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Crisi: per le imprese italiane la bolletta energetica è di gran lunga la più cara d’Europa

Crisi: per le imprese italiane la bolletta energetica è di gran lunga la più cara d’Europa

NOTA

Le nostre imprese sono costrette a pagare una bolletta energetica salatissima, di gran lunga la più cara nelle grandi economie europee. Un’analisi del Centro studi ImpresaLavoro rivela quanto sia impietoso il raffronto del costo italiano (tasse incluse) per l’elettricità con quello sostenuto dai nostri principali competitor: +14% rispetto alla Germania, +30% rispetto al Regno Unito, +49% rispetto alla Spagna e addirittura +91% rispetto alla Francia. Non solo. Risultiamo nettamente perdenti anche nei confronti degli altri Stati confinanti, che da tempo attraggono imprese e capitali italiani grazie a una tassazione e a un costo del lavoro decisamente inferiori a quelli del cosiddetto Belpaese: +46% rispetto all’Austria, +89% rispetto alla Croazia e +105% rispetto alla Slovenia.
L’analisi di ImpresaLavoro è stata condotta elaborando i dati Eurostat relativi al secondo semestre 2014 e considerando il prezzo praticato a una media industria italiana, con un fabbisogno energetico annuo tra i 500 e i 200 MWh (megawattora).
Il prezzo finale sostenuto dalle nostre imprese è composto dal costo netto dell’energia e dal totale di imposte e accise che lo Stato applica loro. Se considerata prima delle tasse la nostra energia risulta la quarta più cara in Europa, costando come quella portoghese e leggermente meno di quella britannica, irlandese e spagnola: 0,1052 centesimi di euro per Kwh (chilowattora). Il discorso però cambia se vengono incluse le imposte, che da noi hanno incidono in maniera rilevantissima (pesano fino al 48% se si considerano anche le imposte sul valore aggiunto e il 25% se non si considera l’Iva e altre imposte che le aziende possono recuperare) e che fanno quindi diventare la nostra energia in assoluto la più cara d’Europa: 0,1735 centesimi di euro per Kwh (chilowattora).

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Rassegna Stampa
LaRepubblica.it
Salviamoci dal salva-aziende

Salviamoci dal salva-aziende

Davide Giacalone – Libero

Per smontare i carrozzoni ci vogliono, tempo, soldi e dolore. Per crearli basta un attimo e le idee confuse. Ha senso creare una società per azioni destinata al salvataggio delle imprese in difficoltà? La risposta potrebbe essere positiva. Ha senso che sia pubblica? No, perché non ci salveremmo dal salvaziende. La creazione della Spa è già contenuta in un decreto legge. Non basta, però, a capire di che si tratta. Qualche parola in più l’ha detta il viceministro allo sviluppo economico, Claudio De Vincenti. Sudo, dopo averle lette.

Di fondi e società che intervengono nelle crisi delle imprese e pieno il mondo. Operano in modo risoluto, avendo in mente il salvataggio del valore e la remunerazione dell’investimento. Come lavorano? Dipende: se la crisi è di mercato, sicché si pensa che le cose torneranno ad andar bene, si tratta di fare un ponte da qui ad allora, contenere al massimo i costi di gestione, e quando il sole risorge sapere che iprimi ad essere remunerati dovranno essere i pontieri; se la crisi e dell’azienda, allora ci si rimboccano le maniche e si taglia il tagliabile, a cominciare da dirigenti, costi fissi e personale, si chiudono le linee produttive morte e ci si concentra su quelle che si ritiene possano tornare a generare profitto, quando questo avviene, come sopra, i primi a intascare il guadagno sono i ristrutturatori. Non solo così va il mondo, ma va anche bene, perche l’alternativa ai tagliatori e ristrutturatori sono i giudici fallimentari. O la vendita a chi è più ricco e più bravo.Voi credete che questo mestiere possa farlo lo Stato? Neanche se lo vedo, ci credo. E se lo sento dire mi preoccupo, perché so già a chi toccherà pagare il fallimento di quelli che avrebbero dovuto evitare i fallimenti: ai contribuenti. Veniamo al decreto e alle parole di De Vincenti, soffermandoci su tre punti.

1. La Spa, dicono, non sarà dello Stato. Bene. Di chi sarà? Della Cassa depositi e prestiti e dell’Inail. È uno scherzo? Ma, dicono, ci saranno investitori privati. Bene. Quali? Non si sa, per ora dicono: «Operatori di mercato, investitori istituzionali e professionali». Si, è uno scherzo, sembra: faccio cose vedo gente. Saranno in maggioranza i privati o lo Stato, per il tramite di Cdp? Rispondono: lo vedremo. Certo che è uno scherzo. Sta in un decreto legge, ma è uno scherzo.

2. In quali casi potrà intervenire? Nel decreto non c’è scritto e non ci sono né argini né vincoli. Pessimo segnale. Dice De Vincenti: sulle aziende in difficoltà, ma non decotte. E chi distingue, il consiglio d’amministrazione, composto da quelli che ci mette la politica? E come resisteranno alle pressioni di piazze, politici, sindacati, che chiederanno interventi per ogni dove? Sempre De Vincenti: si potrebbe cominciare subito con l’Ilva. Peggio mi sento: l’acciaieria è andata in collasso per l’intervento dello Stato. Se questo è l’avvio vuol dire che assisteremo a una nuova alba dell’umanità: il comunismo giudiziario, con il giudice che blocca e lo Stato che porta via.

3. In che tempi agirà? Il limite di tempo, dice De Vincenti, abbiamo deciso di demandarlo allo statuto della società. Ditemi che è uno scherzo. Quindi: lo Stato, negando di essere Stato, ci mette subito un miliardo, salvo che si dovrà scrivere nello statuto cosa farne e in che tempi. «Possiamo immaginarlo – afferma – come una sorta di private equity rovesciato, guidato non da una logica di breve periodo ma di medio-lungo termine». Ecco, adesso è chiaro: non esistono privati disposti a investire in ristrutturazioni che abbiano l’orizzonte temporale del lungo periodo. Termine nel quale, secondo la facile battuta di Keynes, saremo tutti morti. In questo caso anche dal ridere. Anziché procedere a tentoni, per poi finire con il riprodurre la Gepi, suggerisco una strada diversa: nel caso di crisi aziendali conclamate si faccia un duplice sconto fiscale a chi ci metta soldi e competenze propri o che in proprio amministra: uno al momento dell’ingresso e l’altro al momento dell’uscita, prefissata in un massimo di due-tre anni. Così il privato che ci crede ha maggiore convenienza a salvarla, investendo.

Aziende schiacciate dalle tasse

Aziende schiacciate dalle tasse

Valerio Stroppa – Italia Oggi

Per ogni 10 euro guadagnati dalle imprese italiane 6,5 euro vanno allo Stato. Il total tax rate per l’anno 2014 si è attestato al 65,4%, con un leggero miglioramento rispetto al 65,8% del 2013. Una pressione fiscale maggiore si ritrova solo in Francia (66,6%), mentre ben più basso risulta il prelievo complessivo in Germania (48,8%), Spagna (58,2%) e Regno Unito (33,7%). Senza considerare ordinamenti di particolare favore verso le imprese come quello della Croazia (tassazione totale al 18,8%) e dell’Irlanda (25,9%). È quanto emerge da un’elaborazione del Centro studi ImpresaLavoro basata sui dati contenuti nel rapporto Doing Business 2015, predisposto ogni anno dalla Banca mondiale. Il tax rate gravante sulle imprese viene calcolato in percentuale sugli utili totali e comprende l’imposta sul reddito (corporate tax), i contributi sociali e previdenziali, le tasse su dividendi e capital gain, nonché le tasse su rifiuti, veicoli e trasporti.

Il Doing Business è impietoso con il Belpaese: nella classifica globale che misura la facilità di fare impresa, al capitolo fisco l’Italia si piazza ultima a livello continentale e 141° nel mondo (su 189 paesi), dietro a paesi quali Sudan, Sierra Leone, Burundi. «Un risultato determinato da un mix micidiale composto da pressione fiscale elevata, sistema complesso e tempi lunghi anche per pagare quanto dovuto allo Stato», spiega una nota di ImpresaLavoro, «al prelievo elevato, infatti, si associa anche un sistema burocratico particolarmente complicato. Tra Ires, Irap, tasse sugli immobili, versamenti Iva e contributi sociali in Italia un imprenditore medio effettua in un anno 15 versamenti al fisco, sei in più di un suo collega tedesco, sette in più di un inglese, di uno spagnolo o di un francese e nove in più di uno svedese».

Ai costi diretti legati al prelievo fiscale si sommano poi gli oneri indiretti, ossia le «ore-uomo» necessarie per adempiere correttamente agli obblighi tributari. Per essere in regola con l’erario, infatti, le aziende italiane impiegano in media 269 ore all’anno. Sotto questo profilo, tuttavia, in Europa sono altri cinque gli stati membri dove le aziende impiegano più tempo: in Portogallo servono 275 ore, in Ungheria 277, in Polonia 286, per salire alle 413 ore della Repubblica Ceca e alle 454 della Bulgaria. Netto però il divario con le altre grandi economie europee: un’azienda tedesca ha bisogno di 218 ore all’anno (51 in meno dell’Italia), una spagnola di 167 ore (102 ore in meno) e una francese 137 ore (132 ore in meno). «Particolare poi la situazione del Regno Unito», prosegue il centro studi, «dove a un sistema fiscale gia leggero in termini quantitativi si accompagna un sistema di pagamento molto semplice. Gli imprenditori inglesi effettuano in un anno una media di otto versamenti al fisco, occupando solo 110 ore del loro tempo, meno della metà di un imprenditore italiano».

I dati del rapporto mondiale indicati nel capitolo «Paying taxes» evidenziano una disparità anche tra l’Italia e il mondo Ocse nel suo insieme. La media della pressione fiscale vigente nei 34 paesi più sviluppati appartenenti all’organizzazione parigina è del 41,3%. Lo scostamento maggiore non si riscontra nella tassazione sugli utili di impresa (19,9% in Italia contro una media Ocse del 16,4%), ma soprattutto in quella gravante sui lavoratori (43,4% contro 23,0%). Le imposte indirette sono in linea con la media Ocse, dove però le ore dedicate ogni anno alla compliance fiscale dalle imprese non supera le 175 (contro le 269 ore italiane).

Un contesto dal quale emerge come, secondo ImpresaLavoro, «l’Italia resta la matrigna d’Europa per quanto riguarda le tasse sulle imprese», anche perché le frequenti modifiche normative e la conseguente incertezza applicativa scoraggia la nascita di nuove iniziative. Temi, questi, sui quali il governo sta cercando di intervenire a più riprese. A cominciare dalle misure introdotte dalla legge di stabilità 2015 (deducibilità ai fini Irap del costo del lavoro, patent box, credito d’imposta ricerca e sviluppo), ma anche con l’intervento sull’abuso del diritto previsto dalla delega fiscale. Il decreto attuativo, però, è stato stoppato dallo stesso esecutivo dopo le polemiche sorte in merito alla norma che avrebbe depenalizzato talune fattispecie di reato tributario. Il dlgs, riveduto e corretto, tornerà sul tavolo di palazzo Chigi il prossimo 20 febbraio.

Aziende italiane, la forza delle donne

Aziende italiane, la forza delle donne

Roger Abravanel – Corriere della Sera

Chi scrive è stato tra i primi fautori delle quote rosa per avere più donne nei consigli di amministrazione italiani (Cda). L’obiettivo era di migliorare la qualità del Cda perché nelle aziende all’estero è dimostrato che il contributo femminile li rende migliori. Può sembrare strano che un fautore della meritocrazia possa avere spinto per le «quote», ma la logica era quella delle «azioni positive» del mondo anglosassone: per un periodo limitato bisogna forzare l’inserimento di generi (o razze) discriminate, altrimenti il cambiamento non avviene. C’era anche la speranza che avere più donne nei Cda avrebbe portato a un’altra ricaduta: la crescita dei ruoli nel management, rompendo quel «soffitto di vetro» che riduce la percentuale di donne man mano che si sale nella gerarchia aziendale.

Dopo molte opposizioni (anche da parte di donne ) il concetto è passato ed è partito un vero tsunami, culminato con una proposta di legge bipartisan. L’idea di chi scrive era inserire un «incoraggiamento» nel codice di autodisciplina delle società quotate ad avere almeno due donne nei loro Cda. Ma per la politica l’occasione era troppo ghiotta: la legge è passata e comunque è stata una cosa positiva. Dopo cinque anni, i risultati sono impressionanti. La percentuale di donne nei Cda è quadruplicata, l’Italia è diventata un modello per l’Europa e i presidenti di Eni, Enel, Terna e Poste sono oggi delle donne. Sorge una domanda: questa inondazione «rosa» nei nostri Cda li ha davvero migliorati? Secondo gli addetti al lavoro sembrerebbe di si. A un recente convegno milanese sul tema della governance si è celebrato un grande miglioramento del funzionamento dei Cda italiani. Effettivamente sotto certi aspetti le cose sono migliorate.

Per un quarto di secolo abbiamo assistito a illeciti più o meno gravi in gran parte creati da azionisti di maggioranza e ignorati dai Cda: conflitti di interesse mostruosi a scapito degli azionisti minoritari, corruzione e collusione diffuse, frodi contabili. Oggi è raramente così: le norme che regolano il diritto societario vengono controllate seriamente e la cosiddetta Compliance (rispetto della legge) occupa molto del tempo nei Cda. Per quanto ho potuto osservare, le donne arrivate nei Cda hanno dato un notevole contributo in questo senso non solo perché sono spesso ottime professioniste e avvocati (anche più precise e meticolose degli uomini), ma perché sono delle outsider, davanti alle quali molti consiglieri maschi insider si sentono in difficoltà nell’ignorare
le regole.

Ma i Cda avevano bisogno di un miglioramento ben oltre il rispetto della legalità. Oltre alla C della Compliance nei migliori Cda si trovano altre 4 C. Per 3 di queste serve una grande esperienza manageriale: il Controllo (dei conti e della performance aziendale, non solo dal punto di vista contabile ma del business), il Coach, allenatore dell’amministratore delegato (che ha sempre bisogno di un altro «specchio di se stesso»), il Contribuire al management (per esempio contatti nel settore, punti di vista su potenziali acquisizioni di aziende o di dirigenti). Su queste 3 C le professioniste entrate nei Cda italiani sono riuscite a fare poco perché raramente hanno esperienza manageriale e autorevolezza che viene dopo anni di posizioni di leadership nelle aziende ai massimi livelli. Non per colpa loro, ma perché le aziende italiane negli ultimi 25 anni non hanno mai creato opportuni- tà per donne eccellenti di risalire la gerarchia aziendale.

La carenza più grave è però sulla ultima delle 5 C, il cosiddetto Challenge. Che vuole dire sfidare il vertice aziendale avendo posizioni diverse sulla strategia, sulla struttura organizzativa del top management, sul programma di successione, sugli obiettivi di budget, sul meccanismi di incentivazione della remunerazione. Per farlo, oltre a una grande autorevolezza ed esperienza nel capire il business è necessaria una vera «indipendenza» morale. Molte neoconsigliere hanno queste doti, ma non riescono ad esercitarle perché sono una minoranza in un Cda maschile dove il Challenge è una pratica poco corrente. Anche perché in molti Cda manca quella figura del presidente leáder-senza deleghe che orchestra le 5 C con l’aiuto del Cda Nella maggior parte delle aziende italiane il presidente è l’imprendittore che fa anche il capo-azienda, mentre in quelle publiche (per esempio ex statali) è una presenza molto poco attiva e presente soprattutto sull’esterno.

Resto comunque ottimista che, col tempo, la ricaduta che le quote rosa avranno nell’aumentare la leadership femminile nel management metterà a disposizione dei Cda più donne capaci di migliorarne radicalmente la qualità. Per il Challenge sarà però necessaria una condizione: che oltre alle quote rosa si introducano le «quote azzurre» per avere più maschi con forte indipendenza morale e leadership.

L’Irap, dopo l’amputazione di Renzi, è soltanto un mostro da eliminare

L’Irap, dopo l’amputazione di Renzi, è soltanto un mostro da eliminare

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

L’imposta più odiata dai contribuenti e dalle imprese italiane è stata mutilata dal governo Renzi. Non completamente abrogata e neppure oggetto di una radicale riduzione di aliquota come solitamente accade con le imposte colpevoli della perdita di competitività di un’economia, quale l’Irap da quasi due decenni è, ma più semplicemente amputata nella sua base imponibile. Il premier e il suo ministro dell’Economia, Piercarlo Padoan, hanno, infatti, preferito lasciare l’Irap in vita, rispristinando con effetto retroattivo l’aliquota ordinaria del 3,90%, ma escludendo il costo del lavoro derivante da contratti a tempo indeterminato dal calcolo della base imponibile del tributo. Significa che dal 2015 quello che rimane in vita dell’Irap è un’imposta davvero mostruosa che sfugge ad ogni analisi di intelligibilità economica.

Il tributo si pagherà su voci di costo aziendale tra loro davvero disomogenee quali: il costo annuo dei contratti di lavoro precari; il costo annuo degli interessi passivi; i ricavi da privative e opere dell’ingegno; il costo annuo del lavoro della pubblica amministrazione (questa è una partita di giro contabile nel bilancio pubblico). Quale logica di politica fiscale è individuabile oggi nell’applicazione dell’Irap? L’unica possibile è quella che rinvia al fatto che il legislatore ha scelto di premiare fiscalmente le imprese con specifiche caratteristiche nell’organizzazione della produzione, quali: l’utilizzo quasi esclusivo di contratti di lavoro a tempo indeterminato e la capitalizzazione del business mediante apporto di capitale proprio o di utili reinvestiti. Penalizzati, invece, sono il ricorso al credito bancario o all’indebitamento e la scelta di forme contrattuali flessibili del lavoro, in controtendenza con il primo intervento di Jobs Act dello stesso governo Renzi che ha reso rinnovabili e più flessibili per le imprese i contratti a termine.

Insomma ora l’Irap, per come è sopravvissuta all’amputazione di Renzi, diventa uno strumento di politica aziendale, nel senso che favorisce l’adozione di talune forme contrattuali rispetto ad altre nell’organizzazione della produzione. Nei fatti si riduce la flessibilità delle scelte, a parità di costo fiscale, per manager ed imprenditori e, quindi, si introduce una distorsione nell’allocazione dei fattori produttivi. L’aspetto positivo dell’amputazione renziana dell’Irap è dato dal fatto che, con queste fattezze, l’imposta non può rimanere vigente a lungo. Renzi, senza dirlo chiaramente, ha già abrogato l’Irap e una prossima legge di Stabilità sancirà la definitiva uscita di scena della peggiore imposta mai applicata in Italia e nell’intera eurozona.

A chi giova paralizzare il paese

A chi giova paralizzare il paese

Gaetano Pedullà – La Notizia

Quattro lavoratori disperati feriti, altrettanti poliziotti in ospedale. Il bollettino di una inutile guerra tra poveri segnala che l’autunno caldo sarà lungo. Troppo forte il disagio sociale, troppe le aziende in crisi. Le manganellate ai manifestanti che volevano dirigersi senza autorizzazione alla stazione Termini fanno male però anche al Governo. Sindacati e minoranza del Pd, ormai in rotta totale con Palazzo Chigi, hanno preso la palla al balzo per dimostrare un fantomatico accanimento contro le incolpevoli vittime della crisi. Ovviamente non c’è niente di più lontano dalla realtà, ma quando la politica scade a certi livelli ogni argomento è buono per colpire l’avversario. E nessuno – con Renzi in testa – si è mai illuso che le riforme in questo Paese possano essere fatte a costo zero. Poveri poliziotti minacciati hanno reagito alla tensione della piazza, ma senza sporcarsi le mani solo poche ore prima la Camusso aveva accusato il premier di essere stato messo a Palazzo Chigi dai poteri forti. Con questo continuo avvelenare i pozzi, dopo venti anni di referendum su Berlusconi rischiamo di continuare a paralizzare il Paese. Quello che vogliono Camusso & C. Non possiamo permettercelo.

Con il Tfr pagato immediatamente si tolgono ulteriori risorse ad aziende già salassate

Con il Tfr pagato immediatamente si tolgono ulteriori risorse ad aziende già salassate

Domenico Cacopardo – Italia Oggi

Probabilmente Adam Smith approverebbe l’idea di smobilizzare una parte del tfr, restituendolo in busta paga ai lavoratori cui compete. Si tratterebbe, infatti, di un fatto coerente con l’Illuminismo settecentesco e con la dottrina liberale che considera l’uomo (libero) degno di fiducia, molto più che lo Stato. Le osservazioni che si leggono in giro (l’accantonamento in vista di spese importanti a fine lavoro o il definitivo crollo della previdenza integrativa) rientrano nel pensiero dominante, che incrocia la dottrina sociale (soccorrevole) della Chiesa al credo comunista dello Stato «governatore» degli uomini, e non convincono. Ogni operazione messa in piedi sulla via della liberazione dell’individuo è eticamente superiore ed economicamente opportuna.

Tuttavia, «hic et nunc» (qui e ora), l’uso del tfr suggerisce una constatazione e apre un problema. La prima è che, viste le difficoltà di trovare quattrini nel bilancio dello Stato, è facile governare con i soldi degli altri. Il problema è che l’accantonamento del tfr è una risorsa aziendale, l’unica rimasta a causa di un erario dedito al saccheggio dei profitti generati da ciò che resta dell’economia privata. E questo non è un frutto di un destino avverso che ci perseguita da almeno vent’anni. È il frutto avvelenato (il maggiore protagonista Vincenzo Visco, inventore dell’Irap) della convinzione che il cittadino è un incapace incosciente, pericoloso evasore che occorre porre sotto stretto controllo (fiscale) in modo che non abbia i mai i quattrini per vivere la vita che preferisce. L’ideale, il massimo della felicità per i sadici che propugnano la posizione è il cittadino dipendente dello Stato, seguito e diretto dalla nascita alla morte. L’esempio più evidente l’Unione sovietica.

In Italia, gran parte del personale politico (quasi tutto d’accatto, nel senso che è composto da gente che non ha saputo affrontare ed esercitare una qualsiasi attività lavorativa), anche di centro-destra, visti i risultati, non s’è reso conto che il capitalismo ha vinto e governa il mondo. E che alle sue regole occorre adeguarsi. E non pare proprio che il nostro giovane presidente del consiglio sappia bene cos’è successo: basti il fatto che cita, nel suo Pantheon personale, gente come La Pira e don Milani che rappresentano la negazione della contemporaneità.

Quindi, ordinando alle imprese di erogare, in busta paga, una parte del tfr, si costringe il sistema produttivo a privarsi di risorse reali o di accantonamenti virtuali che non possono essere utilizzati senza «svaccare» conti economici, investimenti per ricerche, riserve fisiologiche. Certo, quest’operazione non è farina del sacco di Renzi, ma dovrebbe discendere dal suo «staff» di consulenti. Sarà bene che ci si pensi su in modo approfondito, tralasciando il contributo di organizzazioni virtuali come la Confindustria, per puntare sulle opinioni del mondo finanziario, a partire proprio da Mario Draghi, che, il «premier» ha difficoltà ad accettare come riferimento, visto il gap culturale e, in sostanza, politico.

Il semestre italiano di presidenza dell’Unione entra nella fase conclusiva senza fatti o iniziative degne d’essere ricordate, a parte la riunione dei ministri della cultura a Torino, promossa dal nostro Franceschini. Né per i prossimi mesi si vedono proposte degne di catalizzare l’attenzione dei nostri «partner». Non è però il momento della rassegnazione. È il momento di agitare le acque rilanciando una posizione italiana sulle sanzioni alla Russia, sui problemi energetici, sul «dumping» fiscale, sul programma di infrastrutture europee, immaginato negli anni 80 da Delors e mai attuato. Se la fiducia è una componente essenziale della guerra alla recessione, è il momento di sollecitarla, con decise iniziative in Europa, a Bruxelles, a Berlino e a Francoforte. E se il bottiglione (non fiasco) Renzi contiene vino buono, è il momento di versarlo.

Se lo Stato cattivo debitore ti fa licenziare 70 persone

Se lo Stato cattivo debitore ti fa licenziare 70 persone

Chiara Merico – Avvenire

«La mia azienda è in liquidazione, anche se vanta un credito verso lo Stato di 4,7 milioni di euro: per questo chiedo al presidente del Consiglio di sederci intorno a un tavolo e trovare una soluzione». Alberto Ricciardi rivolge il suo appello al premier Matteo Renzi, attraverso una petizione lanciata sulla piattaforma Change.org: l’imprenditore toscano è titolare dal 1982 della Fermet, azienda che si occupa della lavorazione di rottami in ferro e della fornitura di materiali metallici per le più grandi acciaierie d’Italia, come l’Ilva o la Lucchini.

«Noi siamo il tramite tra le acciaierie e i piccoli fornitori di questi materiali: lavoriamo con oltre 2mila subfornitori perché in Italia, a differenza di Francia e Germania, il mercato è molto frammentato», spiega l’imprenditore. «Nel 2011 è emerso che alcuni di questi subfornitori avevano acquistato materiale in nero: la Guardia di Finanza è venuta da noi e ha emesso un verbale da 30 milioni di euro, di cui 18 di tasse». La vicenda è stata poi chiarita: già nel 2012, spiega Ricciardi, «l’Agenzia delle Entrate ha emesso una circolare in cui si stabiliva che non spettava a noi il compito di controllare che i subfornitori acquistassero il materiale con regolare fattura». Una seconda procedura di accertamento del Fisco è stata anch’essa ritirata: attualmente la Fermet deve all’erario 200mila euro di sanzioni, che comunque, sottolinea il titolare, «decadranno perché nel relativo procedimento penale lo stesso Pm ha chiesto l’assoluzione, perché il fatto non costituisce reato».

Nel frattempo, però, l’azienda di Ricciardi ha accumulato un credito Iva di 4,7 milioni di euro. «Il blocco dei rimborsi Iva ci ha ucciso: la nostra azienda fatturava circa 250 milioni di euro all’anno, ma nel settore dell’acciaio la marginalità e minima, nell’ordine del 2-3%. Il blocco dei rimborsi, unito all’investimento di 13 milioni che avevamo sostenuto nello stesso anno per costruire un nuovo stabilimento, ci è stato fatale». Così la Fermet ha dovuto chiedere la procedura di concordato. Ma il titolare non ci sta: «Se avessimo incassato quei 4,7 milioni, avrei potuto continuare l’attività: ma non posso ottenerli, perché lo Stato chiede di garantire l’incasso dei rimborsi Iva superiori a 500mila euro con una fidejussione bancaria. Ma quale banca è disposta a garantire un’azienda in liquidazione?» Cosi Ricciardi si è rivolto al presidente del Consiglio – che aveva promesso entro il 21 settembre il saldo dei debiti della Pubblica amministrazione nei confronti delle imprese – chiedendo che venga eliminato l’obbligo della garanzia bancaria per ricevere i rimborsi. «Serve una proposta di legge in questo senso. Per quale motivo devo tenere l’azienda chiusa, e 70 famiglie senza lavoro, senza contare l’indotto?», si chiede l’imprenditore. «Uno Stato serio deve affrontare il problema».

Salvò un’azienda dal crac, la burocrazia lo punisce

Salvò un’azienda dal crac, la burocrazia lo punisce

Fausto Carioti – Libero

L’aula di Montecitorio, dove ieri Matteo Renzi ha promesso «una politica economica espansiva che rialimenti la fiducia tra imprese e cittadini», vista da qui è davvero dall’altra parte della Luna. Siamo a Noventa di Piave, in provincia di Venezia. Una settantina di dipendenti diretti e altrettanti nell’indotto, fatturato che dopo un periodo diflìcile è cresciuto sino a quota 20 milioni, commesse importanti all’estero, un curriculum che vanta edifici come il ponte di Calatrava, il Lingotto di Torino firmato da Renzo Piano e l’hotel Vela a Barcellona: i numeri per andare avanti ci sono, ma dinanzi un lucernario non a norma di legge valgono poco. La Simco Tecnocovering rischia di finire nel lungo elenco delle vittime dell’ottusità della burocrazia.

L’impresa progetta e applica quelle facciate di vetro e metallo diventate, grazie agli archistar, il simbolo della modernità. Il gruppo cui apparteneva, la Lorenzon Techmec System, si era trovato sul baratro quattro anni fa. Ma aveva commesse e contatti sparsi per il mondo e un know how di tutto rispetto. Così l’azienda di Noventa fu acquistata dalla Simco Tecnocovering, consociata del gruppo che fa capo al friulano Marco Simeon. Da allora ha lavorato per costruire le facciate del ministero della Difesa francese a Parigi, della torre di Telecom Maroc a Rabat, della nuova sede del Credit Agricole a Nantes e del palazzo Trebel a Bruxelles, destinato al Parlamento europeo, e in molti altri cantieri. Insomma, il lavoro non manca e i tempi brutti sembrano alle spalle.

Se non fosse per quel lucernario, di cui ha scritto ieri il Corriere del Veneto, e tutto quello che esso rappresenta. Tre anni fa Simeon aveva acquistato la sede dell’azienda dal tribunale. Decide di cambiare la distribuzione degli spazi e presenta un progetto in sanatoria. Tutto bene, tranne il torrino in alluminio e vetro che sporge di quattro metri. Si scopre che il massimo previsto dal progetto originario è ottanta centimetri. È un abuso ereditato dalla vecchia proprietà, ma alla burocrazia non interessa. Siccome il permesso di costruire dura tre anni, Simeon chiede tempo per trovare una soluzione. La risposta è un’ordinanza del Comune datata 24 aprile, in cui si obbliga alla demolizione del lucernario entro 90 giorni. Copia dell’ordinanza è inviata alla procura e «comunicata agli uffici competenti per l’eventuale cessazione delle forniture e dei servizi pubblici». Così ora l’azienda rischia di trovarsi senza acqua né elettricità e con un procedimento penale in più.

«Non manderò mai a casa i miei dipendenti», assicura Simeon parlando con Libero. «Smonterò il torrino, perché sono costretto a farlo dalla burocrazia, e andrò avanti con la mia attività». Ma questa storia è una metafora: se la racconta, spiega, e solo perché è un esempio di ciò che accade a tante altre imprese. «Stiamo parlando di una società che ha salvato il personale di quella che era fallita, ne ha acquistato i beni, è andata in giro per il mondo a vendere il suo prodotto nonostante i problemi creati dalla burocrazia, ha portato i quattrini fatti all’estero in Italia, li ha riversati sul territorio, e qui trovo chi mi intima di smontare un torrino che ho comprato dal tribunale».

Simeon comincia a capire chi va via. «I grossi gruppi come Fiat hanno iniziato a mettere le loro società fuori da questo sistema, ma sono in tanti che ci stanno pensando. Io in questo momento non ho intenzione di farlo, ma se dal punto vista fiscale e burocratico si va avanti così una simile scelta diventerà inevitabile per la sopravvivenza del nostro sistema imprenditoriale».

Spariti i 40 milioni per le partite Iva

Spariti i 40 milioni per le partite Iva

Claudio Antonelli – Libero

Ad agosto, poco meno di un mese e mezzo fa, il governo dopo interpellanza scritta fa una promessa: troveremo i 35-40 milioni di copertura necessari per la piccola mobilità e per evitare che le partite Iva, che nel 2012 hanno fatto assunzioni agevolate fidandosi degli incentivi promessi da Monti, debbano restituire il denaro all’Inps. La data di scadenza della promessa era ieri e i soldi sono spariti. Anzi il ministero a voce dice di averli trovati. Chiede all’Inps di aspettare a mandare gli avvisi di riscossione ad artigiani, commercianti e liberi professionisti. L’Inps senza garanzia scritta di copertura deve fare rispettare le leggi. Anche se in contraddizione con leggi precedenti. E ora il rischio concreto è che per meno di 40 milioni molte partite Iva si trovino in grossa difficoltà. In un cul de sac, degna conclusione di una vicenda paradossale.

Nel 2012 il governo Monti aveva annunciato sgravi biennali per la piccola mobilità. Le mini aziende, che avessero assunto dipendenti rimasti a spasso per giustificato motivo nell’ambito di attività artigianali, avrebbero usufruito di interessanti sgravi contributivi. Un costo del 10% contro il 30 normalmente previsto. A ottobre del 2013 viene emessa una circolare che in sostanza chiarisce come non sia più possibile riconoscere le agevolazioni per le assunzioni, effettuate nel 2013, di lavoratori licenziati nel 2013. «In via cautelare», si evince dalla direttiva, «deve ritenersi anticipata al 31 dicembre 2012 la scadenza dei benefici connessi». In sostanza sparisce la copertura per una norma che per legge della Repubblica avrebbe dovuto essere garantita per almeno due anni e scatta la retroattività. Non solo stop per i circa 300 euro mensili di agevolazioni. Ma ora il rischio della batosta: la restituzione di una somma che può arrivare anche a 5mila euro.

In Parlamento si era mosso il M55. La deputata veneta Gessica Rostellato ha presentato un’interpellanza in Aula sollecitando il govemo a dare risposte. «Avevamo chiesto», commenta Rostellato, «di preservare migliaia di aziende da un esborso incomprensibile, data la piena violazione del principio di irretroattività di una serie di provvedimenti talmente chiari da non lasciare dubbi. Abbiamo poi depositato una risoluzione perché il governo non obblighi molte aziende a trovarsi nella condizione di non poter ottemperare a una richiesta assurda. E poi trovarsi fuori legge – basti pensare al Durc – e rischiare addirittura il ko». Ma non finisce qui. «Adesso regna la totale incertezza. Potrebbe anche accadere che le lettere firmate dall’Inps partano ugualmente», prosegue Rostellato, «e poi se dovessero saltare fuori le coperture, gli importi non verrebbero riscossi. Creando un clima di terrore e confusione». Gli artigiani sono furibondi. «Esistono licenziati di seria A e di serie B», commenta Mario Pozza delegato alla semplíficazione di Confartigianato, «e ancora una volta vediamo che il governo tratta i piccoli come dipendenti di serie B. Basta sciacquarsi la bocca con le Pmi. Ce ne ricorderemo quando si tratterà di votare». Ora Renzi ha al massimo due giorni per risolvere l’indegno pasticcio.