Mancato riordino fiscale del settore gioco? Perdita secca per l’erario
Mancato riordino fiscale del settore gioco? Perdita secca per l’erario – Videocommento di Davide Giacalone
Redazione Editoriali davide giacalone, delega fiscale, fisco, gioco d'azzardo, impresalavoro, slot machines, tasse
Redazione Edicola - Argomenti evasione, fisco, gian maria de francesco, il giornale, tasse
«Chi non ha nulla da nascondere non ha nulla da temere».Lo diceva anche George Orwell nel suo capolavoro “1984”. Il problema è che, quando la fantasia diventa realtà, l’essere esposti al controllo di un «altro»›, in grado di giudicare costantemente le nostre azioni e la nostra vita, è un incubo che rende ancor più insopportabile la nostra quotidianità. Eppure, in materia fiscale, lo Stato italiano si è dotato di una strumentazione tale da far impallidire anche il Grande Fratello di orwelliana memoria. Ogni momento della nostra vita, dal 2015 (e quindi con 31 anni di ritardo rispetto alle previsioni) può essere passato al setaccio. Non che si tratti di un controllo tipo l’agente della Stasi protagonista de “Le vite degli altri”, ma gli assomiglia molto. A voler essere meno enfatici, si può tranquillamente affermare che dallo scorso primo gennaio il cittadino italiano medio è sottoposto allo stesso «trattamento» di un qualsiasi imprenditore o commerciante, cioè a uno studio di settore onnipervasivo che misura se le sue entrate e il suo tenore di vita siano «congrui», cioè se non vi sia qualche risorsa segreta che viene sottratta al fisco, una discrepanza nascosta, un lato oscuro junghiano. Merito della Legge di Stabilità che consente ai funzionari dell’Agenzia delle Entrate di poter incrociare i dati di 128 banche dati pubbliche e verificare eventuali «anomalie» tra spese effettuate e reddito dichiarato. Mentre questo tipo di controlli, fino all’anno scorso, era riservato a soggetti a rischio-evasione, dal 2015 siamo tutti sulla stessa barca.
Ma quali sono queste 128 banche dati? C’è di tutto e di più: l’anagrafe dei Comuni, il catasto, il Pubblico registro automobilistico, gli archivi dell’Inps (non solo le assunzioni di dipendenti per le aziende ma anche quelle di colf e badanti), le Scia (segnalazioni certificate di inizio attività, di prammatica per le ristrutturazioni), i verbali delle ispezioni della Guardia di Finanza e così via. Ma la parte più importante è l’accesso ai nostri conti correnti. Non che l’Agenzia delle Entrate non potesse monitorare già da prima i nostri movimenti: il Sistema interscambio dati varato nel 2013 obbliga le banche a trasmettere i saldi all’inizio e alla fine dell’anno solare. Ora, anche la giacenza media dovrebbe essere oggetto di indagine e se si discosterà in modo significativo da quelle che sono le evidenze dei nostri 730, partiranno i controlli. Soprattutto se le nostre spese sono tracciabili (con assegni e carte di credito) e inducono a ritenere che il nostro tenore di vita sia superiore a quello che potremmo permetterci. Facciamo due esempi molto pratici.
Basta prendere l’ultima circolare dell’Agenzia delle Entrate. Si chiede agli intermediari finanziari, cioè alle banche, di fornire i dati sugli interessi passivi applicati ai contratti di mutuo, cioè la spesa che, per quanto riguarda la prima casa, si porta in deduzione dal 730, cioè si sottrae alla nostra base imponibile. Nel file che gli istituti di credito sono tenuti a inviare ci sono le generalità del contribuente, l’importo del mutuo, il numero di rate pagate e l’ubicazione dell’immobile. Se vi fosse qualche incongruenza, le Entrate possono benissimo guardare il catasto giacché l’Agenzia del Territorio è stata accorpata nell’ente guidato da Rossella Orlandi, A questo punto, se sbaglieremo la nostra dichiarazione o se vorremo cambiare qualcosa nel 730 precompilato che da quest’anno arriverà a casa potrebbe iniziare anche per noi la via Crucis che commercianti e professionisti conoscono molto bene. A quel punto nulla vieta di verificare, in base al prestito della banca, se il prezzo pagato per la casa sia corrispondente al valore di mercato e se effettivamente una tale spesa fosse alla nostra portata. Se troppo basso, si potrebbe ipotizzare che fosse da ristrutturare. Ma abbiamo portato in detrazione quelle spese? E se non è stato fatto, è perché qualcosa è stata pagata in nero? E se, invece, fosse stata la compravendita ad avere qualche lato oscuro? Sono domande che si pongono in linea teorica: l’Agenzia delle Entrate non ha personale a sufficienza per passare al setaccio tutti questi minimi dettagli, ma è chiaro che se il sistema segnalasse potenziali anomalie, allora potrebbero essere dolori.
È un po’ quello che succede con i famigerati controlli a tappeto della Guardia di Finanza. Ipotizziamo che un cittadino alla guida di un bel Suv venga fermato a un posto di blocco: patente, libretto e carta d’identità. I solerti finanzieri inviano i dati alla loro centrale operativa e all’Agenzia delle Entrate. A quel punto, se il proprietario risulta aver dichiarato un reddito di qualche decina di migliaia di euro, saranno lacrime e stridore di denti. Idem per i mezzi di lusso che risultano proprietà di aziende: la Finanza controlla il reddito dell’impresa. Se la vettura è intestata a un parente o a un amico, il controllo viene eseguito sul reddito dei proprietari. Motivo per il quale negli anni scorsi molti benestanti hanno rinunciato al «macchinone» per non avere seccature. E pensare che questa innovazione avrebbe pure uno scopo nobile: evitare che si acceda in maniera fraudolenta alle prestazioni sociali che prevedono diverse tariffe a seconda delle fasce di reddito, come l’iscrizione all’asilo o la retta universitaria, se l’indice di situazione economica equivalente – Isee – della propria famiglia è basso. Il fatto è che la politica fiscale di Matteo Renzi è tutta impostata sulle teorie dell’ex ministro Vincenzo Visco (lo ricordate? Pubblicò su internet i redditi degli italiani), l’uomo per il quale tutti sono evasori. E contro l’evasione per Visco & C. non c’è che un rimedio: il terrore.
Il futuro è fatto di monitoraggi. Così come nei sogni dell’ex ministro che si tramuteranno nei nostri incubi. Anche quelle che il governo sta presentando come «rivoluzioni» non sono che trappole mortali per la nostra libertà. Prendete l’abolizione dello scontrino fiscale. Che c’entra con il Grande Fratello? Centra, c’entra. Prossimamente non ci sarà più bisogno di quel pezzettino di carta: le transazioni saranno inviate direttamente all’Agenzia delle Entrate che ne terrà conto per le nostre dichiarazioni precompilate. Ad esempio, se stiamo acquistando un farmaco,non ci sarà bisogno di portare con sé il tesserino sanitario perché, se paghiamo con il bancomat, l’Agenzia delle Entrate risale a noi e detrae la spesa dal nostro 730. Ecco, il trucco è tutto lì: disincentivare l’uso del contante e tracciare tutte le transazioni economiche.
Eppure c’è chi non si sorprende di questo cambiamento. «Per i funzionari dell’Agenzia non cambierà assolutamente nulla», spiega Sebastiano Callipo, segretario generale di Confsal-Salfi, il principale sindacato dei dipendenti delle Entrate. «Lo scopo è aumentare l’autotassazione – aggiunge – facendo capire, con il sorriso, al contribuente che sappiamo tutto di lui e oltre un certo limite di evasione non può andare, ma questo schema non funziona con un sistema fiscale che finisce con l’accanirsi su lavoratori dipendenti e pensionati». Il sospetto che, in realtà, dietro tutte queste innovazioni ci sia solo la volontà di aumentare il gettito diventa così una certezza. «La verità – afferma Callipo – è che lo Stato vuole dalle Entrate più di 20 miliardi e dobbiamo trovarli. Per questo motivo, ci sta trasformando da controllori in consulenti fiscali che devono spiegare ai cittadini che è bene dichiarare più tasse».
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Lo schema di decreto legislativo sull’abuso del diritto – ora impigliato nella vicenda della contestata soglia di punibilità del 3% – porta nel titolo il riferimento alla «certezza del diritto». È stato detto che questo provvedimento dovrà lasciare all’interpretazione «uno spazio minimo quasi nullo». È un’affermazione, questa sullo spazio minimo quasi nullo, che va chiarita, perché secondo un’opinione diffusa la certezza del diritto è quella che non lascia alcun spazio all’interpretazione. Ora, il diritto tributario è un diritto come tutti gli altri. Sicché non si può stabilire a priori quanta parte di esso resti affidata alla interpretazione.
I principi sono sempre gli stessi. Il tema della certezza del diritto come tema di carattere generale è stato accantonato. Altri temi hanno preso il suo posto come quello dell’affidamento. Perciò non serve a niente scrivere in testa a una legge che essa risponde alla certezza del diritto. È solo uno slogan e il riferimento a questa esigenza può creare degli equivoci se non correttamente inteso. C’è un profilo pacifico del tema che riguarda tutte le leggi tributarie: il numero delle leggi e la loro stabilità nel tempo. Questo è il tema. La semplificazione è un metodo che vuol dire tutto il contrario di una legislazione a getto continuo. La certezza del diritto non può essere data da una legislazione che per la sua immensità è inconoscibile. C’è l’esigenza nel nostro ordinamento (come in quello tedesco) di un codice tributario nel quale le leggi siano semplici e chiare, altrimenti si resta condannati a una legislazione scritta con la mentalità delle circolari e che, per la sua minuziosità, penalizza non solo i contribuenti ma la stessa amministrazione. Ma è la prassi delle circolari che aggrava la situazione, quando introduce nell’ordinamento un’interpretazione distorta, con limitazioni e distinzioni che non hanno fondamento e che contrastano con lo spirito delle leggi. E l’emanazione di una circolare vuol dire certezza di atti d’accertamento conseguenti. Quindi l’aspirazione ad uno spazio minimo, quasi nullo per l’interpretazione, non è una prospettiva plausibile. Di fronte alla locuzione «sostanza economica», l’Amministrazione non rinuncerà a spiegare, con una circolare, che cosa si intende per sostanza economica nell’abuso del diritto. Lo slogan con cui è stata presentata la legge, la certezza del diritto, risulta vanificata dalla legge stessa.
Volendo dare un contenuto proprio alla certezza del diritto, questa vuol dire ripugnanza delle nuove regole senza abrogazione espressa delle precedenti nell’ordinamento legale. Il diritto ha il compito di garantire soprattutto comportamenti sociali rendendo prevedibili valutazioni per il futuro nel processo economico di alto valore costituito dalla sicurezza. Nel diritto tributario, con il forte prevalere delle garanzie costituzionali, perdono di autorità il metodo dell’interpretazione teleologica e della giurisprudenza degli interessi. Al loro posto è subentrata una concezione delle fattispecie legali dirette a garantire l’applicazione perequatrice delle leggi tributarie. La nostra giurisprudenza della Cassazione ha imboccato questa strada quando ha inventato la nozione di abuso del diritto con una interpretazione teleologica e perseguito in modo improprio la tutela dell’interesse fiscale. È sufficiente il provvedimento sull’abuso del diritto a neutralizzare questa tendenza della nostra giurisprudenza? Solo il tempo potrà dirlo.
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Nel 1990 Google non era ancora nata. Internet, in pratica, non esisteva. Uno dei primi «portatili» di Nokia pesava 800 grammi. consentiva di telefonare per poco tempo e costava migliaia di euro. Giuseppe Tornatore vinceva l’Oscar con «Nuovo cinema Paradiso». A capo del governo c’era Giulio Andreotti. Il rapporto debito pubblico/Pil era a una quota tranquillizzante: il 95%. Nostalgia per quei tempi? Sì e no, probabilmente. Ma se si guarda al fattore T, le tasse, la risposta non può che essere un sì convinto. Allora il Tax Freedom Day – il giorno della liberazione fiscale, vale a dire quello nel quale si finisce di lavorare per pagare tasse e contributi, dopo di che i guadagni sono destinati al proprio sostentamento – si festeggiava l’8 giugno. Nel 2015, invece, il contribuente tipo – un quadro con un reddito di 49.228 euro, una moglie e un figlio – dovrà lavorare, secondo l’elaborazione realizzata in collaborazione con l’Ufficio studi della Cgia di Mestre, 173 giorni per sfamare l’appetito del Fisco e degli enti locali. E si libererà dal giogo tributario solo il 23 giugno. In 25 anni – da quando il Corriere ha cominciato a determinare il Tax Freeedom Day – l’Erario si è divorato più di due settimane della nostra vita. E suscita davvero sconforto notare che nello stesso periodo, nonostante questo fortissimo aumento della pressione tributaria, il rapporto tra debito pubblico e Pil è salito dal 94,7% al 133,1%. Nel 1990 il debito ammontava a 663 miliardi. Ora supera i 2.000 miliardi.
Dal 2014 al 2015
Il giorno di liberazione fiscale resta invariato, anche se si e verificato un ulteriore, sia pure minimo, aumento della pressione tributaria: dal 47,3% al 47,5%. Va notato, però, che l’anno scorso. a gennaio 2014, avevamo stimato che sarebbero bastati 172 giorni per saldare il conto dell’Erario. Invece ne sono serviti 173 per colpa di imposte locali più salate del previsto. Il pareggio rispetto al 2014, quindi, e un po’ stentato. Va meglio. invece, all’altro contribuente – un operaio con moglie e figlio a carico e un reddito di 24.656 euro – che quest’anno si libererà dalla corvee fiscale con un giorno di anticipo: il 13 maggio invece del 14 e dopo 132 giorni di lavoro. La liberazione anticipata è dovuta al bonus Renzi, gli 80 euro in busta paga che spettano a chi ha un reddito non superiore a 24.000 euro. Il bonus quest’anno vale 960 euro, invece dei 640 del 2014 perché l’anno scorso è stato pagato solo da maggio in poi. Per entrambi i contribuenti un altro fattore positivo è dato dalla diminuzione delle accise sui carburanti. Mentre inciderà negativamente, soprattutto per il quadro, l’aumento dell’aliquota sulle rendite finanziarie, passata dal primo luglio 2014 dal 20% al 26% (con esclusione dei titoli di Stato, ancora tassati al 12,5%)L’identikit
I contribuenti tipo utilizzati per i calcoli sono i medesimi degli anni precedenti: il reddito è stato incrementato dell’1,2% rispetto a quello del 2014 sulla base della variazione degli indici di rivalutazione contrattuali Istat. La stima dell’Iva a carico del contribuente si basa sul presupposto che questi, nelle sue abitudini di spesa, rifletta quelle medie delle famiglie italiane di tre componenti come rilevate dall’Istat nell’indagine annuale sui consumi. L’operaio, con moglie e un figlio a carico, abita in una casa di sua proprietà di 90 metri quadrati con rendita catastale di 446 euro. In conto corrente ha circa 6.000 euro. Stesso nucleo familiare per il quadro che abita in una casa di sua proprietà di 150 metri quadrati con rendita catastale di 1.100 euro. I suoi risparmi ammontano a 40.000 euro di cui 12.160 in conto corrente e 27.840 in titoli e fondi.Motivazioni
Ma perché il giorno di liberazione fiscale si sposta sempre più in avanti? Lo slittamento è inevitabile in un sistema fortemente progressivo come il nostro. Soprattutto se si considera che gli scaglioni Irpef sono invariati dal 2007 e non hanno tenuto il passo con l’inflazione. In questo periodo sono state aumentate solo le detrazioni a favore dei redditi più bassi. Ad esempio: il nostro quadro vede crescere il suo reddito imponibile da 48.644 a 49.228 euro, ma di questi 584 incassati in più, ben 321 svaniscono tra Irpef, contributi e addizionali locali. E l’appetito del Fisco di periferia continua a crescere: nel 2015 presenterà un conto di 1.836 euro. Solo due anni fa si accontentava di 1.501 euro. E ora servono 18 minuti al giorno di lavoro per saldare il conto. E proprio qui si annidano le maggiori insidie per i contribuenti. Nei nostri calcoli sono state riproposte le aliquote utilizzate per il 2014, mancando al momento informazioni più complete. È vero che per la Tasi è stata prevista una clausola di salvaguardia, ma molti Comuni hanno ancora margini di manovra, anche sul fronte dell’addizionale Irpef. Stesso discorso può essere fatto per le Regioni. Insomma, accontentiamoci di non faticare un giorno in più per pagare le tasse. E incrociamo le dita.
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Anche al netto dell’incredibile vicenda dell’articolo l9 bis introdotto di soppiatto nel decreto fiscale di Natale, che secondo il costituzionalista Alessandro Pace meriterebbe una mozione di sfiducia e le dimissioni del presidente del Consiglio, il governo Renzi, come e peggio di quelli che lo hanno preceduto, si sta rivelando una calamità in materia tributaria. Non c’è intervento piccolo o grande che negli ultimi mesi non abbia prodotto pasticci, guai e relative crisi depressive di contribuenti e commercialisti. Dall’incubo Imu, Tasi, Tari alla norma retroattiva sull’Irap in spregio della Statuto del contribuente, fino alla comica finale dell’Imu agricola sui terreni “ex montani “. La riduzione delle esenzioni doveva coprire 350 milioni già spesi per il bonus degli 80 euro in busta paga, ma il pagamento è stato rinviato dal 16 dicembre 2014 al 26 gennaio 2015 (data vicinissima nella quale è lecito prevedere l’ennesimo incubo) perché di fatto la nuova norma era ragionevolmente inapplicabile, oltre che esposta a ogni genere di ricorso. Dovevano pagarla i terreni ricadenti in Comuni sotto i 600metri di altitudine, ma chi conosca un minimo la geografia italiana dovrebbe sapere che l’altitudine della sede comunale non coincide quasi mai con quella dei poderi,che spesso sono molto più in alto.
Sarà per un modo di legiferare grossolano, al modo di Re Carlone dei poemi cavallereschi (da cui l’espressione “alla carlona”), sarà per inesperienza nel padroneggiare i sistemi legislativi, sara per la sindrome dell ‘uomo solo al comando attorniato da yes-men (e yes-woman). O, peggio, sarà per una strategia ambigua di stangatine per quanto possibile sotto traccia e contemporanee strizzatine d’occhio agli evasori in funzionedi futuro consenso elettorale, come fa sospettare il 19 bis che, a prescindere dall’utilità per Berlusconi, non è un condono, ma la certificazione per legge della quota che i grandi contribuenti sono autorizzati a frodare: una vera e propria licenza a delinquere. Fatto sta che la retorica del “fisco amico” e della “moral suasion” sembra annegare nell’attuazione lentissima e caotica di una delega fiscale, che rischia di scadere tra non molte settimane.
Prendiamo la promessa semplificazione, che dovrebbe essere il primo atto di un rapporto per quanto possibile meno devastante col fisco più squilibrato del mondo occidentale. Esclusa la legge di stabilità, il governo Renzi ha emanato 8 provvedimenti con 87 norme di carattere fiscale (per la serie dell’iperfetazione normativa) di cui 49 invece di semplificare complicano le ricadute burocratiche. Le sole norme che semplificano sono quelle contenute nel decreto legislativo sulle promesse dichiarazioni precompilate. Un po ‘ meglio, per la verità, della fabbrica delle complicazioni gestita dai govemi Monti e Letta (e dai precedenti), ma con un passo che promette decenni di attesa per vedere, se mai ci sarà, un’effettiva sburocratizazzione. Almeno a stare ai dati della Confartigianato, che ha calcolato in 269 ore all’anno il tempo necessario per affrontare gli adempimenti necessari al pagamento delle tasse, contro le 110 della Gran Bretagna, le 137 della Francia, le 167 delIa Spagna e le 218 della Germania.
In compenso, se fosse passata la depenalizzazione che Renzi ha attribuito alla sua stessa manina, avremmo ulteriormente migliorato, nel tempo di un Consiglio dei ministri natalizio, il nostro record europeo di mino numero di detenuti per frode fiscale: 156 (salvo che dai tempi della statistica non siano stati rilasciati con tante scuse).
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La posta in palio è altissima: i 102 miliardi che, secondo i calcoli dell’Istat, ogni anno sfuggono alle casse dello Stato a causa del fenomeno dell’evasione contributiva. E la partita finale si giocherà, nelle prossime settimane, intorno a un testo di dodici righe, ben nascosto alla lettera “L” del settimo comma dell`articolo 1 del Jobs Act.
Nella delega sul lavoro affidata al governo, il parlamento ha lasciato aperte due strade contrapposte su come impostare la guerra ai furbetti dei contributi. La prima prevede un maggior coordinamento tra gli 007 del ministero del Lavoro, quelli dell’Inps e quelli dell’Inail, i tre soggetti incaricati dell’attività ispettiva a livello nazionale (insieme ad Asl e Arpa regionali). La seconda si basa sull’istituzione di un’agenzia unica, che farebbe capo al dicastero guidato da Giuliano Poletti, all’interno della quale far confluire gli ispettori ministeriali e quelli dei due enti. In questo caso, a farne le spese sarebbe (poco coerentemente) in primo luogo 1’Inps, l’istituto che proprio nei giorni scorsi ha ricevuto un riconoscimento di efficienza dal governo di Renzi, pronto ad affidargli, dopo lo scandalo dei vigili urbani capitolini, il controllo sulle assenze per malattia dei dipendenti pubblici, finora svolto con risultati assai poco lusinghieri dal circuito delle Asl.
Al di là della scelta del cappello sotto il quale far confluire gli ispettori, quella dell’unificazione sembra una via obbligata. Anche per l’ottimo motivo che i tre drappelli di segugi finiscono, spesso e volentieri, per pestarsi i piedi tra loro. Istituzionalmente hanno compiti diversi (il ministero verifica la regolarità dei contratti dei dipendenti; l’Inps il versamento dei contributi; l’Inail la sicurezza sul lavoro), ma non è certo un caso raro che si rivolgano quasi contemporaneamente a una stessa azienda, chiedendo peraltro la medesima documentazione, e finendo in questo modo per paralizzarne l’attività. «Succede regolarmente», accusa Francesco Verbaro, consulente e docente di organizzazione del lavoro nelle pubbliche amministrazioni, già segretario generale del ministero. Conferma Enzo De Fusco, coordinatore scientifico della fondazione studi dei consulenti del lavoro. Che aggiunge: «Una banca dati centralizzata eviterebbe queste sovrapposizioni».
Di agenzia unica si parla da anni (ha iniziato Maurizio Sacconi, titolare del ministero con Silvio Berlusconi), senza che il progetto riesca a fare passi avanti. Per un motivo semplice: in ballo ci sono, oltre agli interessi degli evasori più incalliti e delle loro lobby, anche quelli dei quasi 5.000 ispettori in attività, oggi contrattualmente inquadrati (e pagati) in maniera non omogenea. Sulle dodici righe messe a punto dopo una faticosa mediazione in parlamento, dunque, sarà ancora battaglia. Oggi funziona (si fa per dire) così. Gli ispettori sono 4.800: 3.000 fanno capo al ministero di via Veneto, 1.400 all’Inps e 400 all’Inail, l’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro. Tutti insieme, nel 2013 sono riusciti a mettere il naso nei registri di 235.122 aziende, cogliendone in fallo 152.314, scoprendo 239.021 lavoratori irregolari e 86.125 completamente in nero. Alla fine, hanno contestato omessi pagamenti per un miliardo e 471 milioni. Già così sarebbe un risultato ben magro. Ma, secondo quanto risulta a “l’Espresso”, le cose stanno ancora peggio: lo Stato, di fatto, è riuscito a incassare solo 250 milioni. I conti dunque non tornano.
Secondo l’ultimo (2013) Rapporto annuale sull’attività di vigilanza in materia di lavoro e previdenziale elaborato dal ministero di via Veneto, in Italia risultano in attività un milione e 600 mila aziende che dichiarano almeno un dipendente. Vuol dire che solo il 14,7 per cento del totale è stato oggetto di qualche attenzione da parte degli 007 di ministero, Inps e Inail. Troppo poco. E lo stesso vale per i 250 milioni che lo Stato è riuscito a incassare: rappresentano l’inezia dello 0,25 per cento rispetto ai 100 miliardi di evasione stimata. E il trend sembra addirittura in peggioramento. Il rapporto del ministero segnala infatti un calo del 3,6 per cento delle imprese ispezionate nel 2013. Un dato che i sostenitori dell’attuale regime spiegano con una sempre più efficace attività di intelligence, capace di orientare gli interventi sulle irregolarità di maggior rilevanza, quelle cioè in grado di garantire un gettito superiore. A supporto di questa tesi citano quella parte del rapporto del ministero dove si rileva un incremento della percentuale di verifiche andate a seguo, salita in un solo anno dal 63 al 64,78. Dimenticando però quanto gli uomini di via Veneto scrivono solo poche righe più sotto. E cioè che le somme contestate nel 2013 risultano inferiori del 13 per cento rispetto a quelle del precedente anno (da un miliardo e 631 milioni a un miliardo e 421 milioni). Con buona pace dell’intelligence.
Contraddizioni che non sono sfuggite alla Corte dei Conti. I magistrati contabili si sono presi la briga di verificare gli effetti del protocollo di intesa per un maggior coordinamento firmato da ministero, Inps, Inail e Agenzia delle entrate nell’agosto 2010, quando l’allora titolare del Lavoro, Sacconi, si era reso conto che il suo progetto di agenzia unica era destinato ad arenarsi una prima volta. «L’analisi dell’attività di verifica e controllo sviluppata nel periodo 2010-2013», si legge nella relazione datata 26 settembre 2014, «non consente di stabilire la misura dell’effettivo contributo derivato al sistema dalla (parziale) messa in comune delle banche dati e dalle maggiori sinergie sviluppate tra istituzioni ed enti diversi». E ancora:«Nell’istruttoria sono state segnalate criticità e diseconomie sul versante del coordinamento, con sovrapposizione ovvero duplicazione di controlli da parte dei soggetti istituzionali competenti e problemi nello scambio di dati e informazioni». Tranchant la conclusione dei magistrati contabili: «In caso di persistente inadeguatezza del complessivo sistema di controllo, la soluzione pressoché obbligata rimane quella dell’accentramento in un unico soggetto di diritto pubblico dell’attività di pianificazione e di gestione delle proiezioni ispettive nella materia giuslavoristica e previdenziale».
«In un Paese normale l’agenzia unica sarebbe una realtà già da dieci anni», dice Verbaro. Ma siamo in Italia. E anche le riforme più difficili da contestare possono arenarsi davanti alle resistenze corporative di esigue minoranze, soprattutto se ben organizzate sul fronte sindacale. Già, perché il nocciolo della questione è la retribuzione degli ispettori. Quelli di via Veneto hanno il contratto dei ministeriali, che garantisce loro una retribuzione fissa media annua di 27.710 euro e una accessoria di l.000 euro tondi. Quelli di Inps e Inail, inquadrati come dipendenti di enti pubblici non economici, godono di una paga fissa media annua leggermente inferiore (27.4-17 euro), ma anche di una accessoria che arriva a 10.538 euro. Cui si somma una fantozziana indennità di ente da 6.000 euro ogni dodici mesi. Il pallottoliere dice che la differenza è di 15.275 euro.
Se fossero messi insieme ai ministeriali, gli ispettori degli enti dovrebbero mettere in comune con gli altri il fondo accessorio e diventerebbero più poveri. Se invece fossero i ministeriali, in base al criterio del galleggiamento inventato dai sindacalisti del pubblico impiego, a essere equiparati ai parenti ricchi, lo Stato dovrebbe sborsare, tra stipendi e indennità, 45.824.608 euro in più l’anno (facendo saltare il delicato equilibrio tra entrate e uscite su cui si regge oggi il sistema della vigilanza sui contributi). Ed è intorno a questi calcoli che sta prendendo corpo una terza ipotesi, che alla fine potrebbe rappresentare una sintesi realistica. E cioè riunificare sì gli ispettori, ma all’interno dell’Inps, che già oggi vanta la struttura di gran lunga più efficiente (il confronto è improprio, ma dà l’idea: nel 2013 l’istituto affidato da pochi giorni all’economista Tito Boeri ha assicurato da solo l’84,3 per cento del totale dell’evasione contributiva accertata a livello nazionale).
Un rapporto di 46 pagine, messo a punto dalla Direzione centrale vigilanza, prevenzione e contrasto all’economia sommersa dell’Inps (e quindi un documento in un certo senso di parte) spiega cosa accadrebbe se si decidesse di percorrere questa terza via. Dice che il tasso di successo delle ispezioni salirebbe dall’attuale 65 per cento scarso all’81 dopo cinque anni e al cento per cento dopo dieci. E che alla fine del percorso (15 anni) si avrebbe un recupero di contribuzione evasa pari a 48 miliardi. Se i calcoli stessero davvero in piedi, allora forse per una volta il gioco di aprire i cordoni della spesa pubblica potrebbe anche valere la candela. In odio agli evasori.
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I tempi non ci sono proprio e una proroga sembra necessaria. Ma quello che va rivisto è il sistema della comunicazione tra Governo e Parlamento, che ha subito un evidente corto circuito e che è stato, in sostanza, all’origine del pasticcio ma anche dei ritardi. Attualmente la delega è stata realizzata al 15,5% in dieci mesi, quindi appare davvero difficile che venga completata in tempo. Più in dettaglio, solo un decreto legislativo è entrato in vigore: quello sulle semplificazioni, mentre quello sulle commissioni censuarie catastali (prodromico alla riforma del catasto) è ancora nei cassetti di Palazzo Chigi a un mese dall’approvazione definitiva; stessa sorte è toccata a quello sui tabacchi, per il quale non sono mancate le polemiche a causa di un ritocco sulle accise.
Per gli altri provvedimenti che devono dare attuazione ai principi della delega, invece, siamo in alto mare. A partire dalla riforma del catasto, il cui decreto chiave, quello sulle «funzioni catastali» che devono assicurare nuovi valori a 60 milioni di immobili, è stato elaborato dall’agenzia delle Entrate sulla base di una sconsolante considerazione: dato che non ci sono abbastanza dati per costruire una statistica territoriale, si devono ampliare a dismisura gli ambiti territoriali stessi.Tutti aspetti di cui la mini bicamerale non è stata informata ma che, al momento in cui la bozza del decreto vedrà la luce, susciteranno un vespaio. O dal principio sulla lotta all’evasione, che per ora ha prodotto solo l’obbligo (previsto in modo estemporaneo dal Dl 66/2014) di inviare un rapporto alle Camere sulle strategie adottate.
L’ambizioso obiettivo di impiegare un solo anno per rinnovare il sistema fiscale italiano aveva trovato da subito l’assist dei presidenti delle commissioni Finanze della Camera e Finanze e Tesoro del Senato, che avevano costituito una mini bicamerale informale con i rappresentanti di tutti i gruppi parlamentari. Questo organo ha il compito di esaminare le bozze dei decreti legislativi in via preventiva e di farne emergere le criticità prima che arrivino all’esame ufficiale delle Commissioni, in modo che il Governo possa poi contare su un’approvazione senza problemi. Il meccanismo ha funzionato a fasi alterne per i primi quattro provvedimenti, suscitando anche malumori per il modo approssimativo in cui a volte le bozze venivano portate alla bicamerale. Ma, in sostanza, il meccanismo di filtro è servito. Tranne che nel caso del decreto sulle commissioni censuarie catastali, che ha visto due ribattute di ping pong sulla questione della rappresentanza obbligatoria delle associazioni di categoria del mondo immobiliare: il Governo non voleva garantirla ma le commissioni parlamentari hanno tenuto duro. Del resto i tempi sono lunghi anche perché è proprio la delega a prevedere un parere parlamentare delle commissioni competenti entro i 30 giorni della trasmissione del decreto e un eventuale secondo parere qualora il Governo decida di non conformarsi alle indicazioni arrivate dalle Camere.
Le reazioni dei presidenti delle commissioni parlamentari sono diversi nel tono. Daniele Capezzone (Camera) in una lettera aperta ha invitato il premier «a riprendere il meccanismo informale ma di grande buon senso, che era stato politicamente accettato dal Governo e che era stato rispettato per i primi tre decreti, a indicare un cronoprogramma preciso e far sapere alla commissione e al Parlamento se il Governo intenda avvalersi delle proposte di proroga della delega che sono state presentate». Mauro Marino (Senato) ribatte che «Capezzone sbaglia nel definire deludenti i decreti delegati già in Gazzetta ma ha ragione nell’invocare la continuità del metodo della consultazione informale sugli schemi di decreto legislativo in preparazione»; e sulla proroga invita a a una valutazione «solo dopo aver vagliato l’adeguatezza dei tempi necessari al completamento della delega».
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Una pena è giusta se proporzionata al reato commesso. È un principio banale, che gli italiani hanno insegnato al mondo, ma che da anni dimenticano alla ricerca del gesto esemplare. Ciò avviene per due spinte contrapposte: quella dei cosiddetti conservatori, poco indulgenti verso i reati comuni, e quella dei progressisti, assatanati (forse per reazione) per i crimini dei colletti bianchi. Entrambi gli schieramenti si trovano però insieme nella legislazione di emergenza: succede un qualche disastro e i nostri eroi rispondono con pene esemplari alla ricerca del capro espiatorio e per allontanare da sé l’ombra della responsabilità e dell’inattivismo.
In Italia una bottega del barbiere rischia di essere sottoposta alla stessa disciplina di uno stabilimento dell’Eni nello smaltimento dei propri rifiuti. Una piccola impresa deve seguire le stesse procedure sulla sicurezza di un’industria siderurgica. Ovviamente per rispondere a disastri ambientali del passato e a fobie ambientaliste del presente. O per contrastare morti sul lavoro sull’onda di un fatto di cronaca. Oggi l’emergenza sono i nostri conti pubblici in rosso che si ritiene siano dovuti agli evasori fiscali (una favola), giù quindi a bastonare i presunti tali con norme micidiali. I politici, inoltre, si considerano dei fenomeni, stanno lì sui loro banchi e pensano che cittadini e imprenditori non possano sbagliare una virgola: applicano ai più piccoli il rigore che si ritiene dovuto ai più grandi che, proprio per le dimensioni, si possono (ancora per poco) permettere uffici e staff che controllano la correttezza burocratica e cartacea di tutto.
Vedete, questa settimana non si è parlato d’altro che del codicillo introdotto nella delega fiscale e che prevedeva la non procedibilità penale per chi commettesse evasioni fiscali inferiori al tre per cento dell’imponibile. Una norma ispirata al buon senso. Così come tutta la legge resta di buon senso, con numerose depenalizzazioni.
La legge delega approvata dal Parlamento prevedeva appunto un ritorno alla proporzionalità tra illecito e sanzione. Un certo eccesso di delega si può senz’altro riscontrare, poiché la previsione del tre per cento si applica anche alle frodi realizzate con la predisposizione di documenti falsi. E nell’articolo 8 della legge sembra proprio che questa previsione non sia contenuta. Resta il punto di sostanza. Si pensi al caso in cui un’azienda commetta un errore di competenza economica, o si deduca costi non inerenti (la questione come ben sanno le mini partite Iva è sempre opinabile) o ancora dichiari un reddito inferiore a quello contestato sulla base di una interpretazione diversa dell’amministrazione, ma anche al caso di omessa dichiarazione di redditi conseguiti in tutti questi casi, le polemiche apparse in questi giorni sono assurde, visto che dimenticano che l’evasore che viene pizzicato paga le imposte, gli interessi e le sanzioni amministrative. Questo famigerato articolo l9bis prevede addirittura, con una norma assai severa, che le sanzioni amministrative siano raddoppiate nei casi in cui opera la non punibilità penale. Il rischio, semmai, è che non si vada in galera, ma al tribunale fallimentare.
È fuori luogo parlare di un’area di impunità. C’è chi ad esempio fa il parallelismo con il rapinatore che sarebbe autorizzato a derubare senza sanzione penale se il bottino non fosse superiore al 3 per cento della cassa: ci si dimentica però che per la rapina, a differenza dell’evasione, non c’è una sanzione pari ad un multiplo del bottino (di regola da una a due volte le imposte evase), multiplo che l’articolo 19 bis prevede espressamente di raddoppiare (da due a quattro volte). Cosa è peggio per un presunto o potenziale evasore? Sapere che dopo qualche anno potrebbe finire per qualche mese in carcere o vedere sequestrati, in attesa di giudizio,i proventi dei suoi illeciti con gli interessi?Ma, soprattutto, cosa fa più comodo alle casse dello Stato, che tutti dicono di volere risanare?
Su questa norma è nato un putiferio legato alla questione Berlusconi, che se ne avvantaggerebbe. Sono fatti che «inzigano» i retroscenisti politici. Quello che qui vogliamo sottolineare è il riflesso condizionato dei nostri politici. Che non si rendono conto di come il mondo per gli invisibili sia diverso da come se lo raccontano loro. L apiù straordinaria è la deputata civatiana (sì, esistono anche loro) Lucrezia Ricchiuti, che ha subito proclamato: «In pratica questo codicillo ha detto che più sei ricco e più puoi evadere». Ma questa parlamentare sa che già oggi ci sono delle soglie di non procedibilità penale? E lei, come i tanti che le si sono associati, sa che anche per una piccola impresa avere accertamenti superiori al 3 per cento del proprio imponibile, purtroppo non è cosa rara?
Ps: si dice nei tam tam del Palazzo che tutta la delega fiscale, una corposa normativa, sia stata concordata con l’Agenzia delle entrate. E quest’ultima ha fatto subito sapere che alcune norme di depenalizzazione non le piacciono. Viene da chiedersi se sia così assurdo prevedere nel futuro che le leggi fiscali siano fatte dai politici con il consenso, la consultazione e le legittime pretese dei contribuenti e non dei loro esattori. Il governo deve seguire i desiderata delle sue agenzie prima di fare le norme o le richieste dei cittadini-contribuenti-elettori? Che ne pensa ad esempio di ciò l’onorevole, sottosegretario all’Economia, Zanetti, che nella sua passata vita da commercialista ha fatto tante rigorose battaglie contro i pregiudizi degli uffici governativi e fiscali?
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Non è una svista, ma un errore accecante. Era già capitato con il trattamento fiscale delle partite Iva, approvato di notte e la mattina dopo Matteo Renzi già diceva che si doveva correggere. E’ capitato con uno dei decreti legislativi relativi sul lavoro, che taluni consideravano valido anche per il pubblico impiego e altri no, tanto che Renzi disse di rimettersi al Parlamento, dimenticando che era il Parlamento ad essersi rimesso al governo. Ma sulla delega fiscale si esce dalla farsa e si entra nella tragedia. Per tre ragioni: di merito, di metodo legislativo e di ordine politico.
1. Nel merito credo abbia ragione Vincenzo Visco, quando osserva che considerare non perseguibile penalmente una frode fiscale entro il 3% dell’imponibile pagato non è diverso dal considerare penalmente esenti le fatture false entro i 1.000 euro e la soglia di non punibilità penale che passa da 50 a 150.000 euro evasi. A me sembrano provvedimenti accettabili, sebbene oscuri nel funzionamento (la fattura è esente se resta unica o può esistere una cartiera che ne produce in serie? perché cambia, e non di poco). A Visco sembrano abomini. Ma sono perle della medesima collana. Se si cancella il 3% per ragioni morali, perché mai si dovrebbe mantenere la non penalità per le fatture false, che sono strumento evidente di frode fiscale? E’ ragionevole che si possa essere favorevoli o contrari, non lo è che si faccia uno spezzatino e si mastichino alcuni bocconi sputandone altri. Questa faccenda, per le evidenti implicazioni politiche, finisce con l’oscurare tutto il resto. Che non manca di guai grossi. Avevo avvertito che la formulazione dell’abuso di diritto porta con sé un abuso di giurisdizione, nel senso che si passa palla e potere ai giudici. Ovvero l’esatto opposto della certezza del diritto, che dovrebbe essere chiaro prima. Leggo che Alessandro Giovannini, presidente dell’associazione docenti di diritto tributario, pensa la stessa cosa. Ma nessuno se ne occupa.
2. Il metodo legislativo è raccapricciante. L’idea che il Consiglio dei ministri approvi roba che non legge, o che al momento dell’approvazione non è scritta (perché questo credo sia successo), è già imbarazzante. Se poi parte la gara a dissociarsi, vuol dire che il governo è in disfacimento. Essendo decreto legato a una legge delegante la sola cosa da accertarsi è se il suo contenuto sia conforme, o meno, alla delega. Posto che un decreto non si “ritira”, qui si sta correndo a scriverne un altro senza che si sia detto se il punto contestato è o no coperto da delega. Non sto a descrivere il perché tale punto è rilevante, con entrambe le ipotesi inquietanti.
3. Se quel 3% era una furbata pro-Berlusconi era da rincretiniti supporre che sarebbe sgusciata nel silenzio. Passi per il Natale, ma prima o dopo qualcuno avrebbe letto. Se non lo è, nel senso che non è un codicillo oscuro della “pacificazione”, allora è allucinante che una norma sia ritirata (non essendo ritirabile) sol perché potrebbe giovare a uno. Con tanti saluti alla Costituzione e alla presunta eguaglianza dei cittadini innanzi alla legge. Renzi se ne è assunto la responsabilità perché s’è reso conto che raccontare come sono veramente andate le cose (ammettendo che la macchina legislativa di Palazzo Chigi è fuori controllo, o eteroguidata di soppiatto) sarebbe stato più dannoso che prendersi la colpa. Non s’è reso conto della conseguenza: se ripiega braghe in mano dopo la malaparata si trova nella medesima condizione in cui si trovò il governo Amato quando il decreto Conso dovette essere stoppato: finito. Prendere l’aereo di Stato per andare a sciare e poi scivolare su una roba simile significa avere perso lucidità. Infine, dire che della materia si riparlerà dopo l’elezione presidenziale non solo ha un vago sapore ricattatorio, destinato ad avvalorare l’idea che fosse una furbata, stupidamente organizzata, ma dimentica che la delega fiscale scade il 28 di marzo. Posticipare è suicida, perché incita l’esercito dei franchi tiratori a dilatare i tempi quirinalizi, talché la delega fiscale vada a farsi benedire. Si dirà: così, però, essi danneggerebbero gli interessi nazionali. Sicuro, ma non è che i protagonisti di questa storiaccia si siano distinti per l’opposto.
P.S. La pezza si fa sempre più colorata, talché il buco risulta sempre più evidente. Leggo (Il Messaggero) che il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Graziano Delrio, sostiene essere normale che un testo licenziato dal Consiglio dei ministri sia diverso da quello entrato. Come dire: il dibattito è vero e i partecipanti non sono delle comparse. Sarebbe bello, ma non è così. I provvedimenti esaminati dal Consiglio vengono prima studiati e preparati in un pre-consiglio, cui partecipano capi di gabinetto e/o i capi degli uffici legislativi. Questo per fare in modo che all’esame dei ministri non giungano questioni che poi daranno luogo a discussioni tecniche. Il punto è: visto che il 3% del dovuto al fisco, quale soglia al di sotto della quale l’evasione non fa scattare l’azione penale, non era nel testo entrato in Consiglio è evidente che non è mai stata esaminata dal pre-consiglio. Il che non è affatto normale. Quando, poi, dovessero sorgere discussioni politiche, dubbi o posizioni diverse, delle due l’una: o il presidente del Consiglio pone ugualmente il provvedimento in votazione, chiedendone l’approvazione, oppure, più frequentemente, rinvia la discussione al Consiglio successivo, in modo che ci sia tempo per appianare i contrasti e fornire i chiarimenti. Sul 3% non è successo nulla di questo.
Dice Delrio, in tal modo confermando la procedura e questa seconda ipotesi, che non c’è nessuna manina che abbia cambiato il testo, essendo stato licenziato quel che il Consiglio ha discusso e approvato. Benissimo. Poi aggiunge. Ma siamo pronti a cambiarlo. Malissimo. Se è quello che avete discusso e approvato, perché poi volete cambiarlo? Solo per le reazioni esterne? Ma, allora, sbaraccate il Consiglio dei ministri, rottamate la parte della Costituzione che ne regola funzioni e poteri, e abbandonatevi ai sondaggi. Perché vi accorgete che è un errore? Allora licenziate gli uffici legislativi e fate penitenza. Aggiunge ancora: “non credo che ci sia nessun problema a tenere aperto il provvedimento fino a quando non si trova un equilibrio che possa evitare qualsiasi cattiva interpretazione”. Ci sono eccome, i problemi. Primo: dove pensa di trovarlo, l’equilibrio? All’interno del Consiglio, dove hanno già approvato, nel partito, nella coalizione, in televisione? La Costituzione prevede solo il primo caso, il resto non è fantasia, ma rottamazione costituzionale. Secondo: si tratta di un decreto legislativo, già approvato, la cui delega scade il 28 di marzo, se lo tengono sospeso si brucia tutto. Terzo: si rendono conto del precedente che creano? Da ora in poi il Consiglio approva, poi si attende di vedere l’effetto che fa, indi si stabilisce se procedere o ritirare. Posto che la procedura di ritiro non esiste. Il buco non è bello, ma la pezza è terribile.
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Ammettere gli errori è onesto e può essere segno di forza. Ma può anche essere una sgusciante furbata. Dice Matteo Renzi, ai microfoni di Rtl 102.5, che “un intervento correttivo sulle partite Iva è sacrosanto e me ne assumo la responsabilità”. Dell’errore commesso o della correzione? Di entrambe, suppongo. Bene, gliene renderemo volentieri merito. Non è per non fidarsi, però ci sono cose che non tornano.
L’errore, ora ammesso come tale, è stato qui segnalato quando la legge di stabilità era ancora in discussione. Per correggere quelli accumulati nell’iter parlamentare, diversi dei quali indotti da emendamenti presentati da ministri, il governo ha elaborato un mostruoso maxi emendamento, in totale continuità con i (peggiori) costumi di sempre. In quel testo, caotico, colmo di strafalcioni e scritto in un linguaggio che (teoricamente) la legge proibisce, l’errore non solo c’era ancora, ma aggravato. Anche questo lo abbiamo qui scritto, in tempo utile per la correzione. Niente. Su quel frullato legislativo hanno posto la fiducia. Teoricamente si sarebbe potuto intervenire alla Camera dei deputati, visto che è questo il lato positivo del bicameralismo (consustanziale alla “Costituzione più bella del mondo”, anche se ora va di moda oltraggiarlo). Obiettano: così si sarebbe arrivati all’esercizio provvisorio. Primo: non è una tragedia. Secondo: meglio quello delle norme abborracciate e sbagliate. Niente. La mattina dopo l’approvazione definitiva ecco Renzi: è un errore, va corretto. Poteva accorgersene prima. Sarebbe bastato leggere.
La stessa mattina, però, il Corriere della Sera pubblica una nota firmata da Yoram Gutgeld, consigliere economico del medesimo Renzi, il quale sostiene che non solo non è un errore, ma un’ottima e giusta cosa, una conquista fiscale e semplificatoria (!?). Ovviamente dissento, avendo sostenuto il contrario, ma mi educarono a rispettare opinioni e tesi altrui, salvo confutarle. Qui, però, il problema è che due opinioni opposte risiedono in due stanze attigue, a Palazzo Chigi. La domanda è: stanno parlando dello stesso testo? Oppure, nel caos, hanno ancora in mano bozze e riassuntini diversi? Difficile credere che Gutgeld potrà consigliare la correzione di quello che gli sembra ben fatto. Ma, allora, chi si sbaglia? È comunque disdicevole la dottrina per cui le leggi si fanno insalsicciando di tutto, anche a caso, salvo poi intervenire con altre leggi per correggerne i più macroscopici errori. Si deve a tale dottrina la non credibilità e affidabilità delle leggi. Il tutto senza dimenticare che si continua a dare per fatta la diminuzione della pressione fiscale, il che non trova fondamento nel testo e, con ogni probabilità, serve ad alimentare una suggestione. Occhio, perché poi si trasforma in disillusione. Difficile da indirizzare.
Renzi ha fatto riferimento anche all’Ilva, altro tema qui sollevato, avvertendo noi che si sta andando in direzione opposta al necessario, nazionalizzando laddove si dovrebbe privatizzare. Ha detto che l’Unione europea non può impedirci di salvare i bambini di Taranto. Siamo abituati alle parole e ai toni della propaganda, ma queste superano il tollerabile. Sembra il piccino cui la mamma non compra i balocchi, salvo che è cresciutello e vuole imporsi per ruzzare, ma senza che la mamma smetta di dilapidare in profumi e il babbo scommettendo all’ippodromo. Invocare il superamento di parametri agitando l’immagine dei bimbi equivale a dire che non si è capaci di porre limite alcuno ai loro dissennati genitori. Si è sodali degli sperperanti, tentando di far credere che i cattivoni stiano altrove. Forse Renzi non lo ha chiaro, ma è esattamente questa la ragione per cui la legge di stabilità non solo non cambia affatto verso, ma fa il verso al peggio del passato. Pur al netto degli strafalcioni. Suggerisco un criterio facile: finché non sarà tagliata la spesa pubblica è escluso che scenda la pressione fiscale, senza che cresca il debito. Statalizzare l’Ilva è l’opposto.