davide giacalone

Proibizione & superstizione

Proibizione & superstizione

Davide Giacalone – Libero

Lesti son lesti, quando si tratta di proibire. Garantendo all’Italia un ulteriore elemento d’arretratezza e violazione del diritto dei cittadini. Quando il ministro dell’ambiente, Gian Luca Galletti, tornò trionfante annunciando di avere indotto i colleghi europei a stabilire che, circa le coltivazioni Ogm, ciascun Paese avrebbe deciso per i fatti propri, scrivemmo subito che trattavasi dell’apoteosi dell’antieuropeismo, nonché la premessa, dalle nostre parti, per la proibizione oscurantista. È puntualmente, nonché malauguratamente, accaduto.

Si deve ragionare su basi razionali, senza accecarsi e farsi accecare da paure e stregonerie mediatiche. La prima domanda è: la coltivazione degli Organismi geneticamente modificati può arrecare danni collaterali o, addirittura, comportare pericoli per la collettività? La risposta è: no. Non è “forse”, è “no”. Non c’è nessuna evidenza scientifica di danni o pericoli. Questo non è un buon motivo per metterci tutti a coltivare Ogm, perché non basta una cosa non sia pericolosa perché sia anche conveniente e utile. Ma è un buon motivo per non proibirla. Oggi, e per la precisione dal luglio del 2013, un agricoltore italiano è meno libero di un agricoltore spagnolo. Ciò vuole dire che un cittadino italiano è meno libero di un cittadino spagnolo. Tanto è evidente la violazione dei diritti, collettivi e individuali, che non hanno il coraggio né la base giuridica per proibire definitivamente quel che altrove non è solo consentito, ma praticato, e allora ricorrono a un trucco: la proroga della proibizione temporanea. Un trucco che serve a evitare che un cittadino italiano si rivolga alla Corte di giustizia e ottenga la sicura condanna dello Stato.

Perché proibiscono? Perché, dopo avere in tutti i possibili modi tassato il settore dell’agricoltura, cedono alla pressione corporativa di organizzazioni che pensano, in questo modo, di tutelare le coltivazioni tradizionali. Tanto è vero che parlano di rispetto dei sapori e dei profumi della nostra tradizione. Il che è comico assai, visto che gli Ogm che taluni pensavano di coltivare erano mais, con cui far mangiare gli animali. Negli allevamenti italiani, del resto, il mais dei mangimi è per la quasi totalità importato e Ogm. E dato che si è quel che si mangia: loro mangiano Ogm e noi mangiamo loro, o beviamo il loro latte. A qualcuno sono spuntate le branchie?

Oltre al danno per il diritto e i diritti, oltre a quello che subiscono gli agricoltori che avrebbero voluto coltivare (e alcuni, in Friuli, già annunciano che lo faranno ugualmente), c’è anche il danno per la ricerca scientifica. Se c’è un problema, sicuramente legato agli Ogm, è che importando le sementi si dipende da chi le ha prodotte (Monsanto, il più delle volte). Poi c’è la fastidiosa cantilena delle lamentazioni per i nostri cervelli che fuggono all’estero. Ebbene, ma come si può pensare di non dipendere dalle multinazionali dell’Ogm, e come si può credere che i ricercatori restino in Italia, se qui è proibito fare quel che altrove sono premiati e pagati per realizzare? Dentro il valore di quelle multinazionali c’è anche il peso dei nostri cervelli che hanno portato le loro capacità e scoperte dove non fosse proibito utilizzarle. Quindi, anche in questo caso, il problema non sono i cervelli che vanno via, ma quelli che rimangono e non funzionano. Uno speciale ringraziamento, allora, ai ministri dell’ambiente, dell’agricoltura e della sanità, che ci hanno conquistato, per altri diciotto mesi, uno spazio d’illibertà, povertà e superstizione.

Potere dell’immaginazione

Potere dell’immaginazione

Davide Giacalone – Libero

Evitiamo di passare dal rigorismo immaginario all’altrettanto immaginario espansionismo. Gli accademici del sentito dire hanno già maledetto qualche milione di volte la dottrina eurorigorista. Peccato che la spesa pubblica continui a crescere (ottime le considerazioni di Alberto Mingardi). Hanno invocato un maggiore deficit, con l’impareggiabile festival della “flessibilità”. Peccato che assieme al deficit, mai mancatoci, cresce il debito, assieme al debito il suo costo, il che porta in alto le tasse. Hanno predicato che l’Unione europea sia la landa della lesina. Peccato che nel frattempo si siano sviluppati stimoli enormi e che l’operazione Ltro abbia ristretto la suicida divaricazione degli spread. Ora, però, si rischia il ribaltamento dell’immaginazione.

Leggo che secondo il ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan, dopo il varo del Quantitative easing, è bene che le famiglie spendano di più e le imprese maggiormente investano. No, non funziona così. Non basta la pioggia, che cade dal cielo, per passare al raccolto. Dopo anni d’impoverimento non basta dire: sentitevi ricchi e scialate.

Sul lato delle famiglie i dati ci dicono che la forbice s’è allargata. C’è una parte del ceto medio che ha contratto i consumi per potere aumentare il risparmio. Condotta suggerita non solo dalla paura, ma dalla razionale e contabilizzata constatazione che il governo continua a togliere ricchezza tassando il patrimonio più diffuso: la casa. E tassa senza neanche avvertire per tempo. Quindi meglio essere pronti. E c’è un’altra parte del ceto medio che è smottato nella precarietà, trasformando la paura in terrore della povertà. A tutti loro non basta dire: spendete. Perché c’è chi non può e chi non si fida. Si devono prendere i proventi del QE, che porta minore spesa per il debito, unirli a politiche di contenimento e riqualificazione della spesa e tradurli in sgravi fiscali sicuri e permanenti. Altrimenti son chiacchiere.

Sul lato imprese sarà bene ricordare che non veniamo mica da anni in cui sia scarseggiata la liquidità, nei mercati. Anzi, era ed è abbondante. Qui scarseggia il mercato interno (vedi sopra, circa i consumatori) e scarseggia il credito. L’altro programma espansionista, sempre di marca Bce, è il Tltro, finalizzato a fornire liquidi da trasferire alle imprese. Ma da noi rischiano di fermarsi in banca, per debolezza sia delle banche (dal punto di vista patrimoniale) che dei clienti (dal punto di vista dell’affidabilità). Scarseggia anche la certezza del diritto e, tanto per dirne una, dopo mesi di discussioni sulla legislazione del lavoro, ancora oggi un imprenditore non sa in quale regime fiscale e regolamentare assumere. Quindi aspetta. Abbondano, invece, la pressione fiscale e la perversione burocratica. Se non si mette mano a queste cose gli investimenti non ci saranno, o non nella quantità e diffusione tali da lasciare intendere che la ripresa è una realtà, non uno slogan.

Ergo, evitiamo di prenderci in giro da soli. L’operazione della Bce è ottima, per giunta senza limiti di tempo e quantità. Chi si ferma all’80% delle garanzie nazionali non coglie la portata rivoluzionaria del 20% federato. Un passaggio storico. Ma, oltre a essere tutto bancario, che già non è bello, è escluso che provochi quel che si vorrebbe far credere. La saggezza popolare diceva: aiutati che dio ti aiuta. E qui, comunque, non c’è alcun dio intento ad aiutare.

Salviamoci dal salva-aziende

Salviamoci dal salva-aziende

Davide Giacalone – Libero

Per smontare i carrozzoni ci vogliono, tempo, soldi e dolore. Per crearli basta un attimo e le idee confuse. Ha senso creare una società per azioni destinata al salvataggio delle imprese in difficoltà? La risposta potrebbe essere positiva. Ha senso che sia pubblica? No, perché non ci salveremmo dal salvaziende. La creazione della Spa è già contenuta in un decreto legge. Non basta, però, a capire di che si tratta. Qualche parola in più l’ha detta il viceministro allo sviluppo economico, Claudio De Vincenti. Sudo, dopo averle lette.

Di fondi e società che intervengono nelle crisi delle imprese e pieno il mondo. Operano in modo risoluto, avendo in mente il salvataggio del valore e la remunerazione dell’investimento. Come lavorano? Dipende: se la crisi è di mercato, sicché si pensa che le cose torneranno ad andar bene, si tratta di fare un ponte da qui ad allora, contenere al massimo i costi di gestione, e quando il sole risorge sapere che iprimi ad essere remunerati dovranno essere i pontieri; se la crisi e dell’azienda, allora ci si rimboccano le maniche e si taglia il tagliabile, a cominciare da dirigenti, costi fissi e personale, si chiudono le linee produttive morte e ci si concentra su quelle che si ritiene possano tornare a generare profitto, quando questo avviene, come sopra, i primi a intascare il guadagno sono i ristrutturatori. Non solo così va il mondo, ma va anche bene, perche l’alternativa ai tagliatori e ristrutturatori sono i giudici fallimentari. O la vendita a chi è più ricco e più bravo.Voi credete che questo mestiere possa farlo lo Stato? Neanche se lo vedo, ci credo. E se lo sento dire mi preoccupo, perché so già a chi toccherà pagare il fallimento di quelli che avrebbero dovuto evitare i fallimenti: ai contribuenti. Veniamo al decreto e alle parole di De Vincenti, soffermandoci su tre punti.

1. La Spa, dicono, non sarà dello Stato. Bene. Di chi sarà? Della Cassa depositi e prestiti e dell’Inail. È uno scherzo? Ma, dicono, ci saranno investitori privati. Bene. Quali? Non si sa, per ora dicono: «Operatori di mercato, investitori istituzionali e professionali». Si, è uno scherzo, sembra: faccio cose vedo gente. Saranno in maggioranza i privati o lo Stato, per il tramite di Cdp? Rispondono: lo vedremo. Certo che è uno scherzo. Sta in un decreto legge, ma è uno scherzo.

2. In quali casi potrà intervenire? Nel decreto non c’è scritto e non ci sono né argini né vincoli. Pessimo segnale. Dice De Vincenti: sulle aziende in difficoltà, ma non decotte. E chi distingue, il consiglio d’amministrazione, composto da quelli che ci mette la politica? E come resisteranno alle pressioni di piazze, politici, sindacati, che chiederanno interventi per ogni dove? Sempre De Vincenti: si potrebbe cominciare subito con l’Ilva. Peggio mi sento: l’acciaieria è andata in collasso per l’intervento dello Stato. Se questo è l’avvio vuol dire che assisteremo a una nuova alba dell’umanità: il comunismo giudiziario, con il giudice che blocca e lo Stato che porta via.

3. In che tempi agirà? Il limite di tempo, dice De Vincenti, abbiamo deciso di demandarlo allo statuto della società. Ditemi che è uno scherzo. Quindi: lo Stato, negando di essere Stato, ci mette subito un miliardo, salvo che si dovrà scrivere nello statuto cosa farne e in che tempi. «Possiamo immaginarlo – afferma – come una sorta di private equity rovesciato, guidato non da una logica di breve periodo ma di medio-lungo termine». Ecco, adesso è chiaro: non esistono privati disposti a investire in ristrutturazioni che abbiano l’orizzonte temporale del lungo periodo. Termine nel quale, secondo la facile battuta di Keynes, saremo tutti morti. In questo caso anche dal ridere. Anziché procedere a tentoni, per poi finire con il riprodurre la Gepi, suggerisco una strada diversa: nel caso di crisi aziendali conclamate si faccia un duplice sconto fiscale a chi ci metta soldi e competenze propri o che in proprio amministra: uno al momento dell’ingresso e l’altro al momento dell’uscita, prefissata in un massimo di due-tre anni. Così il privato che ci crede ha maggiore convenienza a salvarla, investendo.

Contratto sleale

Contratto sleale

Davide Giacalone – Libero

Giunge al Consiglio dei ministri la bozza di un decreto legge contenente il “contratto per dare certezze ai grandi investimenti produttivi”. Proposito lodevole. Ma quel che se ne legge è deplorevole. Talora sembra che si mettano problemi reali, slogan e idee confuse in un frullatore, sperando possa uscirne una bevanda energetica. Più probabile il bibitone energivoro.

L’idea, se capisco bene, è questa: occorre dare certezze agli operatori economici, non modificando continuamente i parametri amministrativi e fiscali che essi inseriscono nei propri business plan, mandando all’aria ogni razionale valutazione del rischio. Eccellente. Ma, scusate, non è la base su cui regge il patto sociale e fiscale di tutti i cittadini? Non è la lettera e lo spirito (mai incarnatosi) dello Statuto del contribuente? Perché se così fosse avremmo un’evoluzione perversa della politica degli annunci: s’annunciano sempre le stesse cose, fidandosi del fatto che poi non si fanno.

Volendo scartare questa ipotesi, che sarebbe vergognosa, provo a immaginare reali novità. C’è un indizio: il governo dice che speciali accordi verranno offerti a chi investe più di 500 milioni (in cinque anni). Che accordi? Fiscali, mormorano. Fiscali? Non avrei obiezioni se si varasse un’aggressiva politica di tax ruling, ovvero di accordi su misura che attirino l’insediamento fiscale di società estere. Ma questo è esattamente il motivo per cui il Lussemburgo è finito sotto procedura d’infrazione. Queste è la politica che è stata contestata (a sproposito) a Junker. E seppure, con uno sforzo di fantasia, si supponga che abbiano in anima una scelta di quel tipo, chi volete che si fidi, nel mondo? Il governo che ha abbassato da 3,9% a 3,5 (con il decreto contenente anche i celeberrimi 80 euro) l’aliquota Irap, salvo poi, alla fine dello stesso anno, il 2014, riportarla dove era con valenza retroattiva, può supporre che qualcuno creda in una promessa di quel genere? Fatta in un Paese in cui qualche decina di giudici possono comunque demolirla? Una promessa in capo ad un governo che cambia le regole fiscali sui giochi e le scommesse, mentre gli operatori del settore affermano che non pagheranno perché prive di legittimità e violanti le regole precedenti? Direi che si tratta di supposizione troppo folle per essere vera. E allora?

Allora potrebbe trattarsi di un trattamento fiscale di favore, ma non diverso da azienda ad azienda, non sottoposto a rapporto contrattuale specifico. Bene, è una bella cosa. Ma se è questa, scusate, che lo fate a fare il decreto legge? Piuttosto date attuazione alla delega fiscale, che avete ancora nel congelatore. E che esista un congelatore costituzionale è idea che non smette di sembrarmi agghiacciante. Ove mai la delega non coprisse l’intera riforma necessaria, ove fosse necessario un intervento ulteriore, il minimo della serietà vuole che prima si attua quel che il Parlamento ha già votato e poi si passa ad aggiungere il resto. Altrimenti ne viene fuori la solita legislazione rococò, che è l’esatto contrario di quel che c’è scritto nel titolo del decreto.

Perché una regola, fiscale, amministrativa o di qualsiasi altro tipo, sia stabile nel tempo occorre non solo che non sia messa nelle mani ballonzolanti di chi cambia idea ogni cinque minuti, ma anche che sia credibile. Alla partenza. La stabilità è un valore, ed è encomiabile che al governo se ne accorgano, dopo avere praticato la traballarietà. Ma la credibilità è un pre-requisito.

Quel che fa rabbia, osservando l’azione di questo governo, è che la gran parte di quel che annuncia è condivisibile, mentre la gran parte di quel che fa è reversibile. Una pirotecnia che abbaglia, ma lascia sul terreno solo bossoli cartonati e mezze cartucce inesplose. Il successo comunicativo è dato dal fatto che chi lo fa osservare viene schiacciato fra gli oppositori dell’orale, mentre chi tace diventa complice dello scritto. E’ un giochino vincente (fin qui), ma inconcludente.

Fili non elastici

Fili non elastici

Davide Giacalone – Libero

Moneta, politica e anche giustizia. Studiare con attenzione come s’annodano questi tre fili serve ad evitare di coltivare inutili illusioni. Come capita, credo, a proposito dell’esultanza italiana per la (s’immagina) conquistata elasticità nell’esame dei conti economici. Capisco le ragioni della propaganda, che ha anche effetti sul comportamento dei consumatori. Purché non diventi inganno. O, peggio ancora, autoinganno.

Cominciamo dall’elasticità. Più si canta vittoria più si rischia di prendere stecche. Nella sostanza si tratta di un accordo circa la correzione strutturale dei conti, destinata a ridurre il debito pubblico, limitata a 0,25 punti di prodotto interno lordo, contro lo 0,5 chiesto dalla Commissione europea. In termini assoluti: fra i 4 e i 5 miliardi di euro. Questa sarebbe la conquista. Ma si basa sul presupposto che il deficit del 2014 sia entro il 3%, mentre l’ultimo dato disponibile è quello relativo ai primi nove mesi, quando quotava 3,7. Mettiamo (e speriamo) che sia totalmente rientrato e i conti tornino, abbiamo qualche miliardo in più da spendere? Tuttalpiù abbiamo meno conti da correggere, perché la “conquista” vale solo per il 2015 e si basa sul fatto, certo non festeggiabile, che siamo i soli rimasti in recessione. Con il debito che cresce. Poi c’è l’altra faccia della flessibilità: non contabilizzare gli investimenti nel deficit. Ma, al momento, è fuffa legata al piano Junker, a sua volta dotato di scarso realismo.

Sospendiamo un attimo la riflessione e prendiamo il filo della giustizia: la Corte europea non ha emesso alcuna sentenza, ma l’avvocato generale ha sostenuto essere legittimo l’operato della Banca centrale europea. Perché se ne occupano e cosa significa? Se ne occupano perché la Corte costituzionale tedesca rimise a loro il quesito che le era stato sottoposto. Fortunatamente lo fece, perché se la Corte di un Paese avesse potuto decidere per tutti gli altri la storia dell’euro sarebbe già finita. Dice l’avvocato generale: l’Omt e il Qe (ovvero lo scudo anti spread e l’acquisto di titoli da parte della banca centrale) sono da considerarsi legittimi perché la Bce ha strumenti di analisi che noi non abbiamo e non c’è motivo di dubitare che abbia agito correttamente, ma sono legittimi in quanto rispettano e rispettino un principio cardine dei trattati: niente trasferimenti di ricchezza da uno Stato all’altro (e la proporzionalità). Bene. Mario Draghi è più forte, ma il limite oltre il quale non può spingersi si avvicina.

Qui arriva il terzo filo, la moneta. La classe dirigente italiana farebbe bene a imparare a memoria l’intervista rilasciata da Draghi a Die Zeit. Sembra concepita per difendersi dalle critiche tedesche, ma lancia messaggi inequivocabili. Il primo: la Bce agisce sul piano monetario perché non ha legittimità a fare altro, ma non basta (lo ha detto cento volte), non è fra i suoi compiti valutare l’effettività delle riforme strutturali necessarie, in alcuni paesi e segnatamente in Italia, ma altri dovranno farlo. Chiaro? Non basta la parola, insomma. Il secondo: l’Italia perde competitività da prima dell’euro, mentre i bassi tassi d’interesse hanno sostenuto l’economia e i consumi facendo crescere l’indebitamento. Così non si va da nessuna parte, ergo il rigore nell’amministrare il bilancio pubblico è necessario. Il terzo: non è nell’interesse dei contribuenti e risparmiatori tedeschi lasciare affondare chi s’è appesantito, ma è autolesionista e insostenibile che questi ultimi non si alleggeriscano.

Rimettiamo assieme i fili. Quello giudiziario è sciolto, sebbene in modo condizionato. Quello monetario è stato gestito egregiamente (dalla Bce) nel far scendere gli spread e bloccare la febbre speculativa, ma ora che si tratta di spingere l’economia si ricordi che: a. non abbiamo mezzi infiniti; b. non ne abbiamo di autosufficienti. Quello politico è ammatassato, con capi di governo che fanno finta di non capire. Noi italiani, ad esempio, siamo a un solo gradino dai titoli spazzatura, uno solo. È ingiusto, ma è così. Se lo scendiamo la Bce non potrà più accettare i nostri titoli in garanzia. Una tragedia. Per risalirlo, però, non servono 5 miliardi di spesa statale in più, ma molti punti di riconquistata produttività, il che significa meno tasse, meno burocrazia, più intrapresa. La festeggiata elasticità non ci serve a nulla. A vigilare questo processo dovrebbe essere la Commissione europea, che, però, ondeggia sia sotto le pressioni dei singoli governi, sia spaventata dagli umori delle opinioni pubbliche, che cercano sempre altrove il colpevole di quel che vivono. Quest’anno si vota non solo in Grecia (fra due settimane), ma anche in altri sette paesi, fra i quali Regno Unito, Portogallo e Spagna.

Se per aiutare i governi si molla la presa sui conti, poi arriva la mazzata dei mercati. Se si stringe troppo sui conti vanno al governo i parolai arruffapopolo. È questo il fronte più pericoloso, quello politico. Esserne consapevoli dovrebbe aiutare a non farsi abbindolare dai ridanciani o dagli sbuffanti, recuperando un po’ di consapevolezza e serietà.

Pasticci istituzionali

Pasticci istituzionali

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Prima o poi doveva succedere. Ed è successo. Non si possono svilire procedure istituzionali fondamentali – come quella, sacra, dell’approvazione dei testi di legge, portando in Consiglio dei ministri provvedimenti non del tutto definiti o, peggio, slide di generici documenti assertivi privi di qualsiasi dettaglio – e pensare che tutto ciò non si ritorca come boomerang contro coloro che operano tali stupri istituzionali. È accaduto con il decreto legislativo sul diritto penale tributario. Sul quale governo, Parlamento e l’intero sistema-paese hanno clamorosamente perso la faccia più volte.

Primo: il provvedimento è sostanzialmente giusto, e andava difeso politicamente, non mollato al primo stormir di fronde.

Secondo: come accade spesso a Renzi, le buone intenzioni – in questo caso, emanciparsi dalla demagogia fiscale della sinistra – non sono messe in pratica nel migliore dei modi. Nello specifico, come ha spiegato molto bene il sottosegretario Zanetti, introdurre esenzioni penali (potenzialmente per milioni) sul reato di frode documentale, grave perché presuppone la predisposizione intenzionale di documenti falsi per rappresentare operazioni inesistenti, è cosa sbagliata e indifendibile, mentre è opportuno alzare le soglie di depenalizzazione dei reati tributari meno gravi, come la dichiarazione infedele, e depenalizzare completamente, ferme restando le sanzioni amministrative, le mere omissioni di versamenti dell’Iva in presenza di dichiarazioni fedelmente presentate.

Terzo: non so se c’entri o meno Berlusconi (a naso, non credo) nell’aggiunta del famigerato “l9 bis”, ma bloccare tutto per quella presunzione – passando dall’ipotesi di provvedimento ad personam alla certezza di “non provvedimento” contra personam – è demenziale. Tanto più se poi si commette l’imperdonabile errore di legare il riesame della normativa alla scelta del prossimo capo dello stato, avvalorando l’idea che si trattasse di una furbata.

Quarto: un governo non può congelare un decreto legislativo già approvato dal Consiglio dei ministri sottraendolo all’esame del Parlamento, mentre Camera e Senato (presidenti, se ci siete battete un colpo) non possono accettare che passi ad altri la prerogativa di fissare il calendario dei propri lavori. È lo stesso errore, rovesciato, commesso per il decreto attuativo delle norme sul lavoro: in quel caso, sorta la questione se i dipendenti pubblici erano o meno equiparati a quelli privati, il governo ha detto di volersi rimettere al Parlamento, cosa impossibile visto che si trattata di legge delega e dunque, come dice la parola stessa, le Camere avevano delegato l’esecutivo a prendere decisioni,

Quinto: come magistralmente sottolineato da Davide Giacalone, non si può escludere i procedimenti in corso o in giudicato dalla nuova regola (Renzi dixit) senza buttare a mare il “favor rei”, uno dei pilastri della nostra civiltà giuridica.

Ma la cosa più grave di tutta questa brutta vicenda è e resta lo svuotamento di funzioni del Consiglio dei ministri. Non è certo stato Renzi a introdurre la cattiva abitudine di testi di legge completati o modificati ex post. Ma mai in modo così smaccato. Già per la legge di stabilità erano passati nove giorni tra il testo uscito dal Cdm e quello definitivo, ma almeno il motivo era più nobile: tener conto delle obiezioni del Quirinale, della Ragioneria e, probabilmente, di Bruxelles. Ora si è passato il segno. Anche perché questa maldestra forzatura si somma con il sempre più esplosivo problema dei contrasti – prima era un braccio di ferro, ora è una vera e propria guerra – tra Palazzo Chigi e il ministero dell’Economia. Ma anche con il reiterato abuso dei decreti legge, con l’ambiguità (voluta) dei disegni di legge omnibus e le maglie troppo larghe delle leggi delega, con l’uso smodato del voto di fiducia. Solo che finora la slabbratura delle procedure aveva conferito all’esecutivo un potere sottratto all’effettivo controllo del legislativo, mentre ora aggiungiamo a questa forzatura costituzionale quella ancor più intollerabile della sottrazione del potere dei ministri (singolarmente e collettivamente intesi) a favore del premier e del suo staff.

Questa non è premiership – né nella forma del cancellierato né in quella presidenziale – ma confusione istituzionale. Ha ragione Renzi quando sostiene che la politica deve reimpadronirsi delle responsabilità che le spettano, e che per questo occorre rivedere gli assetti istituzionali. Ma non si può fare così. E neppure con riforme a spizzichi e bocconi. Al contrario, Renzi si faccia promotore della convocazione di una nuova Assemblea costituente, l’unico luogo veramente deputato a una complessiva riscrittura delle regole e rivisitazione degli strumenti istituzionali. È l’unico modo. Anche per salvare la faccia e il consenso degli italiani.