Il sindacato non c’è più?

Enrico Deaglio – Il Venerdì di Repubblica

No, non è stato solo l’articolo 18. Quello era il pretesto, il tabù da abbattere. Quello che è successo il 29 settembre 2014 alla direzione del Pd, è stato un evento epocale. Per la prima volta nella sua storia, il partito italiano della sinistra ha rotto con il sindacato, con la sua visione del mondo, il suo linguaggio, la sua burocrazia, il suo peso politico, la sua storia. Senza rispetto, senza dire grazie. Anzi, con uno sfogo liberatorio. Non ne possiamo più di voi; siete vecchi, malvestiti, non siete sexy. Nooo! Noi non siamo i vostri figli!

Era già da un po’ che quest’aria circolava. Oggi infatti, insieme al politico della casta, il sindacalista è la persona più disprezzata d’Italia. Quando il presidente del Consiglio – a capo del partito della sinistra; Berlusconi non avrebbe osato tanto – deforma in un messaggio video la voce della segretaria Cgil Susanna Camusso in un piagnucolante falsetto e attacca il sindacato definendolo il principale responsabile di un apartheid sul luogo di lavoro, ha voglia Camusso di prospettare, a mezza bocca, uno sciopero generale. Lei per prima sa che non avrebbe successo. Quando anche il comico liberal Maurizio Crozza scherza su Maurizio Landini (il segretario della irriducibile Fiom) e Camusso e li mostra mentre mobilitano gli iscritti telefonando con i gettoni dalle cabine telefoniche, sembra di sentire una campana a morto: il sindacato, dice lo sketch, è un fantasma del passato; vive ingenuamente in una «bolla spazio temporale sopravvissuta agli anni Settanta»; il futuro delle relazioni di lavoro è piuttosto Flavio Briatore, il boss, quello che in un programma tv su come avere successo negli affari, ti guarda in faccia e ti fa: «Sei fuori». E poi, c’è il popolo che non tollera i fannulloni. Il popolo del blog di Beppe Grillo, il popolo dei melomani che plaude al licenziamento collettivo dei 182 orchestrali e coristi dell’Opera di Roma dopo la rinuncia del Maestro Riccardo Muti a dirigere Aida e Le nozze di Figaro. E poi c’è Sergio Marchionne, nella parte dell’imprenditore coraggioso, che si è trovato contro dei sindacati che volevano mettere becco con lui persino sulle pause per andare a fare la pipì alla catena di montaggio e che è dovuto emigrare in America.

A questo si era giunti, in Italia, nel 2014. Tutti dicevano che erano i sindacati, coi loro stupidi privilegi, a bloccare la speranza. Altro che i minatori gallesi! Altro che i controllori di volo americani! Altro che i ferrovieri inglesi che non volevano rinunciare alla pausa per il tè! No, qui in Italia si è andati oltre. I sindacati hanno distrutto l’Alitalia, difendono i ladri del bagaglio a Malpensa, fanno fuggire gli imprenditori con i loro diktat. Improvvisamente, sono diventati i responsabili di tutto; del precariato, della mancata innovazione, della rigidità del mercato del lavoro, della burocratizzazione della cosa pubblica, dell’assenza del merito, della fuga dei cervelli (94.121 giovani emigrati in un anno), dell’abulia della gioventù, del suicidio degli imprenditori, della crisi. Questa l’aria che tira. Vento forte, non c’è che dire, visto che è arrivato così tumultuosamente anche dentro il partito che era sempre stato l’unico alleato del sindacato.

Vien voglia, allora, di guardarla un po’ più dappresso, questa causa di tutti i mali. Prima di tutto: si dice sindacato o sindacati? Se si sceglie la dizione «sindacati», essi sono in Italia – a seconda delle stime – tra gli 800 e i 1.100; pare sia impossibile avere un censimento sicuro, visto che moltissimi sono sindacati registrati, ma composti di una sola o al massimo due o tre persone, per ottenere qualche beneicio legale. Nella scuola, per esempio, i sindacati sono ben 43, mentre 13 sono quelli dell’Enav, ovvero i controllori di volo. Alitalia e Meridiana schierano 13 sigle (a Ryanair, invece, il sindacato è di fatto vietato. Ehi! Vedi che si può volare senza sindacato!). I magistrati sono organizzati in 5 correnti sindacali, i dirigenti d’azienda hanno sindacati categoriali, provinciali, regionali, così come i prefetti. La Rai, con tredicimila dipendenti, sfoggia Slc Cgil, Uilcom Uil, Ugl Telecomunicazioni, Snater, Libersind Conf Sal, Usigrai, ma dirotta tutte le sue produzioni all’esterno, dove lavorano cooperative o altre entità ovviamente senza sindacato. I disoccupati di Napoli assommano 15 sigle, tutte piuttosto vivaci. In realtà praticamente tutti gli italiani (notai, taxisti, allevatori, guide alpine, vittime del racket) fanno parte di un sindacato alla ricerca di un tavolo di trattativa dove poter far valere le proprie ragioni. La Lega Nord ha fatto il suo sindacato, il Sinpa, sindacato della Lega Nord e la destra ha fatto l’Ugl, diventata nota perché la sua segretaria, Renata Polverini, stava sempre in televisione.

Poi, però, dato che siamo un Paese stravagante, esiste tutta un’altra Italia senza sindacati, ma altrettanto vivace. È l’Italia di mafia, camorra e ‘ndrangheta, di tutto il lavoro nero, degli usurai, degli immigrati che mandano avanti l’agricoltura e l’edilizia, degli schiavi che raccolgono il pomodoro. Insomma, quello che si dice normalmente il sommerso, che vale circa il 20 per cento del Pil. Ma, in generale, quando si parla del «sindacato » si intendono le tre grandi confederazioni Cgil, Cisl e Uil, che hanno numeri da lasciare a bocca aperta. Tutte e tre insieme raggiungono quasi dodici milioni di iscritti. Di questi, però, quasi la metà sono pensionati organizzati in una propria federazione. (L’Italia qui è un’anomalia. In Francia e in Germania, per esempio, i pensionati continuano a essere membri del loro sindacato di origine). Dei ventidue milioni di lavoratori in attività, quindi, uno su quattro è iscritto ad una delle tre grandi confederazioni. Non solo, ma all’interno di quel venticinque per cento, in netta maggioranza sono i lavoratori assunti dallo Stato. Per quanto riguarda l’industria, Cgil, Cisl e Uil rappresentano solo le realtà con più di 15 addetti, circa il sessanta per cento del totale. (Ovvero, il 40 per cento dei lavoratori italiani non è mai stato tutelato Redall’articolo 18. Un referendum per estendere la tutela si svolse nel 2003, ma fallì clamorosamente il quorum).

Un altro calcolo interessante è poi quello del numero dei sindacalisti. Secondo Bruno Manghi, il grande sociologo del sindacato, ex dirigente della Cisl, i sindacalisti di Cgil, Cisl e Uil – ovvero le persone che dedicano almeno qualche ora al giorno, tutti i giorni, alle attività della loro federazione, sono circa 700 mila. Il loro lavoro è in parte volontariato, oppure è ricompensato da «permessi retribuiti» o «distacchi». Il fenomeno è particolarmente presente nella pubblica amministrazione, dove i sindacalisti in distacco retribuito erano arrivati ad essere quattromila, prima che fossero falcidiati dai ministri Brunetta e ora Madia. Quindi, quando vedete una manifestazione sindacale di mezzo milione di persone, duecentomila sono pensionati e il resto sono sindacalisti, in genere del pubblico impiego. Numeri impressionanti. Gli iscritti al sindacato in Italia superano di gran lunga i cattolici che vanno a messa la domenica; i sindacalisti a tempo pieno sparsi sul territorio sono sette volte gli effettivi dell’Arma dei carabinieri.

Da istituzione che difende i salari e le condizioni di vita dei lavoratori, il sindacato si è progressivamente trasformato in un colossale patronato che funge da centro di assistenza fiscale e pensionistico. I salari, invece, la cui difesa e il cui aumento sono il core business del sindacato, non sono stati molto tutelati. Marco Revelli, storico e da sempre appassionato militante delle battaglie sindacali, nel suo libro Poveri noi (Einaudi) ha riportato un dato quanto meno inaspettato. Una ricerca di Luci Ellis (Banca internazionale dei regolamenti di Basilea) e Kathryn Smith (Fondo Monetario Internazionale) scoprì già nel 2008 che la somma dei salari italiani era diminuita verticalmente. Per l’Italia si stimava un trasferimento tra salari e profitti di 8 punti percentuali (circa 120 miliardi di euro all’anno). Mi dice ora Revelli: «Luciano Gallino aggiorna i dati per l’Italia ipotizzando ora addirittura una quindicina di punti, il che farebbe 250 miliardi». Diversi i fattori: diminuzione della produzione generale; aumento della produttività dovuto al maggior uso di tecnologia, ma soprattutto aumento enorme della forbice tra le retribuzioni del lavoro manuale o impiegatizio, di livello sempre più basso, e quelle che l’alta dirigenza e la proprietà si assegnano. «Una delle più significative sconfitte sindacali è avvenuta alla Fiat. Nel 2012 Marchionne chiese un referendum in cui poneva seccamente la possibilità della chiusura se non fossero stati accettati pesanti cambiamenti (in peggio) dell’orario di lavoro. I dipendenti chiamati al voto si espressero, per poco, per il sì; ma questo non servì a garantire i livelli di produzione promessi e si entrò piuttosto in uno stato di cassa integrazione prolungata e apparentemente senza fine. La vertenza in pratica finì con una perdita di diritti sindacali che si erano acquisiti con anni di lotte e un salario decurtato sensibilmente, dato che la cassa integrazione copre solo l’ottanta per cento della busta paga. Detto in un altro modo, forse più crudo: quello che trent’anni fa era il volano che aveva spinto in alto le richieste sindacali – l’industria dell’automobile – ha perso nove decimi della sua forza numerica ed è composta da migliaia di operai di mezz’età o sulla via della pensione che vivono con meno di mille euro al mese». E di pari passo vennero i call center, i co.co.co, il precariato, le false partite Iva, le false cooperative.

Una massa di lavoro precario che è esplosa oggi in Italia fino a coinvolgere tre milioni di persone. Sono poveri, infelici, indignados, ma soprattutto non sindacalizzati. Nacquero più o meno insieme all’ultima grande manifestazione di forza della Cgil, nel 2002. Tre milioni di persone sfilarono a Roma per «mantenere l’articolo 18» che Silvio Berlusconi voleva eliminare. Non bastando i pullman italiani, la Cgil andò ad affittarli in Slovenia e il sindacato si vantò di aver prodotto tre milioni di spillette e cappellini in una settimana senza ricorrere al lavoro nero. A Sergio Cofferati, il segretario generale, venne pronosticato il ruolo di leader politico. Si parlò di un «ticket Prodi Cofferati», che avrebbe guidato un’Italia socialista. Ma era lo stesso Cofferati a sapere che quei tre milioni erano una specie di illusione ottica, l’ultima raffigurazione di un mondo che non esisteva più. «Quando facevo il sindacalista e c’era un contratto da rinnovare facevamo un’assemblea per turno alla Pirelli Bicocca. Ad ogni assemblea partecipavano settemila operai. Questo vuol dire che il sindacato riusciva a raggiungere in un giorno quattordicimila operai. Ieri, mi hanno portato i dati di adesione al nostro nuovo sindacato che vuol organizzare i precari. Abbiamo raddoppiato gli iscritti! Peccato che da 15 siano passati a trenta!». Giorgio Airaudo è stato il segretario nazionale della Fiom ed è ora parlamentare con Sel. Ha vissuto gli aspetti più drammatici della trasformazione del lavoro e della perdita di forza del sindacato. «Per dire tutta la verità, anche noi non ci rendemmo conto. C’era tutto questo parlare di flessibilità, necessaria per superare la crisi, che ci eravamo illusi che fosse qualcosa di momentaneo. Mi ricordo di quando andai a vedere il call center delle Pagine Gialle, sistemato dentro un’officina vuota di Mirafiori. Era la nuova catena di montaggio, però senza diritti! Noi eravamo abituati ad inserire nelle vertenze concessioni sullo straordinario, in cambio di assunzioni, ma notavamo che agli imprenditori non interessava più. Loro erano alla ricerca di un nuovo modo di produrre – e quando potevano andavano in Serbia o in Romania – e cercavano solo un modello che svalutasse il lavoro, così come ai tempi della lira si svalutava la moneta. Questa è la tendenza di oggi, purtroppo. Lavoro sempre più dequalificato e precario; volatile e licenziabile al primo accenno di crisi. Diventeremo un ex Paese industrializzato, ma forse il primo tra i Paesi sottosviluppati. Credo che dovremo abituarci a considerare il tempo del sindacato forte come un’età dell’oro. Il 13 ottobre, quando John Elkann suonerà la campanella di Wall Street, avrà quotato in borsa una società che in Italia ha lasciato solo piccoli pezzi di produzione».

Dodici anni dopo quella grandiosa manifestazione in nome della dignità del lavoro, il rosario di sconfitte sindacali è lungo. Un quarto delle manifatture è andato perso, il potere d’acquisto è diminuito, le pensioni sono state pesantemente allontanate dal costo della vita e ribassate, il lavoro precario è diventato legge e lo stesso potere politico del sindacato – i grandi accordi di concertazione – sulla politica economica, è un rito del passato. Franco Marini (una vita nella Cisl) non è diventato presidente della Repubblica. Fausto Bertinotti (sindacalista Cgil) si è fatto conoscere per aver fatto cadere il governo Prodi, reo di non aver fatto un legge sulle 35 ore di lavoro. Sergio Cofferati non è diventato il leader del Pd; oggi lo è invece un giovane che ha portato il partito sopra il 40 per cento dei voti, che ha scavalcato i sindacati mettendo lui ottanta euro in busta paga, senza nemmeno un’ora di sciopero. Li ha dati a dieci milioni di garantiti e sindacalizzati, ma è probabile che sia l’ultima volta. Matteo Renzi ha preso l’impegno di difendere «Marta, 28 anni, precaria, che aspetta un bambino» e a cui il sindacato non garantisce le tutele che invece garantisce alle dipendenti pubbliche. Nella stessa riunione, il Pd – dove la Cgil ha scoperto di non avere che pochissimi amici – una direzione euforica ha applaudito il diritto dei «padroni» (e basta chiamarli così!) a licenziare. Non Marta, s’intende. Ma Cofferati e la sua genìa.

Il sindacato è una cosa del passato? Difficile rispondere, perché il quadro non è uniforme. Negli Stati Uniti sembra essere diventato definitivamente un fenomeno residuale, con solo il sette per cento di lavoratori iscritti (dopo la guerra erano il 35 per cento). In Cina è ferocemente represso nei suoi tentativi. Il simbolo del suo sviluppo è piuttosto la gigantesca fabbrica Foxconn, con più di un milione di operai che assemblano telefonini chiusi da reti alle finestre per impedire i suicidi. Il suo contrappeso americano è la catena di grandi magazzini Walmart, anche questa con più di un milione di dipendenti (80 per cento dei prodotti venduti sono made in China) e nessuna rappresentanza sindacale; da cui paghe bassissime, turn over altissimo, licenziamenti facilissimi. Ma non tutto il mondo è così. In Brasile, Lula e Dilma Roussef sono stati portati alla presidenza dal sindacato e il Paese ha vissuto il suo migliore sviluppo economico con grande redistribuzione della ricchezza. La Polonia moderna è nata con la vittoria di un sindacato, Solidarnosc. La Germania è mitica per il potere della sua IG Metal, nel cui grattacielo svettante su Francoforte si decide di che colore saranno le prossime Bmw, di quante settimane di terme a Ischia possono godere gli operai, quanti saranno gli apprendisti da assumere e naturalmente si detta la linea alla politica, anche alla Merkel.

L’Italia oggi è in bilico, ma la tendenza è ad avere un grande futuro dietro le spalle. E dire che la storia è lunga e il sindacato ha radici talmente forti nel popolo italiano da rendere difficile una sua sparizione. In un immaginario tour di turismo sindacale, ecco Torino, la capitale operaia del Novecento, dove una fermata della nuova metropolitana si chiama XVIII dicembre, per ricordare la strage che le bande fasciste di Piero Brandimarte fecero contro la Camera del Lavoro nel 1922. Venti morti ammazzati, un telegramma di plauso da Benito Mussolini. Il sindacalismo italiano era nato da poco più di vent’anni – le leghe dei braccianti e quelle di mutuo soccorso, la gioventù operaia cattolica e i consigli di fabbrica gramsciani, un’idea di lavoro organizzato da contrapporre al padronato che era, davvero, avido e cattivo. Cesura di vent’anni, causa fascismo. Ripresa nel 1945, in cui agli operai e ai contadini nessuno regalava niente. Le fabbriche allora erano caserme, la polizia sparava volentieri. Tour sindacale in Sicilia, alla ricerca delle 44 Case del Popolo distrutte e dei 44 sindacalisti uccisi nel dopoguerra dalla maia, che difendeva feudi e latifondi. Un passaggio nella oggi placida Puglia, a ricercare le orme di Giuseppe Di Vittorio, il più grande sindacalista italiano.

Fatevi accompagnare dal libro di Luciana Castellina e Milena Agus, Guardati dalla mia fame, e scoprirete gli agrari che mettevano la museruola ai bambini perché non mangiassero l’uva durante la vendemmia e le donne proletarie affamate che entrarono nel palazzo dei signori e uccisero per vendetta, a mani nude altre donne, perché simbolo della ricchezza arrogante. Il sindacato in Italia è nato con sangue, passione e sacriicio. È ancora quello? Secondo lo storico Giovanni De Luna «l’apogeo venne raggiunto negli anni 70. I tre sindacati erano uniti (la destra, che li temeva, li chiamava la Triplice, la Trimurti), i grandi contratti collettivi erano momenti in cui si prendevano decisioni sulla scuola, sulla sanità, sulla casa, sullo sviluppo economico. Un’era che allora prese il nome di pansindacalismo, ma che fu sconfitta, principalmente perché non divenne progetto politico. Oggi viviamo i risultati di quella sconfitta; e il sindacato appare una somma di interessi di corporazioni. Un cambio antropologico piuttosto triste».

Pietro Marcenaro, già senatore del Pd, una vita passata nella Cgil, prima come operaio poi come dirigente, non pensa che il sindacato scomparirà. «Fa parte dell’Italia, è stato costruito da uomini e donne di nobili sentimenti e di grande moralità e la sua massima nobiltà l’ha avuta quando è stato unitario. Ma è ovvio che qualcosa è cambiato. Mi dispiacerebbe che la reazione alla politica di Renzi fosse uno scatto pavloviano di autodifesa. Credo piuttosto che il sindacato debba ripartire dal basso, che i sindacalisti debbano considerarsi soggetti che vogliono tutelare altri, non dirigenti di gruppi che cercano tutele. Ripartire dai più deboli. Il primo pensiero che mi viene in mente è questo. Sono un operaio marocchino, cerco qualcuno che mi difenda. Lo trovo, un sindacato?». La stessa domanda potrebbe fare Marta, che aspetta il bambino. O forse queste domande resteranno senza risposta, perché non ci sono più i sindacalisti di una volta. Il rischio è che anche il nome perda di significato. In California circola un adesivo, di quelli da appiccicare sul paraurti posteriore dell’auto. «Non sai chi è un sindacalista? È quello che ti ha fatto avere il weekend».