davide giacalone

Mammellone fiscale

Mammellone fiscale

Davide Giacalone – Libero

Chiamare gli italiani con i redditi più alti a contribuire straordinariamente, per abbattere parte del debito pubblico, ma farlo senza che questa sia una patrimoniale, bensì volontariamente. Dato che la volontà va incentivata, aggiunge Paolo Cirino Pomicino, ideatore della proposta, a chi vorrà versare si garantiscano quattro anni senza accertamenti fiscali, sempre che il loro reddito cresca dell’1,5% ogni anno. Mi convince. Non mi piace. Integro.

Il ragionamento è convincente perché (come qui si è cento volte ripetuto, facendo riferimento alla dismissione di patrimonio pubblico) far scendere d’un colpo, significativamente, il debito pubblico ne diminuisce l’enorme costo in interessi. Quindi non solo libera dal debito (in parte), ma libera risorse altrimenti impiegabili. Convincente. Non mi piace, però, il riferimento esclusivo alla sospensione dei controlli fiscali, per la semplice ragione che, automaticamente, escluderebbe me, e molti altri, da quanti potrebbero contribuire. Mi rifiuto, infatti, di sborsare un solo centesimo per prendermi pure il certificato di evasore fiscale. Avendo pagato sempre tutto, quindi già troppo.

Propongo un doppio binario: su uno viaggia il convoglio Pomicino; sull’altro si offra un patto al contribuente che se lo può permettere: tu anticipi, per due anni, una parte del gettito fiscale e lo Stato, in cambio, ti fa uno sconto più che proporzionale sull’aliquota che dovrai pagare, nei due anni successivi. È un patto virtuoso, perché da entrambe le parti si scommette sulla crescita: lo Stato risparmiando sugli oneri del debito, il contribuente contando che la ripresa porti con sé un aumento del reddito, quindi un buon affare fiscale. Ci si guadagna tutti.

La domanda cruciale, però, è: cosa si fa con i soldi risparmiati abbattendo il debito? Questa è la vera questione politica. Credo si debbano fare due cose: a. diminuire la pressione fiscale; b. innescare investimenti pubblici infrastrutturali. Paolo Cirino Pomicino dice che gli son cadute le braccia quando ha letto, nella legge di stabilità, che ci si accontenta di previsioni minimali circa la crescita del prodotto interno lordo. Non so cosa possa cadergli, a consuntivo. A me erano cadute prima, con gli 80 euro. Poi replicati. Mi son cadute perché l’idea che gli italiani siano poppanti e che il problema sia la quantità di latte erogabile, tramite il mammellone statale, non è solo sbagliata: è letale. Questa roba è un incrocio, bastardo, fra il keynesismo senza Keynes e il liberismo senza mercato. Fra la convinzione che il mercato possa riprendere velocità solo grazie alla spesa pubblica e il diffidare degli investimenti pubblici, supponendo migliori i consumi decisi dai privati. In questo modo, temo, si fa crescere il debito senza spingere la ricchezza. In altre parole, è un gesto che arricchisce elettoralmente e impoverisce economicamente.

Tale mutazione genetica, tale illegittima filiazione del fanfanismo e del reaganismo, entrambe presunti, è confermata dal fatto che a occuparsi dei grandi investimenti pubblici hanno messo un magistrato. Li guardano con sospetto, se non con un certo schifo. Non che i sospetti non siano fondati, ma se continuo a mettere gli spiccioli in tasca alle persone, senza corrispettivo di produttività, quelli li utilizzeranno in tre modi: a. pagare gli aumenti delle bollette; b. risparmiare il possibile, non fidandosi; c. comprare merce a basso costo, magari prodotta, importata e venduta illegalmente. Nulla che spinga la ricchezza. Gli investimenti pubblici, quindi, sono il giusto contrappeso degli sgravi fiscali e dei tagli alla spesa improduttiva. Resi possibili dall’abbattimento del debito. Altrimenti il solo “ismo” che prende corpo è il laurismo. A quel punto entrambe i binari, quello di Cirino Pomicino e il mio, sono da considerarsi morti. Nel senso che i soldi, chi li ha e può, li porta velocemente via.

I ragazzi del ’99

I ragazzi del ’99

Davide Giacalone – Libero

Più morti che nati. La natalità è fiacca in tutta Italia, ma al Sud, nel 2013, sono nati solo 177mila bambini. Meno dei morti. Poco di più degli emigrati: 116mila. Questi dati, pubblicati da Svimez, si accompagnano a quelli dell’economia: sette anni consecutivi di recessione e un 2014 che si chiuderà con un -0,4% del prodotto interno lordo italiano, ma con un -1,5 al Sud. Previsione per il 2015: ottavo anno di recessione, con un -0,7. Se fosse azzeccata, metterebbe in serio dubbio la crescita nazionale dello 0,6%, su cui si regge la legge di stabilità e l’equilibrio dei conti pubblici. Dunque: i numeri dell’economia spiegano la denatalità, la denatalità propizia l’andamento peggiore dell’economia. Meno occupazione genera meno ricchezza, meno ricchezza induce meno consumi, meno consumi giustificano meno investimenti, meno investimenti contraggono l’occupazione. Un cappio che si stringe. Per un giorno, però, lascio l’osservazione dei fatti dal punto di vista economico. Per un giorno provo a leggerli con occhi diversi. Quelli dei ragazzi del ’99.

I ragazzi nati nel 1999 sono i nostri figli e nipoti. Hanno oggi quindici anni. Frequentano una scuola poco selettiva e si preparano a una università poco professionalizzante. Di loro si dice che sono stati derubati del futuro, che dovranno pagare i debiti di quegli sconsiderati che li hanno preceduti, che non potranno avere le sicurezze e le guarentigie dei loro genitori: non avranno il posto fisso, la pensione, l’assistenza sanitaria pronta a spendere anche per i sani. E’ vero. Solo che ci sono anche altri ragazzi del ’99. Alcuni li incontrammo e abbiamo il dovere di conoscere la loro storia. Sono i ragazzi nati nel 1899: un secolo fa vivevano in un’Italia che si apprestava a chiamarli alla guerra. Allora la leva militare era fissata a 21 anni, ma nel 1917 furono chiamati loro, i ragazzi del ’99, appena diciottenni e non maggiorenni, lanciati a sostituire i morti e i feriti nelle sanguinose trincee della prima guerra mondiale. I nostri ragazzi del ’99 hanno in mano terminali digitali che li connettono al mondo, non manca loro l’essenziale ed hanno anche tanto del superfluo, possono viaggiare. Quei ragazzi del ’99 consideravano un successo il consumare almeno un pasto al giorno, erano ignari del mondo, il treno che presero li portò al fronte. Ci dice Svimez che solo nel 1867 e nel 1918 i morti superarono così significativamente i nati. Ma erano morti in guerra (la terza d’indipendenza e la prima mondiale) e i giovani uomini erano da tempo lontani dal “mercato” della natalità.

Fu allora, con la grande guerra, che le donne entrarono massicciamente nel mondo del lavoro. Per sostituire gli uomini che ne erano lontani, o che erano morti. Oggi, al Sud, lavora una percentuale di donne minore di allora. E questo materializza il più grande dei paradossi: si sostiene che la maternità non è accessibile perché non è garantita, nel senso che non è finanziata dal datore di lavoro o dallo stato sociale, ma, a rigor di logica, meno le donne lavorano e più alta dovrebbe essere la propensione a figliare. Avviene il contrario. Avviene il contrario anche in un altro senso: dove le donne lavorano di più, e dove le garanzie sono inferiori, la natalità è più alta. Solo che la spesa pubblica investe in servizi (asili, scuole, sport), non in mance per l’allattamento.

Il Sud è l’esagerazione del resto. Del resto d’Italia, ma anche del resto di un pezzo d’Europa. Quella più ricca, da più tempo libera. Le due generazioni del ’99 la dicono lunga: come fanno a essere più depressi e sfiduciati quelli che stanno incomparabilmente meglio? E se la natalità fosse specchio della fiducia nel futuro, come si spiega che sotto i bombardamenti della seconda guerra mondiale si avviavano più gravidanze che nel diluvio degli happy hours? Guardiamoci nello specchio di questi dati e smettiamola di trovare scuse per le nostre paure. Non nascono da condizioni oggettive, ma dall’avere dimenticato che i diritti sono frutto dei doveri compiuti e i consumi si alimentano con il lavoro e la produzione, non reclamando trasferimenti che a loro volta generano spesa improduttiva e fiscalità produttivicida.

Stress e test

Stress e test

Davide Giacalone – Libero

Il problema non è farsi misurare, ma non misurarsi. In una Unione europea sempre più conflittuale. I test sulle banche sono andati, per l’Italia, alla grande. Certo che ci sono dei problemi, ma guai a non ricordarsi di come eravamo messi due o tre anni addietro. Abbiamo una singolare propensione a ingigantire i nostri svantaggi e miniaturizzare i vantaggi. Non si tratta di praticare un ottimismo di maniera, ma di usare il materialismo realista. Altrimenti si creano classi dirigenti subalterne e incapaci. Dunque: una premessa e sei osservazioni.

La premessa: la vigilanza bancaria unica europea è una cosa positiva, se la si interpreta e usa al meglio. Gli stress test sono cosa buona e giusta. Se li avessero fatti per tempo, negli Usa, non sarebbe successa la tragedia che s’è vista. Il sistema bancario non può essere accusato, a intermittenza, oggi di non prestare a tutti e domani di avere prestato senza considerare i pericoli. Veniamo alle osservazioni, che sono la sostanza.

1. Nel corso della bufera, dal 2010 in poi, le nostre banche non hanno avuto aiuti di Stato, al contrario di quelle francesi, inglesi, spagnole e tedesche. I soldi prestati al Monte dei Paschi sono stati restituiti. Non solo: l’intervento europeo, con il fondo salva stati da noi cofinanziato, ha salvato le banche che avevano investito, per lucro e speculazione, nei titoli dei paesi avviati al default. Tali banche sono principalmente tedesche e francesi.

2. I tedeschi hanno chiesto e ottenuto di tenere le casse dei Lander, le Landesbank, fuori dalla vigilanza comune. Tale situazione deve essere cancellata, perché se uno scolaro si rifiuta di fare i compiti a casa non è un buon motivo per escludere tale rifiuto dalla valutazione della sua condotta e della sua preparazione.

3. Si ritrovano in difficoltà, e nella necessità d’integrare il proprio capitale, due banche italiane: Mps e Carige. Lo sapevamo di già. Ce lo siamo raccontati in tutte le salse. Semmai s’è fatto finta di niente, propiziando il calo borsistico successivo. Mentre altre sette banche, italiane, non vengono bocciate perché le operazioni sul capitale, effettuate l’ultimo anno, sono esaustive. Bene, vuole dire che se si vuole e si sa fare, si può fare.

4. Il presidente dell’Associazione bancaria, Abi, Antonio Patuelli, ha giustamente osservato che non è stato certo un favore all’Italia andare a fare i conti usando i dati del 2013, che risentono del momento peggiore per la divaricazione degli spread. Sarebbe stato meglio usare i dati del 2014. Certamente, ma vado oltre: si è introdotta l’idea che anche i titoli di Stato comportano un rischio e si è considerato che le banche italiane ne hanno in pancia per 427 miliardi, le tedesche per 359 e le francesi per 275. Se si calcola la percentuale rispetto al prodotto interno lordo, l’esposizione delle nostre banche a quel rischio cresce. Ci sto. Ma si deve fare osservare che l’Italia, al contrario della Germania, non ha mai mancato di pagare i propri debiti. Come anche che noi teniamo al nostro interno il 65% del nostro debito pubblico, mentre la Francia ne ha fuori il 55%. Chi crea maggiori rischi sistemici e collettivi?

5. Le banche sono state utilizzate per spegnere l’incendio della speculazione sui debiti sovrani, in tal senso ricevendo soldi all’1%, dalla Bce. Ha funzionato, applausi. Ma ora che i pompieri sono vittoriosi non si vorrà mica considerare peggiori quelli che hanno usato più acqua, avendo più fiamme da domare?! Così la recessione si perpetua, i prestiti si contraggono e i conti delle banche peggiorano. E queste non sono faccende tecniche, ma terreno di schietto scontro politico.

6. Infine, stress test e vigilanza comune preludono al mercato bancario unico. Evviva. Ciò porta con sé la necessità di aggregazione fra le banche (come in Italia s’è già fatto). Chi governa questo processo? Occhio, perché se i titoli del debito italiano sono considerati più rischiosi dei derivati spericolati nella pancia delle banche tedesche la conseguenza è che gli scassoni saranno in grado di comprare banche forse non modernissime, certamente non spericolate, sicuramente troppo generose con i peggiori e avare con chi produce, ma decisamente meno malate e più trasparenti di quelle da cui si spera che non prendano esempio.

Ecco perché questa è una faccenda politica. A noi italiani è mancata la politica. Sono stati i governi supposti tecnici (Monti) e di salvezza nazionale (Letta) ad avere accettato condizioni tecnicamente svantaggiose e di affossamento nazionale. Guai, oggi, a leggere i risultati di quei test senza cogliere i punti di forza che nascondono. Quelli da far valere con fermezza, senza mettersi a fare gli ondivaghi sui conti pubblici.

Sec-cati

Sec-cati

Davide Giacalone – Libero

Se i governanti leggessero, oltre a parlare, ci eviteremmo qualche fastidio. David Cameron è andato su tutte le furie quando la Commissione europea gli ha notificato che gli inglesi dovranno scucire maggiori contributi, all’Ue, per 2,125 miliardi. Non voleva crederci. Matteo Renzi gli è andato subito appresso, visto che a noi italiani toccherebbe pagare 340 milioni in più: siete matti, siete burocrati, quei soldi non li avrete. Tanta indignazione e tanto stupore, però, sono mal riposti, giacché le cose vanno esattamente come qui avevamo previsto e scritto: con la rivalutazione del prodotto interno lordo dei singoli paesi, frutto della nuova contabilità Sec 2010, comprendente anche l’economia nera e parte di quella criminale, il solo risultato che si otterrà è quello di vedere crescere i contributi di ciascuno verso l’Unione europea. Ed ecco arrivato il conto.

Non è che noi si sia fatta chissà quale divinazione, ci eravamo limitati a leggere le istruzioni del nuovo gioco: rivaluta il pil e contabilizza spacciatori e mondane. Non è una questione morale, avvertimmo, ma contabile. Se fate i gradassi e fate crescere troppo il pil, tanto quelle voci sono basate su delle stime (perché se avessimo le cifre puntuali non si capirebbe perché non arrestare tutti i delinquenti), non guadagnerete nulla in termini di sostenibilità del debito e del deficit, dato che chi presta i soldi si basa su quelli che i governi riescono a spremere dai cittadini onesti, non su quelli che sfuggono a cura di quelli lesti, ma, in compenso, vedrete crescere il montante da consegnare alla Commissione europea, per finanziare le spese comuni. È puntualmente avvenuto.

Su un punto, però, mi sbagliavo. E quando sbaglio non mi limito ad ammetterlo, ma lo ricordo a tutti. Questa volta con gusto, perché sostenni che il pil della Germania, ricalcolandolo, sarebbe cresciuto più di quello nostro. Il ragionamento è: non hanno alcun limite all’uso del contante, quindi è ovvio che dalle parti loro ci siano più transazioni in nero. Errore. Non il ragionamento, che confermo, ma il risultato, perché i crucchi non sono fessi e hanno largamente sottovalutato l’apporto criminale, mentre manco hanno pubblicato la cifra della supposta economia sommersa. Sono affari nostri, sostengono. Farsi fare il gioco delle tre carte in tedesco, diciamolo, è da cadere in depressione profonda. Risultato: la Germania non solo non deve pagare di più, ma deve avere 779 milioni indietro, mentre la Francia (che ha fatto una cosa diversa ma analoga, varando una doppia contabilità) punta a riavere 1,2 miliardi.

In quanto ai signori della Commissione, comunque, sono effettivamente ottusi. Perché solo a patto di non ragionare si può supporre che quelle cifre debbano essere pagate il primo di dicembre. Aggiungendo che si rendono conto potrebbero esserci dei problemi di bilancio. Ma va?! E solo a patto di avere un orrido senso dell’umorismo si può pensare di chiedere alla Grecia 89,4 milioni in più, come se da quelle parti non si soffra già abbastanza. Ottusi, certamente. Ma mai dimenticare che la Commissione è un organo esecutivo. Quelli che comandano sono i capi di Stato e di governo, riuniti in Consiglio. Sono stati loro a far passare quelle regole, loro a non capire dove avrebbero portato, loro a fare i magnifici con le stime. Non tutti, come sempre, difatti tedeschi e francesi oggi reclamano, more solito, il rispetto delle regole. E neanche hanno torto. Solo che chi protesta dovrebbe, prima di tutto, prendersi a schiaffi davanti a uno specchio.

Bondage tributario

Bondage tributario

Davide Giacalone – Libero

Dal governo dicono: aboliamo il canone Rai. Bravi. Bravissimi. Applausi. Poi leggi con attenzione: hanno in animo di abolire la tassa per il possesso del televisore, ma introducono un obbligo di finanziamento della Rai, proporzionale al reddito e ai consumi, che grava su tutti i contribuenti, anche quelli che non possiedono il televisore. Meno bravi. Molto meno. Vabbe’, non lo aboliscono, ma lo riducono, facendolo passare dagli attuali 113.50 euro a una somma variabile fra 35 e 80 euro. Bravini. Però poi ci ragioni e ti accorgi che no, alla fine il prelievo fiscale aumenterà. E non solo perché sarà più facile colpire l’evasione, ma anche perché sarà lecito colpire le persone oneste. Che non è una bella cosa.

Come al solito, ci tocca ragionare sugli annunci. Costantemente divisi dai testi di legge da un congruo lasso di tempo. Questa volta l’attesa dovrebbe essere breve, dato che siamo alla fine di ottobre e sono prossimi alla stampa i bollettini da inviare agli italiani, in partenza a gennaio. Quei bollettini dovrebbero sparire e il corrispettivo dovrebbe essere pagato con il modello F24. Qui comincia la nebbia, perché dal governo dicono che ciascuna “famiglia” pagherà in ragione del reddito e dei consumi. Ma le famiglie non compilano dichiarazioni dei redditi e non pagano modelli F24, quelli sono i singoli contribuenti. Chi e come calcola il reddito e i consumi familiari? Ancora prima: cos’è una famiglia? Domanda pertinente, perché oggi la Rai non considera “famiglia” neanche marito e moglie, ove risiedano in case diverse, arrogandosi, una televisione di Stato, il diritto di stabilire che non basta un canone, ma ne devono pagare due. Una famiglia, due canoni. Del resto, pensate a tutte le unioni di fatto, etero od omosessuali: in attesa che si concluda l’ozioso dibattito su matrimoni, equiparazioni e diversità, fin qui era chiaro che se sto a casa mia (proprietà o affitto, non cambia) e pago il canone, ove ospiti, a scopo di lussuria o conversazione, un altro individuo, del mio sesso o di sesso diverso, quell’altro non è tenuto al pagamento del canone. Con la novità, invece, paghiamo tutti: quattro conviventi, quattro canoni.

Con la novità, del resto, paga il canone anche la badante del nonno. È stata assunta per assisterlo e conviverci, già oggi la Rai le manda il bollettino, trattandola da evasore senza che minimamente lo sia, ma domani non riceverà la missiva, non avrà casa propria, non possiederà un televisore, ma dovrà pagare. Diciamo che le stiamo fornendo una ragione in più per sposare il nonno. Sperando che il vegliardo sia ancora nelle condizioni di accorgersene e usufruirne, ma mettendo in conto che, in quel modo, ella s’appropria di una parte dell’eredità. Tirate le somme, si raggiunge una vetta d’illogicità ideologica: dopo avere sostenuto la bischerata che se pagassimo tutti pagheremmo meno, si realizza un sistema nel quale paghiamo tutti, paghiamo meno, ma ci costa di più. Segnalo la cosa perché, se riescono a farla, è degna dei manuali sulle perversioni fiscali. Una specie di bondage tributario.

Chiudo segnalando il reiterato imbroglio, dato che la Rai, nel succedersi di vertici politici, tecnici, professorali, al di sopra e al di sotto delle parti, continua a ripetere sempre la stessa solfa: il canone italiano è fra i più bassi d’Europa. È falso. Quel gettito copre il 50% del finanziamento Rai, ed essendo l’altra metà procurata da introiti pubblicitari, facilissimi da raggiungere perché con spazi illimitati, venduti anche a prezzi stracciati, in reti rette da soldi pubblici, ne deriva che ciò che lo Stato, con le sue leggi, garantisce alla Rai è il doppio del canone. Che, a quel punto, non è proprio per niente fra i più bassi d’Europa, ma il più alto. Si obietta: molti lo evadono. Sono dei cattivoni, perché non si evade. Ma hanno ragione, perché è un prelievo iniquo e insensato. Apposta sostengo che va abolito, cancellato, incenerito. Non camuffato e illegittimamente travestito da imposta progressiva sui redditi, quale con questa riforma diviene. E la Rai, come fa a campare? Vende, si ridimensiona. Magari prova anche a fare il servizio pubblico, sempre che si trovi qualcuno in grado di stabilire cosa sia.

Una condotta inaccettabile

Una condotta inaccettabile

Davide Giacalone

Mettiamo, per pura ipotesi teorica, che la Ragioneria generale dello Stato abbia avuto ragioni per non “bollinare” la legge di stabilità, non convalidandone le coperture, o che il Quirinale, dopo l’attento esame promesso, ne abbia rilevato le incongruenze e ne chieda la riscrittura. A quel punto il governo italiano dovrebbe ritirare il testo inviato alla Commissione europea, totalizzando una continentale figura barbina. Uscendo dall’ipotetico e dal teorico, quindi, se qualche aggiustamento dovrà essere fatto si dovrà procedere quasi di soppiatto, per evitare di danneggiare l’Italia.
Ciò significa che l’invio temerario, l’esposizione scoppiettante, l’integrazione nelle trasmissioni televisive innescano un pericoloso conflitto istituzionale, mettendo la Ragioneria e il Colle nelle condizioni di dovere rinunciare al proprio ruolo (più la Ragioneria, per la verità, perché questa storia che al Quirinale si debbano sempre rifare i conti e rivedere tutto è fuori dai binari costituzionali, è un allargamento smisurato della prudenza che volle la firma del Colle).
In altre parole, sono con le spalle al muro: o validano o ci espongono a pericoli eccessivi. Proprio per ragioni di convenienza, nel braccio di ferro che si è determinato nell’intera Unione europea, era stato suggerito al governo italiano di anticipare la legge di stabilità. Di presentarla ben prima della scadenza ultima (15 ottobre). Hanno preferito attendere l’ultimo minuto. Per essere precisi, però, lo hanno sforato, perché è vero che il testo è stato spedito entro i termini, ma, come si dimostra, privo dei necessari visti. Senza contare che il dibattito pubblico, da una settimana, si sviluppa senza che esista un testo da leggere e studiare, ma solo slides e interviste da commentare. Non è semplice malcostume. È una condotta inaccettabile.
Legge di stabilirà

Legge di stabilirà

Davide Giacalone – Libero

Più che una legge di stabilità si avvia a essere una legge di stabilirà. Nel senso che si modella e adatta con il passare delle ore. Il tempo passato dall’annunciazione alla presentazione è servito anche per far tesoro dello sgomento suscitato nel sentir dire alcune cose. Per esempio: la decontribuzione annunciata, sulle assunzioni a tempo determinato, era di 6200 euro, ma trattavasi di un errore, perché già ci sono aziende che avrebbero diritto a una decontribuzione superiore, sicché nel testo che sarà presentato in Parlamento (dove ancora neanche c’è) quel limite sarà alzato a 8060. Vedremo cosa combineranno con il Tfr, i cui errori sono stati qui illustrati per tempo.

Originale la teoria illustrata da Yoram Gutgeld, consigliere economico di Matteo Renzi: se le norme esistenti si dimostrassero più convenienti di quelle che stiamo preparando, il contribuente potrà attenersi a quelle che preferisce. Lui si riferisce alle agevolazioni per le partite Iva, ma, certo, ha tutta l’aria d’essere un bislacco principio generale: noi ideiamo agevolazioni, che annunciamo a raffica, ma se, eventualmente, la legge preesistente fosse migliore di quella da noi magnificata, niente paura, potrete continuare a usarla. In espansione, se non altro, c’è la fantasia.

Direi che dalla scuola alla giustizia la nouvelle vague governativa s’è l’asciata un po’ prendere la mano dall’ebrezza della consultazione popolare: noi annunciamo una cosa, stilando un menù che non comporta scelte, e voi siete liberi ciascuno di dire la propria. Tanto nessuno sta a sentire. In campo fiscale sembra ci sia un salto di qualità: mettiamo in parallelo un paio di sistemi e voi scegliete quello in cui vivere. La legge di stabilirà. Intanto, per non rendere noiosa la vita, continua la serrata campagna degli annunci. Immagino che al Quirinale si siano domandati: ma se ci hanno appena consegnato il testo della legge di stabilità, perché l’idea degli 80 euro alle mamme non c’è e sono andati a illustrarla in un salotto televisivo? Non so cosa si siano risposti. Di certo, un tempo erano più arcigni e meno comprensivi.

Una cosa buona, comunque. O no? No, non lo è. È una roba demagogica e controproducente. Lasciando da parte la fissazione per il numero 80, che non si capisce per quale logica quantifica i regali governativi, è bene rendersi conto che questa perversione laurina comporta una concezione della società come fossimo tutti minorenni, pronti a gioire per le mance temporanee. In una società maggiorenne le famiglie hanno bisogno dei servizi che le affianchino nella gestione dei bambini, a cominciare dagli asili nido. In una società maggiorenne la fiducia nel futuro discende dalla crescita economica, quindi dalla ragionevole certezza che lavorando si possa giovarsene. Mentre è tipico di una società minorenne il supporre che si possa dare e prendere senza che questo sia legato al produrre. Certo che 80 euro, al mese, tornano utili quando si affrontano le spese per un bambino, e certo che prendere gli applausi è cosa piuttosto semplice, annunciandoli, ma il bambino sopravvive ai tre anni e se non ci sono asili a sufficienza si perde partecipazione al lavoro degli adulti. Poi supera i sei anni, e se nelle scuole trova gli stabilizzati anziani avrà un’istruzione carente. E se lo mandiamo in scuole analogiche, con testi stampati e senza digitalizzazione non solo gli rubiamo capacità, ma rubiamo soldi alle loro famiglie, come capita anche quest’anno. Poi supera i diciotto, e se si trova in università chiuse alla concorrenza e autoreferenziali nell’assegnazione delle cattedre diventerà un analfabeta laureato. Ci sono toghe che non compitano nell’italico idioma. A quel punto che gli diamo, il contributo per disadattamento al lavoro e al mondo?

Quando i soldi sono troppi può capitare di contrarre i vizi dell’agio e dell’improduttività. Ma ora i soldi sono pochi e spenderli fuori dal rilancio di istruzione e produzione è un delitto. Salvo prendere applausi, per la legge che solo poi stabilirà

Stabilità, rotta da correggere

Stabilità, rotta da correggere

Davide Giacalone – Metronews

La legge di stabilità dovrà essere riscritta. Non tutto è sempre riconducibile a questioni di schieramento politico. Non tutto può essere considerato risolto solo perché si ha una maggioranza parlamentare. Esiste anche la realtà, con cui fare i conti. Il governo ha impostato la legge di stabilità volendo darle un carattere espansivo. La scommessa consiste nell’avere introdotto facilitazioni e sgravi fiscali, oltre a una fetta significativa di spesa pubblica in deficit, che inducano le imprese ad assumere e investire, mentre i consumatori a spendere e comprare. Scommessa politicamente legittima e, nella sua enunciazione, anche apprezzabile. Ma nella sua stesura ci sono contraddizioni.

Prendiamo il caso del Tfr: mettere parte del Trattamento di fine rapporto, da subito, nelle buste paga, significa puntare a dare più liquidità, infondere fiducia, invogliare a usare quei soldi. Sarebbe un bene, se non fosse negato dalla legge stessa, visto che incassare immediatamente un rateo di Tfr sarà a scelta del lavoratore, ma se sceglie di incassare dovrà pagare più tasse subito (perché perde l’aliquota agevolata) e se sceglie di continuare ad accantonare paga più tasse sui risparmi. Qualsiasi cosa scelga, gli costerà fiscalmente più di quel che gli costa oggi. Difficile credere che una roba simile risvegli l’ottimismo. Ragionevole immaginare che, anzi, solleciti la necessità di mettere da parte (magari nel materasso), visto che il fisco grattugia quel che serve per il domani.

Contraddizioni analoghe si trovano anche in altri punti della medesima legge. Lo scomputo del costo del lavoro dall’Irap vale solo per i contratti a tempo indeterminato, ma è a tempo determinato, vale solo tre anni. L’impresa non vive di sconti momentanei, ma di certezze sulla struttura dei costi. Fisco compreso. Non avvio un costo di lunga durata sol perché c’è un’agevolazione momentanea. Non si tratta solo degli esami europei. Sui quali molto ci sarebbe da dire. Prima di tutto occorre sanare le contraddizioni della legge. Non sempre buscando ponente si trova il levante, e se buschi il nord per il sud vai incontro a morte per congelamento. Se una rotta contiene errori, meglio correggerla prima di salpare.