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Che Paese è quello che strangola l’impresa

Che Paese è quello che strangola l’impresa

di Massimo Blasoni – Panorama

La Banca Mondiale ogni anno pubblica il report Doing Business che mette a confronto le principali economie del globo. Si va dal costo dell’energia elettrica alle tasse, dal lavoro alla burocrazia. Al di là del profluvio di numeri darci una letta è significativo. Emerge che è veramente complesso fare impresa in Italia dovendo competere con Paesi obiettivamente più efficienti. Facciamo un po’ di esempi. Un imprenditore italiano, che per insediare la propria impresa debba costruire un edificio, attende mediamente 227 giorni la concessione edilizia. Il suo competitor tedesco otterrà il permesso di costruire in 126 giorni, quello inglese dopo 86. In altre parole, mentre il nostro imprenditore starà ancora affannandosi con le lungaggini della burocrazia, i suoi competitor nelle nuove sedi avranno invece già iniziato a produrre rispettivamente da tre e quattro mesi. Se si trattasse solamente di permessi e autorizzazioni il problema sarebbe circoscritto, purtroppo però c’è molto altro. L’energia in Italia è più cara esattamente del 27 per cento rispetto alla media europea. Solo il 7,6 per cento delle imprese nazionali vende online, anche per l’arretratezza del nostro sistema digitale.

Guai poi a essere fornitori dello Stato. In Italia i debiti della Pubblica amministrazione, che tutti i governi si sono ripromessi di ridurre, vengono saldati mediamente dopo 95 giorni. In Francia gli stessi debiti vengono pagati dopo 57 giorni e in Germania dopo 23. La maggiore attesa, è ovvio, obbliga le imprese ad anticipare il dovuto presso gli istituti di credito con un ulteriore aggravio di costi per gli interessi passivi. Dobbiamo tra l’altro sperare che il nostro imprenditore non si trovi a dover adire le vie legali per recuperare un credito. Si troverebbe in balia di uno dei peggiori sistemi giudiziari d’Europa. Un processo civile dura in media sette anni. Le tasse, è notorio, in Italia sono molto alte ma va anche ricordato che il numero di adempimenti necessario a pagarle è quasi il doppio che in Germania e Regno Unito: 14 contro nove e otto rispettivamente. Tutto questo rappresenta un aggravio in costi e tempo perso. Malgrado questo scenario non incoraggiante le imprese italiane esportano. Pur in un Paese con infrastrutture fisiche e soprattutto digitali inadeguate, nei primi sei mesi del 2017 il fatturato delle esportazioni è aumentato dell’8 per cento rispetto all’anno precedente, più di quello tedesco che è cresciuto del 6 per cento.

Diciamolo con chiarezza, sarà ben difficile che in futuro molti dei nostri figli trovino lavoro nella Pubblica amministrazione, che probabilmente piuttosto vedrà calare il numero dei propri addetti. La crescita dell’occupazione è connessa allo stato di salute e capacità di sviluppo delle nostre imprese. Vien da chiedersi allora perché non si faccia di più per facilitarle almeno sul fronte della sburocratizzazione. Ci sono Paesi dove le regole vengono modificate sulla base delle nuove necessità del mercato: anche così si spiega come in California si siano sviluppati i colossi del mondo digitale. Troppo spesso invece nel nostro Paese le norme esistenti imbrigliano e soffocano la spinta a innovare, preservando un sistema spesso contorto, anacronistico e non in grado di interpretare il futuro. Ne sanno qualcosa gli oltre 50 mila giovani che lo scorso anno hanno lasciato il nostro Paese.

Indice della Libertà Fiscale 2016

Indice della Libertà Fiscale 2016

indicebIntroduzione

Nel 2015 ImpresaLavoro, avvalendosi della collaborazione di ricercatori e studiosi di dieci diversi Paesi europei, ha elaborato il primo Indice della Libertà Fiscale. Un lavoro, questo, che si proponeva di monitorare la “questione fiscale” in Europa muovendo dall’assunto che la crisi che sta conoscendo il Vecchio Continente è difficilmente comprensibile senza una riflessione seria sul peso che lo Stato ha assunto nella vita dei cittadini e su quanto il prelievo pubblico sulla ricchezza prodotta rischi di essere il vero tratto che distingue la Vecchia Europa da blocchi di paesi decisamente più dinamici e competitivi del nostro.

Nella versione 2016 dell’Indice della Libertà Fiscale, si è scelto di allargare il numero dei paesi esaminati, passando dai dieci ritenuti rappresentativi del 2015 ai 29 di quest’anno. L’analisi di un numero così ampio di economie permette, rispetto a quanto fatto nel 2015, di allargare lo sguardo e di monitorare efficacemente la questione fiscale in pressoché tutti i paesi che compongono il continente geografico europeo. Non solo: emergono in questo modo anche le differenze tra chi sta dentro il sistema dell’Unione Europea e chi sta fuori, tra i paesi che hanno adottato l’Euro e quelli che, invece, hanno scelto di mantenere la propria autonomia monetaria.

Metodologia

L’Indice della Libertà Fiscale è stato realizzato muovendo da sette diversi indicatori, ognuno dei quali analizza e monitora un aspetto specifico della questione fiscale. Il Paese migliore in un determinato indicatore riceve il punteggio massimo attribuito a quel settore. Alle altre economie viene attribuito un punteggio secondo il meccanismo della proporzionalità inversa: più un Paese si allontana dal migliore, meno punti riceve. Si tratta di una scelta che punta a privilegiare le buone esperienze, anzi: le migliori esperienze, presenti in Europa. Questo perché disegnare a tavolino valori di riferimento e su questi analizzare gli scostamenti da un teorico “sistema fiscale perfetto” portava con sé il rischio di traguardarsi costantemente ad un mondo che non c’è. Si è preferito, invece, partire dai livelli di libertà fiscale già raggiunti e definire quelli come benchmark: se in sette economie europee è possibile contenere la tassazione sulle imprese sotto il 30% degli utili prodotti, allora significa che si può ragionevolmente fare anche negli altri paesi.

La somma dei singoli indicatori restituisce, per ogni economia esaminata, il tasso di libertà fiscale elaborato su base 100. Più alto è il valore ottenuto da uno Stato (più vicino a 100) , più i suoi cittadini sono liberi dal punto di vista fiscale. Il ranking che ne deriva divide i paesi in quattro macro aree: paesi fiscalmente molto liberi (oltre 70 punti su 100), paesi fiscalmente liberi (tra 60 e 69 punti), paesi fiscalmente non del tutto liberi (tra 50 e 59 punti), paesi fiscalmente oppressi (sotto i 50 punti).

Gli indicatori

I primi due indicatori, numero di procedure e numero di ore necessarie a pagare le tasse, si riferiscono al carico burocratico che le imprese devono sostenere per essere in regola con il Fisco del loro paese. Questi indicatori attribuiscono al paese migliore 10 punti.

Il terzo indicatore analizza il Total Tax Rate cui sono sottoposte le imprese dei paesi esaminati. Con questo indicatore si identifica la quota di profitti che una media azienda paga ogni anno allo stato sotto forma di tasse e contributi sociali. Al paese con il Tax Rate più basso sono attribuiti 20 punti.

Il quarto indicatore, Costo per pagare le tasse, stima quanto una media impresa debba spendere in procedure burocratiche per essere in regola con il Fisco. Il tempo che le aziende occupano per sbrigare pratiche burocratiche si traduce in un costo diretto, in questo caso di personale, che incide negativamente sulla competitività di un sistema. Si tratta di una sorta di tassa sulle tasse: il peso dello Stato nelle attività imprenditoriali, infatti, va ben oltre il solo valore nominale del prelievo fiscale. Anche il tempo perso è monetizzabile e rende il sistema fiscale di riferimento più o meno libero. Al paese migliore in questo indicatore sono attribuiti 10 punti.

Il quinto indicatore, la Pressione Fiscale in percentuale del Prodotto Interno Lordo, assegna al miglior paese ben 30 punti. Si tratta dell’indicatore più importante, sia in termini di punteggio che sostanziale, perché misura le dimensioni della tassazione complessiva sulla ricchezza prodotta da un paese.

Il sesto indicatore è sempre riferito alla Pressione Fiscale in percentuale al Pil, vista qui in termini dinamici e non statici, e misura quanto il prelievo complessivo è cresciuto dal 2000 ad oggi. E’ un indicatore particolarmente rilevante perché traccia gli sforzi che un paese sta compiendo (o non sta compiendo) per ridurre il peso dell’oppressione tributaria sui propri cittadini. Per capire l’importanza di questo tipo di indicatore basti riflettere sul fatto che un paese come la Svezia, considerato da tutti come la patria di tasse elevate in cambio di migliori servizi, dal 2000 ad oggi ha tagliato la sua pressione fiscale di quasi 6 punti percentuali di Pil. Al miglior paese in questo indicatore vengono attribuiti 10 punti.

Settimo e ultimo indicatore è quello relativo alla pressione fiscale sulle famiglie, intesa come la percentuale di tasse sul reddito familiare lordo che paga un nucleo tipo (due genitori che lavorano con due figli a carico). Al paese più “family friendly” sono attribuiti 10 punti.

Per realizzare questo indice sono stati utilizzati i database Eurostat e Doing Business (Banca Mondiale).

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Indice delle Libertà Fiscali 2016. Numero di procedure necessarie per pagare le tasseIndice02

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Fisco: per pagare le tasse un’impresa italiana spende in media 7.559 euro l’anno

Fisco: per pagare le tasse un’impresa italiana spende in media 7.559 euro l’anno

Nota

L’Italia è un paese nel quale costa parecchio anche essere in regola con il fisco. Secondo i dati elaborati dal Centro Studi ImpresaLavoro, un’azienda di medie dimensioni spende in media ogni anno 7.559 euro per disbrigare adempimenti burocratici relativi al pagamento delle imposte: una cifra che non ha eguali in Europa e che rappresenta una vera e propria tassa ulteriore e mascherata che le nostre imprese sono costrette a sostenere.
Il numero è frutto dell’incrocio di due dati: quello reso noto dalla Banca Mondiale all’interno del rapporto Doing Business e relativo alle ore annue necessarie per svolgere adempimenti fiscali nonché quello relativo al costo orario medio del lavoro nel nostro paese così come sostenuto dalle aziende e rilevato da Eurostat. Un’azienda italiana, mediamente, deve infatti dedicare ogni anno 269 ore per preparare, compilare e pagare i moduli relativi alle imposte sul lavoro, sul valore aggiunto e sui redditi di impresa. Questo tempo comporta ovviamente un costo, che Eurostat stima mediamente in 28,1 euro l’ora. L’assorbimento di dipendenti dedicati a queste mansioni e quindi distolti dall’effettiva produzione costa così ogni anno alle aziende 7.559 euro.
Vincere in questa classifica è tutt’altro che prestigioso e per una volta riusciamo a battere anche la Germania che, nonostante un costo orario del lavoro più alto di 3 euro rispetto al nostro, con “solo” 218 ore necessarie a pagare le tasse chiede alle sue imprese uno sforzo di 736 euro inferiore al nostro. Superiamo anche la Francia che, pur avendo un sistema fiscale pesante come il nostro in termini quantitativi, richiede solo 137 ore all’anno per svolgere tutti gli adempimenti. È pur vero che in Europa vigono anche sistemi più complessi del nostro: ad esempio quello bulgaro, quello ungherese o quello della Repubblica Ceca. Il basso costo del lavoro rende però decisamente meno oneroso impiegare risorse in compiti burocratici.
«Quando analizziamo il total tax rate cui sono sottoposte le imprese italiane – commenta il presidente di ImpresaLavoro Massimo Blasoni – molto spesso ci dimentichiamo che le tasse emerse non rappresentano il totale del peso che le aziende devono sopportare. La burocrazia non è solo un laccio che blocca lo sviluppo e gli investimenti privati: è anche un costo. Per questo è sempre più necessario agire rapidamente per semplificare il nostro sistema, partendo da quello fiscale. Si tratta di una riforma urgente e che può essere realizzata a costo zero. Basta volerlo».

 

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