Edicola – Opinioni

Jobs Act, il bluff delle tutele universali estese ai precari

Jobs Act, il bluff delle tutele universali estese ai precari

Giuliano Cazzola – Il Garantista

Nel dibattito che da mesi accompagna il Jobs Act Poletti 2.0, il tema dei nuovi ammortizzatori sociali ha svolto il ruolo di Cenerentola nella celebre favola, se messo a confronto con il clamore suscitato dalla disciplina del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti con annesse nuove norme sul recesso. Poi il governo ha deciso di affiancare i due schemi di decreto legislativo, facendoli approdare – una volta ottenuto il “bollino” della Ragioneria generale dello Stato – entrambi nelle Commissioni abilitate a fornire il parere obbligatorio anche se non vincolante sui testi.

La delega, con riferimento con riferimento agli strumenti di sostegno in caso di disoccupazione involontaria, elencava, inoltre, i seguenti principi e criteri direttivi: 1. rimodulazione e omogeneizzazione dell’Assicurazione sociale per l’impiego (Aspi), rapportando la durata dei trattamenti alla pregressa storia contributiva del lavoratore; 2. incremento della durata massima per i lavoratori con carriere contributive più rilevanti; 3. universalizzazione del campo di applicazione dell’Aspi, con estensione ai lavoratori con contratto di collaborazione coordinata e continuativa, fino al suo superamento e prevedendo, prima dell’entrata a regime, un periodo almeno biennale di sperimentazione a risorse definite; 4. eventuale introduzione, dopo la fruizione dell’Aspi, di una prestazione limitata ai lavoratori, in disoccupazione involontaria, in condizioni di disagio, con obbligo di partecipazione alle iniziative di attivazione proposte dai servizi competenti.

Si trattava, nelle intenzioni del governo, di un’operazione ambiziosa, promessa come “estensione universale” delle tutele. In realtà, la scarsità delle risorse finanziarie ne ha imposto un notevole ridimensionamento. Cosi, il provvedimento (all’articolo 5) commisura la durata della Naspi (ovvero la Nuova Aspi) alla pregressa storia contributiva del lavoratore per un periodo massimo di quattro anni; non prevede, inoltre, alcun incremento per i lavoratori con carriere contributive “più rilevanti”. Quanto all’annunciata “universalità” delle prestazioni non vi è traccia dell’estensione della Naspi ai lavoratori con contratto di collaborazione coordinata e continuativa (come richiesto dalla legge delega); viene introdotta, invece, un’indennità diversa (per requisiti, durata e copertura finanziaria) denominata Dis-Coll. Lo schema di decreto, poi, prevede un periodo di sperimentazione più breve (di otto mesi per la Naspi e di un anno per la Dis-Coll) rispetto a quello richiesto dalla legge-delega. A decorrere dal primo maggio prossimo e in via sperimentale per l’anno 2015, viene istituito (articolo 16) l’assegno di disoccupazione (Asdi) destinato ai soggetti che abbiano fruito della Naspi per l’intera sua durata entro il 31 dicembre 2015, i quali, privi di occupazione, si trovino in una condizione economica di bisogno.

Nello schema predisposto è stato incluso, all’ultimo momento, all’articolo 17, anche il contratto di ricollocazione (stralciato dal testo riguardante il contratto a tutele crescenti). Dovrebbe rappresentare “il nuovo che avanza” nel campo delle politiche attive del lavoro, ma la sua piena operatività è a rischio: si rinvia la disciplina di alcuni importanti aspetti a un successivo decreto legislativo. La disposizione stabilisce che abbiano diritto al contratto di ricollocazione soltanto i soggetti licenziati illegittimamente per giustificato motivo oggettivo o per licenziamento collettivo: resterebbero quindi fuori dal campo di applicazione del contratto di ricollocazione i soggetti licenziati illegittimamente per giustificato motivo soggettivo e quelli licenziati legittimamente per giustificato motivo oggettivo. A conti fatti, anche chi, come il sottoscritto, è favorevole al contratto di nuovo conio e alle annesse tutele in tema di recesso, non può esimersi dal sottolineare l’esistenza di uno squilibrio tra le tutele che vengono meno nel caso di licenziamento e le nuove che si aggiungono sugli aspetti della protezione del reddito e del principale strumento delle politiche attive (il contratto di ricollocazione, appunto).

A determinare tale squilibrio saranno state certamente le limitate disponibilità finanziarie. Ma il “fatto materiale” (ovvero lo squilibrio) sussiste. Sarà anche per questo motivo, allora, che il ministro Giuliano Poletti si è messo, di impegno, a sostenere che il sistema pensionistico ha bisogno di flessibilità, in mancanza della quale gravi saranno le conseguenze sociali della riforma Fornero (un provvedimento che, a mio avviso, sta bene com’è). Si torna a parlare dell’idea dell’acconto – come prestito restituibile a rate – sulla pensione spettante, in caso di perdita del lavoro in prossimità della maturazione dei requisiti. Pare che l’Inps ne abbia quantificato gli oneri in circa 400 milioni l’anno che potrebbero essere ricavanti da un pesante giro di vite (grazie al ricalcolo col metodo contributivo per il quale “spinge” molto il presidente designato, Tito Boeri) non solo le “pensioni d’oro”, ma anche quelle di “bronzo”. In sostanza, con la ripresa annunciata, le aziende dovranno fare i conti con gli esuberi fino a ora “coperti” con gli ammortizzatori sociali ancien regime. Una pensione, in Italia, non la si nega mai a nessuno. Ed è sicuramente meglio che lavorare.

Perché condonare il debito alla Grecia farebbe bene anche all’Europa

Perché condonare il debito alla Grecia farebbe bene anche all’Europa

Martin Wolf – Il Sole 24 Ore

A volte, la cosa giusta da fare è la cosa saggia da fare. È così oggi per la Grecia. Se fatta nel modo giusto, una riduzione del debito andrebbe a beneficio della Grecia e del resto dell’Eurozona. Creerebbe delle difficoltà, ma non tante quante ne creerebbe gettare la Grecia in pasto ai lupi. Tuttavia, raggiungere un accordo di questo tipo potrebbe rivelarsi malauguratamente impossibile: per questo chi pensa che la crisi dell’Eurozona sia finita si sbaglia.

Nessuno può essere sorpreso della vittoria di Syriza in Grecia. La «ripresa» del Paese ellenico è fatta di una disoccupazione al 26 per cento e di una disoccupazione giovanile oltre il 50. Inoltre, il prodotto interno lordo ha perso il 26 per cento rispetto al suo massimo antecrisi. Ma il Pil è un parametro particolarmente inappropriato per dare conto della riduzione del benessere economico, in questo caso. Il saldo delle partite correnti nel terzo trimestre del 2008 era attestato su un -15 per cento del Pil, ma dalla seconda metà del 2013 è in attivo: questo significa che la spesa dei greci per beni e servizi in realtà è calata di almeno il 40 per cento.

Di fronte a una catastrofe del genere, non c’è davvero da stupirsi che gli elettori abbiano rigettato il precedente Governo e le politiche che ha portato avanti (un po’ controvoglia) per conto dei creditori. Come ha detto Alexis Tsipras, il nuovo primo ministro, l’Europa è fondata sul principio della democrazia. Il popolo greco ha parlato. Le autorità costituite devono come minimo ascoltare. Eppure tutto quello che si sente in giro lascia intendere che le richieste per un nuovo accordo su debito e austerità saranno respinte senza neanche pensarci su. Dietro a questa reazione c’è una discreta quantità di stupidaggini moralisteggianti. Due in particolare ostacolano le speranze di una risposta ragionevole alle richieste greche.

La prima stupidaggine è che i greci hanno preso in prestito i soldi e perciò sono tenuti a ridarli indietro, a qualunque costo. Era più o meno lo stesso ragionamento alla base del carcere per debiti. La verità però è un’altra: i creditori hanno la responsabilità morale di prestare soldi con accortezza. Se non vagliano in modo accurato la solvibilità dei loro debitori, si meritano quello che gli succederà. Nel caso della Grecia, le dimensioni dei disavanzi con l’estero, in particolare, erano evidenti. Ed era evidente anche il modo in cui era gestito lo Stato greco.

La seconda stupidaggine è sostenere che dal momento in cui è esplosa la crisi il resto dell’Eurozona sarebbe stato straordinariamente generoso con la Grecia. Anche questo è falso. È vero che i prestiti erogati dall’Eurozona e dal Fondo monetario internazionale ammontano alla smisurata somma di 226,7 miliardi di euro (circa il 125 per cento del Pil), più o meno i due terzi del debito pubblico complessivo, pari al 175 per cento del Pil. Ma la quasi totalità di questi soldi non è andata a beneficio dei greci: è stata utilizzata per evitare la svalutazione contabile di prestiti inesigibili a favore del Governo e delle banche del Paese ellenico. Solo l’11 per cento dei prestiti è andato a finanziare direttamente attività del Governo. Un altro 16 per cento è andato a pagare gli interessi sul debito. La parte restante è stata usata per operazioni di capitale di vario genere: i soldi sono entrati e sono usciti fuori di nuovo. Sarebbe stato più onesto soccorrere direttamente i creditori, ma era troppo imbarazzante.

Come i greci fanno notare, l’abbuono del debito è una pratica normale. La Germania, che nel XX secolo è andata più volte in default sia per quanto riguarda il debito interno sia per quanto riguarda quello con l’estero, ne ha beneficiato più volte. Quello che non può essere pagato non sarà pagato. L’idea che i greci debbano accumulare grosse eccedenze di bilancio per una generazione per restituire il denaro che i Governi creditori hanno usato per salvare i creditori privati dalla loro sconsideratezza è un’assurdità.

Che cosa bisogna fare allora? Si può scegliere tra la cosa giusta, la cosa comoda e la cosa pericolosa. Come sostiene Reza Moghadam, ex direttore del dipartimento europeo del Fondo monetario internazionale, «l’Europa dovrebbe offrire un sostanzioso alleggerimento del debito, dimezzando il debito della Grecia e dimezzando il saldo di bilancio richiesto, in cambio di riforme». Una cosa del genere, aggiunge, sarebbe coerente con l’obbiettivo di un debito notevolmente al di sotto del 110 per cento del Pil, concordato dai ministri dell’Eurozona nel 2012. Ma queste riduzioni non dovrebbero essere effettuate in modo incondizionato. L’approccio migliore è quello delineato dall’iniziativa sui «Paesi poveri pesantemente indebitati» avviata nel 1996 dal Fmi e dalla Banca mondiale. Secondo i criteri fissati da questo programma, l’alleggerimento del debito viene accordato solo dopo che il Paese debitore ha soddisfatto criteri di riforma ben precisi. Un programma del genere sarebbe di grande beneficio per la Grecia, che ha bisogno di una modernizzazione politica ed economica.

L’approccio politicamente comodo è continuare a «estendere e pretendere». Sicuramente ci sono modi per rimandare ulteriormente il giorno della resa dei conti. Ci sono anche modi per ridurre il valore attualizzato degli interessi e dei rimborsi senza ridurre il valore nominale. Tutto questo consentirebbe all’Eurozona di evitare di confrontarsi con le tesi di chi sosterrebbe l’opportunità morale di un alleggerimento del debito per altri Paesi colpiti dalla crisi, in particolare l’Irlanda. Ma un approccio del genere non è in grado di produrre quel risultato onesto e trasparente di cui c’è drammaticamente bisogno.

L’approccio pericoloso è spingere le Grecia verso il default, perché una cosa del genere probabilmente creerebbe una situazione in cui la Banca centrale europea non si sentirebbe più nelle condizioni di operare come Banca centrale della Grecia, e questo obbligherebbe il Paese ellenico a uscire dall’euro. Il risultato per la Grecia sarebbe senza dubbio catastrofico nel breve termine; secondo me potrebbe addirittura bloccare qualsiasi progresso verso la modernità per una generazione. Ma il danno non lo subirebbe solo la Grecia: l’uscita di Atene dimostrerebbe che l’unione monetaria europea non è irreversibile, ma soltanto una parità monetaria particolarmente rigida. Sarebbe il peggio dei due mondi: la rigidità dei cambi fissi senza la credibilità di un’unione monetaria. In ogni crisi futura, ci si chiederebbe se è arrivato il «momento dell’uscita». Il risultato sarebbe un’instabilità cronica.

Creare l’Eurozona è la seconda peggiore idea che i suoi membri abbiano mai avuto, ma la peggiore in assoluto sarebbe smantellare l’Eurozona. Eppure è questo lo scenario che potrebbe realizzarsi se spingessimo la Grecia verso l’abbandono della moneta unica. La via giusta è riconoscere la validità di un alleggerimento del debito condizionato alla realizzazione di riforme verificabili. Un politico rigetterebbe questa idea, uno statista la farebbe propria. Sapremo presto se abbiamo a che fare con politici o con statisti.

Quanto costa la Grecia al contribuente italiano

Quanto costa la Grecia al contribuente italiano

Isabella Bufacchi – Il Sole 24 Ore

C’è periferia e periferia. L’Italia, al fianco dei creditori “core” ma con costi più pesanti, ha aiutato la Grecia con i prestiti bilaterali, l’Efsf e l’Eurosistema. Dove inizia la “periferia” e dove finisce? Per i mercati l’Italia è senza ombra di dubbio un paese periferico: in termini di debito/Pil, rating sovrano e debolissima crescita potenziale causata da un accumulo di inefficienze, scarsa competitività, tassazione eccessiva. All’interno dell’Eurozona, l’Italia è invece allineata agli Stati “core”, è un paese creditore quando si tratta di soccorrere i periferici in difficoltà. In termini assoluti , è vero che l’Italia ha un’esposizione tramite Efsf e Esm verso la Grecia inferiore a quella della Germania o della Francia (peso ponderato in base al Pil nazionale e alla popolazione): ma in termini relativi l’assistenza finanziaria che l’Italia ha concesso finora alla Grecia ha pesato, pesa e peserà maggiormente perchè indebitarsi costa assai più caro al Tesoro italiano che non a quello tedesco o francese (anche adesso nell’era del QE). Va anche detto che l’aumento del debito pubblico tramite le garanzie all’Efsf o le quote di capitale Esm (finanziate con emissione di BTp) grava di più quando il un debito/Pil è già molto alto, e dovrebbe scendere invece di salire come nel caso italiano. Tutto questo ha rilevanza anche al fine dei negoziati sulla maggiore flessibilità chiesta dall’Italia.

Al di là delle considerazioni di opportunità politica, la crisi greca ha avuto un costo per i conti pubblici italiani. L’Italia ha concesso alla Grecia due prestiti bilaterali per un importo di circa 10 miliardi di euro, spalmati nel 2010 e nel 2011. In quegli anni il rendimento del BTp decennale ha oscillato tra il 4% e il 6% con picchi oltre il 7%: condizioni fisse. Il prestito bilaterale greco, invece, è stato ristrutturato: allungamento della scadenza di 15 anni (ora ha una vita media di 30 anni), un periodo di grazia sugli interessi di 10 anni e un abbattimento del tasso di interesse di 100 punti.

Attraverso l’Efsf, l’Italia ha aiutato la Grecia per 25 miliardi di euro(l’Italia pesa al 18% circa sul totale delle garanzie dell’Efsf e il fondo ha concesso alla Grecia 141,8 miliardi di euro, resta in bilico l’ultima tranche da 1,8 miliardi). L’Efsf ha già allungato le scadenze dei prestiti alla Grecia fino al 2054 (vita media oltre 32 anni) e ha concesso ad Atene un periodo di grazia sospendendo il pagamento degli interessi sul debito dal 2012 al 2023: con un risparmio per il budget di Atene di 8,6 miliardi nel 2013 e attorno agli 8 miliardi nel 2014 e 2015. L’Efsf e i suoi garanti non hanno perso il capitale investito in Grecia (non c’è stato haircut) ma l’investimento molto rende meno del previsto. Se rende.

La Banca d’Italia, come tutte le banche centrali dell’Eurosistema, sta restituendo alla Grecia la plusvalenza realizzata tra il prezzo di acquisto dei titoli di Stato greci (comprati con il Securities markets programme al picco della crisi a prezzi ben sotto la pari) e il rimborso a 100. Il debito pubblico italiano sale, proquota, anche per quei 10,9 miliardi di Efsf bond trasferiti all’Hellenic Financial Stability Fund per ricapitalizzare la banche greche e dare collateral per i finanziamenti presso l’Eurosistema. La chiusura del programma di aiuti dell’Efsf alla Grecia (la cui scadenza è stata estesa già dal 31/12/2014 al 28/02/2015) costringerebbe la Grecia a restituire questi Efsf bond. Infine, nel caso in cui Atene dovesse richiedere nei prossimi mesi un nuovo programma di aiuti, questa volta con l’Esm, o l’accensione di una linea di credito precauzionale ECCL all’Esm (con acquisto di titoli di Stato in asta da parte dell’Esm per candidare i bond greci alle OMTs di Draghi e probabilmente anche al QE), l’Italia avrebbe aiutato la Grecia anche tramite la partecipazione al capitale dell’Esm, costata per il paid-in oltre 14 miliardi di euro.

L’Acropoli e il Quirinale

L’Acropoli e il Quirinale

Davide Giacalone – Libero

C’è un filo che lega l’Acropoli al Quirinale. E non è fatto di moneta. Guardando alle elezioni greche ci siamo tutti concentrati su faccende di debito e valuta. Che sono certo rilevanti, ma non uniche. Quel filo passa da questioni politiche più generali, attinenti agli equilibri globali. E mette ancora di più in frizione la posizione della Germania con il posizionamento atlantico dell’Europa.

Gli errori tedeschi li vedemmo per tempo, quando in Italia erano considerati fulgido esempio di virtù economica e lungimiranza politica. Monti arrivò al governo dicendosi economista tedesco e fummo pochini ad avvertire il rischio. Ora, però, provate a mettervi nei panni della classe dirigente tedesca, politica e non solo: hanno aizzato i cittadini nel far credere (falsamente) che correvano il rischio di pagare i debiti altrui, impugnando l’arma del rigore come una specie di falce morale, e si ritrovano con politiche monetarie espansioniste e messi in minoranza presso la Banca centrale europea. Guardate i numeri con i loro occhi: passano per gli affamatori d’Europa, ma poi scoprono che le famiglie italiane hanno più patrimonio delle loro; in Italia ci sono più ricchi, in rapporto alla popolazione, che da loro; mentre nel loro Paese ci sono più poveri che da noi. Gli invasati del germanocentrismo possono non vederlo, ma i tedeschi s’avvedono che, ancora una volta, rischiano per mancanza di visione intemazionale. Erano stati avvertiti, anche da due ex cancellieri. Fatto è che, in questa condizione, è forte la tentazione di far i rigidi con i greci. Tanto più che i torti ellenici non sono pochi. Ma è possibile?

Il problema non è economico. Se all’inizio di questa storia si fosse scelta la strada della protezione, ci sarebbe costata meno. Il problema è di politica estera. La Grecia ha una posizione e un ruolo importanti, accresciuti dallo scivolare della Turchia verso non tanto i costumi neo-islamici, quanto verso le rimembranze vetero-imperiali. Non dimentichiamoci che il bastione della Nato, in quell’area, poggiava e poggia su Turchia e Grecia. E ciò fu possibile grazie all’occidentalismo kemalista, che dominava la Turchia, per il tramite dell’esercito, così come da un equilibrio ellenico che escludeva la possibilità d’influenze comuniste nell’area, fino a rendere possibile il colpo di stato militare. Roba del secolo scorso, certamente. Ma non è che in questo possa avvenire l’opposto.

Il nuovo governo greco è un’incognita, da tale punto di vista. Le alleanze che lo reggono non rassicurano. Ha chiarito che non intende allontanarsi dall’euro, ma cosa succederebbe se politiche sbagliate allontanassero l’euro dalla loro portata? La Grecia sprofonderebbe in una miseria senza fondo, con le banche destinate a saltare una dopo l’altra. Oppure interverrebbero capitali non europei. Quelli cinesi sono gia presenti e crescenti. La Russia è interessata, sia per rapporti esistenti che per riequilibrio sul versante del Mar Nero (dove la Grecia non si affaccia, ma presidia le spalle della Turchia). Anche capitali arabi sarebbero interessati, per giocare qualche pezzo in più sulla già complessa scacchiera mediterranea. E tutti hanno il loro tornaconto nel divaricare le posizioni dell’Unione europea da quelle degli Stati Uniti. Ue che, del resto, nel ribollire scomposto d’astratte patire e di concreti errori, vede crescere, a destra e a sinistra, formazioni nazionaliste e isolazioniste che incarnano la perdita dell’orientamento e della vitale collocazione atlantica. Non è un mistero che l’operazione Quantitative easing sia ben vista a Washington e mal sopportata a Berlino. Mettete anche questa nel conto e darete maggiore corpo al nervosismo tedesco. Quindi: condonare ai greci i loro debiti è impossibile, anche perché sono i nostri soldi; supporre di farglieli pagare per fargliela pagare è impossibile, perché significa perderli; perderli è pericoloso, perché rattrappisce l’Ue attorno agli imperi centrali (e fanno giusto ora 100 anni!). Occorre equilibrio, dunque. Che è il contrario del cavalcare il marasma e soffiare sulle paure.

Il Quirinale c’entra, perché con la Francia implosa (anche lì i tedeschi hanno sbagliato, e la Merkel, facendo campagna per Sarkozy, ha dimostrato i limiti della sua e della tedesca visione politica) l’Italia ha un ruolo accresciuto. O potrebbe averlo. Il che comporta un presidente della Repubblica eletto guardando anche questo scenario, non solo la cucina del potere nostrano. Potremmo essere noi (traendone vantaggio) a tendere la mano di cui i tedeschi hanno bisogno, per placare gli spiriti di un passato oggi interpretato da chi non lo ha vissuto: i più giovani. Per riuscirci, però, c’è bisogno che i nostri protagonisti non siano a loro volta ghermiti da quegli spiriti, sebbene in versione maccheronica. Sarebbe saggio che la cronaca della corsa al Colle, legittimamente agonistica, non fosse meramente dialettale.

Le illusioni da evitare per ristrutturare l’edificio dell’Europa

Le illusioni da evitare per ristrutturare l’edificio dell’Europa

Michele Salvati – Corriere della Sera

Quali saranno le conseguenze delle elezioni greche sui Paesi dell’eurogruppo, e soprattutto sui più deboli, nessuno è oggi in grado di prevedere: dalle prime reazioni dei mercati, delle autorità europee e dei Paesi più forti – della Germania soprattutto -, sembrerebbe esclusa una catastrofe imminente. Ma molte cose possono andare storte se il nuovo governo greco non si rimangerà gran parte delle sue promesse elettorali nelle negoziazioni con la troika. Se così non farà, e se l’atteggiamento europeo sarà poco flessibile, i rischi di guai seri saranno soltanto rimandati. Essendo troppe le variabili in gioco, guardare avanti è impossibile. È possibile invece guardare indietro e trarre qualche lezione, per noi e per i Paesi in condizioni simili alle nostre, dalla (sinora) breve storia dell’Unione monetaria europea.

Alcuni colleghi hanno trovato eccessive le affermazioni di un mio recente articolo (Corriere, 17 gennaio): che è stato un errore aderire al trattato di Maastricht e che, se fosse possibile farlo senza incorrere in costi esorbitanti, dovremmo uscire dalla moneta unica. A quell’errore ho partecipato: negli anni 90, la convenienza ad aderire al Trattato – data la situazione di inflazione latente e gli alti tassi d’interesse che eravamo costretti a pagare – mi sembrava ovvia. Non mi rendevo però conto che, nel lungo periodo, tale convenienza era legata a tre scommesse, tutte perse, dunque a tre illusioni.

La prima era che la favorevole situazione economica internazionale che accompagnò la nascita della moneta europea durasse indefinitamente. Ci eravamo dimenticati delle analisi di Keynes e di Minsky, dell’instabilità congenita del capitalismo, degli squilibri reali e finanziari che stavano montando. Quando esplose, nel 2008, la crisi finanziaria americana rapidamente si trasmise all’Europa, in un mondo ormai strettamente interconnesso i capitali cominciarono ad abbandonare gli investimenti nei Paesi più fragili dell’eurozona. Erano in euro, è vero, ma l’Europa non era uno Stato sovrano e non c’era una Banca centrale costretta a intervenire per difenderli, non c’era un prestatore di ultima istanza. Cominciò allora la divaricazione (spread) tra i rendimenti e iniziarono a crescere gli oneri a carico degli Stati più indebitati e più fragili. Già, ma perché negli anni favorevoli, tra il 1999 e il 2007, questi Stati non si erano dati maggiormente da fare per ridurre il proprio indebitamento e, più in generale, per aumentare la propria competitività?

E qui si rese evidente la seconda illusione: rimediare ai guasti di un passato di cattiva gestione economica e di debolezza strutturale non è per nulla semplice, e sicuramente non è rapido. Nelle migliori élite italiane circolò a lungo l’idea che il «corsetto» dell’euro avrebbe indotto i governanti a una gestione più responsabile delle finanze pubbliche (la famosa metafora di Ulisse che si fa legare all’albero maestro per non cedere alle lusinghe delle sirene). Si vide però assai presto, nella legislatura 2001-2006, che il corsetto non teneva e che il confortevole avanzo primario della precedente legislatura veniva rapidamente dilapidato.

Non voglio farne una questione di parte, perché dubito che un governo di centrosinistra si sarebbe comportato in modo molto diverso: troppo invitante è l’uso della spesa pubblica per assicurarsi consenso politico. Trasformare un Paese «vizioso» in uno virtuoso, quando non ci sono ragioni impellenti per stringere la cinghia, è uno sforzo politico sovrumano e richiede o un consenso sociale straordinario (quello inglese ai tempi della guerra, del «sudore, lacrime e sangue ») o un dittatore benevolo, più che un normale leader democratico. O entrambi. Ma non avrebbe potuto l’Unione – e i Paesi più forti dell’eurogruppo – venire in soccorso del Paese (temporaneamente?) in crisi e sotto attacco speculativo?

Questa è la terza illusione, la terza scommessa irrealistica, quella di scambiare il sogno di un’Europa federale con la realtà, una realtà in cui un demos europeo è molto debole, la politica è ancora largamente un affare nazionale, i sospetti e i pregiudizi dei singoli Paesi dell’Unione nei confronti degli altri sono molto forti. Se persino una parte del popolo italiano – quella rappresentata dalla Lega – protesta contro lo sforzo di mutualità richiesto alle regioni più ricche a sostegno di quelle più povere, e questo dopo 150 anni di unità politica, come illudersi che la Germania avrebbe potuto comportarsi diversamente con l’Italia?

Gli economisti si saranno accorti che mi sono limitato a riformulare diversamente parte degli argomenti secondo i quali l’Europa dell’euro non è un’area valutaria ottimale e dunque un’unione monetaria vincolante è difficilmente sostenibile. Questa è la lezione riassuntiva che i Paesi più fragili dell’eurogruppo dovrebbero trarre dall’esperienza dei quindici anni di moneta unica. La crisi provocata dalle elezioni greche può essere una occasione per ristrutturare l’intero edificio costruito a Maastricht. Una ristrutturazione che non abbisogni, per funzionare, delle tre scommesse illusorie che ho appena descritto.

Ma sul debito di Atene i conti son già fatti.  Anche da Cottarelli

Ma sul debito di Atene i conti son già fatti. Anche da Cottarelli

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Rispunta Carlo Cottarelli. Questa volta ad Atene. Non nella veste di autore di spending review secretate, quindi, ma di “avvocato difensore”  della Grecia alle dirette dipendenze di Alexis Tsipras, in quanto rappresentante della Repubblica ellenica («oltre che dell’Italia e di un’altra mezza dozzina di Stati») nel consiglio del Fmi, il partner senior della troika se non altro per l’esperienza e le risorse professionali di cui dispone.

Cottarelli è avvezzo a trattare di debito pubblico. Per di più trova il terreno pronto. Nel novembre 2014 – a Washington, Bruxelles ed Atene è il “segreto di Pulcinella”, anche se a Francoforte si afferma di non saperne nulla – il presidente del Consiglio greco allora in carica Antonis Samaras aveva concluso un patto top secret con i partner europei che contano. Atene avrebbe dovuto rientrare quanto il dovuto nei loro confronti – quasi 190 miliardi su 300 – entro il 2057. Non si possono toccare i crediti privilegiati targati Fmi e Bce, perché salterebbe l’intero sistema. Ma la Grecia avrebbe forse avuto un periodo di grazia (senza pagare nulla ai maggiori creditori) fino al 2020. Da quella data avrebbe poi rimborsato a tassi di interesse “calmierati”, pari a solo lo 0,53% annuo in aggiunta al tasso armonizzato d’aumento dei prezzi pubblicato nel Bollettino Mensile della Banca centrale europea. Tsipras è ovviamente perfettamente al corrente.

Su questa base è anche facile non solo fare il gioco delle tra carte, ma mostrare risultati differenti a seconda dell’uditorio. Mediamente il debito greco ha scadenze di 16 anni, oltre il doppio di quelle di Francia, Germania ed Italia. Ad un tasso d’attualizzazione nominale (l’inverso del tasso d’interesse) medio del 2,5% (il 2% definito come “obiettivo d’inflazione” della Bce più lo 0,53%) il prolungamento delle scadenze comporta una riduzione di un terzo di quanto dovuto – e un taglio ancor maggiore se nel pacchetto rientra anche il “periodo di grazia”.

Mediaticamente sarebbero tutti contenti. Tsipras sottolineerebbe ai suoi che ha ottenuto un bel taglio. La troika che si è trattato di un allungamento “tecnico” per meglio consentire alla Grecia il rientro del debito e l’avvio dello sviluppo. Ai contribuenti italiani l’operazione costerebbe circa 15 miliardi. Spalmati, però, su una ventina d’anni.

La barriera dell’euro e l’abisso incertezza

La barriera dell’euro e l’abisso incertezza

Alessandro Plateroti – Il Sole 24 Ore

In un’Europa divisa e senza leadership, politicamente in stallo ed economicamente fragile, non c’è evento straordinario a cui non venga ormai attribuito un potenziale dirompente per il futuro dell’Eurozona. Che si tratti di crisi geopolitiche, di tensioni finanziarie o monetarie, di elezioni nazionali o di scelte politiche su austerity e riforme, poco importa. Più il destino dell’euro viene messo in gioco, più chi lo fa guadagna: guadagnano denaro gli speculatori di Borsa, come avviene ormai dal 2011 con l’altalena di tassi, azioni e valute, e guadagnano consenso partiti e movimenti antagonisti, che proprio negli slogan contro l’euro e l’Europa hanno trovato ragion d’essere.

In questo senso, gli eventi dell’ultima settimana offrono più spunti di riflessione sia per chi difende l’Unione monetaria sia per chi l’attacca all’origine: in particolare, il quantitative easing della Bce e le elezioni in Grecia. Entrambi gli eventi sono stati caricati di tensione e di significati ben oltre il dovuto, con palesi distorsioni della realtà dei fatti. Da un lato, si è attribuita infatti alla Germania una cinica determinazione nel bloccare la manovra monetaria di stimolo economico e di contrasto della deflazione: bloccando il Qe, è stato il coro, Berlino farà saltare per i propri interessi la Grecia, l’Italia e l’euro, affermandosi come potenza egemonica. Risultato: il sentimento anti-tedesco è lievitato nell’Europa mediterranea, mentre in Grecia ha fornito a Syriza e a Tsipras la spinta decisiva per il successo elettorale. Le cose sono andate però diversamente: non solo Draghi ha ottenuto il via libera al Qe, ma l’entità della manovra – 1.100 miliardi di euro in acquisti di bond sovrani – è andata ben oltre le attese del mercato. Le Borse sono quindi salite, i tassi periferici (a cominciare da quelli dei BTp italiani) sono scesi ai minimi storici e l’euro ha perso terreno sul dollaro, come appunto si voleva. E con la manovra Draghi, ha stimato la Confindustria, il Pil italiano potrebbe mettere a segno un balzo dell’1,8% nell’arco di due anni, mentre per le imprese ci sarà un risparmio di 3,2 miliardi sugli interessi.

È forse questa la dimostrazione del sentimento anti-europeo della Germania? In Borsa non la pensano certamente così, visto il rally degli indici e dei listini europei: per i mercati, il QE non è certo la panacea della crisi e la ripresa economica resta una sfida da vincere con le riforme, ma l’Euro e la sua difesa da parte della Bce sono la vera garanzia a protezione degli investimenti finanziari e produttivi. Se l’Italia sta già beneficiando di questa percezione malgrado la durezza della crisi, è solo perché il mercato non attribuisce ai movimenti anti-Euro la forza per spingere politicamente un ritorno alla lira. Nell’ottica di chi investe, la sfida al rigore non è un delitto: un conto è dare fiducia a un Paese in crisi che chiede meno vincoli e condizioni migliori per tornare a crescere, un altro è investire su una nazione indipendente ma isolata, con una valuta “sudamericana” in balia degli eventi, con scarse possibilità di riaccedere al mercato dei capitali e senza reti di protezione internazionale sui tassi di interesse.

Un discorso analogo vale per la Grecia: se i mercati ieri hanno reagito in modo composto alla vittoria di Tsipras è soltanto perchè hanno capito bene che il leader di Syriza non ha alcuna intenzione di abbandonare l’Euro. I greci non vogliono la Dracma, ma comprensione, solidarietà e migliori condizioni dai loro creditori. I mercati non votano, non sono né di destra né di sinistra, cercano solo garanzie e certezze finanziarie: la Grecia oggi è un fattore di rischio, ma circoscritto, quantificabile e gestibile.

Chi ha attribuito alla Grecia e a Tsipras la volontà di uscire dall’Unione monetaria lo fatto insomma per esigenze politiche nazionali o per rincorrere il vento del populismo. E lo stesso è stato fatto con la Germania. Anche se Berlino e la Bundesbank hanno la propria parte di responsabilità nell’escalation delle tensioni sul voto greco, sarebbe un errore pensare che la Germania o l’Europa siano pronte a espellere Atene dall’Unione monetaria solo perché chiede di rinegoziare le condizioni dei prestiti e dell’austerity. A questo proposito, è bene ricordare che già nel 2012 l’Europa accettò la rinegoziazione dei prestiti alla Grecia proprio per evitare l’uscita di Atene dall’Euro e il rischio di un devastante contagio europeo, sia politico sia finanziario. Perchè ora non si dovrebbe fare altrettanto?

Abbandonare ora la Grecia sarebbe non solo sbagliato, ma in contrasto con lo spirito solidaristico con cui l’Europa sta cercando di ripartire. E d’altra parte, proprio i mercati finanziari sembrano aver capito meglio di altri osservatori politici che non sarà certamente la Germania a mettersi di traverso sul salvataggio della Grecia o sulle manovre di stimolo della Bce. A dirglielo è stata direttamente la Merkel lunedì scorso, nel pieno delle polemiche contro Berlino: «Questa settimana – ha risposto la Merkel alle domande dei giornalisti sullo scontro in Bce – non sarà affatto determinante per l’Europa: tanto il risultato della riunione in Bce sul quantitative easing quanto l’esito delle elezioni in Grecia non rappresenteranno fattori di rottura o di sopravvivenza per l’Euro». E così è stato. Detto questo, è chiaro che i prossimi mesi saranno determinanti per l’Eurozona. Il caso greco, per le sue dimensioni finanziarie limitate, può rappresentare l’occasione giusta non solo per ricalibrare, secondo un principio di equità e di tolleranza, il peso dei sacrifici nei Paesi ancora schiacciati dalla recessione, ma anche una grande opportunità per dimostrare che l’Europa è molto più di un’espressione geografica.

Amore a prima vista

Amore a prima vista

Guido Gentili – Il Sole 24 Ore

Al fattore “G”, G come Grecia, l’Italia dovrebbe sempre prestare attenzione. Per ragioni geografiche e storiche, ma oggi soprattutto perché il ciclone Tsipras investe di nuovo l’Europa e preme anche alla nostra porta. Il problema è che tipo di attenzione: quella fondata sul dato emozionale, ad esempio, può rivelarsi controproducente. Alexis Tsipras, leader del partito di sinistra radicale Syriza e neo capo di un governo frutto dell’alleanza con il partito (destra nazionalista) dei Greci Indipendenti, è un pragmatico quarantenne che con un programma aggressivo all’insegna della “fine dell’austerità e della Troika” (Bce, Commissione Ue e Fondo Monetario) vuole riportare Atene fuori da una crisi drammatica in gestazione già in passato da molti anni e poi deflagrata nel 2010. E dove l’Europa e la sua governance a trazione tedesca, va detto con chiarezza, hanno compiuto una serie di vistosi e colpevoli errori.

Vedremo a cosa porterà, in concreto, questo innesto a presa rapida tra un partito di sinistra-sinistra ed uno di destra-destra cementati dalla richiesta di rinegoziare alla radice i piani d’aiuto concordati dalla Grecia (la sola eurozona si è esposta direttamente per 194,7 miliardi) in “cambio” delle riforme. Quello che è certo è che l’Italia non può non occuparsi di un caso che la riguarda da vicino. In tutti i sensi. Perché è la terza economia dell’eurozona. Perché è creditrice come Stato, alle spalle di Germania (55,3) e Francia (42), per 36,8 miliardi (50,2 se consideriamo l’esposizione indiretta via Bce e Fmi) nei confronti della Grecia. Perché, dopo la sola Grecia, è detentrice in Europa del più alto debito pubblico in rapporto al Pil. Perché ad inizio febbraio la Commissione europea presenterà le sue previsioni economiche che faranno da sfondo al negoziato sulla flessibilità (a colpi da zero-virgola ma non per questo, date le regole del gioco, meno impegnativo) per passare gli esami di bilancio. Tutti ottimi motivi per ragionare, a Roma come a Bruxelles, e con lo stesso Tsipras, sui modi migliori per disinnescare strappi sui mercati e insieme per trovare nuove strade per la crescita.

Fatto è che la prima ondata dell’effetto-Tsipras si è distinta per un’indistinta reazione della classe politica italiana. Destra, sinistra, centro, uomini di governo: tutti o quasi erano Tsipras o suoi potenziali e stretti alleati per un assalto alla fortezza-Europa. Con risultati paradossali. Come quello per il quale il capogruppo dei socialisti in Europa, il Pd Gianni Pittella, ancora a scrutini aperti twittava: «Da Atene un messaggio chiaro all’Europa: basta austerità e Troika». O come quello per cui, dalle file del Pd, è emersa una nuova convinzione identitaria: «Noi il nostro Tsipras già ce l’abbiamo e si chiama Renzi». Naturalmente nessuno sembra aver nemmeno dato un’occhiata al programma con il quale Syriza ha stravinto le elezioni. Nazionalizzazioni a tappe forzate, patrimoniali e molto altro, compresa una politica estera che farà molto discutere. Ma tutti Tsipras, per fare cosa ancora non è dato sapere.

La Ue non può avere la Germania contro

La Ue non può avere la Germania contro

Lucrezia Reichlin – Corriere della Sera

La decisione assunta giovedì scorso dalla Banca centrale europea è stata coraggiosa. Ed è una buona notizia. Ce n’è anche una cattiva, però: ed è che il coraggio della Bce non sembra, per ora, essere accompagnato da un’azione altrettanto decisa da parte di Bruxelles e dei governi nazionali su debito, investimenti e politica fiscale: azione che invece è un indispensabile complemento della politica monetaria. Se l’economia dovesse deludere anche nel 2015 e la Bce fosse lasciata sola a fornire gli stimoli necessari, le tensioni all’interno del Consiglio dell’istituto sarebbero difficilmente gestibili e l’Unione non sopravvivrebbe ad un governo della politica monetaria che vede la Germania in sistematica opposizione.

Acquistare titoli sovrani (il cosiddetto Quantitative easing) fino al raggiungimento dell’obiettivo di inflazione — cioè finché i prezzi non torneranno a crescere ad un passo al di sotto, ma vicino al 2 per cento annuo — resta un avvenimento di rilevanza storica, con importanti conseguenze per il futuro del governo economico dell’Unione. L’avvenimento è storico perché il Qe combina, sempre, aspetti di pura politica monetaria (l’iniezione di liquidità sostiene i prezzi e spinge quindi al consumo) a aspetti cosiddetti fiscali. Metterlo in atto nell’eurozona, dove la moneta è comune ma l’autorità di bilancio (il «ministero del Tesoro») non è condivisa, è un esperienza per quanto necessaria, potenzialmente divisiva. L’acquisto, da parte della Bce, di titoli di debito sovrano diminuisce infatti il costo di rifinanziamento dello Stato e potenzialmente limita la disciplina esercitata dal mercato nei confronti dei Paesi con alto debito pubblico. Il problema – al centro delle preoccupazioni tedesche – è particolarmente rilevante nella situazione di oggi, in cui molti Paesi non solo della periferia dell’Unione, ma anche del suo «nocciolo» come la Francia, hanno un debito pubblico che continua a crescere in rapporto al prodotto interno lordo.

Se il debito di questi Paesi dovesse continuare ad espandersi, in quella che viene definita una «dinamica negativa», gli scenari possibili sarebbero due. Nel primo, la Bce continuerebbe ad acquistare titoli, sostituendosi così al mercato: questo genererebbe però un aumento incontrollato dell’inflazione e la perdita di credibilità della Banca centrale. Nel secondo scenario, invece, la Bce interromperebbe gli acquisti per non violare il suo obiettivo di inflazione e permetterebbe il default dei Paesi a rischio. In questo secondo caso, però, la Bce si troverebbe a pagare un prezzo elevato, particolarmente difficile da digerire per chi, tra i suoi azionisti, si trova nella condizione di creditore.

Il primo scenario è improbabile, date le attuali condizioni macroeconomiche e il vincolo posto dai Trattati sul limite dell’inflazione. Il secondo, cioè il caso di bancarotta di un Paese dell’Unione, pur essendo estremo, non è da escludere. Il problema è stato già sperimentato con la Grecia in passato, e una nuova discussione sulla rinegoziazione del debito e sullo stato della Bce come creditore ufficiale ritornerà sicuramente sul tavolo dopo la vittoria di Tsipras. Proprio per rispondere al problema posto dal secondo scenario, il Qe della Bce prevede che le banche centrali nazionali assumano una gran parte del rischio relativo agli acquisti. In altre parole, se uno Stato fallisse, il bilancio della sua banca centrale sarebbe colpito; e nel caso estremo in cui il capitale non fosse sufficiente, lo Stato dovrebbe intervenire, mettendo dunque i suoi cittadini nella condizione, di fatto, di «pagare il conto».

Questo aspetto del programma è stato criticato perché, limitando la condivisione del rischio, potrebbe far sorgere dubbi sull’impegno di tutti gli Stati a salvaguardare l’Unione. Ma in realtà questa è una discussione molto astratta. Il problema è un altro. Se a dover ristrutturare fossero più Paesi (o anche uno solo, ma con un grande debito) la sopravvivenza stessa dell’euro sarebbe a rischio e Francoforte dovrebbe intervenire per evitare il peggio. In caso contrario i costi sarebbero enormi: molto maggiori di quelli di cui si parla in relazione al Qe. La crisi ci ha insegnato che i Trattati portano a un paradosso: da una parte pongono molti limiti all’azione della Bce per evitare la monetizzazione del debito; dall’altra, quando l’euro è in pericolo, rendono inevitabile il suo intervento per assicurarne la sopravvivenza, rendendola implicitamente garante del debito di tutti e generando dunque un irrealistico appiattimento dello spread.

La Bce può uscire da questa alternanza tra bastone e carota solo chiedendo agli Stati a rischio un impegno su programmi di riforma. Ma la Grecia insegna che questa via è percorribile solo se le misure non sono eccessivamente punitive e si combinano con altre che favoriscano la crescita. Per questo il Qe è una buona notizia: una politica monetaria fortemente espansiva potrebbe facilitare e non inibire un percorso riformatore. Purché al coraggio della Bce si associ l’azione decisa di Bruxelles. Altrimenti si scaricherebbero sull’istituto di Francoforte le tensioni di una Germania all’opposizione, mettendo a rischio la sopravvivenza della stessa Unione.

Il miope abbraccio all’icona

Il miope abbraccio all’icona

Pierluigi Battista – Corriere della Sera

Il carro di Alexis Tsipras è sempre più affollato di sostenitori del giorno dopo, ma non è solo il consueto e patetico affannarsi nel soccorso del vincitore. Esultano a sinistra e a destra. Marine Le Pen e Matteo Salvini ammirano il «mostruoso schiaffone» assestato all’euro. I partiti che in Europa sono normalmente vituperati come xenofobi ed eurofobi, guardano ad Atene come alla nuova Gerusalemme che sconfiggerà l’euroburocrazia di Bruxelles e le rapaci «oligarchie bancarie». Del resto, oramai le barriere ideologiche del passato paiono molto fragili se in poche ore in Grecia l’estrema sinistra ha fatto un governo con un partito nazionalista che sembra quello del deploratissimo Farage in Gran Bretagna. A sinistra si rincorre il modello Syriza, il nuovo cavaliere che sgominerà il «liberismo selvaggio». Ma anche nel fronte della moderazione riformista di destra e sinistra, se non c’è proprio esultanza, affiora compiacimento. Forza Italia parla di «memorabile lezione». E Matteo Renzi, lungi dal temere la tentazione di una sinistra vecchio stampo che potrebbe sentirsi galvanizzata dal trionfo di Atene, si dice confortato dal possibile appoggio di Tsipras alla battaglia «anti austerità» (anche se l’Italia rischia di vedere svanire i circa 40 miliardi di cui è creditrice con la Grecia).

Ma se è così, per l’Unione Europea si tratta di una disfatta simbolica, e di un pericolo mortale. Come se tutto quello che è stato fatto sinora fosse da buttare in una discarica. E il pareggio di bilancio messo in Costituzione? E le riforme come «compiti a casa» amari ma necessari per superare la bufera? E i parametri da rispettare, i conti da tenere a bada, i debiti pubblici questi sì «mostruosi» da domare? Se, come è stato detto in queste ore, ci si commuove per le note di Bella ciao nelle piazze di Atene come simbolo di «liberazione» dalla dittatura finanziaria, così come quella trascinante canzone è il simbolo della liberazione dalla dittatura fascista, quale immagine dell’Europa esce da questo unanime stringersi al profeta dell’anti austerità Alexis Tsipras?

Il successo di Tsipras sembra funzionare come una ricerca collettiva di autoassoluzione. Se siamo messi così male, così recita il nuovo coro, non è perché abbiamo fatto le cicale nel passato, perché abbiamo accumulato debiti statali spaventosamente elevati, perché non abbiamo tenuto sotto controllo la spesa pubblica, perché nell’Europa soprattutto latina e mediterranea i bilanci in ordine sono stati un concetto un po’ troppo elastico e incompatibile con la ricerca di un consenso voracemente costoso. No, la colpa è «dell’Europa» e segnatamente, inutile girare attorno al vero nucleo che calamita su di sé ostilità e risentimenti sconfinati, della spietata Germania, e anzi, per dare un volto e un bersaglio, «della Merkel», che non è più una persona fisica, ma l’emblema stesso delle nostre difficoltà.

Ma se questo accade è perché l’Europa è stata costruita male, dando il senso di una sovranità usurpata, di una moneta senz’anima, di un carattere privo di ogni base culturale e soprattutto di ogni passione «popolare», come quella che pure ha preso forma nella configurazione moderna degli Stati nazionali e delle democrazie liberali. È questo deficit democratico che l’Europa, se vuole sopravvivere, deve saper guardare con coraggio per colmarne le lacune. Non solo una questione di conti virtuosi e di debiti da onorare. Altrimenti, stritolata dall’eurofobia montante di destra e di sinistra, l’Unione Europea ne uscirà travolta. Non c’è più molto tempo per correre ai ripari.