Edicola – Argomenti

Tasi e imprese, aumenti in 4mila comuni

Tasi e imprese, aumenti in 4mila comuni

Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

Il dibattito sulla Tasi si è scaldato intorno alla sorte delle abitazioni principali, ma le rassegne delle scelte locali dopo che sono scaduti i termini per pubblicare le aliquote mostra che anche capannoni, uffici, alberghi e centri commerciali sentiranno nei prossimi mesi gli effetti del nuovo tributo. In breve, l’arrivo della Tasi aumenta il conto per gli immobili strumentali in 4.278 Comuni, cioè il 53% del totale. A livello nazionale, il nuovo quadro delle aliquote fa crescere la pressione sul mattone delle imprese di circa il 9%, ma quando si parla di imposte locali i valori medi non dicono tutto e l’esperienza reale dei singoli contribuenti andrà incontro anche ad aumenti assai più decisi. Anche nelle tante città – come Milano o Roma – dove l’Imu aveva già raggiunto i massimi nel 2013 e quindi non sembrava lasciar spazio ad altre tasse, il carico è cresciuto ancora “grazie” all’aliquota aggiuntiva dello 0,8 per mille, consentita per quest’anno allo scopo di finanziare gli sconti sull’abitazione principale. In qualche Comune l’ingresso della Tasi può essere stato compensato da una riduzione dell’Imu, ma si tratta di casi minoritari.

Viste alla luce della situazione di oggi, le promesse di abbattere il carico fiscale sugli immobili d’impresa che erano fìorite intorno alla scorsa legge di stabilità appaiono lontanissime: laTasi, introdotta proprio dalla legge di stabilità per quest’anno, gonfia ancora una volta il peso del fisco immobiliare sulle imprese e annulla gli effetti della “mini-deducibilità” Imu scritta nella stessa legge. Gli incrementi di quest’anno, nei Comuni in cui la Tasi si applica anche agli immobili strumentali, oscillano tra il 9 c l’11,5 per cento, ma rispetto ai tempi dell’Ici le imposte si sono impennate, dall’80% registrato in tante città fino al 170% di Milano, dove la vecchia imposta comunale sugli immobili era più bassa della media.

A spingere le tasse “locali” (ma bisogna ricordare che su questi immobili l’Imu ad aliquota standard del 7,6 per mille finisce allo Stato), secondo la rassegna delle aliquote realizzata dal Caf Acli sono 3.649 Comuni. L’elenco, però, cresce ancora, a causa dei 652 Comuni, soprattutto medio-piccoli, che non hanno pubblicato delibere entro il 18 settembre. In questi casi, scatta per tutti l’aliquota all’1 per mille, che si aggiunge alle normali richieste avanzate dall’Imu; le uniche eccezioni arrivano quando il Comune ha già stabilito il massimo per l`imposta municipale, togliendo quindi ogni spazio alla Tasi, ma dal momento che gli enti senza delibera sono medio-piccoli questa eventualità non dovrebbe essere frequente.

Nelle città, l’evoluzione del carico fiscale sulle imprese dipende ovviamente dall’evoluzione delle singole aliquote, ma le dinamiche complessive sono simili fra loro. Facciamo i conti per un capannone da 700mila euro di valore catastale: per esempio a Milano e Roma, dove l’Imu era già al massimo e la «super-Tasi» è stata introdotta per finanziare gli sconti sulle abitazioni principali, si arriva a 7.232 euro di imposta da pagare, contro i 6.638 dello scorso anno, mentre a Cagliari, dove l’aliquota dell’1 per mille si aggiunge ad un’aliquota Imu del 9,6 per mille, la richiesta è di 6.858 euro invece dei 6.157 dell’anno scorso. Sul peso complessivo delle imposte sul mattone incide anche la deducibilità, cioè la possibilità di sottrarre al reddito d’impresa le somme pagate come tributi locali. Nell’Imu la deducibilità è parziale (20% da quest’anno, 30% nel 2013), mentre nella Tasi è totale, nel senso che l’intero tributo pagato viene “tolto” dall’imponibile dell’Ires. A conti fatti, però, si tratta di dettagli, come mostra per esempio il caso di Verona: la città ha abbassato l’Imu all’8,9 per mille e fissato la Tasi al 2,5 per mille, con il risultato di arrivare a un’aliquota massima uguale a quella di Milano e Roma (dove al 10,6 per mille di Imu si aggiunge lo 0,8 per mille di Tasi), ma di produrre un carico fiscale leggermente inferiore grazie al fatto che tutto il tributo sui servizi indivisibili è deducibile. Naturalmente, però, la deducibilità non scatta per le imprese in perdita, che per questa via maturano solo un “credito” spendibile quando ritorneranno utili da tassare.

Un altro effetto collaterale della Tasi riguarda i “fabbricati-merce”, cioè gli immobili che le imprese costruttrici non riescono a vendere. Dal 1 luglio scorso sono stati esentati dall’Imu, ma paradossalmente proprio questa mossa ha aperto le porte alla Tasi: quest’anno, come accade per l’abitazione principale, può arrivare al 2,5 per mille (e non mancano i Comuni che l’hanno applicata), ma senza correttivi nel 2015 la richiesta può volare rino a quota 10,6 per mille. Proprio come l’Imu da cui questi immobili erano stati appena esentati.

Gelata a luglio su fatturato e ordini

Gelata a luglio su fatturato e ordini

Carlo Andrea Finotto – Il Sole 24 Ore

Se si ferma anche l’estero sono guai. Il rischio, per il manifatturiero, traspare dalla rilevazione di fatturato e ordinativi realizzata dall’Istat relativa al mese di luglio. A prevalere sono mestamente i segni negativi: il fatturato dell’industria perde un punto percentuale rispetto a giugno e 1,3 punti rispetto a dodici mesi prima (il dato peggiore da ottobre 2013); gli ordinativi perdono 1,5 punti rispetto a giugno e lo 0,7% sul luglio 2013.

Campanelli d’allarme
A preoccupare, al di là del calo generale, sono anche altri due aspetti: il primo è che la flessione dei due indicatori dipende molto dalla frenata dei mercati esteri. A livello congiunturale l’effetto salta agli occhi (-1,4% per il fatturato oltreconfine e addirittura -2,1% per gli ordini); ma anche a livello tendenziale le performance complessive risentono di un rallentamento estero evidente: a luglio i ricavi hanno messo a segno un +0,5% che è poca cosa rispetto al +2,6% di giugno 2014 su giugno 2013. E per gli ordini l’evoluzione è ancora più netta: -0,5% a luglio (nei confronti di luglio 2013) contro +5,2% a giugno. Il secondo aspetto preoccupante è che tra i settori più colpiti da questa gelata estiva ci sono anche quelli che nei mesi scorsi hanno trainato il made in Italy: macchinari (-1,3% il fatturato e -6,2% gli ordini per la meccanica strumentale) e chimica (rispettivamente -5,6% e -6%). Corrono, invece, i mezzi di trasporto (+5,9% il fatturato, +12,8 gli ordini) e l’elettronica (+7,8% e +7,7). A due facce il tessile-abbigliamento (+4,5% e -1,5%).

Recessione mai interrotta
Numeri che accendono un campanello d’allarme anche per Sergio De Nardis, capoeconomista di Nomisma: «Il dato Istat sul fatturato di luglio è in linea con quello, già noto, della produzione industriale. In più, emerge che non è solo il mercato interno a flettere: anche quello estero si è indebolito durante l’estate. Più preoccupante è la rilevazione sugli ordinativi che prefigurano la tendenza futura. Il calo rilevato in luglio segnala la prosecuzione della fase negativa: questi indicatori sembrano puntare a un terzo trimestre peggiore del secondo e dicono che la recessione iniziata a metà 2011 non si è mai interrotta. È solo meno virulenta». Puntuale, è arrivato ieri anche il pessimismo diffuso delle imprese piemontesi, che per il terzo trimestre dell’anno vedono grigio per quanto riguarda produzione e ordinativi.

Macchine utensili in tenuta
I macchinari frenano, secondo l’Istat, ma il comparto è sfaccettato e il segno meno, per fortuna, non è di tutti. Lo dimostrano le performance delle imprese associate a Ucimu (sistemi per produrre e robot): «Nel primo semestre 2014 – dice il direttore Alfredo Mariotti – abbiamo rilevato ordini in crescita del 59,5% sul mercato interno (ma va detto che lo stesso periodo 2013 è stato disastroso), e del 7,8% su quello estero, con una media complessiva di +14,9% rispetto ai primi due trimestri dello scorso anno». Dati più che confortanti, anche se rimane un gap da colmare sul periodo pre-crisi: «Nel primo trimestre 2014 – sottolinea Mariotti – eravamo ancora oltre 8 punti sotto rispetto al 2010».

Vantaggio tecnologico
Tra le pieghe dei numeri dell’Istat e delle performance, pur positive delle macchine utensili si nasconde tuttavia un’insidia a medio termine: la perdita del confronto tecnologico con i paesi competitor. A evidenziarlo è ancora Alfredo Mariotti: «L’età media del parco-macchinari esistente in Italia è di oltre 22 anni. È strategico e indispensabile favorirne lo svecchiamento, anche perché nel frattempo proprio i numeri dell’export dei macchinari indicano che all’estero le aziende si stanno progressivamente evolvendo». Servono, per il direttore di Ucimu e di Federmacchine «misure concrete che affianchino la nuova Sabatini (che peraltro funziona bene) e spingano la sostituzione dei macchinari a valle del nostro sistema; sia per rendere più sicuri e competitivi i luoghi di lavoro, sia per evitare che il nostro manifatturiero perda il vantaggio competitivo che si è costruito».

L’agroalimentare
L’industria alimentare ha limitato i danni rispetto ad altri settori (-1,7% il fatturato), ma secondo Coldiretti hanno pesato «il fatto che gli italiani abbiano tagliato il budget di spesa e l’effetto maltempo su alcuni prodottitipicamente stagionali (gelato, birra, bibite, frutta)». A cambiare, per Coldiretti «è anche il livello qualitativo degli alimenti acquistati con una preferenza per i cibi a basso prezzo».

Lo stato deve ancora pagare 73,5 miliardi alle imprese

Lo stato deve ancora pagare 73,5 miliardi alle imprese

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

Alla fine il premier Matteo Renzi ha ceduto: l’impegno sul pagamento dei debiti al 31 dicembre 2013 delle pubbliche amministrazioni non è rispettato e, come anticipato da Bruno Vespa (ispiratore della scommessa), si è detto disponibile a percorrere la ventina di chilometri che separa Firenze dal santuario del Monte Senario. Il presidente del Consiglio ha chiesto di essere accompagnato non solo dal giornalista, ma anche dal ministro dell’economia Padoan, dal presidente della Cassa depositi e prestiti Bassanini e da quelli di Confindustria e Rete Imprese, Squinzi e Merletti.
Al di là delle trovate estemporanee, la confusione sul tema è tale che, a tutt’oggi, non si ha ancora la misura esatta di quanto lo Stato debba corrispondere alle aziende creditrici e, pertanto, a quanto ammonti il saldo finale. Una situazione che ha irritato non poco il vicepresidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, artefice della direttiva che impone agli Stati Ue di onorare in tempi certi i propri debiti estrapolando l’80% del pregresso dal computo del Patto di Stabilità.
Ieri, durante la conferenza stampa di presentazione del convegno «L’Europa e l’Italia che vogliamo» (il 26 e il 27 settembre a Perugia), ha anticipato i contenuti di tre interrogazioni presentate all’esecutivo di Bruxelles. Nella prima si chiede di stilare un primo bilancio dell’applicazione della direttiva comunitario sui tempi di pagamento e le ricadute sulle pmi. Nella seconda si interpella la Commissione sulle risposte fornite dall’Italia in merito alla propria esposizione nei confronti dei fornitori della pa. L’ultima, invece, si domanda se Bruxelles intenda comminare sanzioni all’Italia visto che lo Stato continua a non rispettare la direttiva, sforando sistematicamente il termine fissato di 60 giorni.
Nell’occasione Tajani ha riproposto il proprio atto d’accusa. «Oltre ai 60 miliardi che l’amministrazione pubblica deve ancora pagare, si sono accumulati altri debiti per gli interessi di mora per 8-10 miliardi», ha sottolineato. Secondo l’esponente di Forza Italia, però, occorrerebbe riformare il patto di stabilità interno (quello che impone anche alle amministrazioni locali il tetto del 3%) perché in contrasto con la normativa Ue sul pagamento dei debiti.
E mentre il ministro Graziano Delrio continua a sostenere le tesi del premier sostenendo che restano da pagare una trentina di miliardi visto che dei 60 complessivi lo Stato ha già onorato la metà, ieri è stato il centro studi ImpresaLavoro a sbugiardare Palazzo Chigi. «Nonostante le promesse, lo stock complessivo del debito rimane invariato nel suo livello e cioè pari a 73,5 miliardi di euro», sostiene il presidente Massimo Blasoni ricordando che «i debiti commerciali si rigenerano con frequenza». Per quanto riguarda il 2014, «stimiamo che siano già stati consegnati beni e servizi per circa 113,5 miliardi di euro e di questi ne sarebbero stati pagati soltanto 40». Senza contare il saldo delle spese in conto capitale legate al settore edilizia, bloccato dal Patto di Stabilità e del quale l’Ance lamenta la mancata corresponsione. Secondo ImpresaLavoro, il ritardo nei pagamenti costa alle imprese circa 6 miliardi l’anno di oneri di finanziamento con cui sopperire alle entrate mancanti. Nel periodo 2009-2013, oltre a pagare tasse sempre più esose, le aziende sono state «costrette» a devolvere alle banche circa 30 miliardi.
Non bisogna lamentarsi, poi, se molti imprenditori hanno deciso di trasferirsi in Svizzera. Da ieri avranno un motivo in più: la Confederazione ha deciso di anticipare la riforma fiscale applicando il trattamento vantaggioso degli utili conseguiti in Svizzera a quelli ricavati all’estero. Perché restare in Italia, allora?

Delrio sconfessa Renzi: debiti con le aziende pagati a metà

Delrio sconfessa Renzi: debiti con le aziende pagati a metà

Filippo Caleri – Il Tempo

Alla fine la verità sta nel mezzo. Anche nel caso dei debiti della pubblica amministrazione che negli ultimi giorni sono stati al centro di un’autentica lotteria. Gli artigiani della Cgia di Mestre hanno sostenuto che Renzi non ha mantenuto la promessa di saldarli tutti entro il 21 settembre, il premier sceso in campo per precisare che era già tutto in pagamento. Così ieri il sottosegretario alla presidenza del Consiglio ha confermato che in realtà i soldi a disposizione delle imprese sono 55-60 miliardi, ma quelli effettivamente pagati sono 31-32 a causa di ritardi prevalentemente dovuti alla comprensione da parte delle aziende del nuovo sistema per liquidare i loro crediti verso la pubblica amministrazione. «Posso garantire che il meccanismo che abbiamo messo in piedi è assolutamente certo ed esigibile» ha detto Delrio a margine di un’audizione al Parlamento Ue, sottolineando che «sul fatto che ogni imprenditore può andare a riscuotere quello che gli è dovuto non c’è alcun dubbio». Quindi Delrio ha spiegato che «il fatto che da 60 o 55 (miliardi), come presumibilmente saranno alla fine quelli reali, si sia arrivati a 31-32, dipende dai meccanismi di velocizzazione che le imprese hanno avuto nel rendersi conto del nuovo sistema». Delrio ha aggiunto al riguardo che «a volte alcuni enti locali non hanno pagato le loro partecipate», precisando che in questi casi «c’è anche qualche ritardo un po’ colpevole, tra virgolette». Dunque alla fine se i soldi ci sono ma non sono stati erogati è come se non ci fossero. Secondo questa tesi Renzi dovrebbe pagare la penitenza di andare a piedi al santuario del Monte Senario come annunciato nella puntata di Porta a Porta nel caso non avesse assolto l’impegno. A rincarare la dose è stato ieri il vicepresidente vicario dell’Europarlamento Antonio Tajani: «Mancano ancora all’appello circa 60 miliardi dallo Stato per i pagamenti dei debiti della pa». Dati alla mano, «la Banca d’Italia ha stimato i debiti della Pa al 31 dicembre 2012 a circa 90 miliardi», ha spiegato Tajani. «Da parte sua il governo ha stanziato 56,8 miliardi di questi sono stati erogati alle pubbliche amministrazioni 30, ma la Pa ne ha pagati 26,1. Dunque in totale mancano intorno ai 60 miliardi: 30 miliardi di quelli che sono stati stanziati e altri 30 circa ancora da stanziare». Infine Massimo Blasoni, presidente del centro studi “ImpresaLavoro” ha detto che «liquidare i debiti pregressi di per sé non riduce pertanto lo stock complessivo: questo può avvenire soltanto nel caso in cui i nuovi debiti creatisi nel frattempo risultano inferiori a quelli oggetto di liquidazione».

Troppi disoccupati, e il Comune paga chi va all’estero

Troppi disoccupati, e il Comune paga chi va all’estero

Nicola Pinna – La Stampa

La nuova emigrazione ha uno sponsor istituzionale. Paga tutto il Comune: il viaggio di sola andata, le prime spese di soggiorno e anche un corso d’inglese. Si può andare in qualunque capitale europea, a patto che si viva a Elmas da almeno tre anni e che non sia stata superata la soglia dei cinquant’anni d’età. «Qui i nostri ragazzi non hanno più possibilità e allora perché non aiutarli a trovare un’alternativa altrove? – dice il sindaco Valter Piscedda -. Non è una vergogna cercare un lavoro fuori dalla Sardegna o fuori dall’Italia».

In questa cittadina alle porte di Cagliari, conosciuta soprattutto per l’aeroporto e per lo stadio del Cagliari rimasto aperto pochi mesi, la disoccupazione è il problema numero uno. Il Comune, racconta il sindaco, ha tentato con i piani per il lavoro e i tirocini formativi mai risultati non sono stati incoraggianti. E allora è nata l’idea del progetto “Adesso parto”. «Ogni giorno nel mio ufficio c’è il viavai di disoccupati che chiedono aiuto. In molti mi dicono che vorrebbero andare a trovare fortuna all’estero ma che non hanno neppure la possibilità di pagarsi il biglietto. E allora ci siamo fatti una domanda: perché non incentivare questi ragazzi? D’altronde siamo cittadini d’Europa e non possiamo pretendere che la Sardegna sia in grado di soddisfare tutte le nostre necessità. Certo, avere un lavoro sotto casa sarebbe l’ideale ma dobbiamo prendere coscienza del fatto che la situazione è molto difficile».

L’emorragia di lavoro in Sardegna sembra impossibile da curare e il tasso di disoccupazione, secondo i dati diffusi dall’Istat ad agosto, è già arrivato al 17,5 per cento. L’emergenza più grave è quella che riguarda i giovani: il 54 per cento dei ragazzi, esclusi quelli che studiano, non ha uno stipendio. E in molti hanno già perso le speranze. «Noi non vogliamo incentivare l’emigrazione ma siamo realisti: le politiche del lavoro nella nostra regione hanno fallito – dice il primo cittadino di Elmas -. Con questo progetto diamo un contributo ai ragazzi che non sono disposti ad arrendersi. Non possiamo accettare che passino le giornate a bighellonare al bar: facciamo in modo che vadano fuori, che imparino un’altra lingua, che acquisiscano nuove competenze e che magari tornino in paese con il gruzzolo necessario per costruire casa e metter su famiglia». “Adesso parto” gode già di un finanziamento di 12 mila euro, ma si prevede che le domande saranno molte più del previsto. «Con i nostri ragazzi faremo un patto di fiducia – sottolinea il sindaco Piscedda -. A nessuno chiediamo un contratto di affitto o un contratto di lavoro prima della partenza, perché speriamo che per loro sia davvero una bella avventura».

Tutele crescenti, incentivi, sussidi e indennizzi legati agli anni del lavoro

Tutele crescenti, incentivi, sussidi e indennizzi legati agli anni del lavoro

Enrico Marro – Corriere della Sera

Decreto legge o no, quella che ha in mente il governo Renzi è una riforma di sistema che cambierebbe le coordinate del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali. L’abolizione dell’articolo 18, cioè del diritto al reintegro nel posto di lavoro per i licenziati senza giusta causa, è solo uno dei tasselli della riforma, ma è fondamentale per rendere appetibile il nuovo contratto di lavoro «a tutele crescenti», rilanciato qualche giorno fa con l’emendamento governo-maggioranza e fulcro del nuovo sistema. Al quale il governo intende arrivare rapidamente con i decreti attuativi del disegno di legge in discussione in Parlamento oppure, in caso di ritardo delle Camere, con un decreto legge, appunto.

Solo due forme di lavoro
Nel nuovo mondo del lavoro che ha in mente Renzi ci sono solo due forme di lavoro: autonomo e dipendente. Quella dipendente, a sua volta, si suddivide in tempo determinato e tempo indeterminato a tutele crescenti. Quest’ultima dovrebbe essere la forma più diffusa, perché l’azienda sarebbe incentivata a ricorrervi. Come? Con uno sconto sul costo del lavoro rispetto a un contratto a termine. Non solo. Se nella prima fase del contratto a tutele crescenti, poniamo tre anni, l’azienda risolvesse il rapporto di lavoro, dovrebbe restituire allo Stato lo sconto di cui ha beneficiato, perché essendo stato il contratto, alla prova dei fatti, a termine, esso appunto dovrebbe costare di più. Verrebbero così scoraggiati gli imprenditori che volessero fare i furbi mentre i contratti temporanei dovrebbero limitarsi ai soli casi nei quali effettivamente il lavoro si suppone a tempo determinato, per esempio le attività stagionali.

Lavoratori tutti uguali
Essendo i contratti a progetto e le altre forme di precariato cancellate, i lavoratori avrebbero tutti gli stessi diritti (minimi di retribuzione, maternità, ferie, ammortizzatori sociali) secondo il tipo di contratto (a termine o a tutele crescenti). Certo, è vero, a meno di sorprese, dovrebbe restare un nucleo forte di lavoratori protetti dal vecchio articolo 18 (circa 6 milioni e mezzo nel privato), poiché il nuovo contratto a tutele crescenti si applicherebbe solo alle assunzioni successive all’entrata in vigore della legge. Ma il bacino dei tutelati dall’articolo 18, anno dopo anno, dovrebbe restringersi. E comunque – sostengono i tecnici del governo, replicando a chi dice che così si approfondirebbe la spaccatura tra giovani e anziani – i giovani che verranno assunti col contratto a tutele crescenti avranno una serie di diritti e ammortizzatori che attualmente non hanno, perché non previsti dalle forme di lavoro precarie o perché lavorano in piccole aziende. Mentre oggi infatti solo il 15% delle assunzioni avviene a tempo indeterminato, nel nuovo sistema abbiamo visto che la stragrande maggioranza dei contratti dovrebbe essere di questo tipo.

Le tutele crescenti
Certo, ma «a tutele crescenti», che non equivale all’attuale «posto fisso» (nelle aziende con più di 15 dipendenti), dove l’articolo 18, anche se attenuato dalla riforma Fornero, prevede ancora la possibilità di reintegrare i lavoratori. Nel nuovo sistema, invece, il diritto al reintegro resterebbe solo sui licenziamenti discriminatori (fede religiosa, politica, appartenenza sindacale, razza, eccetera) mentre in tutti gli altri casi l’azienda potrebbe licenziare liberamente il lavoratore dietro pagamento di un’indennità economica crescente in rapporto agli anni di servizio prestati (le ipotesi variano da uno a tre mesi di stipendio per anno di lavoro). Il nodo politico da sciogliere, soprattutto nel Pd, riguarda che cosa accade passata la prima fase del contratto, che si pensa durerà tre anni e durante la quale nessuno mette in discussione la libertà di licenziamento. La sinistra Pd e sindacale vogliono che, passati tre anni, torni la protezione dell’articolo 18 mentre il Nuovo centrodestra no e insiste per il solo indennizzo crescente. Il resto del Pd si divide tra quest’ultima ipotesi e quella di prevedere l’articolo 18 solo dopo un certo numero di anni di servizio (6-12-15) o una certa età del lavoratore.

I nuovi ammortizzatori
Una volta licenziato il lavoratore, in aggiunta all’indennizzo dall’azienda, avrebbe diritto all’indennità di disoccupazione dallo Stato. Si tratterebbe in pratica dell’Aspi (assicurazione sociale per l’impiego) già prevista dalla riforma Fornero, che però non entrerebbe più a regime nel 2017 ma prima. E che si estenderebbe a una platea più ampia, appunto perché ne avrebbero diritto tutti i lavoratori dipendenti nei quali confluirebbero circa 1,5 milioni di lavoratori attualmente impiegati in contratti a progetto, collaborazioni varie e altre forme di precariato. Per questo il governo è a caccia di circa un miliardo e mezzo di euro da mettere nella legge di Stabilità per il 2015. L’indennità avrebbe un tetto (per l’Aspi nel 2014 è di 1.165 euro) e una durata massima (potrebbe essere allungata da 18 a 24 mesi). I beneficiari dovrebbero però accettare le offerte di formazione e di lavoro congrue, altrimenti perderebbero l’assegno. Sparirebbero prima del previsto la cassa integrazione in deroga e l’indennità di mobilità. Via anche la cassa integrazione per chiusura di aziende. Resterebbe solo la cig ordinaria per momentanei cali di produzione e quella straordinaria per ristrutturazioni aziendali, che però potrebbe essere attivata solo dopo aver attuato riduzioni dell’orario. Il tutto finalizzato a limitare il ricorso alla cig solo ai casi di stretta necessità. Essa potrebbe essere estesa in qualche forma anche alle piccole imprese, che finora hanno beneficiato della cig in deroga a spese dei contribuenti. In questo caso dovrebbero invece pagare i contributi.

Matteo paga i debiti. Solo a parole

Matteo paga i debiti. Solo a parole

Filippo Caleri – Il Tempo

Il premier Renzi ha già saldato tutti i debiti contratti dalla Pubblica Amministrazione con le imprese private. A parole. Già perché anche se, secondo il capo del governo, i soldi sono in cassa pronti a essere erogati, a molte aziende i pagamenti dovuti non sono mai arrivati. E l’economia non si fa a parole. Così mentre lo Stato si è approvvigionato di beni e servizi rinviando il saldo delle fatture di acquisto, l’Italia perde ogni giorno in media 107 piccole imprese al giorno. Anche oggi. Un calcolo approssimativo basato sui dati della Confesercenti che ha monitorato le cessazioni di imprese nel commercio al dettaglio. In questo comparto nei primi 8 mesi del 2014 hanno chiuso i battenti 25.760 imprenditori. Un dato che non tiene conto, a onor del vero, di quelle che hanno aperto. Ma anche in quel caso e cioè considerando il saldo, e cioè la differenza tra le nate e le cessate, i dati non sono tali da indurre all’ottimismo.

Sempre secondo la Confesercenti, infatti, questo numero tra marzo e agosto, i mesi nei quali Renzi ha preso in mano le redini del governo, è stato pari a 14.831. Tante sono quelle che sono completamente sparite nel parco complessivo di piccole imprese nei settori del commercio, della ristorazione e degli alloggi. Anche se si lavora su questa cifra, il risultato è sconfortante: nei sei mesi presi in considerazione sono scomparse 82 aziende ogni giorno. Attenzione il numero è stimato per difetto, perché questo aggregato è solo un sottoinsieme, comunque rappresentativo, del totale delle imprese italiane. Comunque le si metta le 80-100 scomparse, che risultano dai calcoli sommari, sono solo il valore di soglia più basso dal quale partire per comprendere come l’economia italiana stia avvizzendo.

Questo dunque il quadro di riferimento di fronte al dibattito che si sta innescando attorno alle somme più o meno stanziate per pagare i debiti della pubblica amministrazione. Un confronto nato dall’accusa rivolta sabato scorso dalla Cgia di Mestre a Renzi che aveva promesso, in una puntata di Porta a Porta, di saldare i conti entro il 21 settembre, San Matteo. Una promessa tradita secondo l’associazione artigiana di Mestre perché, nonostante i pagamenti effettuati nel corso del 2014, al conto finale mancano ancora 25 miliardi. Ieri Renzi ha replicato alle accuse spiegando al Tg2 che «tutti coloro che devono avere soldi dalla Pubblica amministrazione possono averli iscrivendosi al sito del ministero dell’Economia. I soldi ci sono, il 21 settembre l’impegno è stato mantenuto».

Una mezza verità perché effettivamente le disponibilità liquide nel conto corrente del ministero dell’Economia ci sono. I contanti in cassa sono saliti a 105,2 miliardi a giugno scorso contro i 92,2 di fine maggio e i 57,8 di gennaio. Una montagna di denaro presa a prestito nella prima fase dell’anno con tassi molto bassi che hanno aumentato il debito pubblico al record di 2168 miliardi, e che servono a evitare rifinanziamenti con prezzi più elevati se ripartissero le tensioni sui mercati finanziari. Ebbene questa massa di denaro, che eccede le normali necessità di pagamento dell’amministrazione, serve a saldare l’insoluto dello Stato.

Dunque è vero che i soldi ci sono, ma se continuano a restare accreditati a via XX settembre, e non passano nelle casse delle imprese è come se non ci fossero. Probabilmente ci sono degli intoppi nelle procedure per presentare la documentazione oppure molte aziende non hanno tutte le carte in regola per ottenere i loro compensi. La gran parte però attende speranzosa. E occorre fare presto. Soprattutto se, come dice Renzi, i mezzi per pagare ci sono. Un falso problema dunque confermato da Palazzo Chigi ieri sera con una nota: «Tutti i soggetti che hanno un debito verso la P.a. sono oggi – grazie all’accordo tra Governo, banche e CDP – in condizione di essere pagati». «Lo Stato – ribadisce ancora la nota – si è messo nelle condizione di pagare tutti i debiti. E dunque è corretto sostenere che la sfida di liberare risorse per pagare tutti i debiti Pa è vinta. Rimane quella di semplificare e imporre efficienza a tutta la pubblica amministrazione».

Centomila variabili per calcolare la Tasi

Centomila variabili per calcolare la Tasi

Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

Meno male che si tratta di un’imposta «unica». Nel suo anno del debutto, la componente immobiliare della «Iuc» – articolata in Tasi più Imu (a cui si aggiunge la Tari per pagare la nettezza urbana) – sfiora il muro delle 200mila aliquote: quelle approvate e pubblicate finora, come mostrano i calcoli di ItWorking (la società del sistema Assosoftware che ha monitorato tutte le delibere comunali), sono 197.350. Il contatore, però, può ancora salire perché per deliberare le aliquote Imu c’è tempo fino al 28 ottobre e mancano ancora 2.500 Comuni all’appello. Il tetto delle 200mila aliquote, addirittura, entro fine anno potrebbe essere sforato.

A far polverizzare ogni record di complicazione è naturalmente la Tasi, il tributo sui «servizi indivisibili» dei Comuni che si incrocia con l’Imu e moltiplica all’infinito le variabili di un’imposta, quella immobiliare, che in teoria sarebbe tra le più semplici da applicare. Fin dall’inizio, però, è stato chiaro che nella Tasi l’unica regola è stata rappresentata dall’assenza di regole, che ha impedito di trovare un qualsiasi parametro chiaro per orientarsi nel nuovo tributo. Anche nel calendario, per esempio, la legge dice una cosa, ma la realtà ne racconta un’altra. Dopo vari correttivi, l’acconto è stato fissato al 16 giugno per un primo gruppo di Comuni, quelli più “rapidi” a decidere le aliquote, e al 16 ottobre per tutti gli altri, con appuntamento al 16 dicembre per il saldo. Nei fatti, però, i Comuni hanno continuato a seguire la disciplina originaria, che non prevedeva date fisse, e spesso hanno scelto scadenze diverse che finiscono per avere la meglio su quelle “ordinarie”.

A giugno, l’incrocio tra date nazionali e calendari locali ha portato a una sostanziale disapplicazione delle sanzioni per chi avesse sforato la scadenza del 16, e anche per l’appuntamento di ottobre è facile pronosticare più di un problema. «Per semplificare davvero – spiega Bonfiglio Mariotti, presidente di Assosoftware – bastano piccoli correttivi che non hanno costi per lo Stato o per gli enti locali. Nel caso di Imu e Tasi sarebbero sufficienti formati standard per le delibere con campi predefiniti per le aliquote, e un limite alla fantasia nelle detrazioni».

Non è solo il numero delle variabili a complicare la vita dei contribuenti, e dei professionisti che li devono assistere. Rispetto all’Imu, che da sola dispiega circa 99.200 aliquote diverse (ma tutte fondate su criteri costanti), i parametri della Tasi si sono sviluppati in nome della “libertà totale” lasciata alle amministrazioni locali. Con risultati spesso cervellotici, e qualche volta paradossali (si veda anche l’articolo in basso). Nel costruire le architetture gotiche della Tasi, i sindaci sono stati animati anche da buone intenzioni. È il caso di chi ha voluto evitare alle abitazioni principali un carico fiscale superiore all’Imu, introducendo decine di detrazioni diverse (a Bologna sono 23) o addirittura formule matematiche per sconti “su misura”. Oppure di chi ha studiato decine di aliquote ridotte per negozi, laboratori artigianali o fabbricati invenduti.

Non è questo, però, a poter giustificare la confusione di un tributo che pare ormai fuori controllo. I conti di Assosoftware confermano, inoltre, che le detrazioni hanno una presenza piuttosto limitata nel campo della Tasi. L’Imu, che esclude la quasi totalità delle abitazioni principali (pagano solo quelle considerate «di lusso» dal Fisco), conta in Italia più di 28mila detrazioni diverse, mentre la Tasi non arriva a 10mila. La rassegna delle delibere mostra, del resto, che solo nel 29% dei Comuni il tributo sull’abitazione principale è alleggerito da detrazioni (i calcoli sono del Caf Acli). Limitati nel numero, gli sconti Tasi non conoscono però confini nella fantasia di applicazione: possono essere graduati o riservati in base al reddito del proprietario, al suo «riccometro» (cioè l’indicatore Isee), all’età, alla presenza di figli, di famigliari disabili, oppure alle caratteristiche della casa. Risultato: le 28mila detrazioni Imu ricadono tutte in 13 grandi tipologie, mentre le famiglie degli sconti Tasi sono incalcolabili perché la stessa ItWorking, dopo aver catalogato 186 variabili, si è dovuta arrendere.

Le complicazioni, infine, non abbandonano nemmeno i contribuenti dei quasi 700 Comuni in cui la delibera non è ancora stata approvata. In quel caso, infatti, la Tasi andrà pagata tutta a dicembre, con l’aliquota standard dell’1 per mille. Per le abitazioni principali questo significa che non ci sono detrazioni, e che quindi tutti (anche chi non ha mai pagato né Imu né Ici) dovranno versare qualcosa. Sugli altri immobili, invece, il dato andrà incrociato con le aliquote Imu, perché la somma delle due gambe della Iuc non può superare il 10,6 per mille. Dove l’Imu è già al massimo, la Tasi non sarà dovuta. Dove è al 10 per mille si pagherà lo 0,6 per mille, e così via. Anche questo aiuta a capire come mai l’invio dei bollettini pre-compilati, promesso dalla legge, è rimasto nell’ampia maggioranza dei casi una pia illusione.

Rimborsi Iva: in Italia si aspettano 2 anni e mezzo, in UK 10 giorni

Rimborsi Iva: in Italia si aspettano 2 anni e mezzo, in UK 10 giorni

Chiara Bussi – Il Sole 24 Ore

Due anni e mezzo. Tanto deve attendere, in media, un’impresa in Italia per avere il rimborso dei crediti Iva. Va un po’ meglio – un anno e mezzo – con la procedura semplificata, ma resta un’eternità se si pensa che in Gran Bretagna basta aspettare tra i 7 e i 10 giorni e in Germania appena una decina. Per la stessa operazione in Francia – secondo le stime fornite da Kpmg sui cinque big europei, frutto dell’esperienza sul campo – occorre invece in media un mese, mentre in Spagna l’attesa si dilata a sei. Un divario inaccettabile secondo la Commissione Ue, che nel settembre 2013 ha avviato una procedura di infrazione contro il nostro Paese con l’invio di una “lettera di contestazione”. Roma è fanalino di coda anche nel caso di un’impresa non registrata ai fini Iva nello Stato di rimborso: per il recupero deve aspettare, in media, un anno e mezzo. In questo caso la procedura più veloce è quella francese, dove in appena due mesi la pratica è chiusa.

Come si spiegano queste tempistiche così diverse? «I Paesi più virtuosi, come Gran Bretagna e Germania – sottolinea Davide Morabito, Associate Partner KStudio Associato (Kpmg) – hanno un’attività istruttoria molto rapida e snella, quasi automatica, e prevedono controlli successivi. Una peculiarità italiana è invece la necessità di presentare garanzie bancarie o fidejussioni di tre anni come condizione per ottenere il rimborso». Un ostacolo in più, rileva Morabito, soprattutto per le aziende in difficoltà, che per queste garanzie devono sostenere costi aggiuntivi.

Nel frattempo l’Italia è sotto procedura di infrazione da parte della Ue. «Le autorità italiane – spiegano da Bruxelles – ci hanno risposto e i contatti proseguono». Per chiudere il contenzioso il governo ha introdotto nell’attuazione della delega fiscale (ancora in elaborazione) uno snellimento delle regole. Occorrerà però vedere se, una volta approvate, soddisferanno la Commissione e riusciranno a evitare il “cartellino rosso”, con la messa in mora, seguita dal deferimento alla Corte di giustizia Ue. Le nuove regole puntano sulla semplificazione, innalzando da 5 a 15mila euro la soglia per ottenere i rimborsi senza adempimenti. Per alcune categorie di contribuenti sarà inoltre possibile richiedere il rimborso del credito oltre 15mila euro senza presentare garanzie, ma occorreranno il visto di conformità e le dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà. Queste misure, come ha dichiarato in sede di audizione parlamentare il direttore dell’agenzia delle Entrate, Rossella Orlandi, consentiranno lo sblocco di 22mila rimborsi. Sempre in sede di audizione, a fine luglio la semplificazione è stata definita «positiva e apprezzabile» dal presidente del Comitato tecnico per il fisco di Confindustria, Andrea Bolla, che ha però invitato a «ripensarne l’attuazione». Secondo Confindustria, infatti, la misura «non è in grado di incidere in modo significativo sul costo degli adempimenti di soggetti che vantano crediti di entità molto maggiore»: se da un lato si fa risparmiare alle imprese il costo della garanzia fideiussoria, dall’altro si sostituisce di fatto questo onere con un altro.

Sul fronte dei tempi l’Italia procede dunque a rilento, ma si cominciano a intravedere alcuni miglioramenti su quello delle erogazioni. Nel 2013, secondo i dati dell’agenzia delle Entrate, sono stati rimborsati 11,5 miliardi contro i 6,8 del 2012. Da gennaio all’inizio di settembre di quest’anno si è invece arrivati a quota 5 miliardi. Allargando il focus su 65 Paesi, si scopre che il sistema italiano è in buona compagnia. Secondo un recente studio di Kpmg, infatti, solo il 40% degli Stati restituisce l’Iva per i soggetti residenti in tempi ragionevoli (che non superano i 56 giorni) e con procedure efficienti. Di questo gruppo fanno parte undici Paesi della Ue tra cui, oltre alle già citate Gran Bretagna e Germania, anche Irlanda, Austria e Olanda. L’Italia si situa invece nel restante 60%, insieme a Francia, Grecia, Spagna e Portogallo. «Questa lentezza – conclude Morabito – è un grande ostacolo per le imprese e rischia di scoraggiare gli investimenti esteri. L’Iva è una componente fondamentale delle scelte strategiche delle multinazionali, perché ha un impatto diretto sul conto economico e diventa dunque un fattore di competitività».

Debiti PA: è San Matteo, manca il miracolo

Debiti PA: è San Matteo, manca il miracolo

Marco Palombi – Il Fatto Quotidiano

“Se entro la fine dell`estate, diciamo il 21 settembre che è San Matteo, saranno pagati tutti i debiti della Pubblica amministrazione lei andrà a piedi da Firenze a Monte Senario”. Il 13 marzo, sulla comoda poltrona di Porta a Porta, il premier aveva fatto una scommessa con Bruno Vespa: per lui, se avesse perso, niente pellegrinaggio (“so dove mi mandano gli italiani tanto”), ma il rischio assai più rilevante di sentirsi dare del “buffone”. Oggi, come si sa, è proprio San Matteo e quindi andrà verificato intanto se il problema dei debiti commerciali pregressi della P.A. sia stato risolto e, secondariamente, dove dovrà recarsi Matteo Renzi e con che qualifica.

La Cgia, sempre attenta alle scadenze mediatiche, ieri ha fornito alcuni numeri: “Nel biennio 2013-2014 sono stati messi a disposizione 56,8 miliardi di euro e entro il 21 luglio 2014 (ultimo aggiornamento disponibile) ne sono stati pagati 26,1: alle imprese mancano 30,7 miliardi. La promessa non è stata mantenuta”. I numeri degli artigiani di Mestre, però, non coincidono con quelli del Tesoro: i soldi stanziati dai due governi precedenti – come ha riportato, sempre ieri, uno studio di Confartigianato – sono più o meno 47 miliardi e mezzo, esattamente l’indebitamento ulteriore che Mario Monti contratto a più riprese con la Commissione europea: “All’appello mancano 21,4 miliardi di euro che gli imprenditori aspettano di riscuotere – ha spiegato il presidente Giorgio Merletti -. Allo scorso 21 luglio erano stati pagati alle aziende 26,139 miliardi, pari al 55% dei 47,519 stanziati con lo Sblocca-debiti e la Legge di Stabilità 2014”. In realtà, e sempre a stare ai dati presenti sul sito del Tesoro (sempre aggiornati al 21 luglio), ai 26 miliardi che risultano pagati direttamente dalle amministrazioni coinvolte vanno aggiunti oltre sei miliardi di crediti certificati online dalle aziende e scontabili in banca secondo un decreto del governo Renzi che coinvolge anche Cassa depositi e prestiti come garante.

A quanto risulta al Fatto Quotidiano, infine, a inizio settembre il totale dei debiti commerciali complessivamente saldato dallo Stato ammontava a circa 43 miliardi, cioè quasi l’intero margine di nuovo debito concesso dalla Ue all’Italia a questo fine. Se questi dati saranno confermati, bisognerà ammettere che c’è stata una discreta accelerazione nei pagamenti durante l’ultimo anno. La cosa va peraltro di pari passo con un complessivo miglioramento dei tempi di pagamento delle fatture grazie a un lavoro impostato già dal governo Letta: i tempi di attesa medi per essere saldati – dice lo studio già citato di Confartigianato – si sono ridotti da 104 a 88 giorni (ma al Sud si aspetta fino a 108), un miglioramento anche se “siamo ben lontani dal traguardo di 30 giorni imposto dalla legge”, spiega Merletti. Per Francesco Boccia (Pd), presidente della commissione Bilancio della Camera, la situazione non è più drammatica: “Per la fine dell’anno riusciremo a pagare i debiti accumulati a fine 2012 aumentando il debito pubblico. Comunque non farei diventare questo discorso sui debiti delle P.A. oggetto del conflitto politico: abbiamo fatto abbastanza, adesso completiamo l’opera con la Legge di Stabilità”.

Il problema vero, antico come sanno i cultori della materia, è sapere di che cifre si parla, quale sia cioè lo stock dei debiti commerciali dello Stato e dunque quanto bisogna ancora pagare (anche se la formula della certificazione con sconto in banca e garanzia di Cdp porta la questione fuori dal perimetro dei conti pubblici, almeno per un po’). I tempi in cui volavano i 90 o addirittura i 120 miliardi sono finiti, ma anche le analisi più recenti basate sui dati di Banca d’Italia concordano nel fatto che la cifra è superiore allo stanziamento di 47 miliardi: anche secondo il Tesoro è probabile che la cifra, alla fine del processo, supererà i 60 miliardi complessivi. Insomma, se Renzi non si fosse impiccato come al solito alle sue promesse (“entro il 21 settembre”), stavolta gli si poteva pure concedere il risultato. E invece no: fa di tutto per farsi smentire.