al più presto.

L’imposizione fiscale abnorme ha fatto sì che la maggior parte degli europei cerchino di realizzare quello che Giuseppe Prezzolini ebbe un giorno a definire il sogno della maggior parte degli italiani, che in fondo vogliono solo “lavorare poco e guadagnare tanto”, ma che sono anche pronti ad accontentarsi di “lavorare poco e guadagnare poco”. Continuando su questa strada (e sono già quasi totalmente pubblici l’istruzione, la sanità, l’università, i trasporti e molti altri settori), saranno presto accontentati.

Roma insomma è solo l’apripista, ma il disastro è ben più ampio e generalizzato. E in questo quadro non è sensato pensare di trovare “capitali morali”, fingendo che l’infezione sia localizzata. Purtroppo non è così.

Credito. Studio Confimprenditori-ImpresaLavoro: accesso più difficile per i piccoli

Credito. Studio Confimprenditori-ImpresaLavoro: accesso più difficile per i piccoli

In testa il Trentino Alto Adige (-2,2%) e Valle d’Aosta (-5,5%). Debiti Pa in aumento: tra 6,1 e 6,4 miliardi di euro, il costo per le imprese e fino a 120 giorni di ritardi nei pagamenti

Continua ad essere difficile l’accesso al credito per le imprese italiane e a soffrire di più sono le piccole medie imprese. Lo rende noto un report realizzato da ImpresaLavoro per Confimprenditori che ha analizzato l’andamento dei prestiti suddividendo il dato delle piccole imprese da quello delle aziende di medio-grandi dimensioni.
Ne emerge un quadro molto chiaro e che segnala come l’ammontare complessivo dei prestiti alle imprese non finanziarie, nonostante i diversi interventi della Banca Centrale Europea, continui a calare.
Mediamente, nelle 20 regioni, il credito al sistema produttivo scende dell’1,3% su base annua (marzo 2015 su marzo 2014) ma questo dato è generato da un calo dell’1,2% per le imprese medio-grandi e da una stretta creditizia quasi doppia (-2,2%) per le piccole imprese. Dal punto di vista geografico la situazione è particolarmente preoccupante al Nord dove i “piccoli” subiscono un rallentamento nell’erogazione del credito che va dal 2,2% del Trentino Alto Adige al 5,5% della Valle d’Aosta, interessando anche regioni con alta concentrazione di imprese come Veneto (-3,1%), Lombardia (-3,1%) e Piemonte (-2,9%). Il rallentamento è meno marcato al Centro dove spicca il -4% delle Marche e un segnale lievemente positivo dall’Umbria (+0,2%). Situazione simile a quella del Sud dove tra i molti segni meno (Puglia: -2,2%, Calabria -2,3%) va in leggera controtendenza il Molise (+0,3%).
I DEBITI PA. Dall’analisi, realizzata sui dati contenuti nei bollettini statistici delle economie regionali di Bankitalia, emerge che il credito rappresenti un fattore importante per le piccole imprese non solo per stimolare nuovi investimenti, ma molto spesso anche e soprattutto per far fronte al ritardo con cui si vedono pagati i lavori eseguiti.
Questo fenomeno è stato ampiamente dibattuto con riferimento ai debiti della Pubblica Amministrazione: ad oggi deve ancora essere pagato al sistema delle imprese italiane un importo che, al netto degli anticipi pro soluto, varia tra i 67 e i 71,6 miliardi di euro. Ne consegue per il sistema delle imprese un costo tra i 6,1 e i 6,4 miliardi di euro: questa stima è stata effettuata prendendo come riferimento l’ammontare complessivo dei debiti della nostra Pa, l’andamento della spesa pubblica per l’acquisto di beni e servizi (così come certificato da Eurostat) e il costo medio del capitale che le imprese hanno dovuto sostenere per far fronte al relativo fabbisogno finanziario generato dai mancati pagamenti. Elaborando i dati trimestrali di Bankitalia, stimiamo pertanto che questo costo sia stato nel 2014 pari all’8,97% su base annua (in leggero calo rispetto al 9,10% nel 2013).
A questa grave situazione se ne aggiunge anche un’altra che potenzialmente sarebbe ancora più grave: se lo Stato italiano dovesse infatti adeguarsi alla direttiva europea sui pagamenti della Pa e riconoscesse ai creditori gli interessi di mora così come stabiliti a livello comunitario, le casse dello Stato sarebbero gravate da un esborso di ulteriori 2-4 miliardi di euro.
Il fenomeno dei ritardi di pagamento della nostra Pa assume dimensioni che non hanno pari rispetto ai nostri partner europei. Per pagare i suoi fornitori lo Stato italiano impiega 41 giorni in più della Spagna, 50 giorni in più del Portogallo, 82 giorni in più della Francia, 115 giorni in più della Germania e 120 giorni in più del Regno Unito.
Questi dati assumono ancor più rilevanza se ricordiamo – come attesta il report “European Payment 201 di Intrum Justitia – che il 38% delle nostre imprese si dichiara disposta a effettuare più assunzioni a fronte di un miglioramento significativo dei tempi di pagamento.
I PAGAMENTI TRA PRIVATI. Non va meglio se consideriamo i pagamenti tra privati. Analizzando i dati forniti da CRIBIS, ImpresaLavoro è stata in grado di ricostruire l’andamento regionale dei pagamenti tra imprese. In termini generali la questione potrebbe risolversi così: più piccola è l’impresa e più puntuali sono i pagamenti. Sembra paradossale ma è così: chi ha più difficolta di accesso al credito, dinamiche dimensionali e quantitative più ristrette è anche chi paga quanto dovuto con più rapidità. In particolare circa un terzo delle micro e piccole imprese pagano le proprie fatture regolarmente (34,5% e 31,5%) mentre questa percentuale scende tra le medie (24,9%) e si dimezza tra le grandi, dove solo il 14,8% paga puntualmente.
Gianni Zorzi a “I conti della belva” – Radio24

Gianni Zorzi a “I conti della belva” – Radio24

Che senso ha investire in titoli pubblici italiani a rendimento negativo, se oltretutto le tasse erodono ulteriormente il ritorno sul vostro capitale? Gianni Zorzi, dottore di ricerca in finanza e collaboratore del Centro Studi ImpresaLavoro interviene su Radio 24 a “I Conti della Belva”, ospite di Oscar Giannino.
Clicca qui per ascoltare la puntata. (l’intervento di Gianni Zorzi inizia al minuto 57).

 

 

Le sfide del lavoro e il sistema scolastico

Le sfide del lavoro e il sistema scolastico

di Massimo Blasoni – Il Tempo

Un recente rapporto del Labor Department degli Stati Uniti ha spiegato che studiare potrebbe non essere più sufficiente per garantirsi un posto di lavoro adeguato. Il 65% dei ragazzi che oggi siede su un banco di scuola si troverà a fare un lavoro che ancora non esiste. La tecnologia sta provocando un mutamento storico del mercato del lavoro: è già successo in passato (si pensi alla Rivoluzione industriale) ma mai con questa rapidità.

Il sistema scolastico appare oggi inadatto ad affrontare queste sfide. Diventa fondamentale modificare il modo in cui si affrontano e si risolvono i problemi, passando da un sistema di insegnamento fondato sul trasferimento di nozioni a uno capace di trasmettere metodo e di incentivare creatività e capacità di adattamento. Se stiamo parlando di qualcosa che ancora nemmeno esiste dobbiamo anche avere l’umiltà di ammettere che non serve immaginare percorsi di formazione specifici e basati su un mondo che non esiste. Dobbiamo invece abituare studenti e lavoratori all’idea che, fornite le basi tecniche e di conoscenza, l’apprendimento non è più una fase della vita circoscritta alla giovinezza ma deve diventare un aspetto con cui convivere sempre.

Chi oggi frequenta un qualsiasi corso di informatica sa già che sta incamerando informazioni che probabilmente saranno ormai superate quando avrà finito il suo percorso scolastico: vale per chi siede su un banco del primo anno del liceo scientifico così come per chi sta sostenendo il primo esame universitario di ingegneria informatica. I neolaureati o neodiplomati in materie informatiche o statistiche hanno iniziato la loro formazione quando su LinkedIn, il popolare social network dedicato ai professionisti, erano iscritti 89 sviluppatori di applicazione per iPhone, 53 sviluppatori di applicazioni per Android, 25 esperti in gestione di social network, nessun analista di Big Data e 195 specialisti in servizi cloud. In meno di un lustro questi posti di lavoro si sono moltiplicati: gli sviluppatori di app per iPhone sono 142 volte quelli del 2009, quelli che si occupano di sviluppare applicativi per Android 199 mentre gli esperti di Big Data sono oggi 3.340 volte quelli di allora. Nessuno dei loro professori gli aveva mai spiegato che con un telefono si sarebbe potuto operare sui conti correnti bancari, ascoltare musica o che l’analisi dei dati avrebbe aiutato i Governi di tutto il mondo a migliorare le proprie scelte di politica pubblica.

Rai: privatizzare è buono, giusto e semplice

Rai: privatizzare è buono, giusto e semplice

di Giuseppe Pennisi

Dopo le notizie dei compensi pagati all’ex Ministro delle Finanze greco Varoufakis per una comparsata in Rai, la grande maggioranza degli italiani si chiede perché pagare il canone Rai e se occorra mantenere in vita l’azienda. Si profila una rivolta contro il pagamento del canone nella bolletta elettrica, sempre che la misura sia fattibile dato che comporta convenzione con un centinaio di aziende, costrette ad addossarsi un compito , ed un costo, non di loro pertinenza.

Una Spa di Stato per la tv era comprensibile come monopolio tecnico sino all’inizio degli anni Cinquanta. Da allora non lo è più. Tanto meno lo è da quando il digitale terrestre rende possibile centinaia di canali per svolgere “servizio pubblico” in linea con le esigenze dei territori. Non solo per finanziare la Rai si utilizza l’imposta di scopo ­ il canone ­ più odiata dagli italiani ma, voltate le spalle a una funzione sociale e culturale, alla stessa funzione di intrattenimento gli italiani hanno risposto voltando le spalle, come dimostrato dagli ascolti all’ultimo (costosissimo) Festival di Sanremo. La stesse liti tra dirigenti Rai non interessano più nessuno, come mostrato dal poco spazio dedicato all’ultima dalla stampa nazionale. Quindi, privatizzare ciò che resta della Rai pare cosa buona e giusta.

Ed è anche semplice, se si riprende un’idea che con Steve H. Hanke di Johns Hopkins University (grande consulente in privatizzazioni) lanciai senza grande successo alcuni anni fa. Visto il tracollodei conti e degli ascolti, ora ha forse maggiori chance. Nella situazione attuale la Rai avrebbe difficoltà a trovare altri acquirenti che non fossero la Croce Rossa, la Comunità di Sant’Egidio, la Caritas o simili. Sempre che l’avessero a prezzo zero e con mani libere nel rimettere in sesto ciò che resta di un’azienda per decenni in monopolio e desiderosa di tornare a essere la sola del settore in Italia, in Europa e ­ perché no?­ nell’universo mondo. Occorre utilizzare immaginazione, esperienza e fegato. È una prova seria per il Presidente del Consiglio.

Il primo passo può sembrare bizzarro: collegare la privatizzazione della Rai alla nascita di una vera previdenza complementare per gli italiani, le cui pensioni Inps sembrano essere sempre più striminzite. Si coglierebbero così due piccioni con una fava. Il secondo consiste nel renderla una vera public company. Dovrebbe esserne lieto per primo il Partito democratico, che tanto si è speso per il secondo pilastro previdenziale e per le public company. Il precedente importante è il modo in cui sono state realizzate le privatizzazioni e i fondi pensioni in vaste aree dell’America Latina, dell’Europa Centro Orientale e dell’Asia. In pratica, significa dare azioni Rai a tutti gli italiani.

Seguendo quale metodo? L’età anagrafica. Quanto più si è anziani tanto più si è pagato il canone (e ci si è sorbiti Bonolis, Baudo, Carrà e quant’altro), avendo dunque titolo a un risarcimento con titoli da impiegare per la tarda età. Le azioni sarebbero vincolate per un lasso di tempo ­ ad esempio, cinque anni ­ a non essere poste sul mercato ma a essere destinate a un fondo pensione aperto (e ad ampia portabilità) a scelta dell’interessato, il quale però manterrebbe tutti i diritti (elezione degli organi di governo, vigilanza sul loro operato, definizione dei loro emolumenti) di un azionista (in base alle azioni di cui è titolare sin dal primo giorno). Gli azionisti deciderebbero se scorporare le reti. Unica regola: pareggio di bilancio. Il management dell’intera Rai (o di una rete) che non ci riuscisse sarebbe passibile di azione di responsabilità e, ai sensi della normativa societaria in vigore, la liquidazione diventerebbe obbligatoria se l’indebitamento superasse certi parametri. E il “servizio pubblico”? Nell’età della Rete delle reti ci bada Internet: già adesso tutti i dicasteri, le Regioni, i Comuni, le Comunità Montane dispongono di siti interattivi. I siti di informazione e contro­informazione pullulano ­ tanto generalisti quanto specializzati.

Non siamo più ai tempi dell’Eiar, anche se il Partito Rai vorrebbe tornare a tempi staraciani o leninisti, come la protagonista del film “Goodbye, Lenin” di una ventina d’anni fa. E la cultura? In primo luogo, pensiamo che gli italiani siano meno imbecilli di chi compila gli attuali palinsesti: una Rai che risponde al popolo azionista proporrà più cultura dell’attuale (come dimostrano gli abbonamenti a canali culturali digitali). In secondo luogo, si potrebbero prevedere agevolazioni tributarie per gli sponsor, quale che sia la rete (denazionalizzata o privata) che scelgono. Oppure ancora adottare forme di “tax credit” per chi produce prodotti televisivi culturali ­ come avviene con successo nel settore del cinema.

È un miraggio? No, è la modernizzazione, bellezza! Quella che farebbe fare un vero scatto al Pil. E i dirigenti e gli autori Rai che perderebbero lavoro? Per loro si apre una strada tramite l’Agenzia per la Cooperazione Internazionale che sta per essere creata. Potrebbero essere inviati, sino all’età della pensione, in Paesi in via di sviluppo – meglio se a partito unico ­ per aiutarli a metter su le loro televisioni di Stato.

Giuseppe Pennisi
Presidente Comitato scientifico del Centro studi ImpresaLavoro

Tasse, ancora timida la Legge di Stabilità

Tasse, ancora timida la Legge di Stabilità

di Massimo Blasoni – Metro

Puntuale come ogni anno, ecco irrompere il dibattito sulla Legge di Stabilità. Il premier e il ministro dell’Economia, dopo averne inviato in sede europea una sintesi molto succinta, hanno illustrato i suoi principali contenuti sotto forma di slide dalla grafica accattivante. A quel punto hanno iniziato a rincorrersi le dichiarazioni di deputati e senatori, che a seconda della loro collocazione politica ne elogiano o criticano l’impostazione. Solo dopo una settimana il testo è approdato finalmente in Parlamento e al solito verrà emendato in maniera significativa durante il suo iter di approvazione. Col risultato che i cittadini si ritroveranno con un provvedimento assai diverso da quello presentato.

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