Ragioni e incubi tedeschi
Davide Giacalone – Libero
C’è un problema tedesco, in Europa. Ma ci sono anche paesi con i conti e le politiche in disordine, che pensano di potersela cavare dando la colpa alla Germania. Ci sono cittadini europei che temono di essere fregati, ritrovandosi a pagare debiti contratti da altri. E ci sono loro concittadini che temono di finire sottomessi a una (altrui) logica di potenza nazionale. E’ normale che queste paure suscitino reazione elettorali colorite, per quanto inutili. Non è normale che molti politici e governanti sfuggano al misurarsi con questi problemi, preferendo strizzare l’occhio agli elettori presi dal panico. Per questo trovo molto interessanti le tesi esposte da Jeans Weidmann, presidente della banca centrale tedesca, la Bundesbank, in una intervista a Repubblica. Sono parole serie. Che vanno prese sul serio. Dico subito che le condivido nella quasi totalità, ma con un distinguo decisivo, su un punto fulcro del presente e del futuro europeo.
Riassumo, per punti, il pensiero di Weidmann, chiosando in parentesi. 1. Per recuperare competitività è del tutto inutile immaginare il ritorno a monete nazionali, puntando sulla loro svalutazione, perché i benefici da quella indotti sono passeggeri e instabili (giusto, senza contare i malefici e tenendo presente che la Banca centrale europea sta conducendo una politica di graduale deprezzamento dell’euro). 2. La strada saggia consiste nell’abbattere le barriere per l’accesso al lavoro (che significa meno garanzie) e nel favorire le privatizzazioni (quindi meno Stato nel mercato). 3. Il tasso d’inflazione deve salire, ma non c’è motivo di affrettarsi, secondo i calcoli Bundesbank crescerà, di poco, a fine 2016 (giusto che salga, ma la fretta c’è, perché in deflazione il peso dei debiti cresce, fino a soffocare). 4. E’ sbagliato paragonare l’Ue ad aree monetarie come gli Stati Uniti o il Giappone, perché quelle sono entità politiche unitarie, mentre noi siamo 18 stati con politiche indipendenti, debiti diversi e diversi rating (vero, ci torno subito). 5. Lo sviluppo demografico europeo, ovvero la contrazione delle nascite, suggerisce di non spostare nel futuro il peso del debito (giusto). 6. Quando i debiti sono alti non si deve reclamare spesa pubblica anticongiunturale basata sull’aumento del debito, perché questo aumenta il male anziché curarlo, semmai si deve modificare la struttura della spesa pubblica, indirizzandola allo sviluppo anziché al trasferimento (leggi spreco) di ricchezza (giusto).
E qui veniamo a due aspetti delicati. Due tasti politicamente decisivi. Il primo si ricollega al punto 4.: siccome l’Ue non è uno Stato unitario, o federale, delle due l’una: o ci muoviamo in quella direzione, cedendo ciascuno sovranità fiscale; oppure non c’è alternativa al rispetto dei vincoli previsti dai trattati. Ha ragione. Ed è questo il pericoloso errore commesso da alcuni governi europei, il nostro compreso: l’avere puntato sull’elasticità nell’interpretazione dei vincoli anziché nel porre subito il tema della cessione di sovranità. Con il risultato che non avendo ottenuto nulla sul primo aspetto si finisce con il perdere sovranità propria, perché troppo indebitati, senza accedere a una comune. I francesi hanno compiuto questa scelta (sbagliata) consapevolmente, perché soggiogati da quel che resta della perduta grandeur (ma fra quel che resta c’è l’arma atomica). Noi abbiamo perso l’occasione del semestre italiano, per nulla. C’è, però, una seconda faccia della medaglia: noi (con altri) eccediamo nel debito, ma posto che anche quello tedesco è oltre i parametri consentiti, e che è cresciuto più del nostro, il loro surplus commerciale è a sua volta una grave violazione. Se parametri devono essere che siano, ma per tutti. Quell’avanzo (enorme) è continua sottrazione e concentrazione di ricchezza. Intollerabile quanto la crescita del debito.
E se il debito crescente induce il timore che si voglia farlo pagare ad altri (senza dimenticare che abbiamo già pagato per aiutare le banche tedesche e francesi), il surplus permanente, unito al vantaggio di tassi d’interesse bassissimi, quando non negativi, induce la paura che qualcuno covi il ricorrente incubo della potenza nazionale, puntando anche all’indebolimento dei competitori, asfissiati dal credito e dal fisco. Una logica di dominio che ha già ripetutamente prodotto la sua sola possibile conseguenza: la rovina. Questo è il nodo decisivo. Entrambe i timori hanno fondamento. Entrambe devono essere fugati. Ma non uno prima dell’altro, perché ne deriverebbe uno squilibrio ingestibile. Per questo le parole di Weidmann sono importanti e largamente condivisibili. Per questo è insensato supporre di condurre un presunto scontro filo o anti-tedesco. Ma sempre per questo quel nodo va affrontato, nei suoi due aspetti. Chi provasse a fare il furbo sarebbe pazzo.