davide giacalone

Sì ai giochi a Roma ma solo a tre condizioni

Sì ai giochi a Roma ma solo a tre condizioni

Davide Giacalone – Libero

Il motto di De Coubertain vale solo per gli atleti. Per chi organizza le olimpiadi l’importante è vincere. Impossibile se ci si abbandona alle due opposte suggestioni: a) sarà l’immagine dell’Italia e la campana della riscossa (l’ho già sentita, a proposito dell’Expo); b) sara l’orgia della corruzione e delle tangenti. La prima suggestione è il più sicuro viatico per l’inverarsi della seconda. Sebbene a fatica e controcorrente, la faccenda deve essere ricondotta su un piano razionale. Il primo punto da tenere presente è che questo genere di appuntamenti globali non sono un buon affare in sé. La settimana scorsa ero a Nanchino (Cina), per lavoro, il cui traffico pazzesco era stato ulteriormente sconvolto, per un paio d’anni, dalla preparazione delle olimpiadi giovanili, tenutesi nell’agosto scorso. Ho domandato: ci avete guadagnato? Risposta: ci abbiamo perso. Questo è il primo punto: se il conto economico si limita ai giochi è difficile vincere. La scommessa italiana non può essere sbandierata come certamente vittoriosa, ma neanche come sicuramente nefanda. Tutto sta ad avere le idee chiare e a trarre qualche insegnamento dai non pochi errori compiuti. Sono tre le questioni decisive.

1) Il prodotto da vendere non sono i giochi, ma l’Italia. Fin da subito, quindi, si deve togliere la gestione del turismo alle Regioni (responsabilità della sinistra e della folle riforma costituzionale) e capire che non è la Calabria che fa la concorrenza al Piemonte, ma l’Italia alla Spagna o alla Francia. Noi restiamo la prima meta scelta dai turisti che vengono da fuori l’Ue, siamo già un prodotto forte. Le olimpiadi hanno un senso se servono a mettere il turbo in un motore che, invece, perde quote nel mercato interno europeo. Ciò comporta anche un piano trasporti e un piano aeroportuale non concepiti per soddisfare le pulsioni municipali, ma coerenti con la necessità di rendere l’intera Italia raggiungibile da chi vi metta piede.

2) Una partita simile è meglio non cominciarla neanche se non si stabilisce prima chi comanda (e ne risponde). La scena dei terreni Expo, il conflitto fra l’acquisto o l’affitto, lo scornacchiarsi di Regione e Comune, sono la certezza dell’insuccesso. La tendenza italica è quella di darsi regole dissennate, salvo derogarle quando si deve fare qualche cosa. Non funziona e genera corruzione. Alle olimpiadi è lecito pensare solo se il meccanismo decisionale non verrà concepito come un’eccezione, ma come la regola. Nuova e per tutti. Nella regola deve essere compreso il fatto che chi gestisce all’inizio continua a farlo rispondendo del risultato, senza chiedere aumenti del budget. Ma non basta, deve essere diverso il rapporto con i privati, chiamati ai lavori e sanamente desiderosi di far profitto: entra chi offre le condizioni migliori e condivide il progetto. Non possono esserci revisioni prezzi in corso d’opera. Chi partecipa ai lavori garantisce patrimonialmente la loro realizzazione, alle condizioni pattuite. Le incompiute o gli insuccessi comportano la perdita del patrimonio messo a garanzia. Onori, ma anche oneri.

3) Sbagliato creare un’autoiità di garanzia. Peggio ancora una specie di commissario all’onestà. Solo dove la disonestà è l’unico sistema funzionante si adottano simili ricette. Anche in questo campo non si deve creare l’eccezione, ma adottare una regola razionale. E farla rispettare. Gli organi di garanzia giurisdizionale sono quelli esistenti (vanno riformati, ma è questione non affrontabile qui). Il di più deve consistere nel riprodurre il funzionamento dell’audit (controllo) utilizzato nei grandi gruppi e nelle multinazionali: verifica costante dell’allineamento fra preventivo e spesa, nonché dell’avanzamento lavori. Chi bara o rallenta paga, rimettendoci soldi. Sicché eviterà di farlo per arricchirsi. Se bara l’audit ne risponde, patrimonialmente e penalmente. Ci sono affari che riescono bene e altri che falliscono, dipende dalla capacità d’individuare prima quale è il valore che si vuole vendere e dalla serietà nell’esecuzione. Se si parte dal principio che tutti gli affari divengono malaffari si può essere certi solo del disfacimento.

Le false vittorie del governo

Le false vittorie del governo

Davide Giacalone – Libero

44 miliardi escono oggi dalle tasche degli italiani e si lanciano nel dirupo delle casse erariali. A salutare il loro precipitare hanno trovato la fanfara di due annunci: nel 2015 non aumenteranno né le tasse sulla casa né il canone Rai. Ma non basta, perché ad accompagnare il volo c’è anche un fatto: solo il 15% della delega fiscale ha fin qui trovato attuazione, scadendo il prossimo 27 marzo. E fra le cose che si dicono imminenti c’è 1’ennesima ridefinizione dell’abuso di diritto. Che è uno strazio del diritto.

Andiamo con ordine. Le imposte legate alla casa non aumenteranno. Che bello. La verità è più prosaica: il governo aveva annunciato che il 2015 sarebbe stato l’anno della “local tax”, sicché una sola tassa che le avrebbe ricomprese tutte, e invece s’è arreso, lasciando tutto com’è. Questa è la notizia. E veniamo al canone Rai: non aumenterà. Evviva. Scusate, ma non doveva dimezzarsi? L’annuncio era: si pagherà la metà e lo si farà con la bolletta elettrica. La notizia è che l’operazione governativa è abortita. Tutto il capitolo della semplificazione fiscale, del resto, dovrebbe essere compitato entro la fine di marzo, dando attuazione alla delega fiscale. Fin qui siamo a carissimo amico.

Dicono in arrivo la parte relativa all’abuso di diritto. Leggo le anticipazioni e inorridisco. Dunque: non sarebbe più reato, ma il fisco può continuare a contestare non violazioni della legge, non evasioni fiscali, ma elusioni fondate sull’applicazione della legge. Non ha alcun senso supporre che il rispetto di una legge possa essere un abuso. Se lo è, ciò discende dal fatto che la legge è scritta male. La riscrivano. Comunque: equiparato all’elusione, l’abuso continuerà ad essere contestato. A quel punto il contribuente dovrà dimostrare di avere agito con finalità non malevole. Quindi: il fisco contesta e il contribuente deve dimostrare di non essere in peccato. Manco il tribunale dell’inquisizione. Il contribuente, però, può prevenire il problema: quando dovrà applicare una legge, potendo scegliere fra quella e un’altra, potrà evitare d’incorrere in tentazione chiedendo prima al fisco cosa sua signoria suggerisce di fare. Appena oltre il confine, se scegli con attenzione, si paga meno ed è tutto più semplice. Se vai in Lussemburgo al funzionario non chiedi quale leggi applicare, ma tratti quale aliquota ti applica, se vai a fargli compagnia. Ecco, se siete di buon carattere, diciamo che tali notizie potrebbero allietarvi le feste, strappando un sorriso. Se già malmostosi, c’è solo da sperare che vi distraiate.

Bontà in conto terzi

Bontà in conto terzi

Davide Giacalone – Libero

Non ci sono mica solo i criminali dell’accoglienza. Ci sono anche gli sciacalli del buonismo e del cattivismo. Ai primi interessa poco e nulla dei profughi e degli sfollati. Ai secondi poco e nulla dei soldi spesi per raccoglierli in luoghi circoscritti. A tutti costoro interessa solo il proprio tornaconto. Me ne convinco leggendo Laura Boldrini, che con la politica dei profughi s’è assicurata una carriera da funzionaria e poi il debutto (coronato da grande successo) in politica. Sostiene Boldrini: quelli che profittano sui profughi deturpano il valore della solidarietà, mentre sono moltissimi gli operatori competenti e motivati. Lo spero. Ma dove erano mentre i campi profughi costavano dieci o cento volte quel che valevano? Non si erano accorti che il livello di vita, in quei campi, era infinitamente inferiore al costo che la collettività sosteneva? Fra i propagandisti del cattivismo, del mandiamoli via, del chiudiamo le frontiere, ce ne sono stati che poi davano soldi pubblici ai cooperatori del ladrocinio; mentre fra gli sventolatori del prendiamone di più, accogliamoli tutti, volemose bene, ce ne sono che vogliono bene solo a sé, alla parte che si sono scelti, incapaci di vedere e capire il risultato della propria propaganda.

Scrive Boldrini: “paradossalmente il meccanismo che doveva facilitare la convivenza sta generando ostilità verso i migranti”. Paradossalmente un corno, perché quella è la logica conseguenza della premessa: i buonisti della convivenza se ne infischiano dell’indecenza. Mettono la propria bontà sul conto degli altri. La scaricano nei quartieri dove mettono piede solo se accompagnati dalle telecamere. Se vedono il disagio lo traducono in colpa di quanti non osannano la bontà un tanto al chilo, chiedendo ancora più soldi. Quindi favorendo gli affaracci cooperativistici. E se si stupiscono dello scandalo (dico “se”, perché una parte di quegli stupori è stupefacente) è solo perché ignorano del tutto la realtà concreta.

Proviamo a usare il buon senso e immaginare come porre rimedio. Intanto vanno separati due gruppi: i profughi e i migranti. Buonisti & cattivisti li mischiano, ma è l’errore che poi degenera in impotenza e sperpero. I profughi vanno accolti e istradati verso le destinazioni finali, che non si limitano certo al Paese di primo approdo. Per farlo occorre identificarli. Identificarli non ha alcun senso se non per scoprire chi non è profugo e, quindi, metterlo nel secondo gruppo. Nell’identificarli servono i soldi e la collaborazione dell’Onu, che oltre a stipendiare le nostre fanciulle di buoni sentimenti e abbondante speculazione dovrebbero dedicare una qualche attenzione anche agli interessati: i profughi. L’Onu dovrebbe funzionare soprattutto ai confini delle zone da cui i profughi fuggono, onde evitare il commercio di carne umana e il rischio di morte. Ergo: fare capi profughi in Italia serve a poco e niente, ma per quel che si fanno devono essere finalizzati non alla permanenza, ma all’identificazione e ripartenza.

I migranti, invece, non c’è alcun dovere di accoglierli. Avere immigrati è un affare. Un buon affare. Il saldo è positivo, e non solo economicamente, in Italia come nel resto d’Europa, se riferito agli immigrati regolari. Gli altri, gli irregolari, i clandestini, non si ha il dovere di prenderli. Quindi: identificarli, valutarne l’accoglimento, ove non possibile si procede al rimpatrio. Che è il solo modo serio per stroncare le gambe ai trafficanti dei barconi (per quel che riguarda l’Italia, perché poi c’è la massa che entra via terra, da nord). Qui abbiamo fatto proposte concrete, a cominciare da zone extraterritoriali sotto la giurisdizione Ue. Inutile dire che né ai buonisti né ai cattivisti sono minimamente interessate.

E gli altri disagiati? Chi? Scusate, ma perché dovremmo spendere soldi pubblici per i campi nomadi? Se sono nomadi, girano. Se stanno nei campi, non sono nomadi. Siccome li considero depositari di diritti e di doveri al pari di me, credo che vadano difesi da eventuali aggressioni e messi nella condizione di fermarsi temporaneamente, ma non in quella di fare i mantenuti, consentendo una delinquenza che è ripugnante pietismo di chi li considera essere inferiori, destinati a quel tipo di vita. Il razzismo dei buonisti non ha nulla da invidiare a quello dei cattivisti. Mentre gli attivisti della bontà, incapaci di denunciare il malaffare prima che si intervenga la procura, meritano un solo invito: è ora che anche voi andiate a lavorare. Scrive Boldrini: l’accoglienza genera posti di lavoro per gli italiani. No, genera spesa pubblica degenerante, produttiva di tasse e debiti. L’accoglienza è un business solo laddove non ha nulla di buono.

Ragioni e incubi tedeschi

Ragioni e incubi tedeschi

Davide Giacalone – Libero

C’è un problema tedesco, in Europa. Ma ci sono anche paesi con i conti e le politiche in disordine, che pensano di potersela cavare dando la colpa alla Germania. Ci sono cittadini europei che temono di essere fregati, ritrovandosi a pagare debiti contratti da altri. E ci sono loro concittadini che temono di finire sottomessi a una (altrui) logica di potenza nazionale. E’ normale che queste paure suscitino reazione elettorali colorite, per quanto inutili. Non è normale che molti politici e governanti sfuggano al misurarsi con questi problemi, preferendo strizzare l’occhio agli elettori presi dal panico. Per questo trovo molto interessanti le tesi esposte da Jeans Weidmann, presidente della banca centrale tedesca, la Bundesbank, in una intervista a Repubblica. Sono parole serie. Che vanno prese sul serio. Dico subito che le condivido nella quasi totalità, ma con un distinguo decisivo, su un punto fulcro del presente e del futuro europeo.

Riassumo, per punti, il pensiero di Weidmann, chiosando in parentesi. 1. Per recuperare competitività è del tutto inutile immaginare il ritorno a monete nazionali, puntando sulla loro svalutazione, perché i benefici da quella indotti sono passeggeri e instabili (giusto, senza contare i malefici e tenendo presente che la Banca centrale europea sta conducendo una politica di graduale deprezzamento dell’euro). 2. La strada saggia consiste nell’abbattere le barriere per l’accesso al lavoro (che significa meno garanzie) e nel favorire le privatizzazioni (quindi meno Stato nel mercato). 3. Il tasso d’inflazione deve salire, ma non c’è motivo di affrettarsi, secondo i calcoli Bundesbank crescerà, di poco, a fine 2016 (giusto che salga, ma la fretta c’è, perché in deflazione il peso dei debiti cresce, fino a soffocare). 4. E’ sbagliato paragonare l’Ue ad aree monetarie come gli Stati Uniti o il Giappone, perché quelle sono entità politiche unitarie, mentre noi siamo 18 stati con politiche indipendenti, debiti diversi e diversi rating (vero, ci torno subito). 5. Lo sviluppo demografico europeo, ovvero la contrazione delle nascite, suggerisce di non spostare nel futuro il peso del debito (giusto). 6. Quando i debiti sono alti non si deve reclamare spesa pubblica anticongiunturale basata sull’aumento del debito, perché questo aumenta il male anziché curarlo, semmai si deve modificare la struttura della spesa pubblica, indirizzandola allo sviluppo anziché al trasferimento (leggi spreco) di ricchezza (giusto).

E qui veniamo a due aspetti delicati. Due tasti politicamente decisivi. Il primo si ricollega al punto 4.: siccome l’Ue non è uno Stato unitario, o federale, delle due l’una: o ci muoviamo in quella direzione, cedendo ciascuno sovranità fiscale; oppure non c’è alternativa al rispetto dei vincoli previsti dai trattati. Ha ragione. Ed è questo il pericoloso errore commesso da alcuni governi europei, il nostro compreso: l’avere puntato sull’elasticità nell’interpretazione dei vincoli anziché nel porre subito il tema della cessione di sovranità. Con il risultato che non avendo ottenuto nulla sul primo aspetto si finisce con il perdere sovranità propria, perché troppo indebitati, senza accedere a una comune. I francesi hanno compiuto questa scelta (sbagliata) consapevolmente, perché soggiogati da quel che resta della perduta grandeur (ma fra quel che resta c’è l’arma atomica). Noi abbiamo perso l’occasione del semestre italiano, per nulla. C’è, però, una seconda faccia della medaglia: noi (con altri) eccediamo nel debito, ma posto che anche quello tedesco è oltre i parametri consentiti, e che è cresciuto più del nostro, il loro surplus commerciale è a sua volta una grave violazione. Se parametri devono essere che siano, ma per tutti. Quell’avanzo (enorme) è continua sottrazione e concentrazione di ricchezza. Intollerabile quanto la crescita del debito.

E se il debito crescente induce il timore che si voglia farlo pagare ad altri (senza dimenticare che abbiamo già pagato per aiutare le banche tedesche e francesi), il surplus permanente, unito al vantaggio di tassi d’interesse bassissimi, quando non negativi, induce la paura che qualcuno covi il ricorrente incubo della potenza nazionale, puntando anche all’indebolimento dei competitori, asfissiati dal credito e dal fisco. Una logica di dominio che ha già ripetutamente prodotto la sua sola possibile conseguenza: la rovina. Questo è il nodo decisivo. Entrambe i timori hanno fondamento. Entrambe devono essere fugati. Ma non uno prima dell’altro, perché ne deriverebbe uno squilibrio ingestibile. Per questo le parole di Weidmann sono importanti e largamente condivisibili. Per questo è insensato supporre di condurre un presunto scontro filo o anti-tedesco. Ma sempre per questo quel nodo va affrontato, nei suoi due aspetti. Chi provasse a fare il furbo sarebbe pazzo.

Matteo punta alle urne per non pagare i conti

Matteo punta alle urne per non pagare i conti

Davide Giacalone – Libero

L’accordo europeo s’è fatto. I conti non tornano e si dovranno rifare a marzo. Dentro l’accordo c’e un non detto assai pericoloso. Questa volta sì che la presidenza italiana ha lasciato il segno, conducendo l’Unione europea all’accordo del fare finta: io fingo che abbiano un senso i conti che presento, tu fai finta che abbia un senso rifarli fra tre mesi e tutti facciamo finta di non vedere che la voragine della crisi s’allarga. Ma che senso ha guadagnare tre o quattro mesi? Che ci si guadagna? L’Italia nulla. Chi la governa, però, spera nell’improbabile ripresa, o nel crollo dei conti europei, sì da nascondere i nostri nel caos, oppure, più realisticamente, nel far saltare prima il banco, sostituendo i conti economici con quelli elettorali. Lo andiamo ripetendo dall’estate scorsa, benché da Palazzo Chigi si giuri e spergiuri che si voterà a scadenza naturale. Se così fosse non avrebbe alcun senso quel che stanno facendo, compreso l’accordo a far finta.

L’ottimo Pier Carlo Padoan continua a stupirmi. Ogni giorno che passa mi domando chi glielo fa fare di affermare e firmare l’inverosimile. Ora sostiene: è vero che la Commissione europea prima e l’Eurogruppo poi hanno affermato che i conti italiani (e non solo) saranno rivisti a marzo e che dovremmo e dovremo fare di più, ma intendono dire che dobbiamo farlo nell’attuazione delle riforme già approvate, non certo preparare una manovra correttiva. Le riforme è una riforma, quella del lavoro, che è una legge quadro: qualsiasi cosa si faccia da qui a marzo non cambierà di un decimale i conti.

Certo, il governo può ben dire di avere chiuso l’accordo, cantando vittoria. Me ne compiaccio. Ma è un accordo scritto sulla sabbia in una giornata di vento. E se prima la comunicazione governativa continuava a ripetere che l’Italia mai e poi mai avrebbe sfondato il tetto del deficit, comodamente collocato al 3% del Pil, laddove dovrebbe essere significativamente più basso, ora si mormora e sussurra quel che l’aritmetica già gridava: potremmo superarlo. Oibò, che è successo? È in programma una politica di spesa pubblica anticiclica, per la gioia di tutti i magnaccioni, che siano stati terroristi neri, mezzani sinistri, o criminali della società civile? No, temo che la faccenda sia (ove possibile) più prosaica: sappiamo già che a marzo i conti non torneranno e allora si mettono le mani avanti, annunciando come possibilità quella che sarà neanche una necessità, ma la logica conseguenza di numeri messi a capocchia, supponendo crescite che non ci saranno.

Non supereremo il 3% per scelta politica, ma per prepotenza contabile. Questo temo. E come potrà giustificarlo, il governo Renzi? Basta aguzzare l’ orecchio, per capire l’antifona. Già si sente dire: 1’Europa non sia solo vincoli, ma sviluppo. Concetto profondo. Tanto che ci vuole un sommergibile per scorgerlo. Dagli abissi non tornerà certo a galla allargando il deficit, quindi poi il debito, mettendo soldi in tasca a italiani cui lo stesso Stato poi li toglie con la mano fiscale. Perché questo è tale spesa pubblica, incarnata dalle emergenze sociali e dagli 80 euro: un modo per distribuire quel che poi si ripiglia, salvo che a quelli più lesti, che lo portano via nel frattempo. L’antifona, però, è quella di dare la colpa all’Europa. Ah, se non ci fossero loro, a stringerci il cilicio!

Ma dove porta una simile impostazione? Porta al voto. Perché mica puoi tenere la minestra in caldo per anni. A fine marzo non succede nulla, ma entro primavera ci sarà chiesto di onorare le promesse. A quel punto che fa, Padoan, risponde loro che il 70% dei decreti attuativi del Job Act sono stati fatti? Ne prenderanno act e ci domanderanno se abbiamo problemi di comprendonio: i conti sono disallineati. Quindi, fra aprile e giugno, chi governa si deve mettere sulle spalle la loro correzione. O invoca la rivolta smutandata contro l’Europa. Altrimenti no, semplicemente fa osservare che siamo in campagna elettorale e che la democrazia va rispettata. Ci vediamo subito dopo. È vero che guadagnare ancora uno o due mesi non serve a nulla, ma vale solo per gli italiani, non per quel ristretto gruppo fra loro che andrà a popolare le due (leggasi due) aule parlamentari e a formare il nuovo governo. Poi si vedrà. Non brilla in lungimiranza, ma almeno ha un senso. Far finta che siano solidi conti già in fase di smontaggio neanche è lungimirante, ma è pure privo di senso.

Senza sorpresa

Senza sorpresa

Davide Giacalone

Più del declassamento spaventa l’incoscienza della reazione. Il giudizio è ingiusto, ma fondato. Il nostro debito non è meno sostenibile di quello spagnolo, ma la nostra politica è assai meno lucida di quella ispanica. Se si continua a credere, e a cercare di far credere, che il debito si accudisce con gli avanzi primari, imposti a un corpo economico in recessione, allora si calca il terreno dell’inverosimile. Se si crede che la ripresa passi dallo sforamento del deficit e dall’aumento della spesa pubblica, allora siamo in piena sindrome da alcolista, che per star meglio beve un bicchiere in più.
Noi lo scrivemmo quando i giornaloni e i politicanti si compiacevano per il passaggio dell’outlook, della previsione, da peggiore a stabile. Ma che festeggiate? Un Paese in recessione non sta meglio ove si preveda che resti in quella condizione. Se fosse vero quel che hanno detto dal governo, e che a pappagallo è stato ripetuto da molti, ovvero che Standard & Poor’s ha comunque valutato positivamente le riforme (una, quella del lavoro) governative, allora il declassamento si sarebbe dovuto accompagnare a una prospettiva di miglioramento: siete meno affidabili, ma state facendo il necessario per guadagnare posizioni. Invece è stabile: perdete affidabilità e fate tante chiacchiere, per crederci dovremo vedere qualche cosa di reale e tangibile.
Ci declassano ancora perché il debito cresce, la ricchezza prodotta no, mentre la macchina Stato, a cominciare dalla giustizia, è impantanata e impantanante. Quale sarebbe l’obiezione? Che alle altre riforme stiamo provvedendo? È ridicolo, se solo si pensa che per la giustizia una delle cose previste è l’aumento dei tempi della prescrizione, il che vuole dire curare i processi lenti non accorciandone i tempi, ma allungando quelli dell’inquisizione. Il mondo legge e deduce. Il che crea un danno in parte ingiusto, perché dal punto di vista patrimoniale il nostro è fra i debiti più affidabili. Ma sapete cosa significa? Che o si mette la patrimoniale sui cittadini e le imprese o la si mette sullo Stato. Al momento si fa solo la prima cosa, aggravando la recessione, mentre si consente la straultraschifezza di RaiWay, patrimonio pubblico venduto per finanziare spesa corrente. È gravissimo, ma nessuno reagisce. I governanti addirittura si felicitano. Il mondo vede e deduce. Senza dimenticare che le agenzie di rating, in un trionfo di conflitto d’interessi e con regole finanziarie che ne sopravvalutano i responsi, distorcendo il mercato, quelle agenzie saranno pure severe, ma sempre meno degli italiani intervistati dal Censis, visto che il 60% è convinto di diventare più povero. Appunto: più si diventa poveri e meno il debito si sostiene.
Non è tanto il declassamento, quindi, a preoccupare, quanto il modo in cui si reagisce. Con il fastidio di chi non vuole essere distratto dalle proprie beghe cortilane. Ma dopo quel declassamento, ennesimo, figlio di una serie storica così lunga da essere essa stessa significativa in sé, c’è una sola cosa che divide il vascello Italia dall’onda devastante della speculazione: la diga della Banca centrale europea. Quella che noi abbiamo fatto di tutto per indebolire, facendole mancare gli argomenti per crescere di altezza, quindi per offrire maggiore protezione. Siamo qui a sofisticare sulle parole di Mario Draghi, non volendo ammettere che si tratta della sola azione fruttuosa di marca europea. Con l’aggravante, che si aggiunge all’unicità, di essere condotta da una sede che, per sua natura, è priva di legittimità democratica. Fosse solo il declassamento, non si dovrebbe far altro che stringere i denti e andare avanti. Ma viste le reazioni si vien presi dalla voglia di morderne gli svagati protagonisti.
Legge magnaccia

Legge magnaccia

Davide Giacalone – Libero

Nello stato di diritto tutti siamo subordinati alla legge e nessun potere può essere esercitato con arbitrio. La legge può essere modificata, naturalmente, ma finché vige va rispettata. Nello stato storto, il nostro, la legge è irrilevante e solo i fessi vi sottostanno. Cambiare le leggi può essere divertente, ma inutile, perché si fa prima a interpretarle a proprio piacimento. Questa grottesca e inquietante storia romana, che riempie le cronache e svuota gli animi, ha due facce della medaglia, entrambe intitolate all’irrilevanza della legge: a. per concorrere agli appalti pubblici le aziende per bene producono montagne di carte, come la legge prevede, ma poi lavori e soldi possono essere affidati a cooperative di malfattori; b. una legge proibisce di ritrarre cittadini in manette, così che si è inventato il pallino bianco da mettere su fotografie e filmati, in compenso si può vedere in rete il cinema di persone arrestate con i mitra spianati sul muso. Questa è la medaglia di un Paese che non ha orrore di sé.

Quando provi a divenire fornitore della pubblica amministrazione devi presentare un numero impressionante di documenti, attestanti l’onestà tua e dei tuoi familiari, nonché progetti e/o programmi che spieghino come intendi utilizzare il denaro che riceverai. Che poi nemmeno lo ricevi, perché il verbo continua a essere coniugato al futuro. È capitato che gare per importi rilevantissimi, assegnate regolarmente, siano poi state invalidate perché si scopre che l’affidatario ha una cartella esattoriale non pagata, magari per importo ridicolo, magari avendo anche ragione e, comunque, neanche sapendolo al momento in cui presentò la documentazione. Tanta maniacalità burocratica ha tratti di follia, ma, almeno, speri che serva ad evitare che i soldi pubblici finiscano in mani sbagliate. Poi scopri che una cooperativa può ricevere soldi pubblici pur essendo comporta da assassini, terroristi e criminali di varia caratura. Che i soldi che prendono li spendono solo in parte minimale per il servizio, mentre il resto s’imbuca altrove. Che la grana arriva in anticipo ed aumenta a saldo. Che a Castel Romano ha 986 dipendenti per servire 1400 nomadi (che non sono nomadi, dato stanno lì), un addetto e mezzo a testa. Concorrendo con Buckingham Palace, salvo il fatto che domina il degrado (è un discorso diverso, ma quei 1400 potrebbero anche lavorare …). Insomma, scopri che le regole ferree cui devono attenersi gli onesti diventano lattee con i disonesti.

Già, si potrà obiettare, ma quella era proprio una cooperativa di ex detenuti, quindi è ovvio che sia composta da chi fu ospitato, con una qualche ragione, nelle patrie galere. Un momento: conosco il lavoro della solidarietà e lo sforzo per favorire il reinserimento di chi ha vissuto esperienze negative, ma non consiste mica nel ciucciare denari pubblici, bensì nell’imparare a fare qualche cosa e metterci serietà e impegno di cui non si è stati capaci nel passato. Altrimenti, anziché reinserire gli ex galeotti, varrebbe la pena andare tutti in galera, così ti danno appalti a botte di tre milioni. Inoltre: non ha senso che il riassorbimento della devianza sia praticato nell’assistenza alla devianza, perché non ci vuol molto a immaginare quali possono essere le conseguenze.

Né sembra avere un gran valore neanche il dettato costituzionale, ove si legge che si è innocenti fino a sentenza definitiva. Non faccio che ascoltare intercettazioni, oramai corredate da immagini, tratte da indagini neanche ancora completate. Poi arriva la ciliegina dell’arresto in armi. Tutti documenti utili per riunire il tribunale del popolo ed emettere sentenza al bar. Con il che, però, il diritto è morto. Leggo che uno degli intercettati avrebbe detto: “meno male che è finita bene, sennò chissà come andava a finire”. Ci vedo il reato di lesa lingua italiana, ma mi preoccupo per il giornalismo che sugge questo nettare e per il procuratore che glielo segnala. E il cielo non voglia che le risultanze processuali, fra qualche lustro (è in partenza il processo per il sangue infetto, risalente a ventuno anni fa), dimostrino che l’accusa d’associazione mafiosa era un tantino esagerata (intanto ci vedo il reato d’offesa alla cultura sicula), perché non vorrei dover pagare, con i soldi presi dalle mie tasse, un qualche risarcimento alla compagnia dei magnaccioni.