gianni trovati

Multe, incassi comunali giù del 17,8% in 5 anni

Multe, incassi comunali giù del 17,8% in 5 anni

di Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

Negli ultimi cinque anni gli incassi raccolti dai Comuni dalle multe si sono assottigliati del 17,8% perché nel 2015 non si riuscirà ad andare oltre gli 1,26 miliardi di euro contro gli 1,5 miliardi abbondanti raccolti nel 2010. Lo certifica il Centro studi ImpresaLavoro, che ha passato al setaccio i dati del Siope, il censimento che misura in tempo reale gli incassi e i pagamenti delle pubbliche amministrazioni. Naturalmente non tutte le città seguono la stessa dinamica: guardando agli incassi medi 2013-2015 (questi ultimi stimati in base all’andamento dei primi undici mesi) Milano si conferma “leader nel settore”, con poco più di 139 euro ogni anno per ogni cittadino con più di 18 anni, seguita da Firenze (quasi 97 euro pro capite con lo stesso calcolo) e Bologna (93,6 euro).

L’andamento generale, comunque, è chiaro e porta i sindaci a respingere al mittente l’accusa di “utilizzo improprio” delle entrate raccolte con i verbali: «Le cifre – sostiene una nota dell’Anci – mostrano che i Comuni non utilizzano le multe per fare cassa, nonostante il taglio senza precedenti subìto dai trasferimenti negli ultimi cinque anni». A frenare le multe sono stati più fattori, intervenuti progressivamente nel corso del tempo: il primo è rappresentato dalla crisi economica, come mostra l’ultimo Rapporto Isfort sulla mobilità secondo cui l’anno scorso gli spostamenti degli italiani sono stati il 12,8% in meno rispetto al 2009, e nel 2012, l’anno più nero da questo punto di vista, si era arrivati al 23,8% in meno. Meno spostamenti significa naturalmente meno multe, anche perché i mezzi pubblici assorbono meno del 15% della mobilità.

L’altra variabile, però, è rappresentata dallo sconto del 30% introdotto dal «decreto del Fare» varato a metà 2013 dal Governo Letta per chi paga entro cinque giorni dal verbale. Il 2014 è stato il primo anno di piena applicazione della tagliola, e puntualmente ha registrato la flessione più consistente (-8,74%) negli incassi rispetto ai 12 mesi precedenti. Per una voce dalla riscossione difficile come le multe, i dati sembrano dare argomenti a chi sostiene che lo sconto sia stato parecchio sfruttato da chi comunque si sarebbe presentato alla cassa, mentre non è stato particolarmente efficace nel convincere i renitenti al pagamento: una tesi, questa, sostenuta dagli amministratori locali che chiedono di cancellare il bonus.

Da città a città, comunque, i risultati cambiano: a Milano, grazie all’infittirsi dei controlli, nei primi 11 mesi del 2015 (ma i dati Siope di novembre non sono del tutto completi) le sanzioni hanno prodotto entrate per 157 milioni, cioè più dei 140 raccolti in tutto il 2013, e a fine anno si potrebbe sfondare quota 190 milioni. A Roma, invece, a giudicare da quanto raccolto fin qui si arriverà col fiatone poco sopra i 100 milioni, con una flessione del 50% rispetto all’anno scorso.

Il Mef “resuscita”, Tosap, Cosap e pubblicità

Il Mef “resuscita”, Tosap, Cosap e pubblicità

Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

Il dipartimento Finanze mette una pezza a una dimenticanza della politica e con la risoluzione 1/Df/ 2015 diffusa ieri fa rivivere le vecchie tasse, canoni e imposte su occupazione del suolo pubblico, pubblicità e pubbliche affissioni. L’intervento ministeriale chiude un buco da almeno un miliardo all’anno, ma visto che questi soldi devono arrivare dai contribuenti servirà forse far seguire a questo primo passo un nuovo puntello normativo per evitare una nuova ondata di carte bollate: le occasioni del resto non mancano, a partire dal Milleproroghe in corso di conversione alla Camera (ieri sono state respinte le pregiudiziali di costituzionalità).

Il problema nasce infatti proprio da una mancata proroga (segnalata sul Sole 24 Ore del 23 dicembre scorso), perché a differenza dello scorso anno la legge di stabilità non si è preoccupata di confermare anche per il 2015 i vecchi sistemi di prelievo su occupazione del suolo pubblico e pubblicità. Queste voci, che oltre a Tosap e Cosap comprendono infatti anche l’imposta sulla pubblicità, il diritto sulle pubbliche affissioni e il canone per l’autorìzzazione all’installazione dei mezzi pubblicitari (Cimp), sarebbero dovute uscire di scena dal 1° gennaio scorso, per essere sostituite dall’«Imu secondaria» prevista dal federalismo fiscale nel 2011 ma mai attuata. La manovra si è concentrata prima sulla «local tax», che con il canone unico avrebbe superato il problema, ma dopo il temporaneo accantonamento della riforma non si è preoccupata troppo delle conseguenze.

Per partire davvero, e arricchire la già fitta lista di acronimi del Fisco locale, l’«Imus» avrebbe però bisogno di un regolamento applicativo (lo chiede l’articolo 11 del Dlgs 23/2011, il provvedimento sul «federalismo municipale» che l’ha istituita) con la «disciplina generale» della nuova imposta la sua articolazione a seconda del tipo di occupazione, della classe demografica del Comune e così via. Senza questo provvedimento, argomenta il dipartimento Finanze in risposta a un quesito dell’Anacap (l’associazione che riunisce le aziende concessionarie dei servizi di riscossione degli enti locali), l’Imu secondaria non può partire, perché i Comuni hanno un’autonomia tributaria, ma questa può esercitarsi solo nei limiti fissati dalla legge statale (articolo 52 del Dlgs 446/1997). Se l’Imu secondaria non può partire, i vecchi tributi non possono andare in pensione, anche perché a differenza dell’imposta di soggiorno (che i Comuni hanno potuto istituire anche senza decreto attuativo) questi prelievi sono obbligatori.

Sulla spesa tagli finti, sui tributi aumenti veri

Sulla spesa tagli finti, sui tributi aumenti veri

Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

Fino a oggi le tasse locali sono state trattate da Governi e Parlamenti come un ramo cadetto della politica fiscale. Per dirla in modo più chiaro, le varie “riforme” che si sono affastellate in questi anni hanno sempre risposto a scopi estranei alla finanza locale, cioè prima di tutto a trovare soldi per puntellare il bilancio statale.

La vicenda dell’Imu, che almeno nel nome pare destinata a concludersi dopo tre anni di sofferenza, è esemplificativa. Fin dall’inizio, questa versione geneticamente modificata della vecchia (e ordinata) Ici ha gonfiato il gettito con l’obiettivo di aumentare le entrate statali, al punto da girare allo Stato quote rilevanti di un’imposta municipale solo nel nome. Questo difetto d’origine si è inevitabilmente riverberato su tutti gli sviluppi dell’Imu, fino all’ultima puntata che interessa in questi giorni i terreni agricoli ex montani (lo raccontiamo nella pagina a fianco). Anche in questo caso, si è partiti dall’esigenza di trovare 350 milioni già spesi dallo Stato con il bonus Irpef, e per raggiungere questo scopo che non c’entra nulla con l’eventuale ricchezza tassabile dei terreni si sono costruiti criteri riconosciuti come irrazionali dallo stesso Governo, che infatti ora annuncia proroghe e correzioni future.

Questa prassi, intendiamoci, è iniziata anni fa, e all’inizio deve essere sembrata geniale a Governi in cerca di risorse e consensi. In questo modo, infatti, è stato possibile a tanta politica far finta di tagliare spesa pubblica senza aumentare le tasse, dando però ad altri il compito di trovare le risorse per far quadrare i conti. Il gioco, però, ha il fiato corto, i contribuenti l’hanno capito da tempo e la moltiplicazione degli importi e delle complicazioni per pagarli ha azzerato la pazienza. La nuova «tassa locale» ha il compito titanico di affrontare questo problema: anche per dare ai contribuenti la possibilità di capire quali sindaci sono stati vittime del meccanismo, e quali invece l’hanno sfruttato per continuare a finanziare inefficienze sulle spalle degli altri.

Isee, nella lotteria dei parametri rischiano di perdere tutti

Isee, nella lotteria dei parametri rischiano di perdere tutti

Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

Come uno studente svogliato, che la sera prima dell’interrogazione prova con scarso successo ad affrontare in volata secoli di storia ignorati per mesi, la Pubblica amministrazione italiana sta arrivando splendidamente impreparata all’appuntamento con il nuovo Isee. Qui, però, in gioco non c’è un voto in pagella, ma la possibilità di gestire decentemente l’edilizia popolare nelle città con le periferie infiammate oppure l’assistenza ad anziani e famiglie nei territori schiacciati dalla crisi. Non è certo la prima volta che una riforma arriva con l’affanno all’appuntamento dell’attuazione, ma in questo caso inciampare nell’applicazione pratica delle regole approvate ormai 12 mesi fa sarebbe un peccato grave. L’Isee di seconda generazione ha qualche problema, a partire dall’effetto collaterale dell’Imu che aumenta il valore imponibile della casa di proprietà e si riflette anche sull’indicatore, ma se ben attuata offrirebbe più opportunità che incognite.

Il sistema dei controlli automatici promette di spazzare via la pletora delle autodichiarazioni fantasiose che finora hanno permesso a molti di agguantare prestazioni e servizi a cui non avrebbero avuto diritto. I parametri, raffinati rispetto al passato, provano a offrire un’attenzione più puntuale ai bisogni effettivi delle famiglie, con tutele maggiori quando i figli sono tanti o c’è un portatore di handicap. Tutto il sistema, insomma, nasce per distribuire in modo più efficace i soldi pubblici per il welfare, che certo non aumentano allo stesso ritmo in cui crescono i bisogni.

Proprio quest’ultimo fattore rende indispensabile un surplus di impegno per evitare inciampi. Un po’ di aiuti che si spostano da chi è povero solo sulla carta verso i soggetti davvero in difficoltà sarebbero un’ottima notizia, ma un anziano che perde un sostegno solo perché la sua casa vale per il Fisco il 60% in più sarebbe intollerabile. Eppure il rischio c’è. A renderlo concreto c’è anche il fatto che la rete per lo scambio di informazioni fra le diverse pubbliche amministrazioni sembra ancora piena di buchi e che di conseguenza molti Comuni dovranno applicare “al buio” i nuovi parametri. In questo modo, il passaggio al nuovo Isee rischia di trasformarsi in una lotteria, il cui risultato dipende dall’incrocio più o meno fortuito fra i nuovi criteri di calcolo e le vecchie soglie di accesso ai servizi: una lotteria di cui non hanno bisogno le famiglie in difficoltà né i Comuni, lasciati in prima fila a gestire un problema più grande di loro.

La local tax, scommessa ad alto rischio per i cittadini

La local tax, scommessa ad alto rischio per i cittadini

Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

Le tasse sull’abitazione principale sono una delle passioni più intense della politica di questi anni, con il risultato che in sette città su 10 la Tasi sulla casa media è più cara dell’Imu 2012 (e il quadro peggiora se si guarda ai centri minori, dove le detrazioni sono ancora più rare), e che gli appartamenti più modesti sono anche i più penalizzati rispetto al passato. Basterebbe questo per chiedere a partiti e Parlamento di occuparsi d’altro. Al di là della battuta, però, l’ennesima riforma del Fisco sul mattone è indispensabile, perché fra i tanti difetti delle regole scritte pochi mesi fa c’è anche il fatto di non aver saputo guardare più in là del proprio naso: tetti di aliquota e mini-aiuti statali sono stati previsti solo per quest’anno, lasciando campo libero nel 2015 ad aumenti record. Senza modifiche, l’anno prossimo si potrebbe imporre alla prima casa un prelievo del 6 per mille senza detrazioni, il doppio rispetto a oggi.

Anche la fantasia fiscale, però, ha dei limiti, e la «tassa unica» su cui sta lavorando il Governo rappresenta nei fatti un ritorno all’Imu, con aliquote e sconti un po’ più bassi ma con lo stesso impianto. Appurato che soldi per esentare tutte le abitazioni non ce ne sono, la scelta non è sbagliata, perché riporta un minimo di progressività al carico fiscale. Sugli altri immobili, però, il rischio è che la nuova aliquota massima al 12 per mille si traduca in un’altra tornata di rincari, dopo che quest’anno i Comuni hanno potuto arrivare fino all’11,4 per mille. Né si può fare troppo affidamento sulla capacità di discriminare tra i diversi immobili. Da un lato, l’esperienza insegna che quando il sindaco è in difficoltà finanziarie (o non sa tagliare le spese) l’aliquota sale su tutti i tipi di fabbricati. Dall’altro, è difficile sostenere che una casa sfitta – magari perché non si trova un inquilino – “merita” l’aliquota al 12 per mille più di un negozio affittato, ad esempio. La nuova tassa tutta comunale, insomma, è una scommessa sull’autonomia. Purché a perderla non siano i contribuenti.

Terreni, macchinari e capannoni: il conto delle patrimoniali nascoste

Terreni, macchinari e capannoni: il conto delle patrimoniali nascoste

Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

Dall’Imu sui terreni che fino a oggi erano considerati esenti perché montani alle tasse sui capannoni ingigantite dai cambi continui di regole e dai paradossi dei calcoli che trattano i macchinari come il mattone e moltiplicano così la base imponibile, il fisco immobiliare ha ormai scalato la classifica delle tasse «ostili» al contribuente. A spingerlo in vetta è stata la sua caratteristica principale, assunta negli ultimi tre anni: un caos normativo interminabile che si è puntualmente tradotto in rincari, spesso retroattivi, per coprire questo o quel problema di bilancio.

L’ultimo episodio della saga arriva con l’addio all’esenzione totale per i terreni agricoli in 2mila Comuni, in base al decreto che il ministero dell’Economia ha preparato e che a meno di ripensamenti dell’ultima ora dovrebbe vedere la luce a breve. Il nuovo provvedimento attua un capitolo del decreto Irpef di aprile, che aveva promesso una stretta sulle esenzioni oggi in vigore nei Comuni considerati «montani» dall’Istat con l’obiettivo di raggranellare «una somma non inferiore a 350 milioni di euro». Nel frattempo i mesi sono passati, le regole attuative (che avrebbero dovuto vedere la luce entro il 22 settembre) hanno tardato, ma proprio il fatto che i 350 milioni di euro siano già stati messi a copertura sul bilancio 2014 rende improbabile un altro rinvio.

Nelle loro infinite contorsioni di questi ultimi tre anni, però, le tasse immobiliari hanno raggiunto risultati paradossali anche su contribuenti già abituati a fare i conti con l’Ici. È il caso, in particolare, di capannoni, alberghi e centri commerciali: nel tentativo almeno di ammorbidire i maxi-aumenti che hanno colpito queste categorie produttive, l’ultima legge di Stabilità ha provato la strada della deduzione dalle imposte sui redditi di quanto versato a titolo di Imu e poi di Tasi. Peccato, però, che per far quadrare i conti la deducibilità sia stata ridotta al minimo, con il risultato che mentre il bonus attribuisce uno sconto effettivo del 5,5%, l’ulteriore aumento lineare delle basi imponibili nel 2013 è stato dell’83 per cento, e l’arrivo della Tasi quest’anno ha assestato un colpo ulteriore. Una beffa, che per di più ha escluso ogni aiuto per le imprese in perdita, per le quali la deducibilità si trasforma in un credito d’imposta futuribile. Tutti questi fenomeni si ripresentano ingigantiti sulle imprese che si vedono attribuire la rendita catastale anche ai macchinari come le presse, i forni e gli altri strumenti di lavorazione, e che anche su questi pagano Imu e Tasi. Nel cantiere della manovra dell’anno scorso l’allora ministro dello Sviluppo economico Flavio Zanonato disse che era in- concepibile «far pagare la patrimoniale a un tornio». È esattamente quello che accade.

Ma la ricerca dei problemi fiscali sul mattone non può ignorare l’abitazione principale, oggetto di un dibattito intenso quanto inconcludente da ormai nove anni. Anche in questo caso, il Fisco ha bussato a sorpresa alla porta di contribuenti fino a un momento prima “graziati” dalle vecchie tasse. Lo ha fatto con la Tasi, che a causa dell’assenza degli sconti fissi tipici di Ici e Imu ha presentato per la prima volta il conto anche ai proprietari di abitazioni di valore fiscale molto basso, per questa ragione sempre trascurati dalle vecchie imposte. Il risultato paradossale è stato che dopo un dibattito infinito sul «superamento» delle imposte sull’abitazione principale, milioni di abitazioni principali che non avevano mai versato né Ici né Imu sono state obbligate a pagare la Tasi. Anche in questo caso, nemmeno il calendario ha giocato a favore dei contribuenti, permettendo loro almeno di abituarsi all’idea e di capire con comodo quanto e come pagare.

Local tax, il rischio di pagare gli errori del passato

Local tax, il rischio di pagare gli errori del passato

Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

Dopo tre anni in cui il Fisco sul mattone ha visto crescere a passo di carica il caos delle regole e soprattutto il conto a carico dei cittadini, ogni novità su parametri e aliquote tocca un nervo scoperto. In questo quadro, i nuovi indicatori della «tassa locale» non passeranno certo inosservati, soprattutto nel capitolo dedicato a seconde case e altri immobili, per i quali l’aliquota massima sale fino al 12 per mille invece dell’11,4 attuale. Uno scarto piccolo, rivolto però a proprietari che oggi pagano dal 100 al 200% in più di quello che versavano tre anni fa, mentre il loro immobile perde valore schiacciato dalla crisi e dalle tasse.

Il fatto è che nel Fisco gli errori si pagano, e nel travaglio eterno della Tasi di errori ne sono stati fatti parecchi. Dopo un continuo lavorio sulle norme per mettere una pezza a questo o quel difetto del nuovo tributo, il debutto effettivo della Tasi è stato accompagnato da un fondo statale di 625 milioni. L’aiuto è stato pensato per permettere a molti Comuni di far quadrare i conti e di riservare anche qualche detrazione sulle abitazioni principali, nel tentativo di attenuare il drastico effetto regressivo (aumenti per le case più “povere”, sconti per quelle più ricche) del nuovo sistema. Questo assegno statale, però, ha solo rimandato il problema di un anno, perché ora altri 625 milioni non ci sono (o il Governo non è disposto a metterli) e la leva fiscale potenziale dei Comuni sale.

Non solo: la nuova spending review resta un boccone amaro per i sindaci, e una quota (minoritaria) viene compensata con una maggiore libertà di aliquote. Il caos dellaTasi, poi, si pagherà anche in termini di polemiche sull’abitazione principale: il tributo sui servizi indivisibili ha colpito le case di valore più basso, il nuovo meccanismo, grazie alla detrazione fissa, redistribuisce il carico verso l’alto, ma in questa altalena continua c’è chi perde e chi guadagna e il dibattito è servito.

Come se ne esce? Il Governo punta su «autonomia» e «semplificazione», per costruire una tassa locale che sia comprensibile da chi la paga (certe delibere Tasi con decine di parametri bizantini fanno più male dei modelli di versamento in fatto di consenso da parte dei cittadini) e sia davvero tutta comunale, cancellando il paradosso dell’imposta «municipale» nel nome ma statale a metà nei fatti. È una strada corretta, come saggia è stata la rinuncia all’idea iniziale di accorpare nella tassa locale anche i tributi minori, con una mossa che avrebbe fatto pagare a tutti una quota del miliardo versato ogni anno sui cartelloni pubblicitari o l’occupazione di suolo pubblico. Gli scogli da superare, però, restano parecchi e per non finire incagliati serve che la semplificazione sia vera e l’autonomia effettiva. E serve, va aggiunto, che questa riforma sia l’ultima: perché imporre ai contribuenti un corso accelerato tre volte all’anno per pagare le tasse sulla casa non è un’abitudine civile.

L’addizionale sull’Irpef cede il passo a un’imposta aggiuntiva

L’addizionale sull’Irpef cede il passo a un’imposta aggiuntiva

Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

Tassa unica locale dal 2015 e destinata tutta ai Comuni, addio all’addizionale Irpef sostituita con una «sovraimposta» statale con clausola anti-rincari, aumento del fondo crediti di dubbia esigibilità in cambio di ulteriore flessibilità sul Patto di stabilità e sulle coperture degli extradeficit, finanziamento centrale degli interessi sui mutui per gli investimenti comunali, possibilità di usare parte degli oneri di urbanizzazione per finanziare spesa corrente e cancellazione di tutte le norme puntuali che in questi anni si sono concentrate su singole voci dei bilanci locali. Sono i contenuti dell’accordo politico che Governo e sindaci hanno raggiunto ieri a Palazzo Chigi. La direzione, insomma, pare segnata, e ora toccherà ai tavoli tecnici tradurre tutto in regole da inserire nel correttivo alla legge di stabilità. «Gran parte delle nostre richieste sono state accolte dal Governo – ha spiegato il presidente dell’Anci, Piero Fassino, appena dopo l’incontro – e ora la legge di stabilità è un po’ meno onerosa».

Sulla tassa unica, l’accordo conferma le anticipazioni dei giorni scorsi. L’aliquota di base per le abitazioni principali sarà più alta rispetto alla Tasi, ma le detrazioni standard alleggeriranno il peso per le case di valore medio-basso (la maggioranza) e dovrebbero tornare a escludere dall’imposta chi già non pagava né Imu né Ici. Sugli altri immobili, il primo effetto sarà la semplificazione, mentre le imprese attendono interventi di peso sulla deducibilità dalle imposte sul reddito e sull’esclusione dal calcolo dei macchinari (si veda Il Sole 24 Ore di ieri). La semplificazione, secondo il progetto, sarà però generalizzata dal fatto che i Comuni potranno distinguere il trattamento per grandi categorie di immobili (casa sfitta, casa affittata e così via) e non per micro-dettagli. Imposta sulla pubblicità, tassa sull’occupazione del suolo pubblico e gli altri tributi minori non entreranno nella tassa locale, ma si fonderanno in un canone unico nella disponibilità dei Comuni, che potranno articolarlo come meglio credono. Questa soluzione rende un po’ meno «unica» la tassa locale, ma evita di distribuire sulla generalità dei contribuenti il carico (oltre un miliardo di euro all’anno) oggi pagato da chi mette cartelloni pubblicitari oppure utilizza suolo pubblico per la propria attività commerciale.

Con la tassa locale va in soffitta l’addizionale Irpef, che passa allo Stato. L’idea, sul punto, è di trasformarla in una «sovraimposta», cioè un’addizionale statale calcolata non sull’imponibile ma sulle tasse già versate. Il meccanismo serve a dare progressività alle richieste, e ad escludere del tutto chi oggi non paga Irpef perché ha un reddito basso oppure grazie a deduzioni e detrazioni. In ogni caso, per rendere anche politicamente tranquillo il passaggio, il debutto della sovra-imposta sarà accompagnato da una clausola anti-rincari per evitare di bussare alla porta di chi oggi non paga l’addizionale o paga meno della media grazie alle aliquota basse decise dal Comune. Ora si tratta di capire come adattare al nuovo sistema i conti di tutti i Comuni, agendo prima di tutto sulla perequazione, mentre qualche novità ulteriore potrebbe arrivare sui meccanismi di debutto della riforma dei bilanci.

Le tasse dimenticate dei Comuni

Le tasse dimenticate dei Comuni

Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

A Vibo Valentia, ogni anno arriva davvero nelle casse del Comune solo il 43,5% delle tasse e delle tariffe che giunta e consiglio mettono a bilancio, e più o meno lo stesso accade a Trapani, Palermo e in quasi tutti i capoluoghi di Sicilia e Calabria, ma anche a Campobasso, Potenza o Latina. A Napoli gli incassi reali nel corso dell’anno arrancano fino a quota 56,6% rispetto ai numeri scritti nel bilancio, a Roma si sfiora il 60% e a Milano si sale verso il 68,3%, su su fino a Bergamo, Bolzano o Reggio Emilia dove tutti gli anni più dell’85% delle entrate si presenta puntuale alla cassa.

Fino a oggi, la distanza che separa teoria e realtà nelle entrate dei Comuni è stata sepolta nei tecnicismi contabili, e al massimo è spuntata in qualche relazione della Corte dei conti. Da domani, o meglio dal 1° gennaio prossimo, sarà proprio questo fattore a decidere le sorti dei Comuni, grazie all’uno-due assestato dalla riforma dei bilanci locali e dalla legge di stabilità appena presentata dal Governo. La prima, scritta negli ultimi tre anni e ora pronta a entrare in vigore, chiede ai sindaci di bloccare in bilancio un «fondo crediti» proporzionale ai buchi incontrati dalla loro riscossione negli ultimi cinque anni, la seconda fa rientrare questa voce nei calcoli del Patto di stabilità. In soldoni, lo scambio suona così: la legge di stabilità taglia del 70% gli obiettivi del Patto per i Comuni (il Patto 2015 vale 1,4 miliardi invece di 4,5), ma la riforma blocca i bilanci nelle amministrazioni che non riescono a incassare. Il risultato divide i Comuni in due grandi gruppi: quelli che riscuotono meglio le loro entrate potranno godere in pieno dei nuovi bonus sul Patto di stabilità, gli altri dovranno invece agire drasticamente di forbice.

Come mostrano le elaborazioni realizzate per il Sole 24 Ore da Bureau Van Dijk sul database AidaPa che passa in rassegna tutti i consuntivi dei Comuni, il meccanismo divide con nettezza l’Italia in due. I dati si riferiscono al 2008-2012 perché i certificati 2013 non sono ancora disponibili, ma l’orizzonte quinquennale indicato dalla riforma non lascia alcuno spazio a cambiamenti repentini. In media, i capoluoghi prevedono ogni anno di ricevere per ogni cittadino 882 euro fra tributi (565 euro) e tariffe (318 euro) e ne incassano con puntualità il 66,5%, ma al Sud le percentuali scendono pesantemente mentre al Nord crescono anche di molto. Le eccezioni sono poche (Aosta è 88ª in classifica, Siena 77ª, mentre fra le città meridionali “virtuose” si incontra Barletta al 13° posto), e non cambiano quella che sarà la netta geografia della manovra.

Il nuovo meccanismo chiesto dalla riforma ha il pregio di andare al cuore del problema dei bilanci comunali, sempre più spesso basati su entrate teoriche che non si trasformano in incassi (nei bilanci comunali ci sono oltre 33 miliardi previsti ma mai incassati, si veda Il Sole 24 Ore del 30 giugno) ma finanziano spese reali. L’anno prossimo, le nuove regole bloccheranno nei fondi di garanzia circa 2,4 miliardi, ma la cifra è destinata a impennarsi nei due anni successivi quando la riforma entrerà a regime cancellando alcuni “sconti” contabili previsti per l’anno del debutto.

Pareggio anticipato, stretta su 3mila Comuni

Pareggio anticipato, stretta su 3mila Comuni

Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

Mentre allontana al 2017 il pareggio di bilancio complessivo, la nota di aggiornamento al Def lo anticipa al 2015 per quel che riguarda Regioni ed enti locali. Nelle 144 pagine del documento, questa mossa occupa solo quattro righe, ma può avere effetti dirompenti per quasi 3mila Comuni.

Il pareggio di bilancio in salsa locale, finora in programma dal 2016, impone di cancellare il rosso sia dalla parte corrente, fatta da tributi, trasferimenti e tariffe sul lato delle entrate, e dalle spese non di investimento su quello delle uscite, sia dal saldo finale di bilancio: il tutto va garantito sia per la competenza, cioè per le entrate e le uscite scritte nei bilanci, sia per la cassa, cioè peri flussi finanziari realizzati davvero. L’applicazione tour court di questi obblighi, secondo le elaborazioni che il Sole 24 Ore ha avuto modo di consultare e che sono al centro del confronto fra i tecnici dell’Economia e di Ifel, significherebbe chiedere una manovra aggiuntiva da 1,5 miliardi a quasi 3mila Comuni. Un’introduzione “a tappe” delle nuove regole, partendo dal pareggio di bilancio di parte corrente per rimandare al 2016 quella sui saldi finali, chiederebbe invece circa un miliardo a 2mila Comuni (fra i quali la presenza di qualche grande città aumenta la popolazione interessata).

Il nuovo calendario scritto nel Def per far partire sul territorio l’articolo 81 della Costituzione votato dal Parlamento nel 2012 è però solo una delle variabili in gioco nella costruzione della manovra 2015 per gli enti locali. Sul piatto delle buone notizie c’è la “liberazione” dai vincoli del Patto di stabilità di un miliardo di euro per gli investimenti, mentre sul lato di quelle cattive per i sindaci, ma ottime per l’Economia, c’è l’ingresso in campo della riforma della contabilità: queste regole, che impongono ai Comuni di accantonare un fondo di garanzia proporzionale alle loro difficoltà di riscossione, blocca nei conti degli enti circa tre miliardi di euro, diminuendo la capacità di spesa dei sindaci e quindi dando una mano al bilancio pubblico.

Su questo punto, secondo i Comuni l’impatto del fondo potrebbe addirittura superare i 3,5 miliardi, e anche queste cifre sono al centro di un confronto con Via XX Settembre. Nella manovra in cantiere, i tre elementi sono collegati. Il miliardo svincolato per gli investimenti, e ribadito ancora ieri dal sottosegretario all’Economia Pier Paolo Baretta, è il primo passo per il «superamento» del Patto di stabilità interno , reso possibile proprio dall’avvio della riforma della contabilità (con i suoi fondi di garanzia) e dalla prospettiva del pareggio di bilancio.

Naturalmente, quel che conta è il risultato finale per la finanza pubblica: se il fondo di garanzia si rivela più ricco del previsto, quindi, ci potrebbero essere spazi per un pareggio di bilancio più graduale, magari limitato nel 2015 ai saldi di parte corrente. Sulle scelte finali potrebbero pesare anche le prospettive di tenuta del sistema. A differenza del Patto tradizionale, sia la riforma della contabilità sia l’obbligo del pareggio di bilancio concentrano tutti gli sforzi sui Comuni che oggi hanno più difficoltà nei bilanci: la mossa è corretta per il “risanamento” della finanza pubblica, ma senza un dosaggio corretto solleva più di un rischio sul piano dell’applicazione effettiva.