Possiamo evitare la terza recessione?
Stefano Lepri – La Stampa
Per noi in Italia sono davvero brutte notizie, queste sul prodotto lordo del terzo trimestre. Anche nel resto del mondo pare deludente che le economie dell’area euro avanzino a fatica. Ma perché cambi qualcosa anche in Germania devono convincersi che così non va: mentre quel magro +0,1% registrato dal Pil tedesco basta al vicecancelliere Sigmar Gabriel per scorgere un «rafforzamento». Una vera e propria recessione, la terza, è per ora evitata (tranne in Italia). Ma le cifre di luglio-settembre diramate dall’Istat consentono scarso ottimismo. II quarto trimestre, ora a metà, potrebbe rivelarsi ancora più debole, e il primo trimestre 2015 solo di poco migliore. Il sussulto positivo della Francia (+0,3) ha cause che difficilmente si ripeteranno. In Germania l’umore delle imprese fino alla fine di ottobre ha continuato a peggiorare.
Che fare? Delle due azioni suggerite dalle organizzazioni internazionali come Fmi e Orse, una – nuove misure monetarie della Bee – si fa attendere, l’altra – più investimenti pubblici – al momento non è in vista. Al G-20 che comincia oggi in Australia, dove Renzi insisterà per discutere di crescita, l’Europa sarà guardata come la palla al piede dell’economia mondiale. Ma quando il ministro del tesoro Usa Jack Lew invita ad evitare un «decennio perduto», a Berlino ritengono che esageri (mentre in Italia l’abbiamo già perduto per conto nostro, la crescita si era fermata assai prima della crisi). Nell’immediato la speranza è affidata alla Banca centrale europea. Come da anni fanno Federal Reserve, Banca d’Inghilterra, Banca del Giappone, potrebbe compiere acquisti massicci sui mercati per far salire le quotazioni e scendere i tassi di interesse. Solo in caso estremo si tratterebbe di titoli di Stato, perché la Bundesbank si oppone.
Ancora ieri il governatore della Banca di Francia Christian Noyer affermava che solo «un nuovo shock negativo» o un rialzo dei tassi di interesse che parta dagli Usa potrebbero spingere all’azione. Gli analisti finanziari prevedono che si arriverà a un acquisto di soli titoli privati nel corso del primo trimestre 2015. Troppo tardi? Nel caso dell’Italia, poi, l’ulteriore calo dei tassi di interesse così ottenuto avrebbe risultati limitati, se è vero ciò che dicono i banchieri: i soldi non vengono prestati perché le imprese non ne chiedono o G chiedono solo per restare a galla. Sarebbero favorite solo le imprese grandi, in grado di finanziarsi direttamente sul mercato senza passare per le banche.
Gli ottimisti puntano sul recupero nei Paesi euro che più hanno sofferto dell’austerità: cresce il Pil della Grecia, cresce la Spagna. La cura funziona? Se non altro la Spagna è diventata più competitiva, ha fatto riforme efficaci; se ne indica l’esempio all’Italia. Ma il prezzo politico sembra alto: negli ultimi sondaggi di opinione (si vota tra un anno) è in testa o al secondo posto il movimento di estrema sinistra «Podemos», si profila un Parlamento senza maggioranze omogenee. In Spagna il peso del recupero di competitività è stato sopportato in gran parte dai precari, non dai lavoratori a posto fisso: questo spiega il radicalizzarsi di una protesta soprattutto giovanile. La riforma del mercato del lavoro in Italia è bene dunque miri in un’altra direzione, a ridurre il precariato.
Per offrire subito lavoro e ridare fiducia alle imprese la soluzione da molte parti reputata migliore sarebbe un piano di investimenti pubblici a carico delle istituzioni europee e non degli Stati già troppo indebitati come il nostro. A parole esiste l’impegno per i 300 miliardi del piano Juncker, al quale ieri il ministero dell’Economia italiano ha contribuito con progetti per 40. Ma è dubbio che esista la volontà politica collettiva per far andare il piano Juncker oltre le chiacchiere. No a nuovi debiti anche europei, dicono molti Paesi ancora terrorizzati dal rischio di crack dell’Italia nel 2011. Quando giorni fa la direttrice del Fondo monetario Christine Lagarde ha ipotizzato che nel mondo del dopo-crisi sia irrealistico l’obiettivo del «Fiscal Compact» europeo di far tornare il debito degli Stati al 60% del Pil, dalla Germania è partita una salva di proteste. L’eredità peggiore della crisi è la paura.