davide giacalone

Il premier non può sequestrare un decreto legge

Il premier non può sequestrare un decreto legge

Davide Giacalone – Libero

È agghiacciante l’idea di congelare un decreto legislativo. Equivale alla demolizione delle regole che disciplinano il sistema legislativo. S’è capito che al governo non avevano capito quel che facevano o non si aspettavano di dover fronteggiare un pubblico dissenso. Due ipotesi che presuppongono ottusità legislativa o furbizia da sciocchi. Il guaio (ulteriore) è che, ad ogni parola che aggiungono, non fanno che allargare il buco e rendere multicolore la pezza. Matteo Renzi ha sostenuto che il decreto sarà congelato fino al 20 febbraio. Se ancora esistessero i presidenti delle Camere dovrebbero essere essi a fargli osservare che non c’è la possibilità di sottrarre al Parlamento l’esame di un decreto già approvato dal Consiglio dei ministri.

Il calendario è una prerogativa del Parlamento, non del governo. E se esistesse ancora uno straccio di cultura delle regole i giornali stessi non pubblicherebbero l’annuncio di congelamento senza aggiungere che si tratta di un’idea improponibile. Attenti, non c’è solo la materia fiscale. Fin qui sono state approvate, dal Parlamento, non due riforme, ma due leggi delega: una in materia di diritto del lavoro e l’altra di diritto tributario. Un buon successo, per il governo, che deve dare attuazione alla delega. Dopo avere approvato il primo decreto legislativo (leggasi «attuativo»), in materia di lavoro, s’è aperta la discussione sul comprendervi o meno i lavoratori del settore pubblico. Non discussione teorica, ma sullo scritto: taluni vi leggevano la comprensione, altri l’esclusione.

Disse Renzi: ci rimettiamo alla volontà del Parlamento. Sbagliato, perché il Parlamento si era già espresso, aveva già delegato. Il governo doveva attuare, dando sostanza alla delega. Il delegato non può rimettersi al delegante, altrimenti è un inferno degli specchi. La faccenda è stata presto insabbiata, rinviando tutto alla (ennesima) riforma della pubblica amministrazione. Ma è poi arrivata la mostruosità del decreto legislativo in materia fiscale. Comprendendo, fra le altre cose, alcune depenalizzazioni, con aumento di ammenda, è coerente che si trovino affiancate le fatture false (sotto i 1.000 euro), alcune evasioni (sotto i 150.000) e la non penalizzazione per chi evada meno del 3% di quanto effettivamente versa. Si può essere a favore o contro (io sono a favore), ma ha un senso.

Da lì è partita una collana di bischerate. 1) Prima Renzi dice: se la cosa favorisce Berlusconi la ritiriamo (come se le regole sono buone o cattive a seconda di chi salvano o dannano). 2) Poi dice che non si farà valere la nuova regola per i procedimenti in corso o in giudicato (con pernacchie al diritto romano e a uno dei pilastri della civiltà giuridica, il favor rei). 3) Quindi interviene Graziano Delrio e afferma che il decreto va bene, ma loro sono pronti a ridiscuterlo (e con chi? con sé stessi, visto che si tratta di un atto del Consiglio dei ministri). 4) Torna Renzi e corregge: va bene il testo, ma lo congeliamo (in questo modo sovvertendo il senso della regola e umiliando non solo il Parlamento ma il banale buon senso).

Può darsi che io abbia l’epidermide troppo sensibile, adusa all’idea che il diritto non sia solo un colpo del tennis, ma mi pare sia stato superato il limite. Per meno di un millesimo, in altre circostanze, avremmo sentito il severo richiamo del presidente della Repubblica. Che è ancora incarica, benché pubblicamente dimessosi. Il governo ha solo due strade, per uscire dal pasticcio: a) confermare il testo e spedirlo subito al Parlamento; b) convocare immediatamente il Consiglio dei ministri, rimangiarsi il testo e produrne uno diverso. In nessun caso salverà la faccia, ma, almeno, avrà fatto finta di conoscere le regole.

Postilla: la Commissione europea ha già cominciato il riesame dei nostri conti, i francesi hanno chiesto una ulteriore proroga, noi no (che si sappia); senza il decreto legislativo non sono neanche ipotizzabili i suoi fantasiosi vantaggi per le casse pubbliche; il che comporta la clausola di salvaguardia: aumenta l’Iva. A quel punto non sarà la faccia il solo lato a subire qualche danno.

L’euro trattato come la Grecia

L’euro trattato come la Grecia

Davide Giacalone – Libero

In Grecia non si parla di uscire dall’euro e il leader del partito di sinistra, dato in vantaggio dai sondaggi, si dichiara sostenitore della moneta unica. Fuori dalla Grecia tutti parlano dell’uscita ellenica, valutandone le possibili conseguenze negative. Per gli altri. Una scena surreale. Come in una stanza in cui tutti urlano, nessuno ascolta e non si capisce niente. Certo che tutto è possibile, in queste condizioni. Perché sono irrazionali.

Uscire dall’euro, per i greci, sarebbe un suicidio. Potrebbero vedere aumentare i turisti, visto che la svalutazione violenta potrebbe indurre più stranieri a visitare le isole e mangiare feta a basso prezzo. Ma solo a patto che quei turisti desiderino vacanzeggiare in un Paese che non potrebbe più permettersi di importare le medicine e dove la povertà sarebbe crescente. Roba per stomaci forti. A parte i turisti, in ogni caso, uscendo dall’euro le banche greche salterebbero tutte. Per non chiuderle si dovrebbe nazionalizzarle, così prendendo sulle spalle un costo superiore a quello del mantenimento del debito. Non è un caso che Alexis Tsipras certe cretinerie non le dice. Ne diceva altre, a cominciare dall’idea di non pagare i debiti. Ora, però, mano a mano che si avvicina il giorno in cui potrebbe trovarsi al governo, ha corretto il tiro, intendendo rinegoziare le condizioni degli aiuti (leggi: soldi) ricevuti. Il che sembra ragionevole. Si sarebbe fatto in ogni caso. Quindi lasciamo i greci al loro voto.

Usiamo la memoria. Chi ha prestato soldi alla Grecia già subì un taglio dei propri crediti, ma solo se si trattava di privati. Prima di quella decisione, però, le banche che avevano in pancia titoli del debito greco, quindi prevalentemente banche tedesche, seguite dalle francesi, se ne liberarono, cedendoli alla Banca centrale europea e, quindi, non subendo il taglio. Bene ricordarsene, per non cadere nella somaresca trappola di ritenere bravissimi quelli che copiano il compito in classe. Varando il programma europeo di aiuti ciascun Paese s’impegnò a prestare soldi alla Grecia, in ragione della propria potenza economica. Dettaglio: siccome i tassi d’interesse praticati erano di favore è successo che chi attingeva soldi, dal mercato, ad un tasso inferiore, come la Germania, ci ha guadagnato, mentre chi li prendeva a un tasso superiore, come l’Italia, ci ha rimesso. Siamo noi che abbiamo finanziato i greci, mica i tedeschi.

Quei debiti vanno rinegoziati e allungati nel tempo, in modo che siano sostenibili. Ma, ed è questo il punto, ciò non può riguardare solo i greci, perché altrimenti va a finire che conviene essere sull’orlo della bancarotta, visto che i greci, già oggi, pagano (in rapporto al pil) i debiti meno degli italiani. Il tema del debito non può che essere unico e generale, nell’area dell’euro. Altrimenti non è la Grecia a uscire dall’euro, ma l’euro dalla storia. Ciò perché il senso della moneta unica è quello di rendere eguali, nei diritti e nelle opportunità, i cittadini che vi abitano. Se da una parte è giusto che chi si è indebitato, dilapidando in spesa inutile, paghi; dall’altra è evidente che tale condizione non può trasmettersi sui posteri, altrimenti replicando lo schema della schiavitù. C’è un solo modo per conciliare l’etica del debitore con l’equità della cittadinanza: che oltre alla moneta si abbiano anche debito comune. Ciò, però, comporta che ciascuno non possa fare di testa propria e a spese altrui.

In Grecia e in Spagna è la sinistra (detta estrema) a suonare la musica antirigorista. In Francia e Italia è la destra (detta estrema). Il che rende tutto estremamente confuso. È di destra o di sinistra, il rigore? Tutto sta a capirsi: quei debiti nazionali (il nostro compreso) non sono sostenibili senza sviluppo; ma se la spesa pubblica diventa all’istante spesa corrente e sostegno ai consumi (come gli 80 euro), anziché investimenti, non cresce la ricchezza, ma la zavorra. Al tempo stesso la possibilità di alimentare l’economia con credito al sistema produttivo e agli investimenti è come la carne per i debilitati: il minimo per non morire di anemia. Le due cose devono andare assieme.

Il buco e la pezzaccia

Il buco e la pezzaccia

Davide Giacalone – Libero

Non è una svista, ma un errore accecante. Era già capitato con il trattamento fiscale delle partite Iva, approvato di notte e la mattina dopo Matteo Renzi già diceva che si doveva correggere. E’ capitato con uno dei decreti legislativi relativi sul lavoro, che taluni consideravano valido anche per il pubblico impiego e altri no, tanto che Renzi disse di rimettersi al Parlamento, dimenticando che era il Parlamento ad essersi rimesso al governo. Ma sulla delega fiscale si esce dalla farsa e si entra nella tragedia. Per tre ragioni: di merito, di metodo legislativo e di ordine politico.

1. Nel merito credo abbia ragione Vincenzo Visco, quando osserva che considerare non perseguibile penalmente una frode fiscale entro il 3% dell’imponibile pagato non è diverso dal considerare penalmente esenti le fatture false entro i 1.000 euro e la soglia di non punibilità penale che passa da 50 a 150.000 euro evasi. A me sembrano provvedimenti accettabili, sebbene oscuri nel funzionamento (la fattura è esente se resta unica o può esistere una cartiera che ne produce in serie? perché cambia, e non di poco). A Visco sembrano abomini. Ma sono perle della medesima collana. Se si cancella il 3% per ragioni morali, perché mai si dovrebbe mantenere la non penalità per le fatture false, che sono strumento evidente di frode fiscale? E’ ragionevole che si possa essere favorevoli o contrari, non lo è che si faccia uno spezzatino e si mastichino alcuni bocconi sputandone altri. Questa faccenda, per le evidenti implicazioni politiche, finisce con l’oscurare tutto il resto. Che non manca di guai grossi. Avevo avvertito che la formulazione dell’abuso di diritto porta con sé un abuso di giurisdizione, nel senso che si passa palla e potere ai giudici. Ovvero l’esatto opposto della certezza del diritto, che dovrebbe essere chiaro prima. Leggo che Alessandro Giovannini, presidente dell’associazione docenti di diritto tributario, pensa la stessa cosa. Ma nessuno se ne occupa.

2. Il metodo legislativo è raccapricciante. L’idea che il Consiglio dei ministri approvi roba che non legge, o che al momento dell’approvazione non è scritta (perché questo credo sia successo), è già imbarazzante. Se poi parte la gara a dissociarsi, vuol dire che il governo è in disfacimento. Essendo decreto legato a una legge delegante la sola cosa da accertarsi è se il suo contenuto sia conforme, o meno, alla delega. Posto che un decreto non si “ritira”, qui si sta correndo a scriverne un altro senza che si sia detto se il punto contestato è o no coperto da delega. Non sto a descrivere il perché tale punto è rilevante, con entrambe le ipotesi inquietanti.

3. Se quel 3% era una furbata pro-Berlusconi era da rincretiniti supporre che sarebbe sgusciata nel silenzio. Passi per il Natale, ma prima o dopo qualcuno avrebbe letto. Se non lo è, nel senso che non è un codicillo oscuro della “pacificazione”, allora è allucinante che una norma sia ritirata (non essendo ritirabile) sol perché potrebbe giovare a uno. Con tanti saluti alla Costituzione e alla presunta eguaglianza dei cittadini innanzi alla legge. Renzi se ne è assunto la responsabilità perché s’è reso conto che raccontare come sono veramente andate le cose (ammettendo che la macchina legislativa di Palazzo Chigi è fuori controllo, o eteroguidata di soppiatto) sarebbe stato più dannoso che prendersi la colpa. Non s’è reso conto della conseguenza: se ripiega braghe in mano dopo la malaparata si trova nella medesima condizione in cui si trovò il governo Amato quando il decreto Conso dovette essere stoppato: finito. Prendere l’aereo di Stato per andare a sciare e poi scivolare su una roba simile significa avere perso lucidità. Infine, dire che della materia si riparlerà dopo l’elezione presidenziale non solo ha un vago sapore ricattatorio, destinato ad avvalorare l’idea che fosse una furbata, stupidamente organizzata, ma dimentica che la delega fiscale scade il 28 di marzo. Posticipare è suicida, perché incita l’esercito dei franchi tiratori a dilatare i tempi quirinalizi, talché la delega fiscale vada a farsi benedire. Si dirà: così, però, essi danneggerebbero gli interessi nazionali. Sicuro, ma non è che i protagonisti di questa storiaccia si siano distinti per l’opposto.

P.S. La pezza si fa sempre più colorata, talché il buco risulta sempre più evidente. Leggo (Il Messaggero) che il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Graziano Delrio, sostiene essere normale che un testo licenziato dal Consiglio dei ministri sia diverso da quello entrato. Come dire: il dibattito è vero e i partecipanti non sono delle comparse. Sarebbe bello, ma non è così. I provvedimenti esaminati dal Consiglio vengono prima studiati e preparati in un pre-consiglio, cui partecipano capi di gabinetto e/o i capi degli uffici legislativi. Questo per fare in modo che all’esame dei ministri non giungano questioni che poi daranno luogo a discussioni tecniche. Il punto è: visto che il 3% del dovuto al fisco, quale soglia al di sotto della quale l’evasione non fa scattare l’azione penale, non era nel testo entrato in Consiglio è evidente che non è mai stata esaminata dal pre-consiglio. Il che non è affatto normale. Quando, poi, dovessero sorgere discussioni politiche, dubbi o posizioni diverse, delle due l’una: o il presidente del Consiglio pone ugualmente il provvedimento in votazione, chiedendone l’approvazione, oppure, più frequentemente, rinvia la discussione al Consiglio successivo, in modo che ci sia tempo per appianare i contrasti e fornire i chiarimenti. Sul 3% non è successo nulla di questo.

Dice Delrio, in tal modo confermando la procedura e questa seconda ipotesi, che non c’è nessuna manina che abbia cambiato il testo, essendo stato licenziato quel che il Consiglio ha discusso e approvato. Benissimo. Poi aggiunge. Ma siamo pronti a cambiarlo. Malissimo. Se è quello che avete discusso e approvato, perché poi volete cambiarlo? Solo per le reazioni esterne? Ma, allora, sbaraccate il Consiglio dei ministri, rottamate la parte della Costituzione che ne regola funzioni e poteri, e abbandonatevi ai sondaggi. Perché vi accorgete che è un errore? Allora licenziate gli uffici legislativi e fate penitenza. Aggiunge ancora: “non credo che ci sia nessun problema a tenere aperto il provvedimento fino a quando non si trova un equilibrio che possa evitare qualsiasi cattiva interpretazione”. Ci sono eccome, i problemi. Primo: dove pensa di trovarlo, l’equilibrio? All’interno del Consiglio, dove hanno già approvato, nel partito, nella coalizione, in televisione? La Costituzione prevede solo il primo caso, il resto non è fantasia, ma rottamazione costituzionale. Secondo: si tratta di un decreto legislativo, già approvato, la cui delega scade il 28 di marzo, se lo tengono sospeso si brucia tutto. Terzo: si rendono conto del precedente che creano? Da ora in poi il Consiglio approva, poi si attende di vedere l’effetto che fa, indi si stabilisce se procedere o ritirare. Posto che la procedura di ritiro non esiste. Il buco non è bello, ma la pezza è terribile.

Cordata Italia

Cordata Italia

Davide Giacalone – Libero

Arrivare in fondo all’anno è l’occasione per misurarsi con il passato e prendere le misure al futuro reale. Se guardate le previsioni che ci riguardano, relative al prodotto interno lordo 2015, vi accorgete che non hanno senso. Variano troppo, andando da una crescita dello 0,1 a una dello 0,8. La migliore è troppo poco. E allora? Se immaginiamo l’anno che finisce come ad una scalata, ci accorgiamo che alcuni membri della cordata sono riusciti a salire più su, mentre altri sono andati più giù. Il baricentro complessivo s’è abbassato, segno che non solo il corpaccione non tiene il ritmo dei più bravi, ma costituisce un peso morto che scende più velocemente di quanto quelli salgano. Dato che il problema collettivo è quello di riagguantare non la crescita dei cinesi, ma l’arrampicarsi degli italiani che stanno in cima, la prima domanda da porci è: chi sono? Sono quelli che si sono rimboccati le maniche e hanno stretto i denti, tirandosi su anziché lasciarsi pendolare.

Sono gli italiani che hanno spinto la crescita delle esportazioni verso gli Stati Uniti (+15% a novembre, dati Istat) e verso il Sud Est asiatico (+19,7). Siamo cresciuti esportando verso i paesi Opec (+ 3,8), come anche in Svizzera (+4). Siamo scesi dove le crisi politiche o economiche hanno lasciato il segno: Russia, Giappone, Mercosur. L’esportazione di prodotti per la cosmesi ha segnato, nel 2014, un +5,5%. In Cina siamo cresciuti meno che nel passato, ma più di quanto siano cresciuti i tedeschi, le cui aziende hanno un accesso al credito più facile e meno costoso. In Cina, poi, abbiamo messo a segno importanti successi nel settore alimentare, rendendo proceduralmente sicura l’esportazione di latte, prosciutti e insaccati. Nel settore navale Fincantieri si consolida protagonista globale. Questo, e altro, non significa che in testa alla cordata sia una passeggiata. Si suda e sbuffa, ma non si molla.

Tre categorie di italiani che lo rendono possibile. Le imprese, che diminuiscono i margini di guadagno, pur di non perdere quote di mercato e clienti. Che migliorano continuamente il prodotto, interpretando correttamente la globalizzazione. I lavoratori, che aumentano impegno, professionalità e flessibilità (si pensi a molti giovani e alle partite Iva, irragionevolmente bastonate), pur di non perdere il lavoro. Le famiglie, che quando possono aumentano il risparmio, sapendo che la sicurezza futura dipende da loro stesse. Non è un’Italia deamicisiana, ma di quello stampo ricorda l’impegno, la serietà e la previdenza.

Questi italiani, attaccati alla roccia e interpreti di un destino antico e nobile, hanno alla vita una corda che lo Stato continua a strattonare verso il basso. Non sono un sostenitore delle teorie anti-Stato (semmai il contrario), ma vedo una scena raccapricciante: cittadini che aumentano sforzi e diminuiscono pretese, zavorrati da uno Stato che accresce le pretese fiscali diminuendo (se possibile) la qualità dei servizi che rende. A cominciare da giustizia e burocrazia. E siccome molti pensano che lo Stato sia la soluzione, e non il problema, ecco che l’andazzo fa da alibi a quanti (troppi) suppongono che la loro condizione di disagio non dipende dal fatto che non producono un accidente, ma dalla eccessiva velocità e cupidigia con cui si muovono quelli che stanno in cima. E’ l’alibi mortale: fermare i veloci, anziché mettere pepe al sedere dei bradipi. Questa massa inerte viene illusa da chi le fa credere che nessuna colpa sia nostra e tutte siano altrui. Si coltiva la corruzione della memoria, facendo credere l’incredibile, ovvero che con una valuta nazionale potremmo svalutare e inflazionare impunemente. Come se questa non fosse proprio la condizione che ci ha ficcati nel toboga del declino. Tale sciocca e colpevole illusione fa credere che si debbano adottare politiche premianti i discendenti anziché gli ascendenti. Tutto qui.

Guardando verso l’alto abbiamo la certezza di un’Italia che può e sa correre, trascinando tutti verso nuove vette. Guardando verso il basso si è presi dalla vertigine di un declino che degenera in degrado, alimentando rabbia e insensata rivalsa. Avendo smarrito il senso politico e cardinale di destra e sinistra, sarebbe saggio adottare un orientamento fatto di alto e basso. Farlo è più facile che dirlo. Non farlo è assai più pericoloso che ignorarlo. Perché la lussuria dell’abisso porta con sé il precipitare nell’imbarbarimento. Se consapevoli, lungo tutta la cordata, non ci farà paura mollare i pesi inutili e dannosi, ma il tenerceli stretti. Come molti continuano a fare.

Errori e balocchi

Errori e balocchi

Davide Giacalone – Libero

Ammettere gli errori è onesto e può essere segno di forza. Ma può anche essere una sgusciante furbata. Dice Matteo Renzi, ai microfoni di Rtl 102.5, che “un intervento correttivo sulle partite Iva è sacrosanto e me ne assumo la responsabilità”. Dell’errore commesso o della correzione? Di entrambe, suppongo. Bene, gliene renderemo volentieri merito. Non è per non fidarsi, però ci sono cose che non tornano.

L’errore, ora ammesso come tale, è stato qui segnalato quando la legge di stabilità era ancora in discussione. Per correggere quelli accumulati nell’iter parlamentare, diversi dei quali indotti da emendamenti presentati da ministri, il governo ha elaborato un mostruoso maxi emendamento, in totale continuità con i (peggiori) costumi di sempre. In quel testo, caotico, colmo di strafalcioni e scritto in un linguaggio che (teoricamente) la legge proibisce, l’errore non solo c’era ancora, ma aggravato. Anche questo lo abbiamo qui scritto, in tempo utile per la correzione. Niente. Su quel frullato legislativo hanno posto la fiducia. Teoricamente si sarebbe potuto intervenire alla Camera dei deputati, visto che è questo il lato positivo del bicameralismo (consustanziale alla “Costituzione più bella del mondo”, anche se ora va di moda oltraggiarlo). Obiettano: così si sarebbe arrivati all’esercizio provvisorio. Primo: non è una tragedia. Secondo: meglio quello delle norme abborracciate e sbagliate. Niente. La mattina dopo l’approvazione definitiva ecco Renzi: è un errore, va corretto. Poteva accorgersene prima. Sarebbe bastato leggere.

La stessa mattina, però, il Corriere della Sera pubblica una nota firmata da Yoram Gutgeld, consigliere economico del medesimo Renzi, il quale sostiene che non solo non è un errore, ma un’ottima e giusta cosa, una conquista fiscale e semplificatoria (!?). Ovviamente dissento, avendo sostenuto il contrario, ma mi educarono a rispettare opinioni e tesi altrui, salvo confutarle. Qui, però, il problema è che due opinioni opposte risiedono in due stanze attigue, a Palazzo Chigi. La domanda è: stanno parlando dello stesso testo? Oppure, nel caos, hanno ancora in mano bozze e riassuntini diversi? Difficile credere che Gutgeld potrà consigliare la correzione di quello che gli sembra ben fatto. Ma, allora, chi si sbaglia? È comunque disdicevole la dottrina per cui le leggi si fanno insalsicciando di tutto, anche a caso, salvo poi intervenire con altre leggi per correggerne i più macroscopici errori. Si deve a tale dottrina la non credibilità e affidabilità delle leggi. Il tutto senza dimenticare che si continua a dare per fatta la diminuzione della pressione fiscale, il che non trova fondamento nel testo e, con ogni probabilità, serve ad alimentare una suggestione. Occhio, perché poi si trasforma in disillusione. Difficile da indirizzare.

Renzi ha fatto riferimento anche all’Ilva, altro tema qui sollevato, avvertendo noi che si sta andando in direzione opposta al necessario, nazionalizzando laddove si dovrebbe privatizzare. Ha detto che l’Unione europea non può impedirci di salvare i bambini di Taranto. Siamo abituati alle parole e ai toni della propaganda, ma queste superano il tollerabile. Sembra il piccino cui la mamma non compra i balocchi, salvo che è cresciutello e vuole imporsi per ruzzare, ma senza che la mamma smetta di dilapidare in profumi e il babbo scommettendo all’ippodromo. Invocare il superamento di parametri agitando l’immagine dei bimbi equivale a dire che non si è capaci di porre limite alcuno ai loro dissennati genitori. Si è sodali degli sperperanti, tentando di far credere che i cattivoni stiano altrove. Forse Renzi non lo ha chiaro, ma è esattamente questa la ragione per cui la legge di stabilità non solo non cambia affatto verso, ma fa il verso al peggio del passato. Pur al netto degli strafalcioni. Suggerisco un criterio facile: finché non sarà tagliata la spesa pubblica è escluso che scenda la pressione fiscale, senza che cresca il debito. Statalizzare l’Ilva è l’opposto.

A pagare il conto più salato saranno le partite Iva

A pagare il conto più salato saranno le partite Iva

Davide Giacalone – Libero

Al celebrato «popolo delle partite Iva» arriva la polpetta avvelenata. Gli obiettivi annunciati erano: a) diminuzione della pressione fiscale; b) semplificazione; c) elasticità. La legge di stabilità impone gli opposti. Prima 30.000 euro era il limite massimo entro cui forfettizzare un prelievo del 5%, ora si scende alla metà (15.000), ma con aliquota al 15%. Il reddito, però, è tassabile al 78%, supponendo costi al 22. Supposizione frutto di esoterismo burocratico, basata sul nulla, il cui unico effetto sarà quello di mettere fuori mercato le iniziative coraggiose di chi si spende oggi per guadagni futuri. Dovendo mettere fra i costi un fisco che non tassa solo il profitto, ma anche quel che si spende per raggiungerlo, chiuderanno bottega. Impoverendoci tutti.

Con il vecchio sistema forfettario un reddito autonomo di 30.000 euro ne pagava 1.500 di Irpef, con il nuovo ne pagherà 7.000. Queste stesse partite lva, inoltre, scopriranno che non conviene più il regime forfettario, talché sarà saggio tornare a quello ordinario. ll tutto mettendo nel conto anche la crescita della pressione previdenziale, generata dalla gestione separata Inps: 2 punti in più nel 2015, poi uno in più all’anno, fino a toccare il 33,72%. Morale: la promessa diminuzione della pressione fiscale ha generato il suo incremento e l’annunciata semplificazione ha partorito le complicazioni.

Veniamo all’elasticità: per quanto sembri strano, è la guancia su cui è stato assestato il più bruciante ceffone. Il governo aveva annunciato di voler puntare sull’elasticizzazione del mercato del lavoro, premiando chi ha meno protezioni con meno oneri e meno vincoli. Ricordate la storia di Marta? La giovane precaria cui si voleva assicurare una maternità serena, evitando che sia un privilegio delle sole lavoratrici dipendenti a tempo indeterminato? Ebbene, la Marta che ha una partita Iva non solo non ha alcuna protezione, avrà una maternità interamente a proprio carico,e contabilizzerà come minor reddito il tempo in cui non lavorerà. Ora pagherà più tasse e non potrà più scalare dal reddito tutte le spese sostenute per l’attività, ma solo il 22%. Volevano festeggiare Marta, l’hanno conciata per le feste.

Con il Jobs act si vuol portare maggiore flessibilità nel mercato del lavoro, ma intanto si bastona chi ne è l’incarnazione. Il lavoratore autonomo porta sulle proprie spalle l’intero carico del rischio e modula il proprio lavoro in rapporto alle esigenze del cliente. Per questo non ha un orario di lavoro, dato che potrebbe semplicemente non avere mai sosta. Questo esercito di lavoratori (circa 6 milioni e mezzo) rende ancora fluido il sangue che circola nel corpo produttivo. L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è quella che si è fatta: punirlo.

Conosco a memoria (se non altro per esperienza diretta) il copione della polemica inutile: i lavoratori dipendenti pagano le tasse, mentre gli autonomi le evadono. Nessuna delle due cose è vera. I lavoratori dipendenti possono evadere le tasse, ad esempio i docenti facendo ripetizioni private in nero. Mentre i controlli sugli autonomi sono severi. Certo che c’è l’evasione fiscale, ma il conto reso intollerabilmente salato dalla legge di stabilità non lo pagheranno mica gli evasori, bensì le persone per bene. Fino a rompere l’elastico. La ciliegina sulla torta, la beffa dopo il danno, è il sentire i governanti continuare a pavoneggiarsi: abbiamo diminuito la pressione fiscale. È falso per tutti. Per i lavoratori autonomi è vero il contrario: è cresciuta e crescerà. Tutto per finanziare la spesa pubblica corrente, che continua intonsa la sua corsa verso l’abisso.

Natale in casa Ilva

Natale in casa Ilva

Davide Giacalone – Libero

Il Natale all’Ilva sarà l’epifania dello statalismo. Il futuro agognato consiste nel resuscitare il passato. Il nuovo che avanza s’acconcia al ritorno del vecchio che disavanza. Non si tratta di pensare male, ma di leggere bene: il 24 dicembre l’Ilva sarà nazionalizzata, con un’operazione ritenuta esemplare e, pertanto, da replicarsi anche in altri casi, a tale scopo adattando la Cassa depositi e prestiti. In una stagione in cui si dovrebbe privatizzare, dismettendo patrimonio pubblico per abbattere il debito, il governo ha in animo di far divenire pubblico quel che è privato. Dodici anni dopo la liquidazione dell’Iri si torna a volere lo Stato azionista. Diciannove anni dopo lo sbaraccamento dell’Italsider e la cessione dell’Ilva ai privati s’ingrana la retromarcia e si torna al punto di partenza.

Ciò che si deve leggere bene è l’intervista rilasciata dal presidente del Consiglio all’ottimo Claudio Cerasa, per Il Foglio. Il primo passaggio illuminante è quello in cui Matteo Renzi afferma che, ripresa la proprietà pubblica dell’Ilva, il prossimo 24, questa avrà lo scopo di “salvarla, rimetterla a regime e rivenderla in un arco di tempo che va dai due ai cinque anni”. A leggerla così sembrerebbe che la proprietà privata dell’Ilva era fallita, sicché, per salvare l’occupazione, lo Stato debba sacrificarsi. Ma non è così. La verità è che lo Stato può essere l’unico acquirente dell’Ilva per la semplice ragione che l’attività dell’acciaieria è interdetta dallo Stato stesso. Lo Stato ha bloccato l’acciaieria con la sua mano giudiziaria, raccattandola poi con quella finanziaria.

Noi non ci sostituiamo ai tribunali, né per accusare né per assolvere, il fatto è che qui il tribunale non s’è ancora visto. È la procura che ha progressivamente immobilizzato l’attività produttiva, al punto che il governo dovette intervenire con un decreto legge affinché l’intera attività non si fermasse. Gli esiti processuali li vedremo quando ci sarà un processo, ma quel che oggi innesca il ritorno dello Stato nella proprietà è proprio l’incertezza del diritto a potere produrre acciaio, incertezza indotta dall’azione dello Stato. Stanti così le cose, delle due l’una: o le azioni della procura si dimostreranno infondate, sicché si sarà proceduto a un esproprio senza alcuna ragione di diritto; oppure si dimostreranno ottime, quindi necessari investimenti ulteriori per la bonifica ambientale. Nel primo caso si sarà tradito un principio costituzionale, relativo alla tutela della proprietà. Nel secondo si spenderanno soldi pubblici per porre rimedio, senza alcuna garanzia che il risultato finale, fra due o cinque anni (ma l’esperienza insegna che i tempi s’allungano in modo inquietante), sarà vendibile e si troverà un acquirente. Perché il mercato corre e la dirigenza pubblica ha già dato costosa prova della propria incapacità a comprenderlo e seguirlo.

Tanto non si tratta di una spiacevole e passeggera necessità, bensì di una scelta ritenuta saggia e ripetibile, che, più oltre nell’intervista, Renzi dice, a proposito di Cassa depositi e prestiti: “anche attraverso l’operazione Ilva, in cui Cdp indirettamente collabora, credo sia necessario pensare a come farla cambiare e come renderla adatta a risolvere altre potenziali situazioni come quella di Taranto”. Chiarissimo: Cdp deve servire a far tornare alla grande lo Stato imprenditore. E siccome ti voglio vedere a rifiutare l’intervento laddove ci saranno fallimenti reali, ovviamente comportanti licenziamenti, quello che s’appronta è il tipico carrozzone di gestioni clientelari e fallimentari.

Già è pazzesco in sé, ma è anche l’esatto opposto di quel che si dovrebbe fare. La cosa di cui l’Ilva e Taranto hanno il più urgente bisogno è sapere se c’è stata attività criminale e se la produzione può continuare nella legalità. Su questo fronte il governo ritiene utile non accorciare i tempi, ma allungarli, come dimostrano le corbellerie dette a proposito della prescrizione. Siccome così nessuno può operare, raccatta i cocci e li mette in conto alla collettività. Non contento, afferma che è solo l’inizio e per il futuro ci stiamo attrezzando. Nel frattempo si va dicendo che quei fetenti dei burocrati europei non dovrebbero permettersi di rompere le scatole sui nostri conti e sul debito crescente. Lasciateci liberi di tornare al passato, con approccio nostalgico non privo di potenziali sdrucciolamenti: l’Iri (ditelo ai giovin toschi) non fu fondato sotto il governo di Amintore Fanfani, ma di Benito Mussolini.

Semestre sbagliato

Semestre sbagliato

Davide Giacalone – Libero

Non è deludente il bilancio del semestre italiano di presidenza Ue, ne è stata sbagliata l’impostazione. Si è puntato tutto sul concetto di “flessibilità”, in modo da farci stare conti che non tornano, ma questo ha prodotto impotenza. Dire, come ha fatto Matteo Renzi, che l’ultimo vertice è stato vincente per i flessibilisti, dato che i contributi nel fondo per il piano Juncker non saranno contabilizzati in deficit, significa prendere in giro. O, peggio, prendersi in giro: quei soldi sono un’inezia, mentre l’occasione è stata colta per ribadire che ogni altra spesa pubblica va nei conti normali. Il che è ovvio, ma pur sempre l’opposto di quel che il governo italiano ha inutilmente cercato di sostenere.

Mentre il vertice europeo si chiudeva nell’inconcludenza, varando un piano senza fondi, mentre le previsioni economiche per il 2015 oscillano fra l’immobilità e il dinamismo dei bradipi, e mentre le agenzie di rating continuano a declassare stati, società e banche europee, i giornali hanno avvertito che i titoli del debito pubblico toccano record per i bassi tassi d’interesse e gli spread si rattrappiscono. Come è possibile che il male produca il bene? Tecnicamente: perché le iniziative della Banca centrale europea funzionano. Evviva. Ma la faccenda ha un risvolto inquietante, perché in Europa dove c’è potere non c’è politica e dove c’è politica non c’è potere. Pessimo.

Dove agiscono i governi, con alle spalle i parlamenti e alla base gli elettori, si producono rinvii e compromessi dilatori. Dove agisce la Bce si ottengono risultati positivi e immediatamente contabilizzabili. Se la politica degli europei, e il semestre italiano, si fossero posti il problema di colmare questo pericoloso divario, per tanto o poco che si fosse riusciti a fare ci si sarebbe mossi nella giusta direzione. Invece ciascuno vive l’Unione come vincolo o come pericolo, rivolgendo la propria attenzione ai conti interni e cercando di mascherarne le debolezze per non pagarne il prezzo elettorale. Da qui il macroscopico paradosso: il continente più ricco che brancola accecato.

È veramente prevalsa la flessibilità? A Palazzo Chigi tendono a dimenticare anche le cose che dicono, forse perché troppe. Sostennero che la flessibilità era dovuta in quanto già prevista dai trattati. E così è, ma, appunto, necessita di azioni e riforme conseguenti. Hanno anche detto che l’Italia avrebbe fatto valere lo svantaggio congiunturale (la recessione), per sfuggire alla morsa del fiscal compact. Agli sgoccioli del semestre resta l’appuntamento a immediatamente dopo l’inizio dell’anno, per rifare i conti e finalizzare l’esame a marzo. Detto in modo diverso: la bocciatura che poteva essere impartita a novembre s’è trasformata in un mero rinvio. Che ne produrrà altri, perché l’Italia è troppo grossa per essere commissariata. Ma i rinvii allungano l’agonia di politiche prive di visione e di governi incapaci di tagliare la spesa pubblica e la pressione fiscale, con il che la ripresa è indotta solo dalle esportazioni, la produttività resta bassa, il costo del lavoro (non il salario) alto, la sicurezza remota e il riassorbimento della disoccupazione spostata sempre di un anno più in là.

Questa non è la politica dei piccoli passi, ma l’immobilità con la politica a spasso. Questa è la ricetta per allontanare sempre di più l’urgenza dei rimedi, pagando il tempo con il progressivo indebolimento. Più la ricetta ha successo e più sarà duro il ritorno alla realtà. Ma noi ci raccontiamo come urgenti riforme che si dice di volere fare entrare in vigore fra tre anni. Noi c’interroghiamo sulla corsa al Colle, strologando di nomi e dimenticando sia la funzione che la cosa più importante: qual è la missione che si assegna al nuovo inquilino? Noi crediamo che mostrarsi presi da queste faccende, e scaricarvi tutta la pettoruta determinazione, posponga o addirittura evapori i pericoli che corre il Paese. E, del resto, quando si esprimono classi dirigenti del genere, non solo in politica, è segno che i guasti non sono superficiali. Continuo a credere che non ci sia ragione perché l’Italia debba rassegnarsi all’accartocciamento, essendoci cose serie da farsi subito, per evitarlo. Ma continuo a vedere che tale modo di pensare è considerato solo un fastidio da isolare.