davide giacalone

Acqua cara

Acqua cara

Davide Giacalone – Libero

Nessuno ha voglia di dire agli italiani che se a Torino devono pagare l’acqua che non hanno consumato, se si devono preparare a due anni di aumenti del 10% delle tariffe, ciò ha anche a che vedere con il referendum sull’acqua del 2011. Allora stravinse l’idea che dovesse restarne pubblica la gestione. Questo è il risultato. Allora si fece una grande campagna contro la vendita dell’acqua ai privati, cosa che, naturalmente, era fuori dal mondo. Nessuno ha mai supposto di privatizzarla, ma di privatizzarne la gestione. A sostenere la gestione privata rimanemmo in pochini, mentre l’onda del luogocomunismo spaventò gli stessi, Partito democratico in testa, che pure avevano positivamente operato in quel senso. Il centrodestra si squagliò, com’è suo costume quando si tratta di reclamare il voto su delle cose e delle idee, anziché su sigle e nomi. Così prese corpo l’insanabile contraddizione: da una parte sembra che tutti detestino le gestioni e le nomine politiche, dall’altra si volle che l’acqua restasse nelle mani della politica e dei nominati.

Le società variamente pubbliche che gestiscono l’acqua sono 1.600. Uno sproposito. Si dovrebbe chiuderle quasi tutte. Di queste 350 hanno ottenuto l’aumento delle tariffe: +3,9% nel 2014 e + 4,8 nel 2015. Così l’inflazione non la crea la crescita della ricchezza, ma la sua decrescita a favore delle tariffe amministrate. Le 350 che faranno crescere la bolletta, con un maggiore esborso medio di 130 euro annui a famiglia, sono le più grosse, quindi quelle che servono il maggior numero di clienti. La domanda è: le altre 1.250 società hanno rinunciato all’aumento? No, è che non hanno neanche presentato i dati minimi di bilancio. Non si sa quanto investono, quindi non si può disporre l’aumento delle tariffe. 1.250 società, variamente pubbliche, non hanno compiuto adempimenti elementari che, se si trattasse di privati, in ogni altro settore, provocherebbero l’arrivo della Finanza.

Torniamo alle 350: perché chiedono un aumento? Perché dicono di dovere fare investimenti nella rete. Dicono, cioè, esattamente quel che scrissi all’epoca del referendum: mentre l’impresa privata, che giustamente mira al profitto, fa investimenti per aumentare la redditività della rete, quella pubblica i soldi degli investimenti li chiederà ai cittadini. Mentre nel concedere a privati la gestione della rete di distribuzione si deve stabilire, in partenza, quali saranno gli investimenti che sono tenuti a fare e quale sarà il quadro tariffario in cui dovranno muoversi, quando si passa alle società pubbliche la musica cambia, perché sono amministrate dai compagnucci degli amministratori politici, quindi se hanno bisogno di soldi chiedono che siano presi dalle tasche dei clienti. Se, come è successo a Torino, i clienti si mettono a risparmiare, consumando meno acqua, scatta l’applicazione del minimo, sicché pagheranno anche quella che non scialacquarono.

All’Autorità per l’energia, il gas e l’acqua dicono: era necessario aumentare le tariffe, perché sono decenni che non s’investe nelle reti. Ma perché questo non lo si disse agli elettori, nel 2011? Era chiaro che così sarebbe andata a finire. Tanto chiaro che lo scrivemmo. Tutta questa gnagnera dei “beni comuni” e delle cose che devono restare in mano al pubblico, quindi alla politica e ai partiti, perché così si evita 1’avidità dei privati, serve solo a far da alibi all’insaziabile bisogno della macchina pubblica di ciucciar via quattrini dalle tasche dei cittadini. Che, in questo caso, sebbene raggirati, se la sono anche cercata. Non potendo tornare indietro (non prima del 2016) almeno si proceda al disboscamento delle società e alla stipula di convenzioni che obblighino agli investimenti, pena la perseguibilità degli amministratori. Sarebbe già qualche cosa.

Orgoglio&Pregiudizio

Orgoglio&Pregiudizio

Davide Giacalone – Libero

Dal ministero dell’Economia hanno fatto benissimo a non lasciar correre, usando anche Twitter per ricordare quali sono i punti di forza dell’Italia. Siccome, però, sono le cose che qui scriviamo da anni, senza (noi) cambiare opinione a seconda del colore dei governi, conosciamo anche il retro di ciascuna medaglia. Dal Ministero hanno lanciato l’hashtag #prideandprejudice. Vediamone i sei punti.

1. L’avanzo primario italiano, dicono dal governo, è fra i più alti e stabili del mondo. Nel 2013 secondo solo a quello della Germania. Se è per questo, aggiungo, è il più alto al mondo, se si considera il cumulo degli ultimi ventuno anni; c’è sempre stato, a eccezione di un leggero scivolare nel 2009; e, se calcolato su ba-se annua, abbiamo fatto numeri che la Francia non s’è mai sognata. Non c’è dubbio: possiamo dar lezioni globali, in quanto a rigore finanziario produttivo di avanzi primari. Però: mentre accumulavamo avanzi primari il debito pubblico cresceva, talché il bilancio statale si chiudeva regolarmente in deficit. Il deficit di oggi è il debito di domani, così siamo i campioni mondiali di avanzi di dissennatezza. Non è un caso, del resto, che nel corso della seconda Repubblica i governi, costantemente alternandosi fra destra e sinistra, si siano vantati e vicendevolmente rimproverati di tutto, ma non gli avanzi primari. Sarebbe stato imbarazzante dover dire che fine facevano: gettati nella fornace del costo del debito crescente.

2. Abbiamo tenuto il rapporto deficit/pil entro il 3%, così chiudendo la procedura d’infrazione che subivamo. Siamo fra i pochi a rispettare quel parametro. Verissimo. E ci costa dolore. Ma tale nostra virtù la dobbiamo agli avanzi primari di cui sopra, quindi ai soldi che i cittadini versano per pagare il costo del debito. E la nostra tenuta del deficit la scontiamo con l’essere gli unici europei ancora in recessione. Altri hanno potuto comportarsi diversamente, perché all’appuntamento con la crisi dei debiti sovrani non sono arrivati con un debito pubblico smisurato.

3. Negli anni della crisi il nostro debito pubblico è cresciuto meno di quello di altri europei (e non), sia in assoluto che in rapporto al pil. Vero, siamo stati i soli, fra i grandi, a far funzionare il freno a mano. Ma l’altra faccia della medaglia è drammatica: il nostro debito è cresciuto perché spinto dal suo stesso costo, mentre il debito di tutti gli altri (tranne la Svezia, la sola ad aver fatto meglio di noi) è cresciuto per spese anticicliche. Il nostro debito cresce da solo, annientando la politica. Il debito tedesco o francese cresce per scelta politica. Non è una differenza da poco.

4. Il nostro debito pubblico è fra i più sostenibili, mentre il rischio connesso, sia nel breve che nel lungo periodo, è inferiore alla media europea. Non solo è vero, ma aggiungerei un dettaglio: noi e i tedeschi, dal punto di vista statale, siamo coetanei, solo che noi i nostri debiti li abbiamo sempre pagati, mentre loro, per due volte, li lasciarono insoluti. Quelli affidabili siamo noi. La sostenibilità, però, è anche il frutto di un patrimonio privato enorme e di un indebitamento privato minuscolo (rispetto agli altri), cui si aggiunge l’accondiscendenza a farsi tassare per pagare il costo del debito. Peccato che questo sia 1’inferno del socialismo fiscale. Se il debito non lo si abbatte, e se non si vuol perdere l’affidabilità, si corre verso la patrimoniale (ulteriore, perché già ne paghiamo diverse). Quindi: piano con l’orgoglio e in alto il pregiudizio, perché quello è il modo per autoevirarsi.

5. Siamo terzi per contributi versati ai paesi europei in crisi. E così. Ma questo è un punto molto delicato: perché fummo costretti a versare soldi che, aiutando i greci, servirono a salvare le banche tedesche e francesi che se ne erano rimpinzate? Siamo terzi per la semplice ragione che si paga in percentuale sul pil, e il nostro è il terzo pil. Perché, dovendosi salvare le banche, non si è pagato in rapporto all’esposizione delle proprie? Ci sarebbe costato meno e avremmo fatto rimarcare che le nostre sono state meno ciniche e incapaci di quelle altrui. Forse questo punto avrebbero fatto meglio a non metterlo, perché dietro c’è una storia ancora non raccontata. O forse non lo sanno. O forse pensano che gli altri siano tutti analfabeti fessi.

6. Infine: le nostre banche hanno ricevuto aiuti statali infinitamente inferiori a quelli che si sono visti altrove. Germania, Regno Unito e Francia in testa. Vero, ma va aggiunto quanto appena detto: abbiamo aiutato più le banche altrui che le nostre. Però, quando si sono fatti i test sulle banche le nostre si sono rivelate fra le meno capitalizzate. Ed è vero che le abbiamo aiutate poco, ma pure che fanno sempre meno le banche e sempre più le casse di riscossione. Il sistema delle fondazioni bancarie è al capolinea, mentre in Germania Stato e Lander sono soci delle banche.

Per i nostri lettori sono cose non nuove. Direi vecchie. Il fatto è che se i punti di forza non sei capace di farli valere, anche sfruttando le debolezze altrui (che ci sono, eccome), mentre quelli di debolezza te li fai rinfacciare notte e dì, con il di più delle polemiche interne, va a finire che di pregiudizi ne subisci tanti e con l’orgoglio ci fai poco.

Eppur si muove

Eppur si muove

Davide Giacalone – Libero

Mentre affondiamo nel nostro ombelico il corpaccione europeo si muove. In Germania si agitano forze che hanno compreso il pericolo che corriamo, e financo il guardiano del rigore, il ministro delle finanze Wolfgang Schäuble, rende nota la necessità di cambiare. E di farlo in fretta. Tutto questo avviene mentre è ancora in corso il semestre italiano di presidenza Ue, ma senza che in nulla pesi e si adoperi. Noi siamo impegnati a strillare perché Landini ha detto una scemenza, o a essere compenetrati della visita privata che il presidente della Repubblica ha reso al pontefice. Tutta roba che lascia il tempo che trova.

Il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, torna a dire che la ripresa non si vede, o la si studia al microscopio. Inutile sperare nella marea, insomma. Ma aggiunge che la Bce intende intervenire subito per sostenere l’economia e l’inflazione, avendo già ottenuto la drastica riduzione degli spread e il graduale deprezzamento dell’euro. Sono pronti anche a incrementare l’acquisto di titoli. Fin qui un film già conosciuto. La novità consiste nel fatto che Schäuble non scomunica l’operazione, ma fa sapere che è necessario avere al più presto una politica fiscale comune, non potendosi a lungo difendere l’euro nelle condizioni date. Va oltre, chiedendo la modifica dei trattati. È la stessa cosa che reclamiamo da anni, restando, naturalmente, da vedersi il quale direzione. Fino a oggi era stata esclusa, ora la partita si apre. Un passaggio cruciale e promettente. A patto di occuparsene.

I quattro grandi paesi europei sono su posizioni diverse. La Francia è preoccupata perché la nuova cessione di sovranità, a favore dell’Ue, contrasta con i propri fantasmi di grandezza e nazionalismo. La Germania nega che trasferimenti di ricchezza possano essere consentiti senza che ci siano anche travasi di sovranità. La Spagna afferma di avere pagato la crisi, sicché non intende accettare che altri abbiano sconti. Mentre l’Italia si perde in chiacchiere inutili sull’elasticità e nelle beghe interne, facendo finta di non vedere che i numeri della propria legge di stabilità sono campati per aria. Mentre i voti verso la protesta per la protesta crescono, i francesi sono impauriti dalla forma, i tedeschi dai quattrini, gli spagnoli dalle fregature e gli italiani da sé medesimi.

Potremmo avere un ruolo decisivo se solo ci muovessimo per dimostrare d’essere consapevoli che le previsioni di crescita sono campate per aria, che le riforme interne del mercato sono urgentissime e non possono perdersi nella gnagnera dell’articolo 18, che così come si profila non cambia nulla, che la necessità di abbattere il debito non può essere posposta all’alimentazione della spesa corrente (si veda il ragionamento qui svolto a proposito della scandalosa quotazione di Rai Way). Se così agissimo, indirizzandoci verso una cessione di sovranità che non ci costa, perché già compromessa, ma legata alla creazione di debito europeo destinato agli investimenti, se così agissimo faremmo vedere alla Francia il pericolo dell’isolamento, alla Germania quello dell’immobilismo e alla Spagna dimostreremmo che i sacrifici riguardano tutti e rendono. Sarebbe un nuovo e promettente inizio.

Gli eurobond, di cui parlammo fin dall’inizio di questa terribile crisi, sono più vicini di quanto si creda e percepisca, ma per agguantarli si deve cambiare la regola e la condotta della convivenza. Noi siamo nella condizione per poterlo dire e promuovere. Il che comporta, però, la fine dell’insulsa stagione delle promesse e delle prebende. Tanto vigore polemico va indirizzato non alla rissosità, ma alla cancellazione delle false sicurezze. Impressiona, invece, che mentre la consapevolezza si fa strada laddove più forti erano le resistenze e le paure qui si supponga di continuare a pestarsi gli attributi nel mortaio. E se il mondo politico mette in scena tutta la propria piccineria, figura non migliore fa la classe dirigente nel suo complesso. Ammesso che esista ancora.

Mignatte

Mignatte

Davide Giacalone – Libero

Aboliamo gli scontrini, puntiamo sulla tracciabilità usando i pagamenti elettronici, e l’Agenzia delle entrate non sarà più vissuta come un avvoltoio. Parole di Matteo Renzi. Già, peccato che è proprio lo Stato a non accettare i pagamenti elettronici. Peccato che anziché spiegarlo ai cittadini il capo del governo dovrebbe spiegarlo alla pubblica amministrazione. E peccato che anche questo rischia di essere un modo per ciucciare via soldi dalle tasche dei privati. Non saprei dire degli avvoltoi, ma la sensazione delle mignatte è forte.

Partiamo dall’osservazione del mercato europeo: i pagamenti in contante sono regolati in modo diverso e il nostro è il solo Paese in cui è considerato illecito pagare in moneta mille euro. In Germania non ci sono limiti all’uso del contante. Il fatto che sia anche l’economia che va meglio non necessariamente suggerisce un rapporto di causa-effetto, ma lascia che sia fondato il sospetto. Me ne sono occupato altre volte e non ci torno, ma giusto per premettere che oltre a perdermi il bello del paradiso fiscale mi scoccia subire il peggio dell’inferno monetario.

Posto ciò, non c’è dubbio: se tutti i pagamenti fossero elettronici e tracciati non ci sarebbero margini per l’evasione fiscale. Che bello. Ma fino a un certo punto, perché ci sono pagamenti di cui legittimamente non intendo lasciare traccia. Ma facciamo finta che sia superabile il problema della privacy. C’è un dettaglio, che forse al presidente del Consiglio sfugge: nel mentre si costringono tutti i privati a dotarsi del pos, ovvero del terminale per incassare pagamenti da carte di credito, di debito e prepagate, lo Stato non li accetta. Ieri sono stato all’ufficio postale, per pagare una cartella Equitalia, e non hanno accettato la mia carta di credito. Che si fa? Direi che si costringono le Poste, che sono una società dello Stato, ad accettare anche quel circuito (legittimo, pubblicizzato, serio e globale). Finché le Poste si permetteranno di non accettare la carta di credito, essendo le Poste dello Stato, il loro proprietario non ha la legittimità morale per imporre ad altri alcunché.

Ma non è finita. Se un negoziante mi chiede di pagare un obolo in più, una volta visto che intendo pagare con la carta di credito, egli commette un illecito passibile di denuncia. Ed è giusto che sia così. Salvo il fatto che è esattamente quanto succede con Equitalia, dato che se vuoi pagare on line con la carta di credito ti chiede un euro in più. Equitalia, per chi si fosse distratto, è dello Stato. Allora: perché un negoziante deve accettare di subire il costo della transazione e lo Stato no? Direi che, anche qui, manca la legittimità morale per far lezioncine su come sarebbe giusto, bello e sano pagare.

Ancora non ho finito. Provate a pagare sigarette, sigari o tabacco con la carte di credito. Nella quasi totalità dei casi vi diranno che non è possibile. Ma non è che i tabaccai siano perfidi o accidiosi, è che il margine a loro riconosciuto è così basso che, a seconda dei diversi circuiti delle carte di credito, sono praticamente equivalenti e in qualche caso inferiori al costo della transazione. Meglio non dimenticare, anche in questo caso, che i tabaccai sono sì dei privati (micro)imprenditori, ma concessionari dello Stato, che vendono (tra le altre cose) prodotti di cui lo Stato ha il monopolio. E’ lo Stato a dettare le condizioni che rendono inutilizzabile la carta di credito.

Conosco già la risposta a questi rilievi: usa il Bancomat. No, scusate: uso quello che mi pare. Se si vogliono promuovere i pagamenti elettronici non si può farlo né a spese dei cittadini né stabilendo per decreto signorile a quale circuito devo portare i miei quattrini. Se la carta di credito è lecita chi opera per conto dello Stato deve avere l’obbligo di accettarla. In caso contrario, almeno, la si smetta di dire cose senza senso e prive della benché minima esperienza di vita vissuta.

Vendere, non dilapidare

Vendere, non dilapidare

Davide Giacalone – Libero

I nostri cattivi sospetti hanno trovato conferma. Ma c’è di peggio, perché il presidente del Consiglio ritiene che sia esemplare quella che, invece, a me sembra una pessima pratica. Il sospetto era che si quotasse RaiWay allo scopo di far cassa e alimentare la spesa corrente. Siamo stati i soli ad avvertire che questo era il pericolo. La macchina non si è fermata e si sono chiamati investitori esteri facendo passare per un gran successo di mercato quel che è un trasferimento di ricchezza dalle casse della Rai a quelle dei fondi acquirenti. Il cliente di Rai Way, infatti, è il proprietario. E ora sentite cosa dice il direttore generale della Rai, Luigi Gubitosi: «Dei 240-280 milioni di euro che entrano in cassa, 150 ci consentono di compensare il prelievo deciso dal governo». Esattamente quel che non sarebbe dovuto succedere: usano la vendita di patrimonio per alimentare la spesa corrente. Due terzi dell’incasso se ne vanno per finanziare un solo anno, mentre il patrimonio se ne va per sempre. Il rimanente terzo è destinato, bontà loro, a investimenti. Ma sapete in che consistono? La bonifica degli uffici di Viale Mazzini. E questo sarebbe un investimento?

Dice Matteo Renzi: «Avercene privatizzazioni come Rai Way. Era stata stimata per 150 milioni e ne abbiamo incassati 250. E c’è qualcuno che protesta pure». Esatto, protesto. Intanto perché il governo non incassa un solo centesimo, visto che i soldi finiscono nella fornace Rai. Poi perché se si procede a quel modo l’Italia si troverà sempre meno dotata di patrimonio e sempre più indebitata. Ricetta assassina. Dopo di che non basterebbe certo uscire (essere cacciati) dall’euro, si dovrebbe uscire dalla ragioneria e dal pianeta. Fatta la schifezza di questa quotazione c’è solo una cosa che possa aggravarla: considerarla esemplare.

Il 2015 vedrà sul piatto la vendita di quote Eni ed Enel, oltre che la corsa perla quotazione di Ferrovie e Poste. Il problema non è solo stabilire cosa si vende e quando, decisioni da prendersi puntando al migliore incasso, ma anche fissare inderogabilmente la destinazione dei proventi. Che devono andare al Fondo ammortamento del debito pubblico, istituito nel 1993 per ritirare dal mercato quote del nostro debito, e agli investimenti veri, che non consistono nel rifare gli uffici della dirigenza ma neanche nel finanziare la spesa sociale bensì nel mettere benzina nel motore dei lavori pubblici. Più alla prima che alla seconda destinazione, comunque non alla spesa corrente.

Tutta la gnagnera della riforma elettorale e dei grandi cambiamenti nella legislazione del lavoro s’annuncia tale da lasciare le cose in grande parte come stanno. Palestre d’eloquio per politici verbosi e sbandieratori inconcludenti. Mentre le vendite sul modello Rai Way sono operazioni che vanno in ogni modo impedite. E guardate cosa tocca scrivere a chi si batte per le privatizzazioni e la dismissione di patrimonio pubblico. Il fatto è che una cosa sono le vendite e le dismissioni, tutt’altra le dissennatezze e gli sprechi, destinati a far quadrare bilanci che restano compromessi dai debiti. L’anello della nonna si vende una sola volta, quella successiva ci si vende la casa e al terzo giro si va sotto ai ponti, se i soldi precedentemente incassati li si spende per comprare la moto cromata e pagare il prezzo di una vita d’inutili vizi e smisurata incoscienza.

Diritto abusato

Diritto abusato

Davide Giacalone – Libero

Dannato il Paese in cui si discute sempre delle stesse cose, commettendo sempre gli stessi errori e non venendone mai a capo. Nell’aprile del 2012 fummo solitari, nel denunciare i pericoli legati all’esercizio della delega fiscale e alla codificazione dell’abuso di diritto. Fino a quel punto il bislacco principio aveva una base esclusivamente giurisprudenziale, senza che vi fosse una legge che prevedesse il cittadino possa essere punito per avere applicato una legge. Non fatelo, urlammo. Inutilmente. Anzi, fecero finta che fosse una gran concessione: l’abuso di diritto non sarà un reato e non sarà contestato in sede penale.

Sono passati due anni, il governo s’accinge a dare esecuzione alla delega fiscale e leggo nelle anticipazioni che l’abuso di diritto non sarà più un reato, ma potrà dare luogo ad ammende e penalizzazioni fiscali. Ma non era già escluso, che fosse un reato? Neanche per idea, perché reato era ed è l’omessa dichiarazione dei redditi, e se tu (o una società) non l’hai presentata perché una legge ti consentiva di non farlo (come nel caso di Dolce Si Gabbana), per la via del supposto abuso di diritto s’arriva dritto al processo penale. Come prevedemmo allora. Un abominio. Nel 2013 intervenne la Cassazione, specificando che quando si contesta a un cittadino l’abuso di diritto si deve almeno avere il buon cuore di specificare quale legge gli si contesta di avere applicato e quale no. Perché, fino a quel punto, manco questo ti dicevano.

Ora, attendiamo di leggere il testo, dato che già allora escludevano quel che non si sono dimostrati capaci d’impedire. Osservo, però, che il concetto stesso di abuso di diritto dovrebbe suggerire un abuso dello Stato, che in quel modo viola i diritti forzando il diritto. Una legge c’è o non c’è: nel primo caso nessuno può contestarmi alcunché, se la seguo; nel secondo nessuno può disturbarmi chiedendomi di fare quel che non sono obbligato a fare. Del diritto può abusare lo Stato, non un individuo. Invece si è stabilito che sia condannato quale abuso di diritto l’uso distorto di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio d’imposta, e ciò anche nel caso in cui tale condotta sia non in contrasto con alcuna specifica disposizione. Quindi, per non affogare nel sempre uguale, per non pestare l’acqua nel mortaio e l’anima ai cittadini, tornando a riscrivere quelle norme, c’è una sola cosa che possa essere seriamente e decentemente fatta: cancellare il concetto di abuso di diritto, lasciando il principio della buona fede.

Cooperative e società municipalizzate, così funziona la macchina dei voti

Cooperative e società municipalizzate, così funziona la macchina dei voti

Davide Giacalone – Libero

Per sapere che è in corso una campagna elettorale, in Emilia Romagna, devi comprare i giornali. Leggendoli scopri che si parla di tutto, a partire dai riflessi nazionali del voto, ma non di Emilia Romagna. Se giri per le strade non trovi traccia di politica. E sì che questa è la sanguigna terra di Brescello, di Peppone e Don Camillo. Che fine hanno fatto? Non credete a quelli che vi dicono esserci disinteresse e qualunquismo, è che sia la politica che i cittadini sono stati espulsi dalla competizione, ridotta ad affarismo e parolismo.

Se stessimo parlando di cose serie, proponendo agli elettori qualche cosa che abbia a che vedere con il futuro, i vibratori troverebbero posto solo nelle battute marginali. Invece sono lì (giacché fra le spese rimborsate ai consiglieri regionali, in questo caso Pd, a dimostrazione che oltre a fessi sono anche miserabili), ad eccitare solitari i dibattiti. Che manco si fanno. Già, perché non solo sono vuote le piazze, non solo mancano i manifesti, risultando in gran parte vuoti anche i tradizionali tabelloni, ma neanche le televisioni locali si mostrano interessate. Robetta. Normale amministrazione.

Occhio: non succede a caso. Questo effetto-sonno è voluto. Se stessimo parlando di cose serie, infatti, parleremmo delle 500 società partecipate dalla Regione, assieme a un nugolo di enti locali. Matteo Renzi disse che le 8000 municipalizzate sarebbero dovute diventare 1000. Sarebbero ancora troppe, ma, comunque, perché il Pd, in Emilia Romagna, non propone di ridurle a 62 (500 diviso 8)? Perché quelle sono rimaste l’unica ragione per votare Pd. Il tessuto del consenso s’è stracciato, come dimostra il deserto elettorale, rimane solo quello della cointeressenza. Finché regge, vincono. Un esempio? Davanti alla stazione di Fidenza si sarebbero dovute realizzare due torri, per appartamenti. Una l’hanno abbandonata, l’altra è finita, ma semi deserta. Operazione a cura del sistema cooperative, in questo caso Unieco. Operazione fallimentare e fallita. Qual è l’unico appiglio di salvataggio? Il fatto che nella torre prendano uffici il Comune, le altre cooperative, il sindacato. Soldi buttati per salvare compagni falliti. Ci hanno fatto anche un parcheggio per le biciclette, costato un milione di euro (cosa denunciata da Francesca Gamharini). Una rivisitazione neorealista, affinché i ladri non si concentrino sulle biciclette. Questo mostro da socialismo insaccato produce appalti, posti, prebende, cointeressenze. Fa da collante a ciò che s’è sfasciato. Ma impoverisce tutti. Prendete le Terme di Salsomaggiore: già solo il palazzo merita il viaggio ed è attrazione turistica, ma, gestite dagli enti locali, falliscono anche quelle. Hanno fatto vasche per ospitare meno di dieci persone. Lo hanno scambiato per il bagno di casa loro.

Dice Matteo Richetti, esponente del Pd e sfidante affondato prima delle primarie: la gente non sa perché andare a votare. Correggo: lo sanno solo quelli che ci andranno, i meno, i cointeressati. A destra ci si interessa del possibile sorpasso di Forza Italia, a opera della Lega. Ma, scusate, è già avvenuto. Guarderemo dentro le urne, ma se in una Regione così combinata chi dovrebbe rappresentare l’alternativa non ha da proporre un modello diverso, se non martella notte e dì per lo smantellamento di quelle 500 pepite di clientelismo e inciucismo, ha già perso. Anzi: s’è perso. La Lega agita problemi veri usando parole non sempre risolutive. Farà la strada che merita. Sono gli altri ad essere andati fuori strada. Il che, però, lascia orfano l’elettorato ragionevolmente convinto che il presente si debba cambiarlo senza perdere il senso del tempo e dei tempi. Restano orfani i risparmiatori che hanno messo da parte quel che serve a vivere con sicurezza e non intendono esporlo alle avventure monetarie dei propagandisti. Di vecchio e nuovo conio.

Andranno a votare in pochi perché gli altri non sono desiderati, prima ancora che interessati. Perché se andassero avotare in tanti si dovrebbero per forza fare i conti con la realtà. Mentre i militi del voto assicurano a forze spompate e idee approssimate di potere vivere ancora un poco nella realtà surreale di una politica che discuterà di percentuali, quando l’unico numero che conterà sarà quello assoluto. Dei votanti e dei voti. E perderanno tutti.