Quello spread fra politica ed economia reale
Giuseppe Matarazzo – Avvenire
Ricordate i titoloni dell’autunno nero del 2011, quando il Paese sembrava al collasso e lo spread (il differenziale tra i rendimenti dei Bund tedeschi e i nostri Btp) sfiorava i 600 punti? A fare le spese di quelle montagne russe dei mercati fu l’ultimo governo Berlusconi, spinto alle dimissioni dal pressing nazionale e internazionale. Archiviata la stagione azzurra, lo spread, nel giro dei tre governi (Monti, Letta e Renzi) che si sono succeduti, è tornato sotto controllo a livelli minimi (ieri a 153). I mercati internazionali ora ci vedono con meno sfavore: l’Italia è un Paese più afidabile. Ma è anche salvo dal baratro? Davvero è lo spread a misurare lo stato di salute di un Paese?
La risposta è no. Lo spread è importante ai fini della fiducia dei mercati: se c’è una differenza fra due titoli con la stessa scadenza, la ragione è nella diversa fiducia che si nutre nel debitore. Se i mercati domandano all’Italia di pagare un tasso di interesse più alto è perché hanno più fiducia nella Germania rispetto all’Italia nel rimborso del debito. Questa differenza è importante, per questioni di fiducia e di soldi. Per il debito dello Stato e per gli interessi che pagano le imprese. Detto questo, lo spread non è un indicatore economico. E soprattutto non è «libero». Se non è un «imbroglio››, come accusò Berlusconi, è perlomeno manipolabile dalla speculazione di chi – come le grandi banche d’affari – ha interesse a tenerlo basso o a farlo alzare. E non certo per il bene comune. Con lo spread che potrebbe scendere addirittura sotto i 100 punti dovremmo essere tranquilli e sorridenti. E invece… il Paese non vive di (solo) spread. Dopo tre anni di esecutivi “emergenziali” abbiamo salvato il differenziale sui rendimenti. Ma non il Paese. Non gli altri spread che separano l’Italia dal resto del mondo. Anzi.
Se il sentiment degli investitori migliora, il Paese reale non sta meglio di tre anni fa. Lo dicono i numeri degli indicatori, questi sì economici. La carrellata di dati dei giorni scorsi è impietosa: siamo di nuovo in recessione, con il Pil in calo anche nel secondo trimestre (-0,2%) che lascia intravedere un segno meno per il 2014, lontano dalle stime ottimistiche del governo (mentre gli Usa da cui la crisi è cominciata viaggiano con un +4,2%); il debito pubblico continua a crescere, toccando a giugno il nuovo massimo di 2.168 per la prima volta dal 1959 l’Italia è in deflazione, con i prezzi in territorio negativo, segno di un mercato interno dei consumi depresso, nonostante il bonus da 80 euro; la disoccupazione è salita al 12,6% (nel 2011 era al 9%), mentre in Germania è al 4,9%; e la fiducia delle imprese diminuisce al pari della produzione industriale. Un Paese, per dirla con Sergio Marchionne, «inerte, incapace di reagire». Nonostante i tecnici e le annunciate rottamazioni. E non è una consolazione (mal comune mezzo gaudio) se anche Berlino comincia a intravvedere qualche segno meno su Pil o produzione industriale. La Germania resta una locomotiva. L’Italia rischia di restare ferma in stazione.