Il bivio tra retorica e rinunce

Stefano Lepri – La Stampa

Con il suo pessimismo sull’economia italiana, paradossalmente l’Ocse ci aiuta. Sapere che nel 2014 resteremo ancora in recessione ci dice in primo luogo che l’urgenza delle riforme interne è assoluta, oltre a tutte le resistenze di categorie e interessi; in secondo luogo, conforta a insistere perché cambi la politica di austerità europea. A un Paese in tali condizioni non si può chiedere una ulteriore stretta di bilancio per il 2015. Sarà già gravoso rispettare il limite del 3% di deficit, come Matteo Renzi e Piercarlo Padoan si sono impegnati a fare; sarebbe inopportuno conformarsi al più rigido vincolo del «Fiscal Compact», ovvero una nuova riduzione di mezzo punto del deficit «strutturale».

Anche l’Ocse, come già il Fondo monetario internazionale, chiede una pausa nell’austerità. Non solo appoggia Mario Draghi nella sua doppia richiesta ai governi di riforme strutturali e di sostegno alla domanda dove è possibile; lo invita a condurre la Bce verso misure monetarie «più vigorose» (contro cui la Bundesbank tedesca punta i piedi). Il messaggio è che nell’area euro con tante persone ancora senza lavoro e con l’inflazione a zero misure espansive – sia da parte delle banche centrali, sia da parte dei governi – sono benvenute. Non sarebbe cosi invece secondo gli astrusi calcoli strutturali della Commissione europea, i cui attuali parametri pongono al 20% il tasso di disoccupazione «normale» in Spagna.

Per l’appunto anche il ministro dell’Economia spagnolo Luis de Guindos, conservatore gradito ad Angela Merkel, chiede «autocritica» sulle scelte europee. E dall’unico grande Paese del continente che non ha conosciuto recessione, la Polonia, un governo liberale propone un ancora più ampio piano di investimenti collettivo. La Germania è isolata; può frenare la svolta accennata dal vertice di Milano, ma è evidente al mondo che applicare le sue ricette non ha risolto la crisi. Il suo stesso tanto vantato bilancio in equilibrio si regge su un drastico taglio degli investimenti pubblici, necessari per «pensare al futuro» specie in Paesi come i nostri dove l’età media della popolazione cresce in fretta.

Nello stesso tempo, occorre convincersi che le ricette all’italiana erano fallite già da prima. La spesa pubblica in eccesso ci dette negli Anni 80 poca crescita in cambio di enormi debiti, nei primi anni Duemila nessuna crescita e nuovi debiti. Tutto il «modello Italia» risulta inadatto al mondo di oggi, per colpe nostre e non altrui. Siamo cosi malridotti che forse nemmeno un taglio massiccio alle tasse, peraltro rischiosissimo, sarebbe efficace. Non si va avanti senza riforme profonde. Però ormai la parola a forza di ripeterla non si sa più nemmeno che cosa significhi. Quali riforme? Fa solo danno l’esasperante teatrino politico sulla «sovranità» e sul «decidiamo noi, non l’Europa».

In certe versioni nord-europee «riforma» significava rassegnarsi a un tenore di vita più basso. Ma il prolungarsi della crisi spazza via queste idee. Non è oggi utile stringere la cinghia nel tentativo di vendere di più agli altri Paesi, messi male anche loro.

Servono riforme meno crude e più complicate: distribuire meglio le poche risorse che abbiamo, organizzare le istituzioni in modo più efficiente, non sprecare. A ridare alle imprese la voglia di espandere gli affari, a togliere alle famiglie la paura di spendere, può essere soltanto un Paese che funziona meglio. Il guaio è che il vantaggio di tutti richiede di intaccare privilegi, sussidi, comodità, pigrizie, di molti. Non si rimedia con la retorica; occorre invece esporre con chiarezza gli scopi per cui vale la pena di chiedere qualche rinuncia; occorre impegnarsi a tempi ed obiettivi di miglioramento.