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Il futuro nero delle pensioni

Il futuro nero delle pensioni

di Massimo Blasoni – Metro

Mentre il governo si appresta a varare un provvedimento che permette ad alcuni lavoratori di andare in pensione con tre anni di anticipo, permangono forti dubbi sulla sostenibilità nel lungo periodo del nostro sistema pensionistico. Da molti anni la spesa per la previdenza rappresenta la voce più importante dell’intera spesa pubblica: nel 2015 è stata di quasi 260 miliardi, pari al 31,5% dei complessivi 826 miliardi di euro. Il dato è certamente influenzato dall’elevata quota di anziani nella popolazione italiana ma non spiega perché altri Paesi con identici problemi demografici (ad esempio Germania e Giappone) registrino percentuali decisamente più contenute. Sta di fatto che le diverse riforme italiane del sistema previdenziale hanno via via ridotto il tasso di copertura, attraverso il rapido innalzamento dell’età di accesso alla pensione. Poco o nulla è stato invece fatto invece per contenere – o addirittura ridurre – il livello degli assegni pensionistici.

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Chi c’era e cosa si è detto alla presentazione de “La buona spesa” alla Fondazione Luigi Einaudi

Chi c’era e cosa si è detto alla presentazione de “La buona spesa” alla Fondazione Luigi Einaudi

di Gianluca Zapponini – Formiche.net

La manovra è alle porte (la discussione in Cdm avverrà entro il 20 ottobre) e puntuale come ogni anno si ripresenta l’annoso problema del taglio alla spesa pubblica. Su come cioè ridurre quei 700 miliardi che sottraggono risorse preziose all’economia reale. Un argomento dunque mai fuori moda e anche per questo al centro di un dibattito in occasione della presentazione del libro di Giuseppe Pennisi e Stefano Maiolo “La buona spesa” (edito da ImpresaLavoro), ieri presso la Fondazione Luigi Einaudi a Roma.

La madre di tutti i problemi è «un’amministrazione che ormai è in crisi perché non è più in grado di progettare ma, soprattutto, di valutare», per dirla con le dure parole di Paolo De Ioanna, consigliere di Stato, già sottosegretario all’Economia e autore di saggi sul debito pubblico e spesa statale: «Questo tipo di opere, sono necessari per ritrovare la cultura della valutazione. Che oggi non appare essere più propria dell’amministrazione. E se non si sa valutare poi non si riesce a risparmiare». Dunque, è l’opinione dell’esperto, inutile parlare a vanvera di spesa, se non si agisce direttamente sul cervello, ossia la Pa. «Avevamo, va detto, un’amministrazione buona, efficiente. E ora l’abbiamo distrutta. Ci siamo solo concentrati sulla finanza, dimenticando settori come la sanità e i trasporti».

Ma perché scrivere un libro sulla revisione della spesa, argomento ben trattato negli ultimi anni? La risposta è arrivata direttamente dallo stesso autore, Giuseppe Pennisi: «Ci sono stati tanti commissari e nessuno ha risolto nulla. In Francia avevano già risolto il problema da tempo. In molti Paesi per esempio sono stati fatti dei corsi per i dirigenti. Addirittura, in Francia, i ministeri debbono argomentare il loro bilancio, anche con i cittadini». Queste azioni, ha spiegato l’economista, non sono state fatte finora in Italia. Di qui l’esigenza di “nuove indicazioni” in materia di spesa pubblica.

Nel corso del convegno, cui ha partecipato anche il sociologo e docente Luiss Luciano Pellicani, è stato affrontato anche il problema del come comunicare a chi poi dovrà decidere, cioè il governo, i suggerimenti. Su questo si è espresso Renato Loiero, dell’Ufficio Bilancio Senato. «E’ necessario riaffermare una spesa efficiente. Uno dei problemi fondamentali è comunicare la valutazione al decisore politico, la valutazione sulla spesa aggredibile. Il problema è rendere il tutto comprensibile a chi poi deve decidere. Renderlo facile, accessibile. Nulla più di uno strumento di valutazione, come l’opera, può essere utile per decidere come tagliare la spesa».

Scomposizione e sostenibilità della spesa pensionistica italiana

Scomposizione e sostenibilità della spesa pensionistica italiana

di Michele Liati

La spesa per pensioni rappresenta, da molti anni, la voce più importante dell’intera spesa pubblica italiana (non solo di quella sociale). Secondo gli ultimi dati Istat sul conto economico (consolidato) dalla Pubblica Amministrazione, la spesa per prestazioni pensionistiche nel 2015 è stata di quasi 260 miliardi a fronte di una Spesa Pubblica totale di 826 miliardi; le pensioni rappresentano quindi il 31,5 % dell’intera spesa.
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Secondo i dati Ocse per il 2011 (ultimo anno che permette confronti internazionali su questi aggregati) la spesa pubblica italiana per pensioni (vecchiaia, reversibilità e invalidità) ha raggiunto il 17,8% del Pil. La quota più alta tra i paesi Ocse e 7,2 punti percentuali al di sopra della media.

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A cosa si deve questo primato? Sicuramente all’elevata quota di anziani all’interno della popolazione italiana; ma l’invecchiamento della popolazione da solo non basta, e non spiega infatti in che modo altri paesi con identici problemi demografici, come Germania o Giappone, possiedono percentuali molto più contenute. Se l’aumento della spesa è dovuto all’invecchiamento della popolazione, inoltre, è lecito chiedersi quanto possa essere sostenibile la spesa pensionistica in futuro, considerando che la quota di ‘anziani’ in Italia continuerà a crescere ancora per diversi decenni.

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Per comprendere l’origine dell’elevata spesa pensionistica italiana su Pil e la sua sostenibilità futura (e quindi anche per capire cosa si è fatto e cosa si prevede di fare per contenerla), può essere utile scomporre tale rapporto secondo diversi fattori, così come svolto, per esempio, da Epc-Wga (EPC’s Working Group on Ageing Populations and Sustainability, un gruppo di lavoro costituito, sin dal 2001, dal Comitato di Politica Economica dell’Unione Europea per studiare proprio le conseguenze economiche e di bilancio dell’invecchiamento della popolazione) o dal Ministero dell’economia e delle finanze italiano (Mef – che elabora le previsioni della spesa italiana per Epc-Wga); ad esempio:

La spesa pensionistica su Pil potrebbe essere così scomposta:

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Analizziamo i diversi fattori dell’ultima espressione.
Il primo fattore è l’indice di dipendenza (dependency ratio): rappresenta la quota di anziani (65 anni e più) sulla popolazione totale. Indica quindi il livello di ‘invecchiamento’ di una certa popolazione.
Il secondo fattore è il tasso di copertura (coverage ratio): rappresenta il numero di pensionati (o il numero di pensioni) rispetto al numero di ‘anziani’ (over 65); questo fattore è legato ai requisiti per l’accesso alla pensione, tra cui l’età di pensionamento.
Il terzo fattore rappresenta il rapporto tra il reddito pensionistico medio e la produttività media, detto rapporto di beneficio (benefit ratio); fornisce quindi una misura della ‘generosità’ degli assegni pensionistici in confronto all’andamento economico del paese (produttività), quindi alla capacità stessa di finanziare le pensioni. Notiamo che questo fattore non va confuso con il tasso di sostituzione (rapporto tra reddito pensionistico medio e ultima retribuzione percepita).
L’ultimo fattore, inverso del tasso di occupazione, rappresenta l’effetto dovuto al mercato del lavoro (labour market ratio).
Questa scomposizione, molto semplice, utilizza tuttavia dei fattori per certi aspetti poco significativi; qui utilizzeremo quindi quelli presenti nell’ultimo rapporto EPC-AWG (The 2015 Ageing Report), riferiti alle pensioni dei paesi europei (a partire dal 2013, con previsioni fino al 2060 a intervalli di cinque anni):
L’indice di dipendenza visto prima è sostituito con il rapporto tra gli over 65 e la popolazione con età compresa tra i 20 e i 64 anni. In questo modo si ha un confronto più efficace tra la popolazione anziana e la popolazione in età da lavoro.
Il rapporto di beneficio è calcolato sulla retribuzione media invece che sul pil/occupato.
Da ultimo, il labour market ratio include il tasso di occupazione calcolato sulla popolazione 20-64.

La situazione attuale

Vediamo innanzitutto la spesa pensionistica su Pil per i vari paesi europei per l’anno 2013 (in tutti i grafici verranno evidenziati i valori riferiti a Italia, Germania, Spagna, Francia, Grecia e i valori medi EU28). In questo caso, il livello per l’Italia è inferiore soltanto a quello della Grecia.

6L’Italia ha l’indice di dipendenza più alto, ma si noti anche – come già evidenziato – il valore tedesco, prossimo a quello italiano.

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Riguardo al tasso di occupazione, quello italiano è uno dei più bassi, e meno occupati significa ovviamente meno redditi e quindi meno contributi (e tasse); ovvero una minore capacità di finanziare la spesa pensionistica. Su questo fattore si concentra anche gran parte della differenza rispetto alla Germania.

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Il tasso di copertura italiano risulta più basso rispetto alla media europea (e molto più basso di quello francese), ma più alto di quello tedesco, spagnolo e greco.

9Infine, per il rapporto di beneficio, ovvero riguardo alla generosità dei trasferimenti pensionistici rispetto alle retribuzioni medie, l’Italia, insieme alla Grecia e alla Spagna, presenta indici più elevati della media, della Francia, ma soprattutto della Germania.

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L’analisi di questi fattori, per il 2013, ci conferma quindi in che modo le varie riforme italiane, degli anni ’90 e 2000, hanno operato per cercare di contenere la spesa pensionistica: per compensare l’invecchiamento della popolazione (indice di dipendenza) e il basso tasso di occupazione, si è ridotto il tasso di copertura, attraverso il rapido innalzamento dell’età di accesso alla pensione. Si è fatto invece poco o nulla per contenere, o addirittura ridurre, come avvenuto in Germania, il livello degli assegni pensionistici.

Le previsioni per il futuro

Ma come si potrà contenere la spesa pensionistica per il futuro, considerando che l’invecchiamento della popolazione italiana peggiorerà ancora per molti anni, se fino ad ora si è ottenuto così poco? Le previsioni elaborate dal Mef sembrano molto ottimistiche, e stimano che la spesa pensionistica su Pil potrà rimanere all’incirca al livello attuale. Vediamo come.

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La spesa pensionistica su Pil diminuirà leggermente (-0,4 p.p.) fino al 2020, tornerà a crescere ma in maniera contenuta fino al 2040 (+0,1 p.p. rispetto al 2013), da quel momento inizierà a scendere.

L’indice di dipendenza continuerà a crescere (ma in maniera più contenuta, come vedremo a breve), trainando la crescita della spesa. Anche il rapporto di beneficio continuerà a crescere, nonostante tutto, fino al 2025, per tornare al livello attuale dopo il 2040 e fornendo poi un contributo negativo (facciamo notare che dal 2035-2040 circa, inizierà ad entrare nel sistema pensionistico italiano la generazione “contributiva”). Il contributo maggiore al contenimento della spesa verrà, come si vede, dall’ulteriore riduzione del tasso di copertura, attraverso il continuo innalzamento dell’età pensionabile. Un ulteriore aiuto verrà anche dell’effetto sul mercato del lavoro, ovvero principalmente dalla (prevista) crescita del tasso di occupazione.

Vediamo un confronto con gli altri paesi, considerando il contributo che ciascun fattore fornisce alla variazione globale del rapporto ‘spesa pensionistica/pil’ dal 2013 al 2060.

12Una osservazione riguardo all’andamento dell’indice di dipendenza: come visto, l’Italia ha oggi l’indice di dipendenza più elevato tra i paesi europei, ma nei prossimi anni la sua crescita sarà inferiore a quello di molti altri paesi (Germania, Grecia, Spagna, Portogallo, Polonia, etc.). Tale risultato, secondo le previsioni, sarà ottenuto soprattutto attraverso un maggior tasso di immigrazione netto.

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Tornando alle componenti:

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Per comprende meglio l’impiego dell’effetto di copertura per il contenimento della spesa, utilizziamo questo grafico, con l’età (media) di uscita dal mercato del lavoro per il 2013 e 2060. Come si può notare questo valore sarà nel 2060 tra i più alti (67,4 anni), e con una variazione rispetto all’età 2013 tra le più elevate (5,1 anni).

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I rischi per il futuro

Ognuna delle componenti finora analizzate è il risultato di diversi fattori, che contengono un certo grado di incertezza: il tasso di occupazione, l’indice di dipendenza (che, come visto, è legato al tasso netto di immigrazione), lo stesso benefit ratio (che dipende anche dall’andamento del Pil per occupato, o dalle retribuzioni medie) non sono direttamente controllabili dai governi, i quali possono solo sperare di riuscire a migliorare questi fattori “a suon di riforme”, dall’esito comunque sempre incerto. È fondamentale quindi comprendere in che modo il rapporto “spesa pensionistica/Pil” sia sensibile a questi fattori, e come potrebbe modificarsi se qualcuno di questi non dovesse rispettare le previsioni.
L’ultimo rapporto Epc-Wga stima queste variazione per ognuno dei seguenti fattori (negativi):
Una maggior crescita della speranza di vita alla nascita (al quale è legato l’indice di dipendenza) di due anni al 2060, comporterebbe una variazione di +0,4 p.p. .
Un tasso di immigrazione più basso del 20 % darebbe un +0,4 p.p.
Una crescita della produttività del lavoro più bassa di -0,25 p.p. darebbe un +0,5 p.p.
Una crescita della produttività totale dei fattori più bassa (0,8% invece che 1%) darebbe +0,7 p.p.
Una crescita dell’occupazione inferiore (2 p.p. rispetto alla previsione 2060) avrebbe invece un effetto limitato, inferiore a +0,1 p.p.
Il peggioramento di tutti questi fattori (secondo le variazioni stimate) potrebbe comportare quindi una variazione globale di 2,1 p.p nel rapporto “spesa pensionistica/pil” a fronte della variazione di -1,9 p.p totale prevista.
Ma quanto sono realistiche o ottimistiche le previsioni su queste componenti? Vediamolo, in particolare per produttività e tasso di occupazione, confrontando i valori previsti con quelli del passato (utilizzando i dati dell’ultimo rapporto RGS).

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Come si vede, le previsioni sembrano abbastanza ottimistiche: la produttività dovrebbe tornare a crescere ai tassi degli anni ’70 e ’80 (dopo che è rimasta quasi ferma per gli ultimi 20 anni); il tasso di occupazione, da sempre a livelli molto bassi in Italia, dovrebbe arrivare livelli più “normali” (per gli standard degli altri paesi).

E se queste previsioni dovessero, nella realtà, risultare scorrette? È ovvio che in questo caso, per controbilanciare questi effetti, la politica dovrebbe intervenire nuovamente sugli unici fattori direttamente controllabili, l’età di accesso alla pensione (già di molto alzata) e l’entità degli assegni pensionistici (già ridotti), rendendo sempre più povere le future pensioni.

Il lato oscuro dell’autoregolamentazione

Il lato oscuro dell’autoregolamentazione

I liberali hanno sempre guardato con sospetto l’’autoregolamentazione’, ossia la regolamentazione emessa e applicata da corpi sociali intermedi oppure da associazioni di settore. La preoccupazione è che gli interessi degli associati prevalgano sul quello generale, a spese della collettività. Meglio il confronto, anche aspro, tra interessi contrapposti che ergersi, al tempo stesso, a regolatori (e giudici) dei propri associati.

Benjamin P. Edwards della Barry University School of Law esamina in dettaglio Il Lato Oscuro della Deregolamentazione in un lavoro accademico in corso di pubblicazione (ed inviato ad amici e conoscenti per osservazioni. Lo studio analizza in dettaglio il caso della Financial Industry Regulatory Authority (FINRA): un’organizzazione privata senza fini di lucro che opera negli Stati Uniti che elabora e applica regolamenti relativi al funzionamento di una delle Borse più importanti del mondo – il New York Stock Exchange – e che in caso di controversie opera come arbitro tra agenti ed agenzia di Borsa. Nel caso in cui l’arbitrato non porti ad un accordo, le parti (o la parte che si considera danneggiata) può adire alla Securities and Exchange Commission (SEC), la Consob americana. In pratica le medie aziende quotate fanno appello quasi solamente alla FINRA perché le procedure sono più basse e i costi più snelli di una vertenza in cui si fa appello alla SEC.

Per avere un’idea del ruolo della FINRA, nel 2015 (ultimo anno per il quale si hanno dati completi) ha svolto 1.512 azioni disciplinari nei confronti di agenti e agenzie di Borsa del New York Stock Exchange ed esatto multe per 95,1 milioni di dollari nonché ordinato la restituzione per 96,6 milioni di dollari a investitori danneggiati dai loro agenti. Inoltre, si è rivola alla SEC per ottocento casi di frode o di insider trading. Naturalmente il sito della FINRA è colmo di elogi nei confronti dell’organizzazione.

Non la pensa così Benjamin P. Edwards, il cui lavoro sottolinea come la struttura della FINRA presenta «il rischio continuo che i suoi associati plasmino le procedure, o la loro applicazione, in modo da funzionare come un cartello tale da promuovere gli interessi dei loro associati invece che di quelli della collettività e contribuiscano alle rendite eccessive degli intermediari di Borsa». Mentre studi precedenti hanno esaminato contributi positivi e distorsioni relative a organizzazioni di auto-regolamentazione, lo studio di Edwards esamina come il pubblico e la società civile possono incidere sull’operativà della FINRA. Edwards sottolinea che i rappresentanti della società civile negli organi di governo e di gestione della FIRNA siedono spesso nei Consigli d’Amministrazione degli intermediari finanziari, dando luogo a frequenti ove non continui conflitti d’interesse. Nelle conclusioni, Edwards formula una serie di proposte per risolvere o almeno attenuare il problema.

Giovani disoccupati e NEET: per l’Italia record negativo in Europa

Giovani disoccupati e NEET: per l’Italia record negativo in Europa

Dal 2007 al 2015 la disoccupazione giovanile in Italia è aumentata di 17,4 punti percentuali, passando dal 21,4% (ultimo trimestre 2007) al 38,8% (ultimo trimestre 2015). Nello stesso periodo di tempo la categoria dei Neet, i giovani non occupati che non frequentano né scuole né corsi di formazione, è inoltre cresciuta di 7,4 punti percentuali (passando dal 19,5% al 26,9%). In entrambi i casi il nostro Paese si colloca ai gradini più bassi nelle rispettive classifiche a livello europeo. Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro, su elaborazione di dati Ocse.

Nel periodo di tempo considerato, la crescita percentuale degli italiani di età compresa tra i 15 e i 24 anni che sono senza lavoro (ma che sarebbero disponibili a lavorare e che hanno effettuato almeno una ricerca attiva di lavoro nelle ultime quattro settimane) risulta superiore a quella di quasi tutti gli altri Paesi europei. Peggio di noi hanno fatto solo Spagna (+27,4 punti percentuali, passata dal 19% al 46,4%) e Grecia (+26,5 punti, passata dal 22% al 48,5%).

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L’Italia fa molto peggio della media dei 28 Paesi dell’UE – in cui il tasso di disoccupazione giovanile a fine 2015 era del 19,7% (+4,4 punti rispetto al 2007) – e perde il confronto con tutti gli altri competitor europei. In particolare con Irlanda (+11,1 punti percentuali, passata dal 9,3% al 20,4%), Portogallo (+8,5 punti, passato dal 23% al 31,5%), Francia (+6,0 punti, passata dal 18,5% al 24,5%), Gran Bretagna (-0,3 punti, passata dal 13,7% al 13,4%) e Germania (-4,3 punti, passata dall’11,3% al 7%).

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Variazione tra il tasso di disoccupazione giovanile in punti percentuali del 2007 e quello del 2015

Preoccupano anche i dati relativi alla categoria dei Neet, i giovani non occupati che non frequentano né scuole né corsi di formazione. Osservando i dati Ocse si scopre infatti che nella classifica siamo il Paese dell’UE con il più alto tasso di inattività giovanile per quanto riguarda l’anno 2015. Tra il 2007 e il 2015 la percentuale di Neet è cresciuta in Italia di 7,4 punti (passando dal 19,5% al 26,9%), con un incremento inferiore soltanto a quello registrato in Grecia (+8,3 punti, passata dal 16,4% al 24,7%).

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È vero che nello stesso periodo di tempo l’incremento percentuale dei Neet è un dato comune a tutta l’Europa (il tasso medio 2015 nell’UE a 28 Stati è del 16%, +1,3 punti rispetto al 2007) ma in tutti gli altri Paesi si registra una crescita del fenomeno inferiore a quella italiana quando non addirittura un’inversione di tendenza. Nel primo gruppo vanno inseriti ad esempio Spagna (+6,8 punti percentuali, passata dal 15,9% al 22,7%), Francia (+4,3 punti, passata dal 12,9% al 17,1%), Irlanda (+2,1 punti, passata dal 14,5% al 16,6%) e Portogallo (+1,9 punti, passato dal 13,2% al 15,1%). Del secondo gruppo, invece, fanno parte tra gli altri Gran Bretagna (-1,0 punti, passata dal 14,6% al 13,6%) e soprattutto Germania (-3,5 punti, passata dal 12,3% all’8,8%).

Variazione tra la percentuale di NEET del 2007 e quella del 2015

Variazione tra la percentuale di NEET del 2007 e quella del 2015

Sanità digitale, senza investimenti impossibile colmare il gap con l’Europa

Sanità digitale, senza investimenti impossibile colmare il gap con l’Europa

di Marcello Longo – AboutPharma

Si fa presto a parlare di “rivoluzione digitale” per la sanità italiana. Ma abbiamo fatto bene i conti? C’è un ampio gap fra noi e l’Europa, per colmarlo servono investimenti. Molte più risorse di quante se ne investano oggi: da due a 7,8 miliardi in più entro il 2020, per una spesa complessiva fra i 9,5 e i 15,2 miliardi di euro. A ipotizzare queste cifre è uno studio presentato a luglio da Censis e Centro Studi ImpresaLavoro.

Una forbice così ampia dipende dalla percentuale di spesa per eHealth sul totale della spesa sanitaria pubblica che ci si pone come obiettivo: i numeri si basano infatti su tre scenari diversi – con percentuali dal 2 fino al 4% sul totale della spesa sanitaria – proiettati nell’arco temporale 2016-2020. Dal primo al terzo, scenari che appaiono oggi tutti molto ambiziosi, visto lo stato dell’arte: il processo di digitalizzazione della sanità italiana è in netto ritardo rispetto alla maggioranza dei Paesi Ue e le performance insufficienti rispecchiano il basso livello di spesa eHealth dell’Italia, pari nel 2015 all’1,2% della spesa sanitaria pubblica, rispetto alla media che oscilla fra il 2 e il 3%, con punte vicine al 4% in Paesi come Finlandia e Regno Unito. Dati comunque al di sotto delle previsioni ottimistiche del Piano d’azione Ue per la sanità elettronica del 2004, dove si diceva che la spesa per l’eHealth avrebbe assorbito “il 5% del bilancio complessivo della sanità dei 25 Stati membri”. Non a caso, la versione più recente del Piano (2012-2020) non indica previsioni in merito.

Gli scenari ipotizzati dallo studio mostrano l’impegno finanziario aggiuntivo richiesto al Servizio sanitario nazionale (Ssn) per stare al passo con i Paesi europei più avanzati in questo settore rispetto al tendenziale della spesa per eHealth così come risulterebbe dalla serie storica 2010-2015. Per il calcolo del fabbisogno finanziario eHealth tendenziale sono state utilizzate le stime del ministero dell’Economia e delle finanze (Mef) sul Pil e sulla spesa sanitaria pubblica al 2019. Senza interventi ad boc e quindi “a invarianza di politiche pubbliclic per la sanità digitale”, l’incidenza della spesa eHealth sulla spesa sanitaria totale crescerà nel 2020, ma non andrà oltre l’1,36%, pari a un fabbisogno finanziario cumulato di 7.483 milioni di euro.

Il primo scenario dello studio, di tipo più “conservativo”, ipotizza il raggiungimento entro il 2020 di un target del 2% di spesa eHealth sulla spesa sanitaria pubblica: in questo caso al Ssn si richiederebbe di soddisfare un fabbisogno finanziario cumulato 2016-2020 per la sanità digítale di 9.559 milioni di euro, con un investimento aggiuntivo cumulato pari a 2.076 milioni di curo.

Il secondo scenario ipotizza un target intermedio pari al 3%: il fabbisogno finanziario 2016-2020 arriverebbe a 12.503 milioni, con un investimento aggiuntivo cumulato richiesto alle politiche pubbliche pari a 5.021 milioni di euro.

Il terzo scenario prende in esame un target più espansivo (4%), come indicazione di un “deciso salto di qualità” dell’impegno pubblico nel settore: il fabbisogno finanziario 2016-2020 sarebbe pari a 15.243milioni di euro, con un investimento aggiuntivo richiesto di 7.767 milioni. Soltanto in questo caso – sottolinea lo studio – l’ltalia si ritaglierebbe “un ruolo di leadership in Europa sulla sanità digitale alla pari con gli altri Paesi battistrada, che già adesso prevedono di avvicinarsi alla quota del 4%”. Tuttavia, non è detto che, da soli, gli investimenti bastino a determinare un cambio di rotta di radicale.

Secondo lo studio Censis-ImpresaLavoro bisogna affrontare almeno altre quattro questioni. La prima è il “ridisegno complessivo” del sistema salute: “Il nodo centrale non è tanto la tecnologia in sé e la digitalizzazione dell’esistente, quanto la riorganizzazione del sistema per favorire la continuità assistenziale ospedale-territorio, l’empowerment di medici e pazienti, l’integrazione socio-sanitaria, il potenziamento della prevenzione, lo sviluppo di forme domiciliari di assistenza, la riprogettazione delle cure primarie e la definizione di adeguati percorsi diagnostico-terapeutico-assistenziali (Pdta)”.

Poi c’è una questione socio-culturale, quella che riguarda “la partecipazione degli utenti al processo, la facilitazione dell’acquisizione di una avanzata cultura digitale dei servizi e il contrasto a forme di divide culturale”.

La terza priorità, invece, riguarda la definizione di una diversa governance di sistema: “La sanità digitale ha bisogno di svilupparsi ad un passo cbe la burocrazia non regge. Per questo va realizzata una governance nazionale dell’innovazione che coinvolga i diversi livelli regionali e territoriali e che definisca una griglia di indicatori per la misurazione dell’efficacia degli investimenti in ICT, sia in termini di output e uutcuine sanitari, sia a livello organizzativo.

Infine, ciò che servirebbe è “la definizione di una chiara politica della sicurezza e della privacy per i dati sanitari trattati in ambiente digitale, come presupposto per creare fiducia nei pazienti verso l’uso di questi strumenti”. Senza investimenti e politiche adeguate per l’eHealt, non solo l’Italia rinuncia a competere con i Paesi europei che già da tempo hanno colto il senso di questa sfida, ma sacrifica i vantaggi che la sanità digitale può portare all’intero sistema: “Senza un cambio di policy – si legge nello studio – il Ssn non potrà avvalersi pienamente dei benefici attesi dai servizi e dagli strumenti di sanità digitale, che – attraverso una più evoluta condivisione delle informazioni e una più avanzata interazione fra pazienti, medici, operatori e strutture sanitarie – consentono un guadagno di efficienza, un’ottimizzazione nell’erogazione dei servizi, una riduzione dell’errore medico, un incremento della sicurezza del paziente, un miglioramento della gestione delle patologie croniche”.

Lo sviluppo dell’eHealth viene annoverato tra le azioni prioritarie della “Strategia per la crescita digitale 2014-2020” messa a punto dal governo per “portare l’Italia entro il 2020 in linea con gli altri Paesi europei”. In particolare, la digitalizzazione della sanità viene descritta come “passaggio fondamentale per migliorare il rapporto costo-qualità dei servizi sanitari, limitare sprechi e inefficienze, ridurre le differenze tra i territori, nonché innovare le relazioni di Front-end per migliorare la qualità percepita dal cittadino”. In questa direzione vanno una serie di iniziative avviate dal ministero della Salute su Fascicolo sanitario elettronico (Fse), ricetta elettronica (ePrescription), dematerializzazione di referti medici e cartelle cliniche, Centri unici di prenotazione (Cup) e telemedicina. Così come il Patto per la sanità digitale – previsto dal Patto per la Salute 2014-2016 – approvato a luglio dalla Conferenza Stato-Regioni. Dopo una lunga attesa.

Il nuovo catasto fa paura, e il Governo lo rinvia

Il nuovo catasto fa paura, e il Governo lo rinvia

di Sara Dellabella – L’Espresso

Rimandata. Dopo un lungo lavoro parlamentare, il governo ha scritto nell’ultimo Documento di economia e finanza che ci vorranno ancora due anni per aggiornare i valori catastali delle abitazioni e riformulare la base imponibile non più sul numero dei vani, ma sulla superficie per metro quadro. La riforma del catasto potrebbe pesare come un macigno su chi possiede una casa. Pochi giorni fa, i ricercatori di ImpresaLavoro hanno infatti stimato che nel 2016 si pagheranno 49,1 miliardi di tasse sul mattone, circa 11,4 miliardi in più rispetto al 2011, quando a gravare sui bilanci familiari c’era l’Ici.

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Quando si parla di crescita il Governo la spara grossa

Quando si parla di crescita il Governo la spara grossa

 

di Francesco De Dominicis – Libero

Il bollino blu sulla crescita zero nel secondo trimestre, sfoderato venerdì dall’Istat, ha riaperto un tema essenziale. Quanto sono attendibili le previsioni economiche? Secondo le statistiche ufficiali, il prodotto interno lordo, in Italia, si attesta per ora allo 0,8%: tutto questo scommettendo sull’assenza di rallentamenti tra giugno e dicembre di quest’anno (e i segnali registrati a luglio e agosto, complessivamente, non sono proprio positivi). Sta di fatto che quel più 0,8% tendenziale è, in ogni caso, un valore decisamente più basso rispetto alla stime del governo. Stime che, come ha spiegato ieri il Centro studi ImpresaLavoro, si rivelano sempre meno precise: dal 2002 al 2016, in 14 casi su 15 le indicazioni ufficiali dell’esecutivo non sono state «azzeccate». E solo due per difetto. Sfortuna? No, la cabala non fa parte di questa faccenda.

Spieghiamo. Torniamo al pil e alle indicazioni di palazzo Chigi. A settembre del 2015, nella nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza che per prassi «accompagna» la presentazione della legge di stabilità, il Tesoro aveva «previsto», per quest’anno, una crescita del pil dell’1,6% (esattamente il doppio rispetto al ritmo a cui viaggia attualmente la nostra economia). Undici mesi fa, più di qualcuno aveve dubitato sulle probabilità che il pil potesse raggiungere una vetta così alta: del resto, il 2014 era stato chiuso in territorio negativo (-0,4%) e il 2015 si apprestava a riportare il pil in positivo dopo diversi anni, ma con uno zero virgola non entusiasmante (a dicembre sarà appena più 0,9%). L’Italia cominciava a respirare, ma l’onda lunga della crisi non era ancora stata superata del tutto. Di qui, i dubbi: uno dopo l’altro, dalle grandi organizzazioni di categoria ai principali enti internazionali (Fmi, Ocse e non solo) hanno smontato i numeri del governo. Ragion per cui, già ad aprile, lo stesso Tesoro ha tagliato le stime del pil, portandolo dall’1,6% all’1,2%. Niente da fare: nella migliore delle ipotesi, messa sul tavolo dallo stesso istituto di statistica, il pil si attesterà all’1%. Basterà, tuttavia, qualche fattore interno o ulteriori turbolenze internazionali, per far crollare anche questa stima. I segnali non lasciano ben sperare: vuoi il clima di fiducia di imprese e consumatori, vuoi l’effetto a catena di problemi internazionali.

C’è da dire che questa ondata di ottimismo eccessivo accomuna il governo di Matteo Renzi ai vari esecutivi che si sono succeduti a partire dal 2002 (Berlusconi un paio di volte, Prodi, Monti, Letta). Nessuno, insomma, è stato infallibile con le stime e le previsioni. Hanno sbagliato tutti: nemmeno il governo di tecnici e di professori guidato da Mario Monti si è distinto per precisione. L’unico anno «preso»? Il 2007 (pil all’1,5%). Siamo al sesto anno consecutivo sballato: dal 2011 le previsioni sono state sovrastimate con scostamenti enormi. «Sulle ipotesi di crescita – spiega ImpresaLavoro – si basano le simulazioni di sostenibilità sul nostro debito pubblico e sul nostro sistema pensionistico nel medio-lungo periodo». Il punto è proprio questo: nessuno ha il «coraggio» di dire la verità in anticipo, tant’è che, nel periodo in esame, non sono mai state presentate dai governi stime negative, nonostante il pil sia andato sotto zero per ben cinque volte (2008, 2009, 2012, 2013, 2014). A correggere il tiro – e i conti pubblici, con manovre di bilancio che portano più tasse per i contribuenti – si fa sempre in tempo. Prima, si spara grossa.

Pil: negli ultimi sei anni previsioni del Governo sempre smentite

Pil: negli ultimi sei anni previsioni del Governo sempre smentite

Quattordici errori su quindici: con 12 previsioni sbagliate per eccesso e soltanto due per difetto. Il Centro studi ImpresaLavoro ha preso in esame le previsioni di crescita del Pil (riferite all’anno successivo) contenute nei principali documenti di programmazione economica del governo, dal 2002 al 2016. E le ha confrontate con i numeri effettivi della variazione del Prodotto interno lordo certificati dall’Ocse e con le previsioni per l’anno in corso elaborate dal Fondo Monetario Internazionale.

Dai dati raccolti da ImpresaLavoro emerge con chiarezza come – a parte che in tre casi (2006, 2007 e 2010) – le previsioni del governo siano sempre state troppo ottimistiche. Con la previsione di crescita dell’1,2% per il 2016 (a fronte di una stima del FMI che si ferma a +0,9%), siamo al sesto anno di fila in cui il governo prevede una crescita superiore a quella che poi effettivamente si registrerà. Dal 2011 ad oggi, infatti, l’esecutivo italiano, in sede di predisposizione del Documento di Economia e Finanza ha sbagliato le sue previsioni, sovrastimandole per cifre che vanno dallo 0,3% di quest’anno al 4,1% del 2012.

Stupisce in particolar modo il fatto che, anche durante i periodi di crisi, nessun documento di programmazione economica abbia mai previsto una crescita negativa (che purtroppo, invece, si è verificata in 5 anni su 15).

«Il fatto che da sei anni di fila, sistematicamente, sovrastimiamo la nostra crescita – dichiara Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro – è preoccupante. Sulle ipotesi di crescita, infatti, si basano le simulazioni di sostenibilità sul nostro debito pubblico e sul nostro sistema pensionistico nel medio-lungo periodo. Ma se i governi non riescono a fare previsioni accurate per l’anno successivo, come possiamo pensare che ci riescano con orizzonti temporali più ampi?».

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