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Una proposta che funziona – Editoriale di Massimo Blasoni

Una proposta che funziona – Editoriale di Massimo Blasoni

Massimo Blasoni – Panorama

La pressione dell’insieme di imposte e tasse sul nostro Pil è passata dal 20% del 1975 al 50%, in termini reali, del 2015. Un incremento enorme sia delle imposte dirette che di quelle indirette e che non ha lasciato indenni né la casa né i nostri risparmi» osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «Dal 2010 ad oggi le tasse sulle abitazioni sono passate da 32 a 50 miliardi e quelle sul risparmio da 9 a 16. La Total Tax Rate sulle imprese è tra le più alte al mondo e raggiunge il 65,4% dei redditi prodotti dalle nostre aziende. È indifferibile, quindi, un’azione di contenimento del carico fiscale, almeno sui redditi delle persone. La Flat Tax, anche in una versione “italiana” a due aliquote, rappresenta certamente una strada utile ma soprattutto percorribile, come è dimostrato dal nostro studio.

* Imprenditore e presidente del Centro studi ImpresaLavoro

Spesa pubblica: l’Italia si metta a dieta – Editoriale di Massimo Blasoni

Spesa pubblica: l’Italia si metta a dieta – Editoriale di Massimo Blasoni

di Massimo Blasoni – Metro

Presentando la sua prima Finanziaria non di coalizione, il Cancelliere dello Scacchiere George Osborne ha annunciato un significativo taglio alla spesa pubblica (pari a 12 miliardi di sterline per la fine della decade, equivalenti a 16,7 miliardi di euro), compensato in parte da un aumento del salario minimo dei lavoratori. Il messaggio del governo conservatore di Sua Maestà sembra chiaro: d’ora in poi lavoro e sviluppo saranno perseguite in Gran Bretagna non più foraggiando la spesa pubblica improduttiva e le aziende dello Stato ma al contrario favorendo l’incremento della produttività delle aziende private che decidono di investire e misurarsi con una maggiore concorrenza nel mercato.
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Privatizzare subito – Editoriale di Carlo Lottieri

Privatizzare subito – Editoriale di Carlo Lottieri

di Carlo Lottieri

Da più di vent’anni in Italia è ripetutamente richiamata l’esigenza di operare programmi di privatizzazione, che sottraggano allo Stato il controllo di ampi settori economici e li affidino a soggetti privati. Molte dismissioni hanno pure avuto luogo, anche se tanto resta da fare, ma non sempre è chiaro il vero motivo che deve portare lo Stato a mollare la presa su tante aziende. Questa mancanza di chiarezza nelle idee è premessa a privatizzazioni che, in troppi casi, si rivelano deludenti. Ora potrebbe aprirsi una nuova stagione, simile a quella dei governi dei primi anni Novanta, ma le conseguenze di eventuali cessioni saranno molto diverse sulla base delle ragioni che inducono a privatizzare.
Fino ad ora, infatti, troppe volte la ragione che ha indotto questo o quell’amministratore a privatizzare è stata la semplice esigenza di reperire risorse. Il tal comune mette in vendita alcune farmacie solo allo scopo di avere soldi da destinare alla costruzione di impianti sportivi o biblioteche. A ben guardare, questa non è una privatizzazione, ma una semplice riallocazione delle risorse a disposizione: come quando si cede un immobile per averne un altro. Perfino se il senso primario della privatizzazione fosse quello di reperire capitali da destinare alla copertura del debito (cosa di cui c’è sicuramente bisogno), perfino in quel caso se ci si limitasse a ciò ancora una volta si mancherebbe il bersaglio.
È anche opinabile la tesi di chi sostiene che si deve privatizzare per rendere più efficiente il sistema nel suo complesso. È vero che le imprese private sono mediamente molto più dinamiche, innovative e capaci di soddisfare il pubblico di quanto non siano quelle in mano allo Stato. Ma anche l’argomento dell’efficienza è inadeguato o, meglio, incompleto. Se da un lato privatizzando è possibile ridurre il debito pubblico e favorire lo sviluppo di un’economia più efficiente, dall’altro va ricordato che l’obiettivo fondamentale delle privatizzazioni deve essere quello di allargare gli spazi di libertà. In questo senso ogni privatizzazione è un’amputazione del potere detenuto dall’apparato politico e burocratico. Ed è esattamente per tale motivo che ogni dismissione va accompagnata da una liberalizzazione del settore interessato.
In questo senso sarebbe certamente riformatore quel governo che mettesse sul mercato fino all’ultima azione di Trenitalia e che destinasse gli introiti a ridurre la montagna del debito di Stato. Sarebbe poi facile, in un arco di tempo ragionevole, constatare come la nuova azienda ferroviaria si orienti presto a mutare il proprio stile ed assumere comportamenti più orientati a tagliare i costi inutili, migliorare l’offerta, soddisfare la clientela. Ma i veri risultati arriverebbero solo grazie a un’apertura di mercato che possa vedere più aziende operare in concorrenza tra loro. Il significato più liberale delle privatizzazioni sta dunque nel ridimensionamento del potere pubblico ed è anche per questa ragione che ogni dismissione non è veramente tale se il settore non è aperto alla concorrenza di mercato.
La scelta di trasferire beni e imprese dalle mani di politici e burocrati a quelle di proprietari e imprenditori produce benefici di vario tipo: e certo può aiutare a ridimensionare il debito e migliorare l’efficienza. Ma gli effetti maggiori si hanno quando il cambio di titolarità (dallo Stato ai privati) serve a creare spazi di libertà e a superare situazioni di monopolio legale e privilegio.
Gli effetti economici delle privatizzazioni sono evidenti, ma il punto cruciale è un altro. Nel suo significato più autentico le dismissioni puntano a ricostruire un ordine di diritto e quindi di libertà, anche nella persuasione che solo entro istituzioni legittime e al servizio della società un’economia può crescere in maniera durevole.
Per il credito ora serve una spinta – Editoriale di Massimo Blasoni

Per il credito ora serve una spinta – Editoriale di Massimo Blasoni

Massimo Blasoni – Panorama

Malgrado i numerosi segnali di ripresa, a leggere i dati Bankitalia, l’accesso al credito resta difficile per le nostre famiglie e imprese produttive (meno nel settore finanziario). I prestiti delle banche al settore privato hanno registrato, ad aprile, una contrazione su base annua dell’1,4%. I prestiti alle famiglie sono calati dello 0,2% e quelli alle società non finanziarie sono diminuiti del 2,2% sui 12 mesi. Certo gli effetti del quantitative easing debbono ancora dispiegarsi compiutamente, tuttavia è ancora da verificare quale sarà il loro impatto. Non hanno avuto effetti sostanziali in passato le operazioni straordinarie di rifinanziamento della BCE. Né Ltro, né la sua versione successiva, il Tltro che condizionava il finanziamento all’erogazione di parte degli importi a famiglie e imprese. Questo perché spesso le banche prediligono impieghi più sicuri di quelli verso l’economia reale. In parte è comprensibile: il rapporto ABI di giugno 2015 evidenziava sofferenze lorde, ad aprile, per 191,5 miliardi, più 15,1% in confronto a quelle di aprile 2014. Anche i tassi restano alti malgrado gli interventi della banca centrale abbiano permesso anche all’Italia di godere del privilegio di potersi indebitare a interessi zero se non addirittura negativi, con impliciti effetti anche sul sistema creditizio.
Il basso costo del denaro all’origine è però condizionato da spread bancari piuttosto rilevanti nel nostro Paese. La disponibilità del credito e il suo costo sono tuttavia alla base di una piena ripresa e del conseguente incremento dell’occupazione. Innovazione, sviluppo e acquisti si nutrono di disponibilità finanziarie la cui carenza e l’elevato costo ci pongono in condizioni di difficile competizione con gli altri Paesi dell’area euro. Basti pensare che le ultime rilevazioni Bce quantificano nel 3,31% il tasso medio complessivo per le imprese italiane contro il 2,81% per le imprese tedesche. Poiché il nostro mercato azionario è assai ridotto – Piazza Affari vale meno del 30% del Pil nazionale a chilometri dagli USA ben sopra il 100% – occorre necessariamente riflettere su strumenti che facilitino l’accesso al credito bancario. Le ipotesi sono molte, dai fondi di garanzia pubblici per le spese di investimento di imprese virtuose, al ventilato utilizzo della Cassa Depositi e Prestiti, a interventi temporanei nel capitale dei principali istituti di credito per potenziarne il cosiddetto core tier one. Il rilancio delle nostre aziende necessita oggi più di opportunità, come il credito, che di contributi pubblici.

20150709Panorama

Intanto Roma scivola sempre più verso Atene – Editoriale di Massimo Blasoni

Intanto Roma scivola sempre più verso Atene – Editoriale di Massimo Blasoni

di Massimo Blasoni – Metro

 

Pur strangolata dal debito pubblico e scossa da una profondissima crisi economica e sociale, la Grecia riesce a battere l’Italia sul fronte del mercato del lavoro e delle tasse sulle imprese. Analizzando le classifiche stilate dal World Economic Forum si scopre infatti che questa occupa nel rank mondiale una posizione migliore della nostra per quanto riguarda l’efficienza generale del mercato del lavoro (è 118esima mentre l’Italia è 136esima), la collaborazione nelle relazioni traimprese e lavoratore, la flessibilità nella determinazione dei salari, l’efficienza nelle modalità di assunzione e di licenziamento, il legame tra salari e produttività, l’effetto della tassazione sull’incentivo a lavorare, il merito nella scelta delle posizioni manageriali e infine la capacità del sistema sia nel trattenere talenti sia nell’attrarli. Il rapporto “Doing Business 2015” della Banca Mondiale ci svela inoltre che in Grecia il Total TaxRate sulle imprese (49,9%) è nettamente inferiore al nostro (65,4%) e che la Repubblica ellenica si dimostra meno matrigna della nostra per il numero sia degli adempimenti (8 contro 15) sia delle ore impiegate in media ogni anno da ciascuna azienda (193 contro 269) per pagare le imposte. Senza contare che un’impresa greca riscuote poi il suo credito dalla Pa in appena un terzo del tempo sopportato da un’impresa creditrice italiana (49 giorni invece di 144 giorni). Non è tutto. Perdiamo il confronto anche nel comparto cruciale dell’edilizia sia per i giorni necessari a ottenere un permesso di costruzione (233 contro 124) sia per ottenere l’allacciamento dell’energia elettrica (124 contro 62). Tra l’altro, a una media impresa italiana la bolletta energetica costa il 34% in più che non a una media impresa greca: 0,1735 centesimi di euro per Kwh (chilowattora) invece di 0,1298 centesimi di euro per Kwh. Intendiamoci, l’Italia ha fondamentali economici decisamente più solidi di quelli greci. Tuttavia liberare le nostre aziende da un fardello fiscale ormai insostenibile e produrre regole sul lavoro semplici e certe sono due passaggi non più rimandabili, su cui il governo si dovrebbe impegnare maggiormente. Altrimenti il rischio è che Roma scivoli sempre più verso Atene.

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L’ideologia franco-tedesca e le difficoltà del presente

L’ideologia franco-tedesca e le difficoltà del presente

di Carlo Lottieri
Le cronache di questi giorni sono dominate da due eventi diversamente inquietanti: il rilancio del terrorismo islamista e la crisi europea focalizzata sulla Grecia e sul’euro. In entrambi i casi è chiaro che vi sono responsabilità specifiche: non sono senza colpe i greci, vissuti al di sopra delle loro possibilità e ora indisposti a pagare i debiti accumulati; e devono pure saper riflettere seriamente sulla propria condizione culturale le popolazioni di quel mondo arabo-musulmano che, a ragione, vuole evitare ogni identificazione tra religione e violenza terroristica, ma che al tempo stesso non può negare l’esistenza di un nesso tra Islam e islamismo radicale.
La Grecia ha le sue responsabilità e anche la società musulmana. Non bisogna però negare come l’Occidente in generale e l’Europa in senso più specifico abbiano egualmente commesso molti, anzi moltissimi errori: in un caso come nell’altro. E c’è un’ideologia europea e più specificamente franco-tedesca che in qualche modo sta all’origine di tutto questo. La follia della Jihad, in particolare, non può essere separata dal fatto che negli ultimi due secoli – e non solo a causa del colonialismo – gli europei hanno esportato un po’ ovunque lo Stato moderno e, insieme a esso, una visione giacobina delle istituzioni. In alcune parti del mondo questo ha fatalmente causato forti reazioni con elementi basilari di società di carattere tradizionalista, provocando reazioni di rigetto. Il terrorismo che uccide in nome di Allah è anche una conseguenza dei vari “kemalismi” di matrice europea e di un’ideologia basata sul potere statuale, su un’astratta idea dei diritti umani, sul mito della burocrazia e dell’esercito. La visione del mondo di stampo europeo che ha ispirato la politica dello Scià in Persia ha poi di fatto aperto la strada a Khomeini, ma situazioni analoghe si sono viste anche in molti contesti.
La cultura europea – specialmente tra Francia e Germania – si è innamorata di ideologie costruttiviste e antiliberali. Non è allora un caso se nelle università di Parigi si sono forgiati intellettuali e uomini di governo, provenienti dall’Africa e dall’Asia, che poi hanno preteso di riaffermare nelle loro società astratte logiche di matrice illuminista. Anche in Europa si è sviluppato un processo simile, se si considera che sotto vari punti di vista il processo di costruzione degli Stati Uniti d’Europa ha pensato di replicare lo Stato moderno a livello continentale, partendo dalla burocrazia francese (si pensi a Jean Monnet) e dal vuoto identitario di una Germania post-nazista che ha capito di dover essere europea da momento che non poteva più essere tedesca. Il programma dirigistico di istituzioni politiche europee ora mostra però la corda e questo a seguito del fatto che l’Europa non è una società coerente, non è un luogo di dibattiti e scambi quotidiani, non è un mondo davvero integrato e non è bene che sia retta da un solo governo. Da decenni s’insegue però questo sogno e si è pronti a pagare prezzi anche molto alti pur di preservare il mito di un’unità europea a venire.
La nascita dell’euro è stata il prodotto più importante di questo costruttivismo, proiettato a fissare regole buone per i danesi come per gli italiani, per i tedeschi come per i greci. Oggi è comunque chiaro a tutti che la Grecia non sarebbe dovuta entrare nel club dell’euro e doveva comunque essere messa fuori da tempo. Se questo non è avvenuto è perché – soprattutto a Parigi e Berlino – ci si è innamorati della dimensione ideologica del progetto unitarista. Le società europee possono essere orgogliose di molta parte della loro storia. Devono però comprendere i propri errori fondamentali: il proprio ideologismo, l’infatuazione per lo Stato, l’illusione di avere trovato soluzioni e principi applicabili a ogni latitudine. Non è così ed è bene esserne consapevoli al più presto. Nella nostra cultura politica – da Rousseau a Marx, da Hegel a Comte – c’è una tara illiberale che non smette di produrre frutti velenosi. Solo se sapremo capire fino in fondo tutto questo sapremo evitare nuovi errori.
Manifesto anti-tasse – l’intervento di Massimo Blasoni

Manifesto anti-tasse – l’intervento di Massimo Blasoni

Non credo che lo sceriffo di Nottingham pretendesse dai sudditi, pur per antonomasia vessati, la metà del frutto del loro lavoro come avviene nell’Italia di oggi. Certamente a tanto non ammontavano le imposte medievali ne la tassa sul tè, che pure scatenò la rivoluzione per l’indipendenza americana. Ad essere sincero non ho mai sottoscritto alcun patto. Tuttavia trovo ragionevole che vi siano dei limiti all’esercizio assoluto della personale libertà. Lo richiede la convivenza tra individui, fatti salvi ovviamente alcuni valori non negoziabili che precedono lo Stato. L’istruzione, le infrastrutture, la scuola, rappresentano un costo che non sempre può essere sopportato dal singolo beneficiario. Questi servizi dovrebbero rappresentare un’equa controprestazione per le imposte pagate. Dunque comprendo l’esigenza di contribuire con una parte delle risorse che produco e che questo concorso debba essere proporzionale al reddito e utilizzato con il criterio della solidarietà.
Il demandarne l’utilizzo ai propri rappresentanti eletti, in democrazia è la norma. Il tema si complica quando l’entità delle tasse è eccessiva e quando viene avvertita come sperequata rispetto all’efficienza di servizi. Di più, quando la leva fiscale viene utilizzata in parte rilevante per spese ritenute inutili o per nutrire l’apparato stesso delle istituzioni. Un’avversione che cresce ancor più quando le imposte servono a sanare i deficit di fallimentari avventure imprenditoriali di Stato o quando si costruiscono strade al doppio del loro costo oppure opere di scarso interesse, a inseguire la vanagloria del governante di turno, quando non più privati interessi.
Una delle ragioni cruciali della nostra crisi (e della crisi europea entro cui essa si colloca) è da individuare proprio nell’espansione del prelievo fiscale.
Se non si riuscirà a invertire il processo in atto, questo crescente spostamento di risorse dal settore privato al settore pubblico è destinato a mettere in grave crisi l’intera società occidentale. Deve farci riflettere il fatto che nel corso del ventesimo secolo, nonostante il massiccio ricorso all’indebitamente, la tassazione abbia raggiunto livelli sempre più alti e sia aumentata mediamente di cinque volte nella maggior parte dei Paesi occidentali.
Nel nostro Paese questa dilatazione del prelievo tributario ha raggiunto livelli elevati, soprattutto negli ultimi venticinque anni, così che oggi la situazione è divenuta insostenibile. Dal 1990 al 2015 la pressione fiscale (Apparente) è salita di 5 punti percentuali, passando dal 39% al 44%, e questo spiega in larga misura le difficoltà di un sistema produttivo in cui troppe aziende chiudono o subiscono significative contrazioni. La pressione fiscale reale, cioè tenendo in conto del sommerso che non paga imposte, è giunta al 53%. Vanno ricordate ovviamente anche la total tax rate per le imprese e il cosiddetto cuneo fiscale sul lavoro. Entrambi ci collocano tra i peggiori paesi al mondo. Anche la retorica della lotta all’evasione non ha portato a grandi risultati: si stimano in soli 1 miliardo gli importi recuperati nel 2014.
Nei primi anni del secondo decennio, dal 2011 a ora, mentre il Pil reale calava il prelievo è cresciuto in maniera significativa. Le imposte dirette erano 226,4 miliardi nel 2011 e sono passate a 240,9 miliardi nel 2013 mentre quelle indirette erano 221,7 miliardi (2011) e sono arrivate a 238,6 miliardi nel 2013. Quando un’economia indietreggia e la pressione fiscale cresce, è irragionevole attendersi una ripresa. Spesso le operazioni di riforma del sistema che talora sono state annunciate come riduzioni del prelievo (si pensi alla nuova fiscalità della casa, tra “abolizione” dell’Imu e nuovi tributi come la Tasi) nei fatti hanno finito per pesare sempre più sui bilanci di famiglie e imprese. Sempre nel 2014 si è proceduto ad abbassare l’Irpef sui ceti medio-bassi, ma al tempo stesso sono state introdotte tasse sul risparmio.
Il prelievo alla fonte e l’imposizione indiretta (l’Iva e non solo) rappresentano imposizioni fiscali di cui gli italiani sono certo a conoscenza, ma di cui faticano a valutare il peso. In Italia le imposte sul risparmio – capital gain, imposte di bollo, tobin tax – sono cresciute di 9 miliardi dal 2011-2015. Gli effetti del carico fiscale purtroppo sono moltissimi e perniciosi: la compressione dei consumi e il disincentivo agli investimenti esteri, in primo luogo. Ma altre conseguenze sono la scarsa spinta all’innovazione (che non è certo defiscalizzata) del sistema produttivo, la bassa competitività delle nostre aziende rispetto a quelle di Paesi esteri con un total tax rate decisamente inferiore, l’incentivo all’evasione. Tra gli effetti non mancano, poi, quelli che derivano dalla scarsa efficienza delle spese pubbliche sostenute attraverso l’imposizione fiscale.
Lo Stato che spende non brilla affatto per oculatezza e se la spesa è improduttiva non genera effetti moltiplicatori. Quegli stessi denari in mano a famiglie e imprese, di norma, sarebbero invece un volano per l’economia. Pensandoci non è infondata la massima: quando spendi i tuoi soldi per te, usi la massima attenzione; quando spendi i tuoi soldi per gli altri, stai attento a quanto spendi, ma non alla qualità di cosa compri; quando spendi i soldi degli altri per te, stai attento a cosa compri, ma non a quanto spendi; quando infine spendi i soldi degli altri per gli altri, spesso non ti interessa né cosa compri né quanto spendi. Come solitamente avviene nel caso dello Stato.
Massimo Blasoni, Presidente Centro Studi ImpresaLavoro
La burocrazia frena la ripresa – Editoriale di Massimo Blasoni

La burocrazia frena la ripresa – Editoriale di Massimo Blasoni

Massimo Blasoni – Metro

Nel 2010 in Italia si sono investiti in costruzioni 169,6 miliardi di euro. Quattro anni dopo, complice la crisi e soprattutto l’inasprimento della pressione fiscale sul comparto del mattone, gli investimenti in costruzioni si sono fermati a 138,9 miliardi con un calo in termini reali del 18%. I tempi necessari per ottenere un permesso di costruzione sono invece rimasti invariati a 233 giorni, un tempo record in Europa e che ci fa impallidire davanti ai 64 giorni della Danimarca.

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Il Governo Renzi ha fatto poco per le imprese – Il Giornale

Il Governo Renzi ha fatto poco per le imprese – Il Giornale

Massimo Blasoni – Il Giornale

Al di là del Jobs Act il governo Renzi ben poco ha fatto per sostenere il nostro sistema produttivo. Dove, si badi, per sostenere qui si intende essere messo in condizione di competere alla pari con i principali partner dell’Unione Europea. Eppure è evidente che la ripresa come l’occupazione sono legate al rilancio della capacità produttiva delle aziende. C’è da chiedersi perché il Governo comprenda così poco le ragioni dell’impresa. Da un lato è complesso attuare le riforme (liberalizzazioni, privatizzazioni, sburocratizzazione) di cui abbisognerebbe il Paese; dall’altro, ben pochi (certo non il Premier) vengono dal mondo dell’impresa. Due supposti  motivi, che però non rappresentano certo una scusante.

Ci sono Paesi che attraggono investimenti anche cercando di semplificare. Se crei una nuova impresa – questo è il ragionamento –  crei lavoro, tasse, dunque ti facilito. Da noi servono 233 giorni (fonte Doing Business) per un permesso di costruzione contro i 94 tedeschi o i 64 danesi e un imprenditore dedica alla burocrazia quasi il doppio del tempo che gli necessiterebbe nella maggior parte  degli altri paesi UE. Eppure un sistema di regole più semplice e minori tortuosità burocratiche, si tradurrebbero in sviluppo. L’indice di imprenditorialità – cioè la facilità di fare  impresa – ci colloca dietro tutti i nostri principali partner europei. Qualche volta sembra che una parte di paese lavori ed un’altra controlli producendo una montagna di carta e regole complicate.

Si è logorato anche il rapporto di fiducia tra Stato e Impresa. Le aziende anticipano, nel meccanismo dei saldi degli acconti, le imposte che dovranno l’anno successivo ma lo stato paga i propri fornitori quando vuole. La promessa del premier di saldare i debiti pregressi verso le imprese si è dimostrata vana. Nel 2014 il tempo medio di pagamento della pubblica amministrazione è stato di 144 giorni e si è completamente riformato il debito commerciale raggiungendo gli 67,1 miliardi di euro. Il livello delle nostre infrastrutture è assolutamente inadeguato, comprese quelle informatiche:  l’Italia è 47esima al mondo per velocità di connessione con una media di download di 5,2 Mega al secondo, contro i 9,9 del Regno Unito, i 12,7 della Svizzera e i 7,2 della Spagna.

E’ noto che il nostro carico fiscale ci colloca tra i Paesi più tassati del mondo, eppure la spesa pubblica che questo flusso di denaro nutre malgrado ogni sforzo continua a crescere: e purtroppo si incrementa la spesa corrente – stipendi, acquisto di beni e servizi-  mentre si riduce quella per investimenti. Tutto questo non soffermandoci sui maggiori costi che sopporta un’impresa italiana in tema di energia o di accesso al credito che ulteriormente frenano – lo dico da imprenditore –  la capacità di competere. Certo non invoglia gli investimenti un paese dove la soluzione delle dispute commerciali richiede mediamente 1185 giorni e dove inarrestabilmente legiferano Stato e Regioni, spesso in competizione tra loro. Una situazione complessa che richiederebbe interventi immediati che non ci sono stati. L’inazione non può più essere coperta da un paravento di slide. Forse anche per questo la luna di miele si è interrotta,  così come la fiducia verso il premier.

La crisi è davvero alle nostre spalle? – Editoriale di Massimo Blasoni

La crisi è davvero alle nostre spalle? – Editoriale di Massimo Blasoni

Massimo Blasoni – Metro

Poche cose come i dati sulla disoccupazione scatenano dibattiti così accesi tra gli opinionisti: c’è chi annuncia “la fine della crisi” e “l’inizio della ripresa” e chi, invece, professa pessimismo spiegando che sono “dati congiunturali”. I numeri, però, difficilmente mentono e da quelli è opportuno partire. Va chiarito innanzitutto che i dati diramati l’altro ieri dall’Istat sono certamente positivi. Dopo 14 trimestri si inverte il mood negativo e questo è un segnale che fa ben sperare soprattutto alla luce dei 159mila occupati in più rispetto al mese precedente e di un numero di persone al lavoro che ritorna ai livelli, certamente non esaltanti, di fine 2012. Pur tuttavia rimangono sullo sfondo diversi elementi di criticità che andranno affrontati con molta serietà.

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