domenico cacopardo

Ottimisti nel mungere l’evasione

Ottimisti nel mungere l’evasione

Domenico Cacopardo – Italia Oggi

Da oggi, in mare aperto, esposti ai refoli di burrasca e ai momenti di bonaccia. La nostra barca è vecchia, lo scafo è corroso e tante incrostazioni impediscono di navigare regolarmente. Così, la rotta che l’attuale capitano ha impostato (legge di stabilità) si presta a numerose critiche. Esse non possono essere risparmiate a chi promette di condurci fuori dall’area di rischio e di rilanciare la boccheggiante economia. Prima di tutto facciamo ammenda dei rilievi rivolti al sottosegretario Delrio a proposito dell’evasione fiscale e della sua importanza nella manovra. Diceva la verità. Come si faceva in passato, alla fine, se, per esempio, mancavano duemila miliardi di lire per quadrare i conti, si inserivano duemila miliardi di ricavi da lotta all’evasione e il problema era risolto.

Nella legge di stabilità Renzi-Padoan (più Renzi che Padoan) ci sono 3,8 miliardi di lotta all’evasione. Tanto per dare un’idea precisa a chi ha più di cinquant’anni, qualcosa come 7.600 miliardi di vecchie lire. Chi ha appostato questa somma o era in preda a ubriachezza molesta o era in malafede. Propendo per la seconda ipotesi ed è un’aggravante. 3,8 miliardi di lotta all’evasione sono la più palese testimonianza di assenza di realistiche analisi della situazione della nostra economia e degli strumenti di cui dispongono le autorità.

La seconda posta deludente riguarda i tagli ai trasferimenti alle regioni e ai comuni e alle spese dei ministeri, all’interno del capitolo spending review. «Sostiene Pereira» (Renzi) che sarà nell’autonomia dei soggetti percossi dove e come tagliare. In questo modo, si dà la zappa sui piedi: in sostanza, ripropone i tagli lineari che tanto abbiamo criticato in passato e che dimostrano l’incapacità del governo di compiere scelte coraggiose, intestandosene il merito e assumendosene le relative responsabilità. E dire ch’è in possesso del ponderoso e ragionato documento redatto da Carlo Cottarelli, in procinto, ormai, di tornarsene a Washington. C’è da chiedersi con preoccupazione perché il documento non sia stato mai pubblicato se non per brevi stralci. Le peggiori ipotesi sono sul tappeto: la più convincente riguarda il timore che si sarebbe messo in evidenza il mancato intervento del governo sui casi eclatanti, quelli da cui traggono alimento corrotti e corruttori al Nord come al Sud. E che, comunque, la mancata decisa introduzione dei costi standard consentirà ancora alla regione Sicilia di pagare le siringhe, ormai emblematiche, una trentina di volte di più che il Veneto.

Il premier ribadisce che è nella responsabilità di ministeri, regioni e comuni stabilire come e dove risparmiare e che si tratta di una specie di doveroso atto di fiducia. Follie. Mentre i disastri di Genova, Parma, Maremma, Trieste e Piemonte sono precisi atti di accusa nei confronti dei carrozzoni Regione, comunque realizzati, capaci solo di dissipare risorse senza contribuire al buon andamento del Paese, l’affermazione di Renzi appare viziata da ipocrita condiscendenza o da ammissione di grave impotenza.

Fermiamoci qua. Il testo della legge di stabilità è a Bruxelles e trova un ambiente meno arcigno del passato, viste le difficoltà generali che investono l’Unione europea. È possibile che, dopo gli accordi riservati tra Germania e Francia (come avevamo previsto, Hollande, incassato l’appoggio di Renzi, s’è occupato solo del suo Paese) che garantirebbero un’imprevista indulgenza della cancelliera di ferro, anche per l’Italia si manifesti un tasso (minore) di comprensione. In ogni caso, avremo un «cahier» di prescrizioni che ci costringeranno a svolgere difficili compiti a casa. Tutti i problemi tutt’insieme: l’economia, l’occupazione, Ebola e la politica estera con i dossier Isi, Ucraina-Russia, la Libia. Tante decisioni interconnesse da adottare nelle prossime settimane. Senza un soggetto politico unitario o unitariamente concepito. L’Europa è nana, divisa e senza leader con qualità adeguate.

Renzi non si accodi a Hollande

Renzi non si accodi a Hollande

Domenico Cacopardo – Italia Oggi

Renzi sembra quella di accodarsi alla Francia nel chiedere flessibilità per il bilancio 2015 e seguenti. Una tentazione diabolica per un cattolico praticante (sempre Renzi) che si batte il petto tutte le domeniche. È come recarsi alle corse dei cavalli e puntare sul perdente. Una follia. Quando è cominciata l’avventura presidenziale di Renzi, l’abbiamo scritto con insistenza: era necessario creare un fronte dei paesi per i quali necessitano misure speciali di sostegno, in modo che la Merkel e l’Europa fossero costretti a trattare. Invece no. A Bruxelles il nostro «boy-scout» s’è pavoneggiato di un’intesa, tutta da verificare, con la cancelliera tedesca e ha inciso come può incidere un piccolo moscerino sulla pelle di un cavallo da tiro.

Quando s’è trattato di discutere gli incarichi nella Commissione si è autolimitato designando l’inesistente Mogherini che, in quanto tale, è stata accettata dopo qualche piccolo mal di pancia. Se Moscovici, commissario francese agli affari economici, mette le mani avanti evocando le difficoltà che incontrerà sul dossier francese, figuriamoci la nostra commissaria (alta) alla politica estera e di sicurezza. Dobbiamo confessare che, leggendo i triboli della Francia, abbiamo pensato ai risolini a proposito dell’Italia (dell’Italia, non di Berlusconi) del duo Sarkozy-Merkel in una famosa conferenza stampa e non ci siamo dispiaciuti delle difficoltà transalpine.

Si tratta di «mal italiano», cioè dell’assenza delle riforme liberamente convenute in sede europea con l’approvazione del «Fiscal compact» e delle conseguenti direttive. La cura francese aggraverà la malattia, visto che si pensa di combattere la recessione con deficit ben al di fuori del 3% tabellare. Ecco, l’inesperienza e la supponenza potrebbero condurre Matteo Renzi sulla strada del disastro. Il sistema di dichiarare «fatte» le riforme approvate, anche in semplice cartellina, dal consiglio dei ministri è ormai al capolinea.

La legge di stabilità metterà una parola definitiva, almeno per il 2015, alle evoluzioni verbali del nostro «premier»: certo, nell’attuale situazione, sarà difficile che l’Unione nomini tre commissari (la Troika) per governare il risanamento delle finanze pubbliche italiane e per aggredire il debito pubblico. La soluzione che sembra consolidarsi nei corridoi di Palazzo Berlaymont (sede dell’Ue), in vista dell’insediamento della nuova commissione, consiste in un cronoprogramma vincolante di riforme (definite nei loro contenuti minimi, in modo che il teatrino dell’art. 18 non possa più ripetersi). Rispetto a esso, il governo e il Parlamento italiani hanno solo il compito di procedere con rapidità effettiva, trasformando in modo sostanziale la struttura socio-economica della Nazione. Il mercato «tout-court», cioè la concorrenza vera, le strutture pubbliche, protette e deficitarie, il welfare, la sanità, l’idrovora regioni. Insomma un’azione seria condotta a tamburo battente, pena, appunto, il ricorso ai commissari.

Saranno capaci questo governo e questo Parlamento di affrontare e vincere la sfida? C’è da dubitarne, visto il livello e, soprattutto, i condizionamenti di un passato che non ci si decide a seppellire. La verità vera è che, comunque, fra breve il passo cambierà. Resta da capire chi sarà protagonista del cambiamento, dato che le cicale politiche italiane risultano, sin qui, incapaci di trasformarsi in formiche.

Con il Tfr pagato immediatamente si tolgono ulteriori risorse ad aziende già salassate

Con il Tfr pagato immediatamente si tolgono ulteriori risorse ad aziende già salassate

Domenico Cacopardo – Italia Oggi

Probabilmente Adam Smith approverebbe l’idea di smobilizzare una parte del tfr, restituendolo in busta paga ai lavoratori cui compete. Si tratterebbe, infatti, di un fatto coerente con l’Illuminismo settecentesco e con la dottrina liberale che considera l’uomo (libero) degno di fiducia, molto più che lo Stato. Le osservazioni che si leggono in giro (l’accantonamento in vista di spese importanti a fine lavoro o il definitivo crollo della previdenza integrativa) rientrano nel pensiero dominante, che incrocia la dottrina sociale (soccorrevole) della Chiesa al credo comunista dello Stato «governatore» degli uomini, e non convincono. Ogni operazione messa in piedi sulla via della liberazione dell’individuo è eticamente superiore ed economicamente opportuna.

Tuttavia, «hic et nunc» (qui e ora), l’uso del tfr suggerisce una constatazione e apre un problema. La prima è che, viste le difficoltà di trovare quattrini nel bilancio dello Stato, è facile governare con i soldi degli altri. Il problema è che l’accantonamento del tfr è una risorsa aziendale, l’unica rimasta a causa di un erario dedito al saccheggio dei profitti generati da ciò che resta dell’economia privata. E questo non è un frutto di un destino avverso che ci perseguita da almeno vent’anni. È il frutto avvelenato (il maggiore protagonista Vincenzo Visco, inventore dell’Irap) della convinzione che il cittadino è un incapace incosciente, pericoloso evasore che occorre porre sotto stretto controllo (fiscale) in modo che non abbia i mai i quattrini per vivere la vita che preferisce. L’ideale, il massimo della felicità per i sadici che propugnano la posizione è il cittadino dipendente dello Stato, seguito e diretto dalla nascita alla morte. L’esempio più evidente l’Unione sovietica.

In Italia, gran parte del personale politico (quasi tutto d’accatto, nel senso che è composto da gente che non ha saputo affrontare ed esercitare una qualsiasi attività lavorativa), anche di centro-destra, visti i risultati, non s’è reso conto che il capitalismo ha vinto e governa il mondo. E che alle sue regole occorre adeguarsi. E non pare proprio che il nostro giovane presidente del consiglio sappia bene cos’è successo: basti il fatto che cita, nel suo Pantheon personale, gente come La Pira e don Milani che rappresentano la negazione della contemporaneità.

Quindi, ordinando alle imprese di erogare, in busta paga, una parte del tfr, si costringe il sistema produttivo a privarsi di risorse reali o di accantonamenti virtuali che non possono essere utilizzati senza «svaccare» conti economici, investimenti per ricerche, riserve fisiologiche. Certo, quest’operazione non è farina del sacco di Renzi, ma dovrebbe discendere dal suo «staff» di consulenti. Sarà bene che ci si pensi su in modo approfondito, tralasciando il contributo di organizzazioni virtuali come la Confindustria, per puntare sulle opinioni del mondo finanziario, a partire proprio da Mario Draghi, che, il «premier» ha difficoltà ad accettare come riferimento, visto il gap culturale e, in sostanza, politico.

Il semestre italiano di presidenza dell’Unione entra nella fase conclusiva senza fatti o iniziative degne d’essere ricordate, a parte la riunione dei ministri della cultura a Torino, promossa dal nostro Franceschini. Né per i prossimi mesi si vedono proposte degne di catalizzare l’attenzione dei nostri «partner». Non è però il momento della rassegnazione. È il momento di agitare le acque rilanciando una posizione italiana sulle sanzioni alla Russia, sui problemi energetici, sul «dumping» fiscale, sul programma di infrastrutture europee, immaginato negli anni 80 da Delors e mai attuato. Se la fiducia è una componente essenziale della guerra alla recessione, è il momento di sollecitarla, con decise iniziative in Europa, a Bruxelles, a Berlino e a Francoforte. E se il bottiglione (non fiasco) Renzi contiene vino buono, è il momento di versarlo.

L’Italia è soffocata da decine di migliaia di parassiti purtroppo in grado di bloccare tutto

L’Italia è soffocata da decine di migliaia di parassiti purtroppo in grado di bloccare tutto

Domenico Cacopardo – Italia Oggi

«E pur si muove!» disse Galileo Galileo, di fronte al Tribunale dell’inquisizione, al termine della rinuncia all’eliocentrismo, a conferma, non raccolta dai clerici parrucconi che lo giudicavano, che la terra ruota intorno al sole. «E pur si muove», possiamo sostenere oggi, con riferimento all’Italia, alla sua situazione politica ed economica. Non è notte e, quindi, non tutti i gatti sono bigi. Certo, di gatti bigi ce ne sono in giro e tanti. Ma qualche gatto bianco o rosso o grigio si vede bene, nel mezzo delle strade o sui marciapiedi più frequentati. Sono manager, imprenditori, dipendenti pubblici, insegnanti, ricercatori, artigiani che, nonostante i legacci in cui sono avvolti, riescono ad andare avanti e a produrre quel di più che caratterizzò, un tempo tutta la società italiana e che ora contraddistingue una minoranza.

Non è il caso di andare alla ricerca delle cause storiche, anche se, nell’attuale situazione, possono bene identificarsi gli irreversibili danni prodotti dalla stagione del ’68 e degli anni ’70. Tra i gatti bianchi, si può serenamente individuare Matteo Renzi. Lo possiamo ben dire, non avendogli risparmiato critiche puntuali su tutto ciò che non andava e non va nella sua personalistica gestione del potere. La verità vera, però, è che il giovanotto dalla parlantina sciolta ha messo in moto la Nazione «politica», quel mondo a sé stante, costituito dalle migliaia di professionisti della politica che ha infestato e infesta Roma, le regioni, le ex-province nella nuova versione, i comuni e le oltre 8.000 società pubbliche che sprecano i soldi dei contribuenti dall’Alpi a Lilibeo.

Una società politica parassitaria, avvinta alle strutture esistenti e incapace di immaginare il percorso necessario per recidere i legami che ci impediscono di essere quelli che fummo, protagonisti di almeno due miracoli economici. La società politica del no: Notav, Noponte, Norigassificatore, Notermovalorizzatore e via dicendo. Un No, dietro il quale si celano interessi pelosi che aspettano, per svanire, congrui benefici da chi può dispensarli. Se si approfondisce, dietro a ogni No, c’è anche un gruppo sociale che spera di trarre utili concreti dal suo No, a spese della comunità nazionale. Certo, è difficile essere ottimisti nell’Italia dei nostri giorni. Eppure, l’ottimismo di cui parliamo non è un confuso sentimento, è una ragionata fiducia nella nostra capacità di esprimere ciò che sappiamo fare nei campi in cui esistiamo.

Da questo punto di vista, Renzi è stato meno salutare, per suoi limiti, di quanto avrebbe potuto essere. Ma ora siamo al dunque, al discrimine tra un prima e un dopo. Il prima scadrà lunedì, nello «show down» alla direzione del Pd, tra i riformatori del «job act» e dell’art. 18, e coloro che, succubi del peso della Cgil e del vecchio che permane, si oppongono. Se Renzi rifiuterà qualsiasi gattopardesco compromesso e vincerà, prima in via Sant’Andrea delle Fratte (sede del Pd) e, indi, in Senato, entreremo nel «dopo», nella stagione – pur contraddittoria – delle riforme che servono, prima e più urgente quella della giustizia, ancora più attuale dopo l’incredibile chiamata di Giorgio Napolitano a testimoniare sulla trattativa Stato-Mafia.

Infatti non è solo l’«attualità e non rinviabilità dei problemi», la sussistenza di questo «nodo essenziale per ridare competitività all’economia» e un «funzionamento è largamente insoddisfacente», tutte parole del presidente alla cerimonia di saluto del Csm uscente. È questione di ristabilimento di corretti rapporti tra poteri dello Stato, da tempo compromessi per un mondo politico colpevole o tremebondo, spesso colpevole e tremebondo. E la restituzione del «servizio giustizia» alle sue ragioni etiche e costituzionali con l’abbandono delle usuali gestioni burocratiche che ci pongono in coda in ogni classifica di settore e consentono l’allargamento delle ipotesi processuali, come nel caso della chiamata di Napolitano a Palermo.

Un magistrato del Consiglio di Stato, anni fa, di fronte all’eliminazione dell’arretrato da parte della 1^ sezione, presieduta da Alfonso Quaranta, ebbe a dirmi, a mo’ di critica: «Un grave errore. L’arretrato è potere.» Insomma, non per Palermo, ma in genere, la perpetuazione all’infinito del giudice processante e del giudice accusante, nel rimirar, compiaciuti, i propri ombelichi. «Usque ad finem».

Allargare i diritti, ma quali?

Allargare i diritti, ma quali?

Domenico Cacopardo – Italia Oggi

Non c’è stato nessuno, nei media, che abbia chiesto a qualche esponente della minoranza del Pd: «Quali diritti intendeste allargare? Sostenete che invece di toccare l’art. 18 dobbiamo allargare l’area dei diritti dei lavoratori, spiegateci in cosa consiste la vostra proposta». Secondo me, l’interpellato farfuglierebbe qualche parola in puro politichese. Infatti, si tratta di una bugia bella e buona, annunciata con aria pensosa, proprio per confondere le acque di una discussione che, in realtà, è abbastanza semplice e riguarda l’allentamento delle rigidità dello statuto dei lavoratori, che impediscono all’imprenditore di avere fiducia e di assumere.

I diritti dei lavoratori sono diritti di libertà (sindacale e politica), di sicurezza sociale (assenze pagate), di retribuzione. Tutti, proprio tutti comportano costi per le aziende. «Allargare i diritti dei lavoratori», quindi, significa aggravare i costi del lavoro. Punto. Basterebbe questa constatazione per tappare la bocca ai confusi esponenti delle varie minoranze del Pd, in concorrenza tra loro, pronte, in alcuni casi, a ingrossare le file del vincitore. Alle loro spalle c’è il colosso d’argilla, l’organizzazione che da condizionata dal partito, ne è diventata la condizionatrice: la Cigl. Essa, è il riferimento politico e organizzativo di gran parte della minoranza del Pd, legata mani e piedi al sindacato e alla congerie di soggetti che fanno capo a esso, compresa la cooperazione. Come dimostra la posizione del «riformista d’un mese» Giuliano Poletti, ministro del lavoro e delle politiche sociali.

L’allargamento dei diritti, in un periodo di drammatica crisi come l’attuale, allontanerebbe ogni idea di ripresa, a meno che, scartellando da ogni impegno europeo lo Stato non si desse ad assumere, caricando, ulteriormente, sulla collettività i costi del disastro. Del resto, lo stolido Cofferati si dichiara in questi giorni neokeynesiano e propone un vasto piano di investimenti per recuperare posti di lavoro e rilanciare l’economia. Non lo sfiora il dubbio che i soldi non ci sono; se ci fossero mancano i progetti; e se tutto fosse pronto e disponibile dovremmo muoverci negli angusti spazi concessici dall’Unione europea.

A nessuno al mondo che abbia avuto esperienze produttive, in qualsiasi posizione, verrebbe in mente di rendere ancora più problematiche le assunzioni, lasciando a spasso, senza speranze, per le nostre piazze i giovani, poco qualificati dalla scuola, che vi soggiornano. A nessuno, sano di mente, verrebbe in mente di allargare il ruolo dell’autorità giudiziaria (che è il garante dei diritti) dandole ulteriori facoltà di intervenire nelle gestioni aziendali. Se, quindi, è così intuitivo che «allargare i diritti» è una formula senza costrutto, una follia comunicazionale, perché gente che, per altri versi, conosciamo come ragionevole e posata, la adotta come una bandiera?

Pensiamo a Bersani, solido, spietato burocrate dell’ex Pci, dotato di una naturale bonarietà. Pensiamo al raziocinante Cuperlo, prezioso consigliere alla presidenza del consiglio in anni non lontani, e a tanti altri che si prodigano su questo terreno dichiarando a destra e a manca che il problema non è l’abolizione dell’art. 18, ma, appunto, l’allargamento dei diritti. Se questo accade, non accade per caso. Dalle parti della sinistra Pd, si è capito che quella sull’art. 18 è la madre di tutte le battaglie del renzismo. La sua vittoria determinerebbe la fine di quel poco o tanto di potere che la Cgil esercita ancora nelle aziende, e, per li rami, le possibili influenze che gli eredi di quella che fu una grande armata, il Pci, riescono ancora ad avere sul mondo produttivo nazionale. Probabilmente, lo sa anche la massa dei disoccupati che l’«allargamento dei diritti» è una bugia che può solo prolungare il loro tragico stato rendendolo permanente. Meglio spazzarla via dalla scena il prima possibile.

Se, anziché pasticciare, Renzi avesse abolito l’Irap e l’art. 18 avrebbe rilanciato l’economia e cambiato il volto dell’Italia

Se, anziché pasticciare, Renzi avesse abolito l’Irap e l’art. 18 avrebbe rilanciato l’economia e cambiato il volto dell’Italia

Domenico Cacopardo – Italia Oggi

Il Global Competitiveness Report, pubblicato al World Economic Forum, mette a confronto 144 paesi nel mondo e mostra che quanto a efficienza del mercato del lavoro l’Italia è al 136° posto, ultima degli Stati europei e un gradino sopra lo Zimbabwe. Se poi guardiamo alla facilità d’ingresso e di uscita dal mercato stesso, ci spetta addirittura la posizione 141. Sempre meglio del solito Zimbabwe, del Sudafrica e del Venezuela. È questa l’area di confronti che oggi ci tocca: nei due dati c’è una inappellabile condanna del nostro Paese e della sua classe dirigente, vecchia e nuova.

Con perfetta sincronia, il premier ha appena dichiarato che la riforma del lavoro si farà (ma il job act è di gennaio), ma che non si toccherà l’art. 18. Rivediamolo questo articolo che si intitola «Reintegrazione nel posto di lavoro». Ecco il testo: «Il giudice, con la sentenza con la quale dichiara la nullità del licenziamento (…) ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto e quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro. La presente disposizione si applica anche ai dirigenti (…)». Poiché il fulcro del problema, quindi, è proprio l’art. 18 che dà a un’autorità giudiziaria fortemente ideologizzata (portatrice di una visione che considera il capitalismo, la libertà economica e gli imprenditori nemici del popolo) il potere di rimettere in azienda i lavoratori che ne sono stati estromessi, l’annuncio di Renzi significa che non ci sarà alcuna cambiamento significativo nel situazione mercato del lavoro. Comunque la si rigiri, questo è il senso delle ultime esternazioni.

Volgiamo leggermente il capo e constatiamo (una banale constatazione) che in Italia gli strumenti della produzione sono tassati. Sono tassati i capannoni industriali, i terreni agricoli, tutti i beni che servono a mettere insieme un qualsiasi processo produttivo. Non basta: è tassato pure il lavoro. Infatti, l’impostaregionale sulle attività produttive, Irap, è stata istituita con il decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, e colpisce il valore della produzione netto delle imprese, cioè il reddito prodotto al lordo dei costi per il personale e degli oneri e dei proventi di natura finanziaria. Ciò significa che lo Stato, da un lato ti impedisce di licenziare (i licenziamenti avvengono per due motivi: problemi aziendali; mancanze del lavoratore. Non c’è un imprenditore al mondo che voglia privarsi di un bravo lavoratore) e dall’altro ti tassa per la tua forza lavoro. Autori di questa bella pensata sono stati Romano Prodi e Vincenzo Visco (era Prodi il primo ministro della legge di delega) : basterebbe questa innovazione per iscriverli nel libro nero della Repubblica italiana, se mai sarà prodotto.

Nell’Irap, un’imposta demenziale, c’è il livore di un bel pezzo di mondo cattolico e di mondo comunista, non a caso andati a nozze nel compromesso storico. Sarebbe bastato che l’innovatore Renzi, invece di trastullarsi con gli 80 euro in busta paga a un’ampia platea di non indigenti, avesse abolito l’Irap e abrogato l’art. 18 perché l’Italia cambiasse verso e si rilanciasse l’economia. Invece, prigioniero e secondino di un sistema che viene da lontano, gestore di un’area che, marginalmente, coltiva ancora l’illusione della propria superiorità morale (vedi Monte Paschi e, ora, Regione Emilia-Romagna) e culturale, e la speranza di una rivoluzione proletar-clericale, Matteo Renzi si è cimentato su questioni che costituiscono un vero e proprio «cambiar discorso», una elusione quotidiana dei problemi del Paese, mediante l’accensione di dossier di secondaria importanza, rispetto ai due nodisostanziali.

Idee pasticciate come la riforma del Senato che nelle prossime settimane sarà riscritta dalla Camera dei deputati (annullando il lavoro fatto, giacché la quattro letture debbono essere celebrate su un medesimo testo) portate al voto nonostante le osservazioni fondate di esperti costituzionalisti e di politici di lungo corso. Lo pseudogiovanilismo dell’allegra brigata di gitanti a Roma non ha ammesso riflessioni e consulti, esaurendo la discussione all’interno di un «giglio magico» dalle competenze insondate e insondabili. L’altra tecnica usata è quella di rilegiferare sul legiferato, vendendo agli italiani (e soprattutto ai media completamente privi di vis critica; o di conoscenza dei fatti?) per innovazioni, decisioni come quelle sulle autocertificazioni e sulle divisioni interne degli immobili che risalgono ad anni passati. Anche se il consenso sembra crescere, Giorgio Napolitano non si illuda. Quest’ultima sua creatura ha il respiro corto e, difficilmente, potrà sopravvivere con le parole. I numeri non sono più falsificabili. Li sanno leggere tutti, soprattutto a Francoforte, a Berlino e a Bruxelles.

In comunicazione Madia vale zero

In comunicazione Madia vale zero

Domenico Cacopardo – Italia Oggi

La gentile ministra della funzione pubblica Marianna Madia ha dichiarato che anche per il 2015 le retribuzioni dei dipendenti pubblici rimarranno bloccate e ha precisato che «mancano le risorse». Per la prima volta, il governo fondato sulla comunicazione sbaglia totalmente proprio nel campo preferito: l’annuncio.

In effetti, dovrebbe essere messo in rilievo che, dato che il Paese è in deflazione, il potere di acquisto degli stipendi aumenta della percentuale di calo dei prezzi al consumo. Quindi, un’informazione corretta si sarebbe dovuta svolgere in positivo, come: «Benché i prezzi al consumo siano in caduta, il governo mantiene i livelli retributivi dei dipendenti pubblici».

A essere pignoli, qualcuno a Palazzo Chigi avrebbe potuto valorizzare un’altra verità: mentre in Spagna, in Grecia, in Portogallo, in Irlanda, insomma nelle nazioni in crisi, il pubblico impiego ha subito importanti tagli retributivi, in Italia né il prode Monti, né il meditativo Letta, né il pimpante Renzi hanno avuto il coraggio di affrontare il problema. Anzi hanno avuto il coraggio di non affrontarlo, non modificando le cose. I capi delle centrali sindacali si stanno giustamente comportando come gli ammiragli di Franceschiello che, in mancanza di munizioni e per il timore di sparare un colpo alle navi inglesi, ordinavano ai marinai: «Faciti ammuina!». In realtà sanno benissimo che se lo stipendio in busta paga è allineato a quello degli altri statali d’Europa (quella a 18), è il prodotto, cioè la produttività che è nettamente inferiore. Cosa che rende i «nostri», oggettivamente ben pagati.

L’altra novità riguarda la scuola: a settembre 2015 saranno assunti 150 mila docenti, ma dal 2016 in poi si diventerà insegnanti solo a seguito di concorso. Quindi, questo significa che, oltre ai residui delle graduatorie, ci sarà un’immissione di gente senza concorso con buona pace dell’art. 97 della Costituzione. Inoltre, in ogni scuola, ci sarà una «Task force» stabile per le esigenze di supplenza che si manifesteranno in corso d’anno. Il merito farà aggio sull’anzianità. La formazione continua sarà obbligatoria. Sarà introdotto lo studio della musica e lo sport nelle primarie, e storia dell’arte nelle secondarie. Sin dalla prima elementare sarà insegnata una lingua straniera. Dalla prima media l’uso del computer.

In questo cocktail di proposte (al momento, proposte), ritroviamo la «visione» molto elettoralistica che Renzi ha manifestato sin dal bonus di 80 euro assegnato a una certa fascia di percettori di reddito: la distribuzione di risorse di uno Stato sgangherato e in difficoltà. Prendiamo, per esempio, l’idea di creare un team di docenti in ogni scuola pronto a intervenire in caso di malattia dei colleghi con cattedra. Allora, se in una scuola si insegna l’italiano, la storia, la filosofia, la matematica, la fisica, la storia dell’arte, l’inglese, il team dovrà avere al suo interno tutte le competenze occorrenti per «supplire» alle assenze.

Lo capisce anche un bambino che una squadra di soccorso fissa, costa molto di più di chiamate di soccorso (supplenti) operate volta per volta quando, occorre. E, se per caso, si ammalano due docenti di storia e filosofia? Che prevederà la legge? Un soccorso a livello di provveditorato agli studi? E il merito? Una vuota parola gettate alla pubblica opinione per oscurare la realtà di assunzioni dirette di gente senza curriculum (e preparazione). Nemmeno Andreotti era così bravo. Insomma, il governo ha preso e prende gli italiani per scemi. In ogni annuncio di grandi, storiche novità, c’è la rimasticatura di vecchie decisioni già prese. L’ultima rimasticatura riguarda le case: la possibilità di procedere a modifiche interne senza alcuna autorizzazione comunale è legge dello Stato italiano da almeno dieci anni.

Leggetevi la Gazzetta Ufficiale, signori ministri, eccellenti capi di gabinetto e di ufficio legislativo. Utilizzate un programma qualsiasi di ricerca nel web e, prima di scrivere, leggete. Questo è un utile, affettuoso suggerimento: quando, infatti, gli italiani si renderanno conto di essere stati presi in giro da una compagnia amatoriale, potrebbero venirvi a cercare per chiedere conto di errori, sciocchezze e rimasticature.

Non disturbare il manovratore

Non disturbare il manovratore

Domenico Cacopardo – Italia Oggi

Con una certa solennità, il capo II della riforma della pubblica amministrazione, nel testo convertito, è dedicato alle misure in materia di organizzazione. Si inizia con le società a partecipazione pubblica: «(…) salva la facoltà di nominare un amministratore unico, i consigli di amministrazione delle società controllate (…) che abbiano conseguito nel 2011 un fatturato da prestazione di servizi a favore di amministrazioni pubbliche superiore al 90% dell’intero fatturato devono essere composti da non più di tre membri, ferme restando le disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità (…) il costo per compensi agli amministratori deve essere contenuto nell’80% di quanto speso nel 2013 (…) per le altre società a totale partecipazione pubblica il numero dei consiglieri non può superare i 3 o i 5 membri (…)».

Queste norme, criptiche e farraginose, meritano qualche spiegazione. Nella prima parte dell’articolo (il 16), si parla, in sostanza, della massa di aziende, nate sotto l’egida della riforma degli enti locali condotta da Franco Bassanini. Si tratta dell’in-house, di società a prevalente partecipazione comunale (provinciale, regionale) che hanno, come scopo sociale, compiti propri dell’ente di cui sono emanazione. Un esempio: per la realizzazione di infrastrutture di loro competenza, molti comuni hanno costituito un’apposita società che gestisce l’intero procedimento. C’è, in questa modalità organizzativa, un non detto: se il comune dovesse appaltare la costruzione di un ponte sul fiume che lo attraversa, dovrebbe applicare le norme europee e indire una gara abbastanza libera che potrebbe essere vinta da un’impresa sgradita al sindaco e ai suoi assessori. Rivolgendosi alla propria società, formalmente, privata, gli amministratori locali pensano che l’operazione sia manovrabile e che, comunque, trattandosi di un soggetto privatistico, come dire, è più difficile che la magistratura intervenga. Una bubbola infondata, vista la severa giurisprudenza penale. Tuttavia, le possibilità di farla franca sono oggettivamente maggiori.

Va notato il 90% del fatturato destinato a servizi della pubblica amministrazione di cui la società è figlia: questa qualificazione mostra come il governo sappia bene la natura distorsiva di questi strumenti organizzativi e di malaffare, ma che ne voglia limitare i costi. Chiamare una norma del genere «riforma» è una inqualificabile mistificazione.

È vero che da qualche giorno si parla di obbligare gli enti locali a liquidare gran parte delle 7/10 mila società e, proprio oggi, il consiglio dei ministri dovrebbe decidere qualcosa. Leggeremo i testi con la solita attenzione, anche se è lecito immaginare che la «vis» riformatrice si limiterà a un piccolo aggiustamento, senza incidere seriamente sul deleterio sistema. La massa di quadri politici che vivono da parassiti e malversatori nel mondo delle aziende pubbliche (che drena una impressionante quantità di denaro dei cittadini e che procura ai partiti risorse non dichiarate) non può essere colpita senza compromettere il patto tra vertici dei partiti e cosiddetta base e, per li rami, il consenso elettorale. Meglio prendersela con i pensionati il cui peso nelle urne non è paragonabile a quello dei quadri di cui sopra.

L’art. 17 della riforma induce all’ilarità: si occupa di «sic!» di ricognizione degli enti pubblici e unificazione delle banche dati delle società partecipate. La solita domanda viene spontanea: è necessaria una legge per una semplice, normale attività amministrativa gestibile con semplici direttive dalla presidenza del consiglio dei ministri? Si pensi che il comma 2 ter, dispone che entro il 15 febbraio 2015 «sono pubblicati sul sito internet istituzionale del Dipartimento della funzione pubblica della presidenza del consiglio dei ministri l’elenco delle amministrazioni adempienti e di quelle non adempienti all’obbligo di inserimento di cui al comma 2 e i dati inviati a norma del medesimo comma. A parte la zoppicante costruzione della frase, immaginate come trema, per esempio, il sindaco di Napoli di fronte alla prospettiva di essere inserito nell’elenco dei «cattivi» che non hanno contribuito all’unificazione delle banche dati nazionali? Purtroppo, questo è il metodo. Questi sono i contenuti.

Pubblica amministrazione sospesa

Pubblica amministrazione sospesa

Domenico Cacopardo – Italia Oggi

Il secondo capitolo della riforma della pubblica Amministrazione dovrebbe essere il più importante, giacché contiene le misure sulla sua riorganizzazione («semplificare e aumentare l’efficienza delle pubbliche amministrazioni» scrive la legge). Dall’organizzazione discende la qualità e l’intensità del prodotto dello Stato: quindi, visto che, quanto a numero di dipendenti pubblici (Stato e aggregati), siamo in linea con i paesi dell’Ue, ne siamo lontani quando a produttività.

I servizi che le amministrazioni pubbliche italiane offrono ai cittadini sono molto diversi se si guarda al Nord, al centro, al Sud e alle isole. Sud e isole presentano una qualità scadente non confrontabile con il resto del Paese. Tuttavia, mediamente, il prodotto della pubblica Amministrazione italiana è nettamente inferiore a quello offerto in Francia, in Germania e, addirittura, in Spagna. C’è da aggiungere che, da noi, il fattore corruzione incide di più e coinvolge le strutture funzionali e quelle politiche.

C’era da aspettarsi, quindi, che la riforma affrontasse questo genere di problemi che non sono una novità e sono stati risolti in vario modo all’estero (il più interessante è l’Amministrazione per progetti, che consente di aggregare su specifiche missioni personale addestrabile o addestrato e di misurarne i risultati).

Vediamo adesso quali sono le misure approvate. Si comincia con la razionalizzazione delle autorità indipendenti. In particolare: è esclusa la possibilità che i componenti, alla scadenza del mandato, possano essere nominati presso altra autorità nei cinque anni successivi e vengono introdotte incompatibilità per dirigenti e membri delle autorità di regolazione dei servizi pubblici, Consob, Banca d’Italia e Ivass. Viene introdotta poi una nuova procedura unitaria per i concorsi del personale nelle autorità e si prospettano misure per la riduzione percentuale del trattamento economico accessorio (che pone questo personale in condizione privilegiata).

Si riduce anche la spesa per consulenze, studi, ricerche e per gli organi collegiali. S’introduce la gestione unitaria dei servizi strumentali e l’assoggettamento alle disposizioni in materia di acquisti centralizzati. Saranno individuati criteri comuni per la gestione delle spese per gli immobili.

È soppressa, dopo il suo totale fallimento, l’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (Avcp). Le sue funzioni sono trasferite all’Autorità nazionale anticorruzione (Anac). Vengono unificate le scuole di formazione pubblica mediante soppressione di cinque organismi e la contestuale riassegnazione delle funzioni di reclutamento e formazione alla Scuola nazionale dell’amministrazione – Sna.

I regolamenti di riorganizzazione dei ministeri saranno adottati entro la metà di ottobre, semplicemente con decreti del presidente del Consiglio dei ministri (modalità rapida).

Come si può vedere dalla sintetica (ma puntuale) definizione della riforma, in materia di riorganizzazione, nessuno dei nodi che hanno impedito e impediscono la creazione di uno Stato efficiente e moderno a servizio dei cittadini è stato affrontato. Non si è nemmeno immaginato –è probabile- che potesse essere risolto, come s’era fatto in passato con alcune leggi storiche di riforma. Ricordiamo l’ultima e la più importante, la 241 del 7 agosto 1990: da essa si doveva partire per aggiornare il procedimento amministrativo e le responsabilità dirigenziali.

Come abbiamo scritto nei mesi scorsi, la qualità tecnica dello staff presidenziale (e del ministro Madia) è chiaramente insufficiente. E, questa della riforma della pubblica Amministrazione, è un’altra occasione perduta, anche se viene presentata come una svolta epocale. Di nuovo ci sono piccole misure di razionalizzazione che non incideranno né sul prodotto né sulla sua qualità.

Ci sono mille occasioni di riforma sul tappeto. Se il governo le coglierà come ha colto questa, sprecandole nel momento in cui passa al merito, avremo illuso gli italiani e non avremo dato loro la prospettiva che meritano. Certo, ci vorrebbe una massiccia dose di liberismo radicale o, in sciagurata alternativa, di collettivismo sovietico. Le mezze-mezze misure non servono che ad accentuare le difficoltà.