davide giacalone

Da Natale a Carnevale

Da Natale a Carnevale

Davide Giacalone – Libero

Il falso in bilancio va perseguito, ma anche il bilancio falso di comunicazioni governative contraddittorie. A Natale ci hanno detto che si depenalizzano le fatture false sotto i mille euro e che la soglia di punibilità penale per l’evasione fiscale passa da 50 a 150mila euro. Poi hanno messo tutto in un inesistente congelatore, continuando il presidente del Consiglio (giustamente) a difendere il senso di quelle norme. A Carnevale ci dicono di avere trovato un accordo in virtù del quale il falso in bilancio è sempre perseguibile d’ufficio, naturalmente in sede penale. Il fatto è che la depenalizzata fattura falsa diventa reato sia che la iscriva sia che non la iscriva a bilancio, perché lo falsa in entrambe i casi. E se i soldi che la società doveva al fisco sono stati sottratti mediante maggiori iscrizioni di spese o minori di entrate (perché se i conti sono in regola, allora non è evasione, ma un errore o la mancanza di soldi per pagare, cosa che già oggi i tribunali non puniscono come infedeltà fiscale), non serve a nulla depenalizzare sotto certe soglie se poi la procura rientra in casa contestando il falso in bilancio.

Non sono questioni formali, ma due politiche opposte. Preferisco la natalizia, ma temo la carnevalata. Posto che il reato di falso in bilancio, al contrario di quanto molti ripetono, non è mai stato depenalizzato ed è rimasto un “delitto”, nel 2001 si modificarono le regole di procedibilità. La cosa non mi convinse allora, perché così come non si può essere vergini a percentuale un bilancio non può essere vero a porzioni. Ma, comunque, fino al 2001 si procedeva d’ufficio, mentre da lì in poi si è continuato a farlo per le società quotate, mentre per le altre a querela di parte. Ovvero se qualcuno si riteneva danneggiato. Oggi altro non si farebbe che tornare al regime di prima, che non ricordo come l’era dei bilanci cristallini. L’innovazione, quindi, è un ritorno al passato. Con la particolarità che non funzionava neanche in passato.

In ogni caso: sia per l’evasione fiscale che per il falso in bilancio, non c’è ragione alcuna di difendere gli imbroglioni. Che paghino. Ma chi sono, gli imbroglioni? Non sono gli accusati di evasione o falso, bensì i condannati per tali reati. Solo che il fisco frusta con gli accertamenti e punisce poco con il recupero della supposta evasione, mentre i tribunali martorizzano con il procedimento e non condannano con le sentenze. Ci stiamo prendendo in giro, perché in un Paese in cui la giustizia non funziona la giustizia non c’è, quindi invocare procedure d’ufficio e pene più alte è giustizialismo ipocrita e satanico.

Dicono: premiamo i pentiti, nel reato di corruzione. Bello, sono favorevole. Ma il migliore trattamento per chi collabora con la giustizia è già nel nostro ordinamento, da prima che molti straparlanti nascessero, mentre per sapere se un collaborante sta dicendo il vero o rintontonendo la procura occorre una sentenza definitiva. E ci rivediamo fra dieci anni. Dicono: per evitare la prescrizione allunghiamola e facciamola decorrere dal processo. La prescrizione è un pilastro di civiltà ed è ciò che distingue una dittatura dallo Stato di diritto. Ma capisco il punto di vista: per molti quindici anni di processo sono quindici anni di stipendi; per il cittadino sono quindici anni di avvocati da pagare. Se governo e legislatori danno ragione ai primi al cittadino non resta che scappare.

Renzi aveva detto che non si sarebbe fatto influenzare dalla pressioni togate. Plaudo. È andato allo scontro, con piglio guerriero, sulle ferie dei magistrati (con un testo scritto male), ma poi consegna ai magistrati le chiavi delle aziende e il potere di decidere se il falso rilevato crea, o meno, un “danno rilevante”. Così, senza null’altro aggiungere. A piacimento dell’eccellentissima corte. Come essere severi con i pargoli perché passano troppo tempo alla play station, per poi dare loro i soldi acciocché possano comprarsi lo spinello. Strani genitori. Strani governanti.

Istruttivo e distruttivo

Istruttivo e distruttivo

Davide Giacalone – Libero

Istruttivo e distruttivo, lo scontro sui contributi che le emittenti televisive devono pagare per l’uso delle frequenze digitali. È istruttivo che tutti si concentrino su quanto dovranno scucire la Rai e Mediaset (e chi se ne importa), o su quanto questo incremento sia frutto di una ritorsione politica (che neanche nella Chicago del vecchio Al). È distruttivo, invece, che nessuno faccia caso a cosa comporta una simile decisione governativa: la fine delle autorità indipendenti, la demolizione dell’Agcom (autorità per le comunicazioni). Che forse se lo merita pure, ma sarà il caso di concentrarsi sull’elefante entrato in cristalleria, non sulla scimmia sghignazzante che ha sul groppone e finge di guidarlo.

Partiamo dal conoscere, prima di giudicare e deliberare. L’autorità indipendente fu introdotta all’inizio degli anni novanta (con la legge Mammì, che, come tutti ripetono, contribuii a scrivere, ma dato che quanti dicono sono refrattari a studio e lettura, non sanno che i difetti li misi nero su bianco durante la discussione e subito dopo, perché le leggi si scrivono in Parlamento, dove si producono robe da ridere e da piangere). Fu una moda, quella delle autorità, che, anche grazie a Uolter Veltroni, furono da subito chiamate all’americana: Authority (che poi non è manco americano, perché colà al plurale fa: Authorities). A me sembrava che non potessero funzionare, in un sistema di diritto in cui esistono sedi di ricorso amministrativo. Così è stato. Ma ora siamo al salto (in basso) di qualità: è il governo a intervenire sulle decisioni dell’autorità indipendente, che così cessa di essere sia indipendente che autorità.

Nell’aprile del 2012, governante Mario Monti, con una maggioranza di governo che comprendeva le componenti politiche dell’attuale, un decreto legge stabilì che sarebbe stata l’Agcom a fissare criteri e quantificazione dei contributi annuali da versare per l’uso delle frequenze digitali. Nell’ottobre del 2014 (con calma), l’Agcom provvede. Nel decreto legge milleproroghe, il cui nome è un milleprogrammi, il governo Renzi incorpora quella decisione. Non pago di avere decretato d’urgenza, quindi dando vita a un atto che è già vigente e operativo, urgentemente, ma posticipatamente, decide di cambiarlo, presentando un emendamento che attribuisce al governo quella funzione. Tutti si mettono a strillare per le due ragioni sopra ricordate, ma nessuno vede lo scempio del diritto. Altro che semplificazioni e trasparenza dei testi, qui siamo all’azzeccagarbuglismo che genera un kamasutra legislativo, inducente contorsionismo regolamentare.

C’è una sola cosa da farsi, per metterci una pezza: chiudere l’Agcom. Perché se non la chiudono resta evidente che è commissariata, il che, per una supposta indipendenza, è troppo. Avvertendovi di ciò, vi metto sull’avviso di quel che si sta preparando e già praticando. Ricordate il vecchio mercato delle frequenze? Un suk inverecondo, che la legge Mammì stoppava, introducendo, dopo anni, la pianificazione e le concessioni. Peccato che provvidero a disapplicarla, dando poi le concessioni senza le frequenze, sicché il suk raggiunse ritmi e quotazioni stellari. È finito per estinzione, giacché si è passati al digitale. Bene. Peccato che ora si sia aperto il suk Lcn: vale a dire, per capirsi, della posizione di ciascuna emittente sul telecomando. Teoricamente non dovrebbe esistere, perché ad ogni autorizzazione corrisponde una collocazione. Ma praticamente è già attivo e fiorente, con soggetti che si fanno pagare milioni null’altro che il riflesso del valore di un atto amministrativo e governativo. In un Paese mezzo serio tutto questo verrebbe stroncato sul nascere, salvo il fatto che nessuno se ne occupa. Né il governo né la (non) autorità (non) indipendente. Quando qualcuno, fra qualche tempo o anno, ve lo racconterà come uno scandalo, sapete dove indirizzarlo.

Dati non dati

Dati non dati

Davide Giacalone – Libero

Cresciamo meno della metà dell’eurozona, non riuscendo a riassorbire la disoccupazione. Ciò dovrebbe imporre, a tutti, il tema di cosa fare per rimediare. Invece si cerca su chi scaricare la colpa, agevolati dal fatto che al governo hanno appena provato a prendersi il merito di dati e previsioni di pura fantasia. Nelle scorse settimane abbiamo letto di previsioni di crescita del prodotto interno lordo, per l’anno in corso, del 2,1%. Alcuni, più prudenti, supponevano un +1,6. Domandavamo: da dove arriva questa manna? Rispondevano: dal calo del petrolio e dalle politiche espansive della Banca centrale europea. Più le meravigliose riforme già fatte e che solo chi si picca di leggere i documenti non riesce a vedere.

Ora arriva la previsione della Commissione europea: 1’Italia dovrebbe crescere dello 0,6%. Dopo tre anni di recessione. L’intera zona dell’euro, noi compresi, è data in crescita dell’1,3%. Considerato che in quella media ci siamo noi, ed è già più del doppio della nostra, risulta evidente che gli altri crescono allargando il distacco. Le cose non andranno meglio nel 2016, perché è vero che noi dovremmo crescere dell’1,3, ma l’area e previsto che faccia +1,9. Lo svantaggio relativo diminuisce solo dello 0,1, mentre quello assoluto cresce. Tale crescita, inoltre, non è il frutto delle riforme che facciamo all’interno, ma del trascinamento che subiamo dall’esterno, tanto è vero che un’eventuale flessione della domanda globale è segnalata come possibile causa di problemi nei nostri conti. Sono le esportazioni a funzionare, prevedendosi un saldo attivo del 2,6 fra importazioni ed esportazioni. Ciò vuol dire che a tirare la carretta ci sono le aziende che esportano, agevolate da null’altro che dal deprezzamento dell’euro. Cioè da quel che non dipende da scelte politiche compiute all’interno dei nostri confini. Occhio a quel che segue.

Nelle stime fatte a novembre si prevedeva una crescita del nostro pil dello 0,6. Esattamente quella che si prevede ancora oggi. Ma si pensava che quella crescita avrebbe portato al 12,6% la disoccupazione, nel corso del 2015. Posto che il 2014 si era chiuso con la disoccupazione al 12,9. Ora, invece, si corregge la previsione, peggiorandola: dovremmo chiudere l’anno con il 12,8% dei disoccupati. Ovvero quelli che abbiamo oggi. Ma non ci era stato raccontato che solo a gennaio si erano creati 100mila posti di lavoro? Peccato fossero 94mila e compensassero a malapena gli occupati persi da ottobre. Nel 2016 dovremmo trovarci con il 12,6% di disoccupati, quindi con un calo dello 0,2. Nessuno, intellettualmente onesto, può sostenere che sia colpa di questo governo, visto che scontiamo una lunga e devastante perdita di competitività e crescita dei costi interni. Però nessuno, intellettualmente onesto, può continuare a vendere la balla che le riforme denominate all’inglese sono in grado di mettere al lavoro i disoccupati in vernacolo. L’Italia arranca e scivola anche perché al gran clamore delle polemiche seguono risultati striminziti e contraddittori.

E veniamo ai conti pubblici, dove si trova la polpetta avvelenata, fin qui nascosta agli italiani. Qui la Commissione si fa prudente, perché i conti italiani devono ancora essere rivisti. Fin qui siamo alla fede rispetto a quel che dice il nostro governo. E sentite che dice: nel 2014 il deficit è stato al 3% (che il cielo ci assista e che non si trovi nulla a farlo crescere); nel 2015 sarà del 2,6; nel 2016 del 2. Come si ottiene questo risultato? Mediante l’aumento del gettito fiscale. Avete letto bene. E io lo leggo nelle carte europee: perché aumenta la pressione fiscale. Laddove ci era stato detto che sarebbe diminuita nell’anno in corso. La verità è che rispetto ai conti a sua volta fatti dal governo italiano c’è una imponente novità, ovvero la Bce che fa scendere significatívamente il costo del debito pubblico. Bravissimi, ma com’è, allora, che tale meravigliosa cosa non produce da sola, senza tasse, la discesa del deficit? Risposta: perché non sono capaci d’imbrigliare la spesa pubblica. Vedi al capitolo Collarelli e secretazione dei suoi lavori. Saldo finale: debito pubblico che cresce al 133% del pil quest’anno e si spera scenda (si fa per dire) al 131,9 il prossimo.

Torno da dove sono partito: dobbiamo chiederci cosa fare per disincagliare l’Italia, posto che il motore produttivo funziona, come dimostrano le esportazioni. Rispondiamo: abbattimento del debito, mediante dismissioni; tagli della spesa corrente; tagli alla pressione fiscale; smantellamento della pressione burocratica. I dettagli illustrati molte volte. Ma, prima di tutto, piantiamola di prenderci per i fondelli fa soli. Operazione impossibile per la fisica, ma praticata dai parolai.

Fede fiscale

Fede fiscale

Davide Giacalone – Libero

Attenzione alla mala fede della (presunta) buona fede. Il fisco è già materia dolorosa e ingarbugliata, sicché non si sente alcun bisogno d’imbrogliarla ulteriormente. Per giunta con la pretesa di semplificarla. Sono stato fra i pochissimi che hanno difeso il senso del decreto legislativo approvato dal governo a Natale. Pur inorridendo per il successivo congelamento e trovando raccapricciante che alcune norme siano state inserite dopo il consiglio dei ministri, rendendo falso il verbale. Difendo la soglia del 3%, al di sotto della quale non scatterebbe il procedimento penale. Ma lo faccio senza ipocrisie e senza birignao inconcludenti: ha un senso se serve ad evitare il proliferare di processi in gran parte inconcludenti, spingendo il contribuente a pagare subito il dovuto. Ora, però, il presidente del Consiglio dice che varrà solo per chi evade in buona fede. Non ha alcun senso: chi è in buona fede, ovvero commette un errore, già oggi non viene punito penalmente. Il fatto è che se distinguo fra buona e mala fede occorre che ci sia qualctrno preposto a giudicare se quel singolo contribuente, per quel singolo importo non versato, si trova nella prima o nella seconda condizione. Quindi ci vuole il giudice. Quindi non c’è nessuna innovazione, perché è già così. L’innovazione sarebbe: sotto una certa soglia non me ne importa nulla se tu sei in huona o cattiva fede, paga (ammesso che tu debba pagare, perché se non è così farai ricorso avverso l’ingiunzione).

Questo è un favore a Silvio Berlusconi? Questa è una convenienza collettiva, perché diminuisce il contenzioso penale, noto per la sua lentezza, e potenzialmente aumenta il gettito fiscale. Se è un favore a qualcuno in particolare, semmai, è a quanti si ritrovano quel tipo di procedimenti penali da affrontare (e ci sono bei nomi), non a chi avrà già scontato la pena. (A proposito, e fra parentesi, quando Matteo Renzi dice, a Rtl 102.5, che solo poche decine sono gli italiani condannati a pena per questioni fiscali, si rende conto di solidarizzare con quanti sostengono essere anomala quella condanna, per giunta dopo l’assoluzione di chi stilò e firmò i bilanci incriminati?). E, comunque, se anche fosse: ma vi pare il modo di legiferare? Pro o contro che siano, le leggi per un solo caso sono riprovevoli. Aggiungono, dal governo: non si può depenalizzare la frode. Ma lo sanno che nel medesimo decreto sono depenalizzate (entro limiti) le fatture false?

Rischiano di riprodurre l’errore del Jobs Act: per i licenziamenti, si torna sempre dal giudice per sapere se sono legittimi o meno. Come oggi, tale quale. Mentre principi come il no al reintegro e il risarcimento crescente o il no al procedimento penale obbligatorio se hai pagato il 97% del dovuto, cambiano la realtà. Senza regalare nulla a chi viola le regole. Mentre supporre che sia severo chi vuole il penale e accondiscendente chi pretende la pecunia, significa non sapere nulla, ma proprio nulla, della giustizia italiana. Le imprese estere che vogliono investire in Italia sono spaventate dalla malagiustizia, mica dall’idea che non si possa evadere (in quel caso vanno a investire nei paradisi, non negli inferni fiscali).

Renzi ammise l’errore sulle partite Iva (con la triplicazione dell’aliquota sui minimi), che ha colpito proprio i giovani spinti fuori dal lavoro dipendente e stangati perché autonomi. Dice che il 20 sarà corretto. È lecito sapere come? Perché è perverso farti sapere cosa devi fare la sera prima di quando lo devi fare. Se non il giorno dopo. In questo senso l’abuso di diritto e la dichiarazione precompilata stanno trasformando i commercialisti da professionisti pagati dai clienti per far da esattori dello Stato in esattori e accertatori al servizio del fisco. Il tutto cambiando le norme mentre sono chiamati ad applicarle. Una condotta inaccettabile, certo non accompagnata da alcuna buona fede. Semmai da incapacità e dipendenza dalla cultura della burocrazia fiscale.

Trappola greca

Trappola greca

Davide Giacalone – Libero

Alexis Tsipras arriva a Roma da capo del governo. In campagna elettorale accompagnava slogan estremisti con dichiarazioni ragionevoli, assicurando che non aveva alcuna intenzione di portare la Grecia fuori dall’euro. Il guaio è che ci finisce comunque, se non cambia musica. E che, finendoci, ci fa marameo e cancella il debito che ha nei nostri confronti. I contribuenti italiani hanno pagato per salvare la Grecia. Oggi è l’occasione per dirgli: scordatelo. Ed è l’occasione per dire agli alleati occidentali: sappiamo che questo bastione Nato non può essere perso, né abbandonato a capitali potenzialmente ostili, ma noi italiani non possiamo pagare più dei tedeschi e contare meno dei greci.

Cancellare il debito è improponibile. Rimodularlo è razionale. Significa che i tempi si allungano, ma i creditori sono garantiti in sede europea e, sebbene abbiano fatto un cattivo affare, almeno non si vedono costretti a cancellare o decurtare il credito, con gravi conseguenze per la finanza pubblica. La cancellazione, inoltre, innescherebbe il desiderio emulativo, sicché le elezioni sarebbero vinte, in giro per l’Europa e a cominciare dalla Spagna, dai partiti che propongono di fare altrettanto. Basti pensare che c’è chi lo dice anche da noi, ignorando che il 65% del debito lo abbiamo con noi stessi. Rinegoziare, ancora una volta, è possibile. Ma i greci non possono far troppo i furbi. Il loro nuovo governo ha provveduto alle riassunzioni di dipendenti statali, ha mollato il già fiacco contrasto all’evasione fiscale e si propone l’aumento dei salari. Spesa pubblica corrente a go-go. In questo modo fuori dall’euro ci vanno da soli. Una volta usciti scoprirebbero che le loro banche sono tutte fallite e per rianimarle si troverebbero a spendere assai più di quel che costa onorare i debiti già contratti.

Un avvenire di certa e crescente miseria, evitabile solo consegnando la sovranità a capitali che incorporano pretese politiche forti. I greci lo sanno talmente bene che dopo avere votato Tsipras hanno fatto ridefluire i loro soldi verso l’estero. Restare nell’eurozona serve a mantenersi agganciati al mondo ricco e civile, ma comporta la rinuncia all’idea di cancellare i debiti. Non così e non unilateralmente, comunque. Però, e ne ho già scritto, c’è il fatto che la Grecia presidia una posizione geopoliticamente rilevante, considerata l’aria che tira in Medio Oriente. Vero, ma questo, giusto per dirne una, comporta che chi la governa non abbia atteggiamenti ostili verso Israele, altrimenti possiamo considerarli già persi. Le parole di Obama, che segnalano all’Unione europea l’inopportunità di una rottura greca, devono essere lette in questa chiave, oltre che nel quadro del negoziato sul libero commercio.

Il fatto è che se si deve tendere la mano ai greci, per ragioni politiche, e credo sia bene farlo, allora deve essere chiaro che anche noi abbiamo qualche problema da risolvere. Qui facciamo finta di non accorgercene, ma l’intero programma quantitative easing, della Banca centrale europea, si basa sul principio dell’acquisto di titoli del debito considerati affidabili. L’ultimo gradino dell’affidabilità è quello in cui l’Italia si trova. Basta scendere di un capello e piombiamo all’inferno. Siccome la cosmesi dei conti può essere venduta alla Commissione europea, se il compratore accetta di crederci, ma non alle agenzie di rating, ecco che su quel fronte non dobbiamo restare né isolati né scoperti. Questa faccenda non si negozia con Tsipras, ma la sua visita è l’occasione per rendere noto che non ci possono essere valutazioni asimmetriche. Tenercelo nell’euro ci conviene, sotto molti aspetti. Ma guai a farsi spingere con lui verso la spazzatura.

L’Acropoli e il Quirinale

L’Acropoli e il Quirinale

Davide Giacalone – Libero

C’è un filo che lega l’Acropoli al Quirinale. E non è fatto di moneta. Guardando alle elezioni greche ci siamo tutti concentrati su faccende di debito e valuta. Che sono certo rilevanti, ma non uniche. Quel filo passa da questioni politiche più generali, attinenti agli equilibri globali. E mette ancora di più in frizione la posizione della Germania con il posizionamento atlantico dell’Europa.

Gli errori tedeschi li vedemmo per tempo, quando in Italia erano considerati fulgido esempio di virtù economica e lungimiranza politica. Monti arrivò al governo dicendosi economista tedesco e fummo pochini ad avvertire il rischio. Ora, però, provate a mettervi nei panni della classe dirigente tedesca, politica e non solo: hanno aizzato i cittadini nel far credere (falsamente) che correvano il rischio di pagare i debiti altrui, impugnando l’arma del rigore come una specie di falce morale, e si ritrovano con politiche monetarie espansioniste e messi in minoranza presso la Banca centrale europea. Guardate i numeri con i loro occhi: passano per gli affamatori d’Europa, ma poi scoprono che le famiglie italiane hanno più patrimonio delle loro; in Italia ci sono più ricchi, in rapporto alla popolazione, che da loro; mentre nel loro Paese ci sono più poveri che da noi. Gli invasati del germanocentrismo possono non vederlo, ma i tedeschi s’avvedono che, ancora una volta, rischiano per mancanza di visione intemazionale. Erano stati avvertiti, anche da due ex cancellieri. Fatto è che, in questa condizione, è forte la tentazione di far i rigidi con i greci. Tanto più che i torti ellenici non sono pochi. Ma è possibile?

Il problema non è economico. Se all’inizio di questa storia si fosse scelta la strada della protezione, ci sarebbe costata meno. Il problema è di politica estera. La Grecia ha una posizione e un ruolo importanti, accresciuti dallo scivolare della Turchia verso non tanto i costumi neo-islamici, quanto verso le rimembranze vetero-imperiali. Non dimentichiamoci che il bastione della Nato, in quell’area, poggiava e poggia su Turchia e Grecia. E ciò fu possibile grazie all’occidentalismo kemalista, che dominava la Turchia, per il tramite dell’esercito, così come da un equilibrio ellenico che escludeva la possibilità d’influenze comuniste nell’area, fino a rendere possibile il colpo di stato militare. Roba del secolo scorso, certamente. Ma non è che in questo possa avvenire l’opposto.

Il nuovo governo greco è un’incognita, da tale punto di vista. Le alleanze che lo reggono non rassicurano. Ha chiarito che non intende allontanarsi dall’euro, ma cosa succederebbe se politiche sbagliate allontanassero l’euro dalla loro portata? La Grecia sprofonderebbe in una miseria senza fondo, con le banche destinate a saltare una dopo l’altra. Oppure interverrebbero capitali non europei. Quelli cinesi sono gia presenti e crescenti. La Russia è interessata, sia per rapporti esistenti che per riequilibrio sul versante del Mar Nero (dove la Grecia non si affaccia, ma presidia le spalle della Turchia). Anche capitali arabi sarebbero interessati, per giocare qualche pezzo in più sulla già complessa scacchiera mediterranea. E tutti hanno il loro tornaconto nel divaricare le posizioni dell’Unione europea da quelle degli Stati Uniti. Ue che, del resto, nel ribollire scomposto d’astratte patire e di concreti errori, vede crescere, a destra e a sinistra, formazioni nazionaliste e isolazioniste che incarnano la perdita dell’orientamento e della vitale collocazione atlantica. Non è un mistero che l’operazione Quantitative easing sia ben vista a Washington e mal sopportata a Berlino. Mettete anche questa nel conto e darete maggiore corpo al nervosismo tedesco. Quindi: condonare ai greci i loro debiti è impossibile, anche perché sono i nostri soldi; supporre di farglieli pagare per fargliela pagare è impossibile, perché significa perderli; perderli è pericoloso, perché rattrappisce l’Ue attorno agli imperi centrali (e fanno giusto ora 100 anni!). Occorre equilibrio, dunque. Che è il contrario del cavalcare il marasma e soffiare sulle paure.

Il Quirinale c’entra, perché con la Francia implosa (anche lì i tedeschi hanno sbagliato, e la Merkel, facendo campagna per Sarkozy, ha dimostrato i limiti della sua e della tedesca visione politica) l’Italia ha un ruolo accresciuto. O potrebbe averlo. Il che comporta un presidente della Repubblica eletto guardando anche questo scenario, non solo la cucina del potere nostrano. Potremmo essere noi (traendone vantaggio) a tendere la mano di cui i tedeschi hanno bisogno, per placare gli spiriti di un passato oggi interpretato da chi non lo ha vissuto: i più giovani. Per riuscirci, però, c’è bisogno che i nostri protagonisti non siano a loro volta ghermiti da quegli spiriti, sebbene in versione maccheronica. Sarebbe saggio che la cronaca della corsa al Colle, legittimamente agonistica, non fosse meramente dialettale.

Tafazzieconomy

Tafazzieconomy

Davide Giacalone – Libero

Non capita spesso che i creditori si compiacciano dell’ipotesi che i debitori non paghino i loro debiti, quindi non perdete lo spettacolo offerto dai tanti dichiaratori e commentatori che festeggiano ciò di cui dovrebbero preoccuparsi. Bei tempi quando a orecchio si parlava di calcio, usando la pancia di politica e solo alla memoria di sesso. Ora son tutti economisti, esponenti di spicco della Tafazzieconomy. Grazie alla Grecia, allora, si porrà fine all’eurorigore? No. Intanto perché le politiche monetarie europee sono espansioniste, ovvero il contrario del rigore. Non si può porre fine a una cosa che non c’è. I greci lo sanno e il loro nuovo governo ribadisce: nell’euro siamo e ci restiamo. Alcuni degli scalmanati anti-euro, come Costas Lapavitsas, economista di spicco nel gruppo di Alexis Tsipras, già tirano il freno: dicevo che sarebbe stato meglio uscire, ma ora è diverso. Appunto. I greci, dunque, intendono restare nell’euro, ma vogliono rinegoziare il debito pubblico. E qui ci si deve intendere.

Un negoziato è necessario, perché così come è strutturato non possono pagarlo. Ma l’ipotesi della denuncia del debito, del suo disconoscimento, non solo sarebbe contro ogni regola europea, o anche solo di civile convivenza, sarebbe un danno per l’Italia, visto che i soldi li abbiamo prestati noi. Non solo: mentre le banche tedesche e francesi si alleggerirono dei titoli del debito greci, cedendoli al fondo salva stati, da noi cofinanziato, così sottraendosi a tagli del debito che sono già stati fatti (anche se sembra ci se ne sia dimenticati), mentre questo accadeva si è anche deciso che gli altri europei avrebbero prestato soldi ai greci a un tasso agevolato, solo che i tedeschi presero i soldi dal mercato, pagandoli meno di quanto venivano remunerati, mentre noi li prendemmo pagandoli più di quel che avremmo riscosso. Noi, al contrario dei tedeschi, abbiamo già fatto regali alla Grecia, sicché è demenziale festeggiare l’ipotesi che non restituiscano neanche il poco cui sono obbligati.

Ma mentre un negoziato sulla struttura del debito è necessario, ciò non significa che la Grecia possa tornare all’andazzo pre-crisi, quando la copertura dell’euro rese possibile una spesa pubblica torrentizia e clientelare, priva di compatibilità con la ricchezza reale prodotta dalla Grecia. E’ qui che i festeggianti italiani fanno confusione, confondendo il debito con la spesa. Fraintendimento sul quale trionfa la Tafazzieconomy, sicché si lanciano gridolini di soddisfazione all’idea di essere colpiti colà ove non batte sole. Il rigore nella spesa è non solo necessario, ma salutare. Se lo si perde si compromette il dolore subito e ogni prospettiva futura. Se si torna a scambiare l’investimento produttivo con la spesa produttrice di voti si otterrà solo la crescita del debito e la moltiplicazione della miseria, mediante satanismo fiscale. E questo concetto potete dirlo in greco tanto quanto dovete dirlo in italiano.

Alcuni gioiscono, da noi, perché sentono i tedeschi lamentarsi. Solo che in Germania si lamentano perché rivogliono indietro quello su cui hanno già guadagnato, mentre qui sembra che si goda a mollare quello su cui abbiamo già perso. A guardare questa scena capisci la differenza: in Germania si governa e si suppone di risponderne, qui si starnazza per cercare di non doverne rispondere. I tedeschi usano la posizione dei greci per mettere in forse la politica della Bce, cui si sono inutilmente opposti, perdendo. Noi dovremmo fare l’opposto, avendo vitale convenienza a che quella politica si sviluppi fino in fondo. Invece cerchiamo di dare loro ragione, sebbene ghignando del crucco disappunto. E dimostrando di avere capito poco e niente.

Mi spiace che Syriza non abbia preso la maggioranza assoluta. Il governo di coalizione potrà rivelarsi un rischio, se fra sinistra e destra partirà la concorrenza e si protrarrà la campagna elettorale. Sarebbe una maledizione, perché c’è più consapevolezza della realtà in chi ha vinto le elezioni greche che in tanti orecchianti italici, presi dal disorientamento di vedere l’estrema destra e l’estrema sinistra, in giro per il continente, dire le stesse cose. Motivo in più per non parlare a vanvera.