Opinioni

Il debito dell’Eurozona

Il debito dell’Eurozona

Il 31 maggio, all’assemblea della Banca d’Italia, il problema del debito dell’eurozona è stato appena sfiorato nelle “considerazioni finali” del Governatore Ignazio Visco. In questi giorni, tuttavia, è stato al centro e della sessione del Consiglio della Banca centrale europea (Bce) tenuta a Vienna il primo giugno e di un convegno internazionale organizzato dall’Università La Sapienza di Roma dal 30 maggio al primo giugno. Le discussioni del Consiglio Bce sono naturalmente coperte da riserbo. I “paper” presentati al convegno alla Università La Sapienza verranno finalizzati nelle prossime settimane e pubblicati negli atti dell’iniziativa.

Tuttavia, alcuni lavori apparsi di recente consentono di avere un’idea dell’aria che tira. Nella vasta letteratura scientifica di queste settimane è di particolare rilievo il lavoro di Paul De Grauwe, Yuemei Ji e Armin Steinbach (rispettivamente della London School of Economics, dell’University College di Londra e del Nuffield College della Università di Oxford) The EU Debt Crisis: Testing and Revisiting Conventional Legal Doctrine (La crisi del debito dell’eurozona: testare e rivisitare la dottrina legale convenzionale) pubblicato come LEQS Paper N0. 108. A differenza di gran parte della letteratura che è principalmente economica ed econometrica, si tratta di un lavoro giuridico in cui si sottolinea come, sotto il profilo della dottrina, non dovrebbero essere consentiti né salvataggi (bail out) né infusioni di liquidità (per tenere a galla il debitore) poiché sarebbe lo spread ad imporre la disciplina per rimborsare il debito. Tuttavia, una serie di analisi econometriche condotte dagli autori dimostrano che i movimenti dello spread in Italia, Portogallo e Francia dipendono più dalla percezione dei mercati della politica economica che dalla situazione del debito pubblico. Quindi il divieto di salvataggi e di infusione di liquidità dovrebbe essere esteso a questi elementi (ossia alla percezione dei mercati della politica economica del Paese debitore) Quindi, una politica più restrittiva di quella sinora applicata.

Di tutt’altro tono, le proposte presentate al convegno a Roma. Tra le più convincenti, la proposta di ristrutturazione presentata da Ernesto Longobardi ed Antonio Pedone. Sottolineato “l’alto costo sociale” (il servizio del debito impedisce di soddisfare esigenze pressanti in vati settori)) e l’impossibile di ridurre il debito utilizzando l’avanzo primario (che in Italia dovrebbe essere tra il 4% ed il 7% del Pil per vent’anni a seconda delle ipotesi, comunque tale da costringersi ad una severa austerità, e possibile deflazione di lungo periodo), la proposta parte dalla distinzione tra debiti esistenti ereditati dal passato (in gergo legacy debit) e la definizione di un meccanismo che regoli a regime la ristrutturazione del debito tra Stati sovrani nell’ambito dell’eurozona.

Dei due aspetti il primo è di interesse più immediato, a ragione dell’escalation degli ultimi anni non necessariamente destinata a fare marcia indietro nel prossimo futuro. Analizzati i principali schemi sul tappeto ( da quello del Comitato dei Consiglieri Economici della Germania a quello del Centro europeo di ricerca di politica economica, se ne mettono in risalto i punti comuni: a) una consistente ristrutturazione dei debiti pubblici nell’eurozona è condizione ineludibile per fare ripartire la crescita e uscire dalla trappola austerità-debito; b) la ristrutturazione dovrebbe essere disegnata nel rispetto di due vincoli di natura prevalentemente politica. escludere i trasferimenti tra Stati; non non infliggere perdite ai creditori privati (no bail-in), ossia porre il costo della ristrutturazione posto a carico dei contribuenti presenti e futuri, accentuando così le responsabilità di Stati e di Governi. La proposta è corredata da uno schema di misure tecniche in via di affinamento.

Debiti Pa, Brunetta (FI): Renzi inaffidabile, deve ancora pagare 61,1 mld

Debiti Pa, Brunetta (FI): Renzi inaffidabile, deve ancora pagare 61,1 mld

“Nonostante i reiterati annunci del premier Matteo Renzi, in questi ultimi due anni la Pubblica amministrazione non ha ridotto i lunghissimi tempi di pagamento di beni e servizi, mantenendo sostanzialmente invariato lo stock di debito commerciale contratto nei confronti delle imprese fornitrici. Secondo la stima di ImpresaLavoro, su dati Intrum Justitia, lo scorso 31 dicembre questo ammontava infatti a circa 61,1 miliardi di euro (in leggero calo rispetto ai 67,1 miliardi del 2014). Questo assurdo ritardo del governo nel pagamento di questi debiti nel 2015 è costato alle imprese italiane la cifra di 5,4 miliardi (in leggero calo rispetto ai 6,1 miliardi del 2014). Questa stima è stata effettuata prendendo come riferimento l’ammontare complessivo dei debiti della nostra PA, l’andamento della spesa pubblica per l’acquisto di beni e servizi (così come certificato da Eurostat) e il costo medio del capitale (pari all’8,84% su base annua) che le imprese hanno dovuto sostenere per far fronte al relativo fabbisogno finanziario generato dai mancati pagamenti”. Lo afferma Renato Brunetta, presidente dei deputati di Forza Italia. “Renzi aveva promesso – prosegue – ormai più di due anni fa, che i debiti della Pubblica amministrazione nei confronti delle imprese sarebbero stati azzerati in pochi mesi, promettendo a Bruno Vespa, durante una puntata di ‘Porta a Porta’, che se non avesse mantenuto l’impegno entro il 21 settembre (2014) sarebbe andato in pellegrinaggio al santuario di Monte Senario. Come da copione: impegno non mantenuto, soldi non restituiti alle imprese, debito non pagato. I numeri di ImpresaLavoro confermano che il premier è stato ancora una volta sbugiardato dai fatti. Altra balla da inserire nello speciale palmares di un presidente del Consiglio inaffidabile”.

Debiti Pa, Altieri (Cor): Governo incapace di far pagare imprese

Debiti Pa, Altieri (Cor): Governo incapace di far pagare imprese

“Le pubbliche amministrazioni impiegano, in media, 131 giorni per pagare i fornitori. Due anni fa Renzi aveva promesso che tutti i pagamenti sarebbero stati completati in pochi mesi. Erano le solite bugie. Come rivela il rapporto di ImpresaLavoro pubblicato oggi, i tempi di attesa per i pagamenti restano interminabili”. E’ quanto sottolinea in una nota il deputato di Conservatori e Riformisti, Nuccio Altieri. “A dicembre 2015 – aggiunge – i debiti dello Stato nei confronti delle imprese che erogano beni e servizi superavano i 61 miliardi di euro. A questa somma spropositata vanno aggiunti 5,4 miliardi di euro che rappresentato il costo per il ritardo dei pagamenti di questi debiti. Gia’ le nostre imprese devono subire la pressione asfissiante del fisco e della burocrazia. Pagarle con così tanto ritardo vuol dire assestare al nostro sistema produttivo un colpo mortale”. “Uno Stato incapace di pagare merci e servizi danneggia le imprese ma fa male all’intera economia del Paese perché sottrae risorse dovute che potrebbero essere utilizzate per investimenti e assunzioni. I ritardi e le bugie del governo Renzi stanno paralizzando il Paese”, conclude.

La nemesi della libertà

La nemesi della libertà

Questa volta non trattiamo di un paper economico ma di un volume collettaneo (curato da Dean Reuter e John Yoo Liberty’s Nemesis: the Unchecked Expansion of the State pubblicato dall’editore Encounter. Sono ben 576 pagine e si può acquistare per $ 32,99. È un volume americano, che tratta di temi istituzionali ed economici tipici degli Stati Uniti, ma che si consiglia di leggere mentre ci si prepara al referendum elettorale, accoppiandolo, se possibile, ad un breve saggio di Walter Bagehot: Napoleone III. Lettere sul Colpo di Stato Francese del 1851, edito nel 1997 da Ideazione ma ancora acquistabile su internet per € 8.26.

I due libri riguardano rispettivamente la Francia delle metà dell’Ottocento e gli Usa di questi anni. Cosa hanno in comune con l’Italia e con i temi che possono interessare i lettori italiani? Ambedue illustrano come si passa da Repubblica, con garanzie repubblicane, a Monarchia. Le lettere di Bagehot lo descrivono tramite un osservatore straniero, corrispondente a Parigi, di un giornale britannico, prima di creare The Economist. I saggi raccolti da Dean Reuter e John Yoo sono lavori accademici di politologi, sociologi ed economisti sulla trasformazione strisciante del sistema istituzionale americano.

Così come il 3 giugno 1946, numerosi italiani si chiesero se, al referendum istituzionale, avesse vinto la Monarchia o la Repubblica. Nel 1787, una “delegata”, la Signora Powell pose una domanda analoga a Benjamin Franklin che rispose: La Repubblica… se riusciamo a mantenerla tale.

L’analisi, asettica, dei saggi nel volume prende l’avvio dalla Presidenza Wilson che, all’inizio del secolo scorso, iniziò a cambiare la Costituzione “sostanziale” repubblicana con una seria di autorità “indipendenti” (la Federal Reserve, la Federal Trade Commission, la US Tariff Commission e via discorrendo) che, nella realtà effettuale delle cose rispondevano alla Casa Bianca. Attenzione: il Presidente ebbe la complicità del Congresso, che in tal modo, si sgravava di compiti difficili e noiosi, nonché tali da scontentare parte dell’elettorato. La Corte Suprema ci mise del suo.

Ma, sottolineano i saggi raccolti nel volume, negli ultimi otto anni c’è stata un’accelerazione: dalla “amnistia” di Obama in materia di immigrazione clandestina all’espansione delle funzioni della Environment Protection Agency, e via discorrendo. In breve la combinazione di potere regolatorio senza limiti e di delegazione senza limiti è aggravata da una frattura tra l’Esecutivo ed il Congresso. L’analisi è dettagliata e richiede una conoscenza del sistema istituzionale americano per apprezzare il mutamento effettivo delle garanzie repubblicane negli Usa. “Se i conservatori – scrive Yoo nella conclusione – vogliono far fare marcia indietro ad un Esecutivo ed ad autorità indipendenti ormai autoreferenziali, devono cambiare fondamentale il loro approccio al diritto costituzionale ed all’Esecutivo […] l’America è benedetta da una magnifica Costituzione se riesce a riconquistarla”.   

L’Italia e la legge di Okun

L’Italia e la legge di Okun

Chi ricorda ancora la Legge di Okun? Prende il nome dall’economista Arthur Melvin Okun (che la propose nel 1962). È una legge empirica che collega il tasso di crescita dell’economia tramite le variazioni nel tasso di disoccupazione. Secondo questa legge, se il tasso di crescita dell’economia cresce al di sopra del tasso di crescita potenziale, il tasso di disoccupazionediminuirà in misura meno che proporzionale. Ne consegue che le variazioni di produzione influiscono in modo meno che proporzionale sulla disoccupazione. Questo perché, a fronte di una crescita della domanda, le imprese preferiscono chiedere ai loro dipendenti di fare straordinari piuttosto che assumere nuova manodopera ed è possibile che parte dei nuovi assunti non fossero precedentemente previsti nella forza lavoro essendo classificati come lavoratori scoraggiati. Inoltre, data tale relazione, varrà che se la crescita è inferiore al tasso normale, la disoccupazione sarà maggiore di quella del periodo precedente.

La legge di Okun è stata associata a considerazioni di tipo Keynesiano, in quanto suggerisce che per poter raggiungere il tasso di disoccupazione considerato come obiettivo di politica economica è necessario che la crescita del PIL superi quella potenziale di una determinata misura. È una “legge” particolarmente pertinente all’Italia in questa fase in cui si analizzato le implicazioni del Jobs Act.

A fine aprile, poco prima della pubblicazione dei dati INPS che hanno fatti sorgere molti dubbi sulla efficienza e la efficacia di quello che sarebbe l’architrave delle riforme economiche strutturali del Governo, la rivista telematica di ricerca economica Empirica ha messo online un lavoro di Lucan Zanin di Prometeia (The Pyramid of Okun’s Coefficient for Italy) che ha stimato i parametri cruciali per verificare la Legge di Okun in Italia in modo disaggregato, ossia per età e genere.

I dati sul tasso di disoccupazione per età e genere non sono disponibili nelle statistiche ufficiali; quindi Zanin li ha stimati sulla base delle indagini Istat delle forze di lavoro per il periodo 2014. Vengono utilizzate due misure del tasso di disoccupazione: la misura tradizionale che include i lavoratori con o senza esperienza di lavoro. Quando la Legge di Okun è stimata utilizzando il tasso di disoccupazione ristretto a coloro con esperienza di lavoro, i lavoratori giovani risentono meno del ciclo economico. Man mano che la forza di lavoro invecchia, il divario di reattività al ciclo economico diminuisce, specialmente per il segmento della forza di lavoro con più di trent’anni. Infine l’analisi statistica individua che non ci sono differenze significative di genere.

Le conclusioni sono abbastanza evidenti: non sono i ritocchi alla normativa sul lavoro o gli incentivi a breve termine a ridurre la disoccupazione, specialmente quella dei giovani, ma una crescita economica vigorosa che riporti le imprese ad assumere.

Libertà economiche e sviluppo

Libertà economiche e sviluppo

Non c’è sviluppo senza libertà economiche e tolleranza. Questo il succo di due lavori scientifici recenti scelti questa settimana per i lettori del Centro Studi Impresa Lavoro. Il primo è un saggio Leandro Prados de la Escuria della Università Carlo III di Madrid (difficile capire perché gli economisti spagnoli sono poco noti e raramente citati in Italia). Il lavoro (Economic Freedom in the Long Run: Evidence from OECD Countries 1850-2007 – Libertà economiche nel lungo termine: analisi sui Paesi OCSE dal 1850 al 2007) è apparso nella The Economic History Review Vol. 68, No. 2 pp. 435-468. The Economic History Review è una delle più prestigiose riviste di storia economica a livello internazionale.

Lo studio presta indicatori economici per le principali dimensioni delle libertà economiche per i Paesi avanzati ad economia di mercato, specificamente quelli che facevano parte dell’Ocse già prima del 1994. Negli ultimi cento cinquanta anni, le libertà economiche sono aumentante e, nei Paesi analizzati, hanno raggiunto due terzi del massimo possibile. Tuttavia, l’evoluzione non è stata lineare. Dopo una forte espansione dalla metà dell’Ottocento, la Prima Guerra Mondiale ha provocato non solo un arresto ma anche un ritorno al passato e negli Anni Trenta c’è stato un drammatico declino. Notevoli i progressi durante gli Anni Cinquanta, pur non raggiungendo i livelli precedenti la Prima Guerra Mondiale. Dopo un periodo di stagnazione, la lunga fase di espansione dall’inizio degli Anni Ottanta ha portato ai livelli più elevati di libertà economica negli ultimi due secoli.

Ciascuna delle principali tipologie di libertà economia ha avuto tendenze ad essa specifica ed il contribuito all’indice complessivo è variato nel corso degli anni. In generale, il miglioramento dei diritti di proprietà è stato l’elemento che più e meglio ha contribuito al progresso di lungo periodo della libertà economica.

Sul Journal of International Business Studies (Vol. 47 No.4, pp. 480-497) Stelio Zanakis e William Neuburry (ambedue della Florida International University) e Vasyl Taras della University of North Carolina, giungono a conclusioni analoghe in materia di tolleranza (Global Social Tolerance Index and Multi-Method Country Rankings Sentsitivity – Indice Globale di Tolleranza Sociale ed ordinamento per Paesi con metodi differenti).

Utilizando i dati delle Nazioni Unite sui “valori” nei differenti Paesi e dati di 56 Paesi (con 83.000 interviste utilizzabili) i tre economisti costruiscono un Global Tolerance Index (GTI) che incorpora varie tipologie di tolleranza (di genere, di religione, nei confronti delle minoranze e degli immigrati). L’indice fornisce indicazioni utili nel forgiare politiche. Non è una coincidenza che dove c’è più libertà c’è anche maggiore tolleranza.

Svizzera: prima in Europa perché meno tassata

Svizzera: prima in Europa perché meno tassata

Carlo Lottieri – Corriere del Ticino

Da sempre il destino delle comunità è legato a quello dell’imposizione fiscale. Come mostrò alcuni anni fa Charles Adams in un formidabile saggio dal titolo “For Good and Evil. L’influsso della tassazione nella storia dell’umanità” (la versione italiana è stata pubblicata da Liberilibri), esperienze che erano state di grandi successo per secoli e secoli sono  crollate, nel passato, proprio a seguito di imposizioni tributarie eccessive. Oltre a ciò, hanno spesso avuto una matrice fiscale anche le rivoluzioni moderne: in Inghilterra come in America, come in Francia.

Sotto tanti punti di vista è difficile capire qualcosa della stessa crisi che l’Europa sta conoscendo se non si considera che mai come oggi gli apparati pubblici del Vecchio Continente hanno colpito in maniera tanto massiccia i redditi di lavoratori, imprese e famiglie. Ed è quindi motivo di soddisfazione rilevare, secondo quanto afferma una recente ricerca del centro studi Impresa Lavoro di Udine, che entro il quadro europeo la Svizzera si trova al primo posto in quanto a “libertà fiscale”.

L’indice considera i ventotto Paesi dell’Unione più la Svizzera e prende in esame cinque aspetti: il numero delle procedure necessarie a pagare le imposte; il tempo da destinare a ciò; il tax rate sulle imprese; il miglioramento del livello tributario complessivo nel periodo 2000-2014; e soprattutto (ed è questo il dato che pesa di più, ovviamente) la percentuale complessiva dei tributi in rapporto all’economia. Soprattutto grazie a quest’ultimo dato, la Svizzera si rileva meno oppressiva di ogni altro Paese, superando – anche se non di molto – l’Irlanda.

Va aggiunto che la Svizzera primeggia in questa classifica nonostante due voci che la penalizzano: il numero delle procedure (relativamente alto, com’è inevitabile in un Paese a struttura federale) e il cambiamento rispetto al 2000. In un quindicennio la Svezia ha ridotto del 5,9% la pressione fiscale, ma in Svizzera questo exploit non è stato possibile, considerando l’alta tassazione da cui si partiva.

Tutto bene? Non proprio. Il quadro generale – come si è detto – è quello di un’Europa schiacciata da debiti e alta tassazione al tempo stesso: e in questo quadro è difficile pensare che la piccola Svizzera non paghi conseguenze negative. Quando i tuoi clienti, i tuoi fornitori, i tuoi partner, i tuoi risparmiatori ecc. conoscono difficoltà, anche tu difficilmente avrai prospettive esaltanti.

In questo contesto è importante essere ancora più virtuosi ed evitare la tendenza, che pure è fortissima, a considerarsi tanto bravi solo perché si fa meglio di altri. Essere i primi in una classe di somari non significa necessariamente essere ottimi studenti. Fuor di metafora, è cruciale che si risvegli lo spirito di resistenza che lungo i secoli ha portato le popolazioni elvetiche a resistere di fronte alle pretese di quanto inventano nuove imposte e moltiplicano i tributi. Se si vogliono finanziare spese e progetti, è sempre bene esplorare la strada di tagli di bilancio: riducendo le uscite invece che aumentando le entrate.

Si tratta di avere una visione complessiva in grado di assicurare un futuro di prosperità: evitando ogni “normalizzazione” e scongiurando il rischio di una Svizzera sempre più simile alla Francia o alla Germania. Ma oltre a ciò, quando si assume come proprio principio ispiratore una sana diffidenza di fronte a ogni imposta, si sceglie di essere fedeli all’istituto cardine di ogni società civile: la proprietà.

Rispettare quanto più è possibile la proprietà significa, in poche parole, rispettare l’altro: il suo lavoro, il suo risparmio, quello dei suoi genitori. In questo come in altri casi (si pensi ai contratti), la difesa di solidi principi di giustizia comporta rilevanti conseguenze economiche. Una società che cerca di essere giusta e quindi non consegna una quota crescente delle ricchezze nelle mani dell’apparato politico e burocratico, alla fine è anche una società di successo.

Almeno in parte, questo è quanto la Svizzera ha saputo fare nel corso dei secoli: ha contenuto tassazione e regolazione, ha protetto la proprietà, ha tutelato i contratti, ha limitato (anche grazie alla concorrenza istituzionale e quindi al federalismo) il potere dei governanti, e tutto questo l’ha premiata.

È bene allora che non venga meno questa vigilanza di fronte alle buone ragioni del diritto, che si esprime anche in una resistenza di fronte a imposte eccessive e ingiustificate. E non solo per mantenere quel primo posto in classifica che pure tanti benefici assicura (basti pensare alla limitata disoccupazione) alla popolazione svizzera.

 

Sacconi (Ap): “Banche, ripensare relazioni di lavoro per migliorare competenze e tutele”

Sacconi (Ap): “Banche, ripensare relazioni di lavoro per migliorare competenze e tutele”

Maurizio Sacconi*

“Nel momento in cui risulta sempre più difficile guadagnare facendo credito, le banche sono impegnate ad utilizzare appieno le nuove tecnologie e ad asciugare gli alti costi operativi che le caratterizzano. Si impone quindi la necessità di una forte politica di gestione del cambiamento attraverso importanti investimenti nelle competenze e nuovi modelli di salvaguardia dei lavoratori anziani in esubero. Da un lato sarà presto necessario ripensare il contratto nazionale e, dall’altro, utilizzare quanto più gli accordi aziendali e individuali per introdurre il lavoro agile a risultato, cambiare la struttura della retribuzione, garantire formazione continua e tutela delle professionalità. Gli stessi fondi di accompagnamento alla pensione potranno essere ripensati quali fondi complementari facendo entrare le aziende di credito nel sistema degli ammortizzatori sociali pubblici”. Lo ha dichiarato il Presidente della Commissione lavoro del Senato Maurizio Sacconi intervenendo all’Abi Forum HR 2016 “Banche e risorse umane”.

*Presidente della Commissione Lavoro e Previdenza Sociale del Senato

Zaia (Lega): “Sulla banche la Regione Veneto è a disposizione, si faccia chiarezza”

Zaia (Lega): “Sulla banche la Regione Veneto è a disposizione, si faccia chiarezza”

“Sto guardando con attenzione e preoccupazione tutto quello che accade nel sistema del credito del Veneto. Io sono un piccolissimo azionista sia di Veneto Banca che di Popolare di Vicenza. Auguro buon lavoro ad entrambi i vertici ricordando che la Regione è assolutamente a disposizione”. Così Luca Zaia, presidente della Regione Veneto, oggi a Venezia, in merito alla situazione delle banche popolari in Regione. “Noi – ha continuato Zaia – ci aspettiamo da un lato un bel piano industriale che possa riportare queste banche sul mercato con solidità ed inoltre che si recuperi credibilità. Spero, ed io mi batterò per questo, affinché restino il nostro istituto di riferimento veneto e quindi banche del territorio”.

“Banche – ha aggiunto il governatore – che hanno sempre aiutato i veneti ma è necessario fare chiarezza perché azioni che passano da 60 euro a 0,10 centesimi o da 40 euro a 1 euro o 50 centesimi, sono azioni che hanno avuto comunque un crollo verticale, non giustificabile dai mercati o da altri fattori”. “Questa – ha proseguito Zaia – è un’inquietudine che noi risparmiatori abbiamo in quanto questo valore era stato fissato passando per il vaglio di controllori, di società di revisione, di banca d’Italia e quindi è anche un fatto di credibilità e per questo motivo dobbiamo fare chiarezza. Niente giustizialismo, è importante fare chiarezza. Se c’è qualcuno che ha sbagliato ovviamente dovrà pagare. Resta comunque, da parte mia, la fiducia per le procure che comunque stanno indagando su questi fronti”. Per quanto riguarda la commissione d’inchiesta in Regione, il presidente veneto ha dichiarato: “Sono state fatte molte audizioni e si continuerà. Si aggiunge poi una volontà da parte mia, che ho presentato l’articolo di legge, di dare 300 mila euro come prima tranche per le spese legali e quindi modo a chi non ha possibilità di difendere i propri interessi, penso soprattutto ai piccoli risparmiatori o piccoli consumatori”.

Brunetta (Fi): “Con la Merkel, Renzi ha perso un’altra occasione”

Brunetta (Fi): “Con la Merkel, Renzi ha perso un’altra occasione”

Renato Brunetta (Fi)*

“I quotidiani sottolineano tutti una distensione nei rapporti tra Merkel e Renzi, ma su due punti è chiaro che la Germania non ci sente: gli eurobond per fermare l’immigrazione e le banche, con la evidente differenza di trattamento tra le regole imposte all’Italia e quelle agli istituti tedeschi”. Lo scrive su Facebook Renato Brunetta, capogruppo di Forza Italia alla Camera dei deputati.

“Renzi ha perso una eccellente occasione per levarsi di dosso, con la doverosa gentilezza dell’ospite, la livrea di vassallo sia pure lievemente dissidente e un po’ ribelle della Germania, ridando un po’ di orgoglio patriottico all’Italia. Una dichiarazione comune sull’impegno per la Libia, con una messa in riga di chi fa i suoi giochetti con le varie fazioni, sarebbe stata bene accetta. Oggi noi appaiamo insieme alla Germania gli alleati di Turchia-Tripoli-Fratelli Musulmani contro Francia e Russia che appoggiano l’Egitto-Tobruk. (America di Obama con molti piedi e molte scarpe)”, conclude Brunetta.

*Capogruppo di Forza Italia alla Camera dei deputati