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Le sanzioni comunali a dieta, i dati di ImpresaLavoro

Le sanzioni comunali a dieta, i dati di ImpresaLavoro

di Gloria Grigolon – Italia Oggi

Sanzioni e multe non fanno ingrassare le casse locali. Il gettito comunale extratributario degli ultimi cinque anni legato a sanzioni amministrative, ammende e oblazioni è infatti diminuito del 17,82%; una situazione che, a detta di Anci, l’Associazione nazionale dei comuni italiani, mostra la buona condotta dei Comuni, che non hanno spinto sulle entrate «extra» al fine di colmare gli ammanchi derivanti dalla riduzione dei trasferimenti. La maglia nera per multe riscosse spetta a Milano (con una sanzione pro capite di 139 euro), mentre la città meno sanzionata risulta essere Latina (11,75 euro).

Sono questi alcuni dei dati diffusi ieri dal centro studi ImpresaLavoro (sui dati Siope, il Sistema informativo sulle operazioni degli enti pubblici del Ministero delle finanze), relativi alle sanzioni riscosse dai Comuni italiani. «I comuni» ha sottolineato l’Anci «non hanno utilizzato le multe in forma impropria, nonostante negli ultimi cinque anni siano stati soggetti a una riduzione dei trasferimenti senza precedenti». Nonostante il calo delle riscossioni, nell’ultimo anno il trend è rimasto sostanzialmente stabile (+0,24%, circa 1,26 mld di euro). Il Comune che in rapporto agli abitanti ha incassato di più tra sanzioni, ammende e oblazioni è stato Milano, seguito da Firenze, Bologna, Parma e Torino. Napoli divide in due la classifica (con multe medie da 38,97 euro), mentre il minor gettito si è registrato a Latina, Potenza, Siracusa, Trieste e Novara.

Multe, incassi comunali giù del 17,8% in 5 anni

Multe, incassi comunali giù del 17,8% in 5 anni

di Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

Negli ultimi cinque anni gli incassi raccolti dai Comuni dalle multe si sono assottigliati del 17,8% perché nel 2015 non si riuscirà ad andare oltre gli 1,26 miliardi di euro contro gli 1,5 miliardi abbondanti raccolti nel 2010. Lo certifica il Centro studi ImpresaLavoro, che ha passato al setaccio i dati del Siope, il censimento che misura in tempo reale gli incassi e i pagamenti delle pubbliche amministrazioni. Naturalmente non tutte le città seguono la stessa dinamica: guardando agli incassi medi 2013-2015 (questi ultimi stimati in base all’andamento dei primi undici mesi) Milano si conferma “leader nel settore”, con poco più di 139 euro ogni anno per ogni cittadino con più di 18 anni, seguita da Firenze (quasi 97 euro pro capite con lo stesso calcolo) e Bologna (93,6 euro).

L’andamento generale, comunque, è chiaro e porta i sindaci a respingere al mittente l’accusa di “utilizzo improprio” delle entrate raccolte con i verbali: «Le cifre – sostiene una nota dell’Anci – mostrano che i Comuni non utilizzano le multe per fare cassa, nonostante il taglio senza precedenti subìto dai trasferimenti negli ultimi cinque anni». A frenare le multe sono stati più fattori, intervenuti progressivamente nel corso del tempo: il primo è rappresentato dalla crisi economica, come mostra l’ultimo Rapporto Isfort sulla mobilità secondo cui l’anno scorso gli spostamenti degli italiani sono stati il 12,8% in meno rispetto al 2009, e nel 2012, l’anno più nero da questo punto di vista, si era arrivati al 23,8% in meno. Meno spostamenti significa naturalmente meno multe, anche perché i mezzi pubblici assorbono meno del 15% della mobilità.

L’altra variabile, però, è rappresentata dallo sconto del 30% introdotto dal «decreto del Fare» varato a metà 2013 dal Governo Letta per chi paga entro cinque giorni dal verbale. Il 2014 è stato il primo anno di piena applicazione della tagliola, e puntualmente ha registrato la flessione più consistente (-8,74%) negli incassi rispetto ai 12 mesi precedenti. Per una voce dalla riscossione difficile come le multe, i dati sembrano dare argomenti a chi sostiene che lo sconto sia stato parecchio sfruttato da chi comunque si sarebbe presentato alla cassa, mentre non è stato particolarmente efficace nel convincere i renitenti al pagamento: una tesi, questa, sostenuta dagli amministratori locali che chiedono di cancellare il bonus.

Da città a città, comunque, i risultati cambiano: a Milano, grazie all’infittirsi dei controlli, nei primi 11 mesi del 2015 (ma i dati Siope di novembre non sono del tutto completi) le sanzioni hanno prodotto entrate per 157 milioni, cioè più dei 140 raccolti in tutto il 2013, e a fine anno si potrebbe sfondare quota 190 milioni. A Roma, invece, a giudicare da quanto raccolto fin qui si arriverà col fiatone poco sopra i 100 milioni, con una flessione del 50% rispetto all’anno scorso.

Gli statali si ammalano di più, il lunedì il giorno preferito

Gli statali si ammalano di più, il lunedì il giorno preferito

di Filippo Caleri – Il Tempo

Statali più cagionevoli di salute. Forse perché il loro posto di lavoro è più sicuro rispetto al privato. Dove infatti ci si ammala di meno nel corso dell’anno. In ogni caso in entrambi i settori se proprio si deve stare a casa con il termometro sul comodino si preferisce il lunedì. Il primo giorno della settimana è scelto per comunicare la malattia al datore di lavoro nel 30% dei casi. I dati sono stati elaborati dall’osservatorio statistico dell’Inps che ha contabilizzato tutte le giornate di malattia nel 2014 sia nel pubblico sia nel privato. In tutto si tratta di oltre 109 milioni di giorni (77.195.793 giornate nel privato e 31.525.329 nella pubblica amministrazione). La conferma della fragilità della salute dei ministeriali è confermata anche nei dati percentuali. L’Istituto guidato da Tito Boeri ha registrato lo scorso anno un aumento dello 0,8% (6.031.362) dei certificati di malattia presentati dai lavoratori pubblici e un calo del 3,2% (11.494.805) di quelli dei dipendenti privati.

A confermare che la salute è più debole tra i dipendenti pubblici si è aggiunto ieri il Centro Studi ImpresaLavoro, che ha rielaborato i dati Inps, giungendo alla conclusione che i circa 3,2 milioni di dipendenti pubblici si ammalano in media quasi il doppio delle volte rispetto ai circa 14 milioni di dipendenti privati registrati presso l’Inps. La base di calcolo sono stati i 71,5 milioni di certificati che dal 2010 (anno della riforma che impone l’invio via web della malattia da parte dei medici di famiglia) sono arrivati all’Istituto di previdenza: 2,6 milioni nel 2010 (periodo in cui il sistema telematico non era ancora entrato a regime), 16,4 milioni nel 2011, 17,2 milioni nel 2012, 17,8 milioni nel 2013 e 17,5 milioni nel 2014. Ebbene dal 2011 al 2014 le giornate di malattia nel settore privato sono state circa 312 milioni 134 mila, mantenendosi stabili ogni anno dopo aver registrato un calo iniziale di 2,4 milioni dal 2011 al 2012 (79,8 milioni nel 2011, 77,4 milioni nel 2012, 77,6 nel 2013 e 77,1 milioni nel 2014). Nello stesso periodo di tempo sono invece costantemente aumentate le giornate di malattia nel settore pubblico, per un totale di oltre 116 milioni 770 mila (25,8 milioni nel 2011, 28,5 milioni nel 2012, 30,7 milioni nel 2013 e 31,5 milioni nel 2014).

L’Inps osserva pure che i lavoratori con almeno un episodio di malattia sono per la maggior parte maschi (56,l%) nel privato e femmine (69%) nella Pubblica amministrazione. E per quanto riguarda poi il numero di assenze per malattia, nel pubblico risultano esser doppie rispetto al privato: i 3 milioni di lavoratori della Pubblica amministrazione, infatti, hanno fatto in media 10,5 giorni di malattia mentre i 13,6 milioni di dipendenti del settore privato sono stati malati in media per 5,67 giorni.

L’Inps stana i furbetti del lunedì, tutti malati dopo il weekend

L’Inps stana i furbetti del lunedì, tutti malati dopo il weekend

di Gian Maria De Francesco – Il Giornale

Il certificato di malattia è uno degli stratagemmi più utilizzati per allungare il weekend. È quanto emerge dai dati dell’osservatorio statistico dell’Inps che hanno messo in evidenza come nel 2014 un italiano su tre si sia ammalato di lunedì. La distribuzione del numero degli eventi malattia per giorno di inizio l’anno scorso è stata simile sia nel settore pubblico che in quello privato. Il primo giorno della settimana si sono registrati 2.576.808 eventi nel privato e 1.325.187 per la Pa, pari rispettivamente al 30,2% e al 27,2% del totale. Il sospetto che il certificato medico possa essere utilizzato per godere di un «meritato» riposo è giustificato dalla distribuzione degli eventi malattia per classi di durata. Se si guarda a quelli compresi da uno a tre giorni, si registrano 3,7 milioni di casi nelle aziende (43% del totale) e oltre 3 milioni (62%) nel comparto statale e parastatale. Il dubbio, pertanto, è più che legittimo.

Cadere nella trappola dei luoghi comuni è facile. Purtroppo i numeri certificano quella che è un’opinione abbastanza condivisa: i dipendenti pubblici non paiono eccessivamente «attaccati» al loro posto di lavoro. Essi, infatü, tendono ad ammalarsi il doppio rispetto ai loro colleghi che lavorano nelle imprese private. I primi, infatti, hanno consumato 31,5 milioni giornate di malattia contro i 77,2 milioni dei loro colleghi. Ma se si considera che i dipendenti delle pubbliche amministrazioni in Italia sono circa 3,2 milioni, mentre coloro che lavorano nel privato sono circa 14 milioni, si vede bene come l’incidenza di malattie e infortuni sia di gran lunga superiore, osserva il Centro studi Impresa Lavoro. Le assenze medie sono, infatti, di 10,5 giorni da una parte e di 5,67 giorni dall’altra.

La Lombardia è in testa alla classifica delle assenze sia per il settore privato (894.175 lavoratori; 22% del totale). Quanto invece ai casi di malattia, seguita da Veneto, Emilia Romagna e Lazio (poco più del 10%) che nel pubblico (12,5%) dove precede Lazio (11,9%) e Sicilia (10,3%). Se, però, si guarda alla densità di occupati nel settore pubblico emerge che al Sud ove, in media, un lavoratore su cinque è al servizio dello Stato il problema assume dimensioni rilevanti. Ad esempio in Calabria circa un dipendente pubblico su tre (61mila su 191mila) l’anno scorso si è dato malato. Nel Lazio il rapporto diventa uno su due (209mila su 396mila) e cosi pure in Campania dove 3 su 5 (181mila su 293mila) hanno dato forfait almeno una volta. È un trend comune a tutta l’Italia, è vero, perché 1,7 milioni su 3,2 milioni di lavoratori della Pa sono stati malati almeno un giorno l’anno scorso. Ma nel pubblico tutto questo non è accaduto perché a marcare visita sono stati 4,4 milioni su circa 14 milioni.

Anche il comparto aziendale non è esente dal problema «furbetti»›. Ad esempio, le frequenze più alte degli eventi malattia si sono riscontrate nelle classi da 20 a 49 dipendenti (13,8%) e in quella superiore ai mille (17,7%). Da questo si evince che più è alto il numero dei dipendenti più è difficile controllare e che, in particolare, lo Stato è un pessimo controllore. «Le assenze dal lavoro nel settore privato, sopratutto nelle piccole imprese, sono limitate anche da eventuali sanzioni che arrivano dagli stessi colleghi», ha commentato il presidente del Centro studi Impresa Lavoro, Massimo Blasoni. «Nel pubblico impiego – aggiunge – le censure sembrano essere molto meno efficaci». Ed è difficile dargli torto: dai 25 milioni di giornate di assenza del 2011 si è ritornati in pochi anni sopra quota 30 milioni. Un chiaro segnale che l’abbandono della riforma Brunetta ha prodotto, in particolare nel Mezzogiorno, un effetto «liberi tutti».

O riforme radicali o più sacrifici per tutti

O riforme radicali o più sacrifici per tutti

Massimo Blasoni* – Panorama

La tenuta del nostro sistema pensionistico non è una variabile indipendente dal contesto socio-economico in cui viviamo. Un modello a ripartizione, con i lavoratori attivi che versano contributi per pagare gli assegni di chi è in pensione, è sostenibile se al crescere dei pensionati aumentano anche Pil e occupazione. In questi anni la spesa per pensioni è cresciuta, nonostante un Pil stagnante e tassi di occupazione fermi al palo. Il premier Matteo Renzi tende a etichettare come “gufi” tutti coloro che si dimostrano poco entusiasti rispetto all’andamento della nostra economia: purtroppo sono i numeri a dire che con questa crescita anemica, e sempre sotto la media europea, il nostro sistema pensionistico non sarà sostenibile. O si attuano riforme radicali in grado di liberare la crescita e spingere l’occupazione ai livelli dei Paesi più avanzati o servirà un’altra riforma previdenziale con più sacrifici per tutti.

*Imprenditore e Presidente del Centro Studi ImpresaLavoro

Troppo ottimismo sul futuro delle pensioni

Troppo ottimismo sul futuro delle pensioni

di Paolo Ermano* – Panorama

Dopo 6 grandi riforme dal 1992 al 2011 il problema del riequilibrio del sistema previdenziale italiano e della sua sostenibilità economica nel tempo è sembrato passare in secondo piano. Gli ultimi governi che si sono succeduti alla guida del Paese sono tutti dovuti intervenire su questo tema, politicamente molto sensibile, con provvedimenti non sempre in coerenza tra loro. La Riforma Fornero, da molti considerata “il male assoluto” soprattutto per aver creato il fenomeno dei cosiddetti “esodati”, avrebbe dovuto rappresentare la soluzione definitiva. Tutti ricordano le lacrime, passate ormai alla storia, dell’ex ministro del Welfare e la richiesta ai lavoratori italiani di ulteriori sacrifici per poter garantire un modello pensionistico equo e sicuro per tutti. Per raggiungere questo obbiettivo ambizioso la riforma ha introdotto sostanzialmente due grandi novità: ha allungato ulteriormente l’età in cui è possibile ritirarsi dalla vita lavorativa e ha modificato i meccanismi di calcolo dell’assegno che spetta ai futuri pensionati.

I primi risultati misurabili segnalano numeri contrastanti: da un lato è diminuita la quantità di assegni erogati dall’Inps (c’è meno gente che va in pensione), dall’altro è salito l’importo complessivo che il nostro Paese impegna per la previdenza. A fronte di una riduzione nelle prestazioni di poco più del 2%, vi è un aumento della spesa pari al 7,6%, circa 20 miliardi di euro: mediamente più di mille euro a pensionato.

«È la cosiddetta “gobba annunciata” ossia l’aumento della spesa previdenziale che si determina in un periodo di transizione come questo» spiega il professor Giuseppe Pennisi, presidente del board scientifico di ImpresaLavoro. «In questi anni vanno in pensione i lavoratori che hanno beneficiato degli effetti del cosiddetto “autunno caldo” del 1969 e del conseguente aumento delle retribuzioni (e dei contributi) in termini sia monetari che reali, proseguito fino alla crisi iniziata del 2008». Ma c’è un altro aspetto da non sottovalutare e riguarda i tempi di questa transizione: «In Svezia, nel 1995, la riforma pensionistica fu attuata con una transizione durata tre anni mentre in Italia, su spinta soprattutto dei sindacati, si è scelta una transizione decisamente più lunga e vicina ai 18 anni complessivi».

Per il futuro, poi, non c’è da stare allegri. Grazie agli interventi effettuati dal 2004 a oggi il sistema pensionistico si è messo su una traiettoria sostenibile nel breve periodo. Per stimare l’andamento nel tempo delle pensioni, si devono proporre ipotesi di scenario: oltre alle variabili demografiche (stimate secondo metodiche condivise a livello europeo), per simulare l’andamento di spesa futura è importante ipotizzare con precisione un tasso medio di crescita economica per l’avvenire. I grafici che spesso si producono per dimostrare la sostenibilità nel medio-lungo periodo del nostro sistema pensionistico sono frutto delle simulazioni effettuate dalla Ragioneria Generale dello Stato che però assume per vere delle condizioni su cui è lecito nutrire qualche dubbio. Si ipotizza, infatti, un tasso di crescita medio del nostro Pil dell’1,5% su base annua per il periodo 2020-2060 accompagnato da un innalzamento consistente del tasso di partecipazione al mercato del lavoro, che passerebbe per la fascia di età tra i 20 e i 69 anni dal 63,1% del 2014 al 74,7% del 2060.

Sono ipotesi credibili? Analizziamole nel dettaglio. Primo: secondo il Nucleo di Valutazione della Spesa Pensionistica del Ministero del Lavoro, fra il 1989 e il 2010 il tasso di crescita medio del Pil nel nostro Paese è stato di poco superiore all’1%, e stiamo parlando di un’Italia demograficamente più giovane ed economicamente molto più dinamica di quella che ci attende nei prossimi 40 anni. Secondo: l’Istat nelle stime sulla crescita 2015-2017 fissa il tasso di crescita medio per questo triennio all’1,26% mentre il Fondo Monetario Internazionale ci dice che il nostro Paese crescerà ancor meno: l’1,06% all’anno fino al 2020. Terzo: secondo le ipotesi fatte per dimostrare la sostenibilità del nostro sistema pensionistico, la crescita reale del Prodotto Interno Lordo nei prossimi 50 anni porterebbe l’economia italiana a raddoppiare la sua ricchezza, a fronte di un aumento della popolazione decisamente contenuto (+5%).

Questo vorrebbe dire che una società sempre più vecchia e con meno figli si ritroverebbe a essere due volte più ricca di quanto è ora. È una speranza che ci piacerebbe poter condividere ma che pare poco attendibile. La crescita anemica di questi trimestri e l’ultimo dato Istat che certifica un Pil che cresce meno delle attese confermano infatti l’idea che una nuova riforma delle pensioni si renderà presto necessaria.

* Professore a contratto di Economia internazionale presso l’Università di Udine e ricercatore del Centro studi ImpresaLavoro

Quando la malattia diventa un vizio

Quando la malattia diventa un vizio

di Massimo Blasoni – Metro

Dall’aprile del 2010 tutti i lavoratori dipendenti non sono più costretti a inviare a proprie spese i loro certificati di malattia tramite due raccomandate all’INPS e al proprio datore di lavoro. A sbrigare questa pratica sono adesso i medici di famiglia e ospedalieri, che hanno finora trasmesso via web all’INPS più di 71,5 milioni di documenti (di cui 17 milioni 526 mila nel 2014). Nonostante le novità di metodo, permangono alcuni vizi antichi del nostro sistema. I circa 3,2 milioni di dipendenti pubblici, infatti, si ammalano in media quasi il doppio delle volte dei circa 14 milioni di dipendenti privati registrati presso l’INPS e questo conferma un trend che i dati raccolti dall’Istituto Nazionale di Previdenza segnalano da più di qualche anno.

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I Bot non convengono più, meglio puntare su mattone e azioni

I Bot non convengono più, meglio puntare su mattone e azioni

di Lorenzo Cairati – Stop

“Tradito” dai titoli di Stato, il piccolo investitore se ne va. Sì, ma dove? Secondo una recente analisi del centro studi ImpresaLavoro (www.impresalavoro.org), con i tassi d’interesse dei Bot semestrali e annuali nonché dei Ctz, i Certificati del Tesoro zero-coupon, finiti in rosso (il tasso di rendimento era pari al meno 0,055 percento a fine ottobre), gli italiani si sono visti sfilare sotto i piedi un’altra certezza. Già a guardare i conti del triennio 2012-2014, il bilancio del rendimento annuo netto è negativo per chi ha investito nei Buoni ordinari del Tesoro. E così, dice lo studio, da qualche mese è in corso una vera fuga.

Gli esperti di ImpresaLavoro imputano la colpa al prelievo fiscale sui profitti e un’imposta di bollo troppo alta che finisce per portare risultati in rosso alle famiglie italiane, che hanno investito ben 180,8 miliardi di euro della loro ricchezza, cioè il 4,7 percento del totale, in titoli di Stato (i dati sono di Bankitalia e sono relativi ai 2013). «Ma è inutile farsi prendere dal panico, le alternative per i piccoli e medi risparmiatori che vogliono faro investimenti esistono», spiega a Stop Roberto Di Lellis, editore, giornalista economico e per anni caporedattore del settimanale Il Mondo. «Non è un buon momento per puntare sui Bot» conferma «perché i tassi di interesse sono molto bassi. Chi ha a disposizione una cifra più o meno consistente può però rivolgersi altrove, tenendo presente un principio fondamentale: oggi è bene diversificare e distribuire i propri investimenti». In che modo? «Per gli immobili, ad esempio, il momento è proficuo: chi può permettersi di comprare lo può fare a prezzi interessanti e, ragionando su un investimento di lungo periodo, magari far rendere la nuova proprietà affittandola» risponde l’esperto. «Consiglio invece di guardare al mercato azionario con una certa prudenza, comprando, quando è il caso, a piccole dosi. Il primo suggerimento è scegliere fondi con diverse specializzazioni, ma esclusivamente europei o americani; non guarderei invece ai Paesi emergenti, che sono tuttora un’incognita».

L’altra buona idea è quella di puntare sulle società quotate che distribuiscono dividendi alti o molto alti. Ancora Di Lellis: «Sono investimenti che “assomigliano” ai Bot ma danno interessi del 3-4 percento netto l’anno. Senza farsi influenzare troppo dagli andamenti in Borsa, ci sono grandi compagnie come Snam, Terna o Eni, per esempio, che a maggio staccano cedole piuttosto ricche anche per i loro piccoli azionisti. Se si fa una scelta di questo genere, però, è bene sapere che l’investimento va effettuato in un’ottica di medio e lungo periodo».

Nel frattempo dall’America si susseguono le voci riguardo a un possibile rialzo dei tassi d’interesse da parte della Federal Reserve, la banca centrale statunitense, previsto per dicembre. «Qualora fosse confermata, questa misura inciderà sul mercato degli Stati Uniti ma non immediatamente sul nostro» riflette Di Lellis. «Piuttosto per noi saranno interessanti gli effetti delle manovre della Bce, la Banca centrale europea, che tra circa sei mesi potrebbero influire per circa l’uno percento sui tassi dei mutui». Che in Italia non sono mai stati così bassi: «E vero, più convenienti di così è impossibile. Oggi le banche che erogano il mutuo per comprare casa prendono i soldi in prestito dalla Bce a tasso zero. Il momento per il mattone è propizio e credo che non tornerà tanto favorevole per diversi anni».

Sullo sfondo resta lo spettro degli attentati terroristici di Parigi. «La reazione delle Borse poteva essere peggiore», ammette il giornalista, «ma fare previsioni è difficile: chi può dire oggi che cosa succederà domani. In ogni caso non dimentichiamo che l’economia è sottoposta a una legge spietata, il denaro non guarda in faccia a nessuno. Anche per questo mi sento di dire che l’allarme Isis deve sì preoccuparci, ma non sotto il profilo puramente economico».

Amministrazioni locali: cala il debito ma resta sopra gli 11 miliardi di euro

Amministrazioni locali: cala il debito ma resta sopra gli 11 miliardi di euro

di Piero Secchi – Corriere del Mezzogiorno

«Dal 2009 al 2014 il debito consolidato delle amministrazioni locali – Regioni, Province e Comuni – è complessivamente diminuito di 15 miliardi 278 milioni di euro, passando dalla cifra di 113 miliardi 983 milioni a quella di 98 miliardi 705 milioni di euro. Una cifra, quest’ultima, che resta comunque pari al 03,10% del Pil del 2013 (ultimo dato disponibile)». Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro – struttura udinese di ispirazione liberale nata su iniziativa dell’imprenditore Massimo Balsoni per promuovere il dibattito sui temi dell’economia e del lavoro – che ha rielaborato dati di Bankitalia.
Il «processo virtuoso in atto interessa in misura differente le amministrazioni delle singole regioni». In valori assoluti, specifica la ricerca di ImpresaLavoro, «i cali più vistosi nel periodo considerato riguardano le amministrazioni dei vari livelli del Lazio (-4 miliardi 241 milioni di euro) e della Campania (-2 miliardi 676 milioni)». In tre regioni meridionali, di contro, «si assiste a una crescita del debito. È il caso delle pubbliche amministrazioni della Sicilia (il cui debito è passato dai 6 miliardi 555 milioni di euro del 2009 agli 8 miliardi 4 milioni del 2014), della Calabria (con un aumento del debito di 48 milioni di euro, per un totale di 3 miliardi 483 milioni di euro) e del Molise (con un aumento del debito di 24 milioni di euro, per un totale di 507 milioni di euro)».
Più in generale, «si osserva come l’attuale debito pubblico consolidato delle amministrazioni locali pesi mediamente per ben 1.623,90 euro nelle tasche di ciascun cittadino italiano. Una cifra comunque inferiore a quella in carico a ogni singolo residente in Piemonte (3.032,14 euro), Valle d’Aosta (2.721,81), Lazio (2.602,70 euro), Abruzzo (1.933,37 euro), Campania (1.890,30 euro), Friuli-Venezia Giulia (1.783,85 euro), Liguria (1.777,71 euro), Calabria (1.758,62 euro) e Umbria (1.632,58 euro). A essere meno indebitati risultano invece i residenti in Trentino Alto Adige (828,94 euro) e Puglia (841,02 euro)».
Per quanto riguarda la Campania, ancora, va segnalato che su ogni residente, neonati compresi, grava un debito di 1.890 curo (dato 2014). Infine, l’incidenza del deficit delle amministrazioni locali campane sul Pil si attesta all’11,13%. Solo la Calabria sta messa peggio.
Su Bot e Btp troppe tasse

Su Bot e Btp troppe tasse

di Massimo Blasoni – Metro

Prestare soldi allo Stato non conviene più. Anzi, le famiglie italiane che continuano a investire parte della loro ricchezza in Bot o Btp ci stanno addirittura rimettendo, spesso senza rendersene nemmeno conto. Vediamo di capire perché. Negli ultimi tempi si è assistito a un sempre maggiore calo nei rendimenti dei titoli del debito pubblico italiano per effetto delle misure straordinarie adottate dalla Bce in risposta alla crisi dei Paesi periferici scoppiata nel 2011: taglio dei tassi fino allo 0,05%, operazioni straordinarie di rifinanziamento a più lungo termine (Ltro e Tltro) nonché acquisto di titoli pubblici sul mercato (Quantitative Easing). Risultato? Un risparmio notevole per il Tesoro ma anche un calo drastico della redditività di tale investimento nelle tasche delle famiglie italiane che, secondo i dati Bankitalia relativi a fine 2013, detengono in titoli di Stato ben 180,8 miliardi di euro della loro ricchezza (il 4,7% del totale).

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