fisco

Serve efficienza e meno imposte

Serve efficienza e meno imposte

Raffaello Lupi – Il Tempo

Il tax day di metà dicembre della tassazione immobiliare c’è da anni, ma è diventato intollerabile per una serie di fattori concomitanti. Agli inasprimenti del governo Monti si sono infatti aggiunte la crisi economica, la diminuzione dei valori immobiliari, la difficoltà di trovare inquilini affidabili, la diminuzione dei redditi familiari, sempre meno in grado di fronteggiare le spese fisse immobiliari, come il condominio, le utenze, le riparazioni. Per questo appare assurdo l’aumento automatico delle tasse comunali sugli immobili per controbilanciare i tagli dei trasferimenti dello Stato ai Comuni. Tagliare dalla porta (statale) e tassare dalla finestra comunale contraddice la diffusa percezione sociale degli sprechi nei bilanci comunali, confermata dai recenti scandali romani. Gli stessi Comuni sono le entità più qualificate per individuare e ridurre questi sprechi, senza ripararsi dietro il fantomatico ricatto di «tagliare i servizi».

Dietro tante spese comunali non ci sono affatto servizi, ma uffici con spese per affitti, utenze e personale, di cui non si capisce esattamente l’efficienza, in un pozzo senza fondo che «si auto-produce», e dove ci sono ampi margini per fare lo stesso con meno spesa. La domanda sociale di razionalizzare la spesa comunale non può essere elusa con aumenti di tributi. È un obiettivo raggiungibile solo con assunzione di responsabilità degli amministratori e con la loro disponibilità ad un rischio calcolato. Tante spese inutili infatti servono solo a coprire le spalle ai responsabili nell’ipotesi che qualcosa dovesse andare storto. In quest’ipotesi è importante che la pubblica opinione, e i mezzi di informazione, sostengano chi si assume qualche rischio in nome dell’efficienza.

Fisco, la guerra dell’origano

Fisco, la guerra dell’origano

Andrea Bassi – Il Messaggero

Sono ormai mesi che in Parla- mento se ne discute. Interrogazioni, interpellanze e, ora, finalmente, l’annosa questione potrebbe essere risolta con un bell’emendamento alla manovra finanziaria. Il complicato quesito al quale il mondo politico ha deciso finalmente di dare una risposta definitiva e certa, è se la legge deve essere uguale per tutte. Sì, non per tutti, perché non di cittadini si parla, ma delle erbe aromatiche. Se è giusto, insomma, che il basilico, il rosmarino, la salvia e l’origano paghino tutti le stesse tasse. O se invece qualche erba, a voler scomodare la Fattoria degli animali di George Orwell, è più uguale delle altre. Già, perché quando il Fisco ci si mette riesce a fare discriminazioni pure nella padella. Il tartassato, nel caso, è l’origano, una delle erbe aromatiche, spiega Wikipedia, «più utilizzate nella cucina mediterranea, in virtù del suo intenso e stimolante profumo».

Sarà pure, ma per il Fisco l’origano è roba indigesta. Se la salvia, il rosmarino e il basilico pagano un’aliquota Iva del 4%, l’origano deve pagare il 22%. Perché? Perché secondo un’interpretazione dell’Agenzia delle Entrate, «pur convenendo che da un punto di vista tecnico-merceologico, appartiene alla stessa voce doganale di basilico, rosmarino e salvia, non essendo l`origano letteralmente menzionato dal legislatore al citato numero 12-bis della tabella A, alle cessioni di questo prodotto immesso sul mercato in buste sigillato a rametti o sgranato, si deve applicare l’aliquota Iva ordinaria».

Non fa una piega. Certo, qualcuno poi potrebbe chiedersi come potrebbe fare il Fisco a tassare l’origano quando finisce in qualche confezione di erbe aromatiche miste, magari usando qualche cane molecolare. Ma tant’è: l’origano la deve pagare (l’Iva, ovviamente). Niente paura, però. In soccorso della bistrattata erba aromatica sono giunte due senatrici del Pd, Leana Pignedoli e Venera Padua. Il loro emendamento punta a riportare la giustizia nel mondo dei condimenti: anche l’origano, dicono, deve avere l’Iva agevolata. Peccato che nel loro slancio riparatore abbiano finito per fare un mezzo pasticcio. La tassa per l’origano, proposta dall’emendamento, è del 6%, un’aliquota Iva che non esiste. E comunque due punti superiore a quella di salvia e basilico. L’origano, insomma, è sempre il meno uguale dei condimenti.

Il fisco è al top in Italia

Il fisco è al top in Italia

Tancredi Cerne – Italia Oggi

In Italia scendono le tasse ma il Paese si mantiene quinto al mondo per pressione fiscale. A levare i veli sulla radiografia del sistema tributario della Penisola è stata l’Ocse che ha messo a confronto il sistema di riscossione dei tributi nelle principali economie del Pianeta. In base ai risultati, il peso delle tasse nella Penisola, misurato come rapporto tra entrate fiscali e pil, lo scorso anno è lievemente calato rispetto al 2012 portandosi al 42,6% dal 42,7%. E questo, in controtendenza rispetto a molti Paesi che hanno giocato sulla leva fiscale per aumentare le entrate in momenti di crisi. Come avvenuto in Portogallo, dove il governo, nell’ultimo anno, ha alzato le imposte del 2,2%. O la Turchia, che ha fatto lievitare le tasse dell’1,7%. La modesta contrazione del carico fiscale italiano non ha consentito, tuttavia, alla Penisola di smarcarsi dal triste primato di quinto Paese al mondo per pressione fiscale. Peggio dello Stivale, soltanto la Danimarca, in cima alla classifica dell’Ocse per pressione fiscale con il 48,8% del pil, seguita dalla Francia (45%), dal Belgio (44,6%) e dalla Finlandia (44%). Le cose sembrano andare molto meglio in Germania (36,7%), nel Regno Unito (32,9%) e in Spagna (32,6%). Per non parlare degli Stati Uniti che con il 25,4% di pressione fiscale risultano uno dei Paesi meno tartassati dal Fisco.

Entrando più nel dettaglio, le entrate fiscali italiane, secondo l’analisi dell’Ocse, sarebbero costituite per il 27% da proventi delle imposte sul reddito delle persone fisiche, oltre a un 7% legato alle tasse sui profitti delle aziende, un 30% derivante dai contributi sociali e previdenziali, e un ulteriore 6% generato dalle tasse sugli immobili. A questo si aggiunga un 26% legato alle tasse sui consumi di beni e servizi e un 4% da altri provvedimenti fiscali. Al di là della classifica sulla pressione fiscale, gli esperti di Parigi hanno lanciato un allarme sulla capacità di raccolta dell’imposta sul valore aggiunto da parte delle autorità fiscali della Penisola. «L’Italia ha un tasso di Iva superiore alla media dei Paesi Ocse, ma è tra i meno efficienti in materia di performance del sistema», si legge nel rapporto. «Oggi l’Iva si attesta al 22%, contro una media Ocse del 19,1 per cento. Ma l’indice di efficacia del sistema di raccolta (che misura il divario tra le entrate effettive legate all’Iva e quelle che sarebbero teoricamente generate da un’applicazione del tasso di Iva normale alla totalità dei consumi nazionali) è fermo a 0,38, quasi 0,2 punti sotto la media, per l’effetto combinato di esenzioni e Iva agevolata da un lato, e di evasione e frode dall’altro». Risultato, in Italia i proventi dell’Iva rappresentano solo il 13,8% del totale delle entrate fiscali, contro una media Ocse del 19,5%.

Sulla spesa tagli finti, sui tributi aumenti veri

Sulla spesa tagli finti, sui tributi aumenti veri

Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

Fino a oggi le tasse locali sono state trattate da Governi e Parlamenti come un ramo cadetto della politica fiscale. Per dirla in modo più chiaro, le varie “riforme” che si sono affastellate in questi anni hanno sempre risposto a scopi estranei alla finanza locale, cioè prima di tutto a trovare soldi per puntellare il bilancio statale.

La vicenda dell’Imu, che almeno nel nome pare destinata a concludersi dopo tre anni di sofferenza, è esemplificativa. Fin dall’inizio, questa versione geneticamente modificata della vecchia (e ordinata) Ici ha gonfiato il gettito con l’obiettivo di aumentare le entrate statali, al punto da girare allo Stato quote rilevanti di un’imposta municipale solo nel nome. Questo difetto d’origine si è inevitabilmente riverberato su tutti gli sviluppi dell’Imu, fino all’ultima puntata che interessa in questi giorni i terreni agricoli ex montani (lo raccontiamo nella pagina a fianco). Anche in questo caso, si è partiti dall’esigenza di trovare 350 milioni già spesi dallo Stato con il bonus Irpef, e per raggiungere questo scopo che non c’entra nulla con l’eventuale ricchezza tassabile dei terreni si sono costruiti criteri riconosciuti come irrazionali dallo stesso Governo, che infatti ora annuncia proroghe e correzioni future.

Questa prassi, intendiamoci, è iniziata anni fa, e all’inizio deve essere sembrata geniale a Governi in cerca di risorse e consensi. In questo modo, infatti, è stato possibile a tanta politica far finta di tagliare spesa pubblica senza aumentare le tasse, dando però ad altri il compito di trovare le risorse per far quadrare i conti. Il gioco, però, ha il fiato corto, i contribuenti l’hanno capito da tempo e la moltiplicazione degli importi e delle complicazioni per pagarli ha azzerato la pazienza. La nuova «tassa locale» ha il compito titanico di affrontare questo problema: anche per dare ai contribuenti la possibilità di capire quali sindaci sono stati vittime del meccanismo, e quali invece l’hanno sfruttato per continuare a finanziare inefficienze sulle spalle degli altri.

Ci vuole un fisco bestiale

Ci vuole un fisco bestiale

Il Foglio

Non ascoltate i soliti autoproclamati “realisti”: di “tassa piatta” è bene che si parli nell’Italia di oggi. Proprio ieri infatti prim’ancora che il fondatore e leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi, lanciasse la sua proposta di politica fiscale, la Banca d’ltalia ha confermato che la pressione fiscale nel nostro paese ha raggiunto un nuovo quanto scontato record attestandosi al 43 per cento del pil. Due punti in più rispetto alla media europea. È così folle dunque rimettere in discussione l’attuale struttura dell’Irpef, imposta cardine del nostro sistema fiscale?

L’idea lanciata da Berlusconi, quella della “flat tax” appunto, prevede un’unica aliquota sul reddito fissata al 20 per cento – invece che gli attuali cinque scaglioni che arrivano fino al 43 per cento – e un’area di esenzione totale per i redditi fino a una certa soglia, 13 mila euro secondo la proposta di Forza Italia. I “pro”, evidenti, sono almeno due. Un’aliquota così bassa, accompagnata da una semplificazione del sistema di detrazioni e deduzioni, eviterebbe a tanti italiani complicazioni e vessazioni che oggi frenano inutilmente chiunque produca ricchezza. Inoltre la presenza di una “no tax area” garantirebbe il mantenimento di un criterio di progressività per i redditi più bassi, come da dettato costituzionale.

Una rivoluzione fiscale di questa portata avrebbe tuttavia un costo. Certo, il gettito fiscale nel breve termine aumenterebbe. Nonostante ciò, con un’aliquota unica al 20 per cento, ma anche con una soglia più realistica al 25 per cento, si registrerebbe un ammanco nei conti statali di almeno 40 miliardi di euro l’anno. Forza Italia è disponibile a individuare e poi proporre al governo Renzi tagli di spesa pubblica di questa entità? Ce ne sarebbe davvero bisogno.

Equitalia, strozzini di Stato

Equitalia, strozzini di Stato

Franco Bechis – Libero

Avviene tutti i giorni in gran parte delle case degli italiani. A metà mattina suona il postino «Raccomandata!», apri e ti trovi fra le mani una missiva di Equitalia, che sono sempre dolori. Si tratta delle solite multe prese magari senza nemmeno accorgersene (soste, infrazioni al traffico, eccessi di velocità etc..) o di contestazioni della Agenzia delle Entrate per rilievi formali magari di poco conto sulle dichiarazioni dei redditi. Al signor Marco Rossi (il nome è di fantasia) proprio quest’ultima è arrivata: una cartella Equitalia con una contestazione per irregolarità formali da parte della Agenzia delle Entrate su una dichiarazione dei redditi di cinque anni prima. «Ma come? Sono lavoratore dipendente, l’unica cosa che aggiungo è qualche detrazione di spese mediche e per questo invio tutto al commercialista». Marco manda la cartella di Equitalia al commercialista, che allarga le braccia: «La cifra non è enorme. Bisogna pagarla». Marco sospira: «Per lei non saranno enormi 2.114,56 euro. Ma per me sono più di un mese di stipendio. Almeno si può pagare a rate?».

Con l’aiuto del commercialista è subito pronta la lettera da spedire ad Equitalia: non c’è bisogno di allegare documentazione che comprovi le difficoltà del momento per cifre così basse. E infatti Equitalia tempo un mese risponde a Marco, che apre la lettera tutto felice: «Le abbiamo accordato la ripartizione del pagamento di tale documento in n. 28 rate mensili». Il piano di ammortamento – scrivono- è stato «formulato secondo il criterio alla francese, che prevede rate di importo costante con quota di capitale crescente e quota interessi decrescente». Il signor Rossi non ci capisce molto: qualcosa cresce, qualcosa altro decresce. Ma vede il conto totale a fine operazione: 3.076,44 euro. Rateizzare quel debito che nemmeno capisce gli costa insomma 950 euro più che pagare subito. Sono 20 giorni di stipendio che si involano un po’ salendo un po’ scendendo «alla francese» per finire in tasca ad Equitalia. Le varie colonne dicono «quota capitale», «quota interessi dimora», «quota interessi di dilazione», «quota compensi di riscossione». Si fa due calcoli e significa che in due anni e 4 mesi il suo debito aumenta del 45,2%. Se va da uno strozzino dal cuore buono finisce che per una cifra così i prestito riesce perfino a risparmiare rispetto a quanto gli chiede il fisco italiano.

Equitalia vuole il 32,58% in interessi di mora, poi il 4% di interessi di dilazione e l’8,6% di compensi di riscossione. Avranno ragione? Naturalmente hanno ragione: sono le leggi e i regolamenti che prevedono questo lievitare del debito dei contribuenti. Ogni governo di questi ultimi anni ha fatto finta di addolcire la pillola, si è sgolato parlando di «fisco amico», di «sportello amico», di una Equitalia dal volto umano, magari ha anche allargato e allungato le possibilità di rateizzare il debito per cifre via via più consistenti e perfino in tempi più lunghi, per venire incontro alle difficoltà che la crisi economica crea nel bilancio familiare o aziendale di milioni di contribuenti. Ma al ruolo vocazionale di strozzinaggio lo Stato non ha mai rinunciato, in nessuno dei volti in cui si presenta.

Il primo gennaio scorso sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana è stato pubblicato il nuovo tasso di interesse legale stabilito dal governo italiano: è l’uno per cento. Il contribuente non si deve attendere di più quando presta soldi o li dà in custodia a Stato o privati secondo le leggi vigenti. Ma se il percorso è quello contrario: è lo Stato che li deposita da te (ad esempio facendoti rateizzare il tuo debito con lui), quella regola non vale più, e sono dolori per il cittadino. Oltretutto non c’è solo Equitalia: quel debito potrebbe essere con l’ufficio tributi di un comune, o con un ufficio giudiziario, o con un altro ente pubblico. E ognuno applica il tasso che vuole. Ad esempio gli interessi sulle dilazioni sono diversissimi in ogni posto di Italia: si va da zero fino al 6 per cento. Ed è questione di fortuna: uffici giudiziari applicano il 4,5%. L’ufficio tributi del comune di Monza (e di pochi altri piccoli comuni) non chiede interessi (il tasso sulle dilazioni è 0%). Quello di Livorno vuole il 4,5%, quello di Perugia si accontenta dell’1% che sarebbe poi il tasso legale, quello di Pitigliano chiede il 3,5%. A Messina vogliono il 4%, a Torino il 5%, a Milano sulla tassa per i rifiuti viene applicato un interesse dilazionatorio del 2%, a Novara l’ufficio tributi chiede il 2,5%, in un posto vip come Courmayeur si accontentano dell’1,5% (a Cortina invece è 1%).

Isee, nella lotteria dei parametri rischiano di perdere tutti

Isee, nella lotteria dei parametri rischiano di perdere tutti

Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

Come uno studente svogliato, che la sera prima dell’interrogazione prova con scarso successo ad affrontare in volata secoli di storia ignorati per mesi, la Pubblica amministrazione italiana sta arrivando splendidamente impreparata all’appuntamento con il nuovo Isee. Qui, però, in gioco non c’è un voto in pagella, ma la possibilità di gestire decentemente l’edilizia popolare nelle città con le periferie infiammate oppure l’assistenza ad anziani e famiglie nei territori schiacciati dalla crisi. Non è certo la prima volta che una riforma arriva con l’affanno all’appuntamento dell’attuazione, ma in questo caso inciampare nell’applicazione pratica delle regole approvate ormai 12 mesi fa sarebbe un peccato grave. L’Isee di seconda generazione ha qualche problema, a partire dall’effetto collaterale dell’Imu che aumenta il valore imponibile della casa di proprietà e si riflette anche sull’indicatore, ma se ben attuata offrirebbe più opportunità che incognite.

Il sistema dei controlli automatici promette di spazzare via la pletora delle autodichiarazioni fantasiose che finora hanno permesso a molti di agguantare prestazioni e servizi a cui non avrebbero avuto diritto. I parametri, raffinati rispetto al passato, provano a offrire un’attenzione più puntuale ai bisogni effettivi delle famiglie, con tutele maggiori quando i figli sono tanti o c’è un portatore di handicap. Tutto il sistema, insomma, nasce per distribuire in modo più efficace i soldi pubblici per il welfare, che certo non aumentano allo stesso ritmo in cui crescono i bisogni.

Proprio quest’ultimo fattore rende indispensabile un surplus di impegno per evitare inciampi. Un po’ di aiuti che si spostano da chi è povero solo sulla carta verso i soggetti davvero in difficoltà sarebbero un’ottima notizia, ma un anziano che perde un sostegno solo perché la sua casa vale per il Fisco il 60% in più sarebbe intollerabile. Eppure il rischio c’è. A renderlo concreto c’è anche il fatto che la rete per lo scambio di informazioni fra le diverse pubbliche amministrazioni sembra ancora piena di buchi e che di conseguenza molti Comuni dovranno applicare “al buio” i nuovi parametri. In questo modo, il passaggio al nuovo Isee rischia di trasformarsi in una lotteria, il cui risultato dipende dall’incrocio più o meno fortuito fra i nuovi criteri di calcolo e le vecchie soglie di accesso ai servizi: una lotteria di cui non hanno bisogno le famiglie in difficoltà né i Comuni, lasciati in prima fila a gestire un problema più grande di loro.

Ecco chi ha abbassato (davvero) le tasse

Ecco chi ha abbassato (davvero) le tasse

Filippo Caleri – Il Tempo

Sono passati 24 anni dal governo Andreotti sesta versione. Ma agli italiani, salvo qualche eccezione, la sequenza di 10 presidenti del Consiglio che si sono succeduti dal 1990 a oggi non ha regalato nulla: le tasse sono sempre aumentate. La fetta della ricchezza nazionale lasciata al fisco è salita nel periodo considerato dal 38,2% al 43,3%. Un salto di 5 punti percentuali che si è tradotto in nuovi balzelli dai nomi variegati e innovativi come la sequenza infernale che dall’Ici arriva all’Imu senza cambiare però nulla dal punto di vista della vessazione fiscale sugli immobili. Per non parlare poi delle addizionali regionali e comunali. Nate per impostare il federalismo fiscale a somma zero ovvero tasse più alte in periferia con contestuale riduzione al centro e che puntualmente hanno confermato il loro valore di prelievi aggiuntivi e basta. In Italia dunque il risultato è sempre lo stesso: gli italiani sono stati considerati dai loro governanti sempre meno come cittadini e sempre più come sudditi da spremere. I dati analizzati da Il Tempo sono tutti quelli del conto consolidato Istat tranne quelli di Renzi che arrivano dal Def.

Il re dei tassatori
Chi più, chi meno, tutti alla fine hanno bastonato gli italiani. Lo scettro del più rapace in termini di imposizione spetta a uno solo: Romano Prodi che nel corso dei suoi due governi non ha avuto pietà dei contribuenti. Nella prima esperienza a Palazzo Chigi, dal 1996 al 1998, la pressione fiscale è passata dal 41,4% al 42,2%. Non senza passare per un ben pesante 43,4% nel 1997. L’aumento cumulato alla fine del suo mandato è stato dunque di un +1,3%. La medaglia d’oro nella classifica gli spetta perché anche alla seconda prova governativa, e cioè dal 2006 al 2007, Prodi ha portato il carico fiscale dal 40,1 al 42,7%. Con uno spettacolare incremento di 2,6 punti in soli due anni. A contendergli il primato l’ex premier Giuliano Amato. L’uomo che nel settembre 1992 avviò la prima manovra lacrime e sangue e mise in una notte le mani nei conti correnti degli italiani. In un sol colpo fece impennare il peso complessivo del fisco dal 39,2% al 41,7 del Pil. Un salto di 2,5 punti. Indimenticabile. Anche il successore non fu da meno. Ciampi aumentò le tasse di un altro punto percentuale. Era il 1993.

Mai così in alto
Non c’è dubbio che l’uomo che resterà impresso nella memoria degli italiani come quello che ha chiesto loro di più in un solo colpo è stato l’ex premier Mario Monti. L’uomo della provvidenza chiamato dall’emergenza a salvare l’Italia fece il capolavoro. Prese l’Italia già sotto pressione con un fisco al 42,5% del Pil nel 2011 e riuscì, a colpi di Imu, a portare l’asticella dove mai nessuno aveva osato: 44% dunque 1,5 punti di Pil sottratti dal fisco in meno di 365 giorni.

Mano leggera
A qualcuno, però, la sorte del portafoglio degli italiani è sempre rimasta a cuore al punto da arrivare al governo e mettere in campo una severa riduzione fiscale. Il primo nome è quello più ovvio da immaginare. E cioè quello di Silvio Berlusconi che, sulla rivoluzione del fisco, ha puntato il suo successo politico. Il suo miracolo avvenne nel 1994. Arrivato al comando pretese e portò a termine un taglio fiscale «monstre». Dal 42,7 del governo Ciampi si arrivò al 40,6%. La pressione fu tagliata del 2,1%. Ancora di più il Cavaliere fece nel 2005 facendo arrivare le pretese del fisco al 40,1%. Un record. Ma anche il suo concorrente dell’epoca non fu da meno. D’Alema nei 2 anni di esecutivo fece scendere il peso del fisco di quasi un punto.

Renzi al palo
Nonostante gli annunci, anche il premier attuale mantiene una considerevole posizione tra i tassatori. Nel Documento economico e finanziario più aggiornato la pressione fiscale con lui resta al 43,3% del Pil.

Se il grande fratello fiscale mette gli occhi sul mattone

Se il grande fratello fiscale mette gli occhi sul mattone

Francesco Forte – Il Giornale

La disoccupazione è volata in ottobre al 13,2%. Quella giovanile è salita al 43,3. La pressione fiscale eccessiva, la sua distribuzione sbagliata, le tecniche vessatorie di accertamento attuate dai tre governi succeduti a Berlusconi hanno generato disoccupazione e bloccato il Pil fra recessione e stagnazione. E il Pil quest’anno decresce dello 0,3%, per il brusco peggioramento del secondo semestre, mentre nel 2015 si recupera solo lo 0,3 perso nel 2014. L’Italia non è solo fra gli stati con la più alta pressione fiscale del mondo, con il 44% del Pil. Ha anche una distribuzione sbagliata del carico fiscale e aliquote eccessive che riducono il gettito, distorcono l’economia, bloccano la domanda interna ed estera e creano tutti i presupposti per la disoccupazione.

Monti, Letta e Renzi hanno commesso un errore fiscale enorme inasprendo di continuo la tassazione di immobili e rendite finanziarie, mentre la teoria della crescita in economia di mercato dice che le imposte sui capitali sono particolarmente dannose. Ora noi abbiano il record della tassazione patrimoniale che arriva al 3% del Pil, contro lo 1,8 della media Ocse (l’organizzazione economica mondiale che include gli stati sviluppati) e lo 1,7 dell’Unione europea. Nel 2011 eravamo sulle medie Ocse ed europee.

Il brusco balzo in avanti non solo ha creato la crisi edilizia e la connessa perdita di Pil e di occupazione. Ha anche indebolito le banche perché i loro parametri patrimoniali, al netto delle sofferenze (molto aumentate per la crisi edile) sono peggiorati. In più, la riduzione del valore degli immobili ha ridotto le garanzie della clientela, con aumento del rischio di credito. Situazione aggravata dall’esodo di capitali, stimolato della fiscalità su immobili e rendite finanziarie e dal fatto che i possessi patrimoniali diventano sempre più la base per le verifiche fiscali.

Adesso, con l’emendamento alla legge di Stabilità, promosso dal governo, per cui i dati bancari vengono incrociati automaticamente con quelli dell’Agenzia delle entrate, si ha una spinta alla riduzione degli impieghi di denaro nei depositi e nei portafogli gestiti dalle nostre banche, un aumento dei flussi contante e di quelli all’estero. Renzi ha preferito erogare 80 euro in busta paga che eliminare l’Irap sul costi del lavoro, per la generalità delle attività economiche. Ha finanziato le sue operazioni di consenso sociale con l’inasprimento fiscale sui patrimoni, non solo con la Tasi e l’unificazione di essa con l’Imu e la tassazione al 26% sulle rendite finanziarie, ma anche con quella sulla previdenza integrativa.

Questa manovra di presunta equità sociale doveva generare crescita e occupazione ma ha avuto l’effetto contrario. Non serve il «Grande fratello fiscale» per dare più entrate. Occorre ridurre le aliquote. Ad esempio, le vendite di immobili sono tassate con imposte di registro del 9%. E ciò ingessa il mercato. Le maggiori imposte sul risparmio e le aspre aliquote progressive di tassazione sul reddito falcidiano le classi medie. Ciò mentre le classi di reddito più alte sfuggono all’alta tassazione, tramite la globalizzazione finanziaria. Sulle imprese italiane grava un peso fiscale differenziale a causa dell’Irap, che distorce la nostra competitività. Riducendo le aliquote ci sarebbe più gettito dal flusso di attività che si genererebbe. E la gente, pagando i tributi penserebbe di pagare il dovuto.

Il fisco stanga i terremotati: multe per tasse non dovute

Il fisco stanga i terremotati: multe per tasse non dovute

Alessia Pedrielli – Libero

Piovono cartelle pazze sui terremotati dell’Emilia Romagna, già umiliati dalle promesse di una no-tax area mai applicata, dalla Tari che arriva anche a chi vive in roulotte. Sembra una punizione “divina” al voto espresso due giorni fa, che nelle aree del sisma ha premiato la Lega Nord e stangato il Pd: nelle ultime ore nelle case e nelle aziende di centinaia di cittadini, che nel sisma del 2012 hanno perso tutto, e che dei rimborsi promessi e stanziati ancora non hanno visto un euro, stanno arrivando cartelle esattoriali impazzite, inviate dall’Agenzia delle Entrate, che chiedono ai contribuenti di versare cifre che in realtà sono a loro credito.

In termini pratici la vicenda è questa: a seguito del terremoto, per i contribuenti residenti nei Comuni colpiti, fu decretata per alcuni mesi la sospensione di tutti gli adempimenti tributari tra cui anche le dichiarazioni dei redditi del 2012, relative all’anno precedente. La scadenza ultima per le dichiarazioni del 2012 venne fissata al 30 aprile del 2013 e poi prorogata ancora. Al termine della sospensiva i terremotati, nonostante molti fossero ancora fuori casa e senza lavoro, pagarono le loro tasse come si conviene ad ogni bravo contribuente, e poiché nel frattempo i debiti si erano accumulati, qualche settimana dopo si trovarono a presentare anche i modelli di pagamento del 2013, relativi all’anno precedente. In questi, come prevede la legge, i terremotati inserirono oltre ai debiti dovuti allo Stato anche i crediti che il versamento precedente aveva loro tributato. Crediti che ora, guarda caso, l’efficacissimo cervellone dell’Agenzia delle Entrate non vede.

Cosa è successo? L’inghippo starebbe nei termini temporali delle analisi delle cartelle. Di fatto, le dichiarazioni dei contribuenti dei Comuni colpiti da eventi calamitosi vengono messe a parte rispetto a quelle correnti ed hanno un codice speciale. A tutela dei poveri cittadini? Nient’affatto. Anzi, cieca quasi quanto la fortuna, e noncurante delle leggi che lei stessa ha emesso, la burocrazia romana ha pensato bene di valutare prima le dichiarazioni del 2013 relative al 2012, e poi quelle dell’anno precedente. Così facendo l’Agenzia vede per i contribuenti un buco di un anno, non tanto o non solo nel versamento ma anche nel credito di cui il soggetto deve entrare in possesso. Insomma è come se compilando le dichiarazioni post sisma tutti i terremotati avessero deciso di imbrogliare
il fisco attribuendosi crediti non spettanti.

Possibile che centinaia di persone abbiano messo in atto la stessa furbata? All’agenzia delle Entrate il dubbio non è venuto e gli accertamenti «bonari» sono partiti a frotte verso l’area del cratere, con la minaccia di triplicare la cifra dovuta se le cartelle non verranno saldate entro trenta giorni. «L’Agenzia delle Entrate ha commesso un clamoroso errore che impatta su cittadini e imprese già duramente provate dal sisma», sottolinea Erio Luigi Munari, presidente Lapam Confartigianato, l’associazione di categoria delle piccole medie imprese del territorio a cui i cittadini si sono rivolti disperati. «È chiaro che tratta di una inefficienza del sistema che non tiene conto delle dichiarazioni presentate oltre le normali scadenze, non per capriccio del contribuente, ma per una legge che ha legittimato questa presentazione», precisa ancora Munari che ha contattato già ieri l’Agenzia delle Entrate sollecitando i funzionari ad annullare d’ufficio di tutti gli accertamenti, che altrimenti qualcuno finirà per pagare.

La politica? Le elezioni sono passate e i partiti hanno altro da fare. Quindi silenzio. Unica voce che si è alzata sul tema tasse e stata quella del neoeletto consigliere regionale della Lega Nord Alan Fabbri, ex sindaco di Bondeno, che invita i terremotati ad una sorta di sciopero fiscale, non solo sulle cartelle pazze ma proprio su tutto. Per Fabbri bisogna «rispedire a palazzo Chigi le cartelle esattoriali» e «resistere agli attacchi di un fisco che sta facendo morire le nostre terre». Non pagare «è oggi un atto eroico”, continua il consigliere che ha ribadito il concetto anche due sere fa a Ballarò, direttamente in faccia al direttore dell’Agenzia delle Entrate, Rossella Orlandi. Per Fabbri «Gli imprenditori che per sopravvivere evadono, sono eroi».