il foglio

Meno di due mesi

Meno di due mesi

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Mancano meno di due mesi, anzi sei settimane tolte le feste di Natale, alla fine del semestre europeo a guida italiana. Il rischio è che il periodo si chiuda senza che abbia lasciato traccia alcuna. Nello stesso tempo, lo scontro che si è aperto con la Commissione europea – esplicito quello con Juncker, sotterraneo ma non meno duro quello con altri commissari, cui occorre aggiungere l’ostilità di molta della burocrazia di Bruxelles – e la distanza sempre più larga che ci separa dai tedeschi, vuoi per visioni divergenti vuoi per le diverse sensibilità personali, non rafforza la posizione dell’Italia in un momento in cui la nostra politica di bilancio deve passare il vaglio europeo e le grandi partite in corso nell’Eurozona e nel mondo richiedono più che mai credibilità e capacita negoziale.

Per carità, l’eurosistema è un legno storto, una delle costruzioni istituzionali più imperfette al mondo. E può darsi che vada a schiantarsi (le possibilità non sono poche), forse per implosione – specie se a qualcuno dovesse venire in mente di impedire a Mario Draghi di portare a termine il suo disegno di politica monetaria espansiva – forse perché la finanza mondiale, dominata ancora da Wall Street e dalle grandi banche americane, rischia di propinarci un remake del 2008. Sta di fatto, però, che una nostra debolezza nel contesto europeo – che si aggiunge a quella strutturale della nostra economia – ci rende oltremodo fragili proprio mentre sarebbe necessario il contrario. Renzi deve capirlo: in Europa non è come a casa, dove la logica “molti nemici, molto consenso” funziona. Lì devi difendere i tuoi interessi – sapendo bene quali sono, perché non sempre ne siamo consapevoli – esercitando la leadership, cioè usando il carisma e facendo lobby. Il che avviene solo se metti l’empatia al servizio di dossier ben preparati e ben studiati. E non sbagli valutazione sulle possibili alleanze (credere che Hollande ci avrebbe fatto da spalla contro l’austerità di stampo tedesco è stata una evitabile sciocchezza).

L’esempio più clamoroso e fresco di asimmetria europea è quello del credito. Oggi si stanno ponendo le basi per realizzare l’Unione bancaria, cioè la prima integrazione importante dopo quella monetaria, e sbagliare mosse significa un indebolimento permanente di una struttura portante del sistema economico. Le regole con cui si sono fatti gli esami alle banche e si eserciterà la vigilanza in futuro non sono fastidiosi dettagli tecnici che interessano ai banchieri, ma decidono su chi conterà nel sistema creditizio europeo – e quindi mondiale, proprio ora che il Financial Stability Board si appresta a presentare al prossimo G20 di Brisbane la proposta di aumentare ancora i requisiti di capitale per gli istituti cosiddetti “globalmente sistemici” – ed essersene disinteressati, come hanno fatto gli ultimi governi italiani, è colpa grave. Così come occuparsi, sia come governo nazionale che in sede comunitaria, del Ttip, il partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti da cui dipendono le sorti del nostro comparto manifatturiero, non è una noiosa perdita di tempo, ma un impegno di governo fondamentale (anche se non spendibile mediaticamente).

Ma ovviamente, in prima battuta gli interessi da salvaguardare a Bruxelles sono quelli della nostra politica economica. Cosa che richiede anche il battere i pugni sul tavolo – senza farlo sapere, altrimenti chiamasi mossa elettorale finalizzata a prosciugare la pozza di anti europeismo in cui sguazzano i Grillo e i Salvini – ma soprattutto presuppone di aver fatto con diligenza i compiti a casa. Evitando, per esempio, di dire bugie che hanno le gambe corte. Quali? Le poste del bilancio. Per dirne una. Se domani Juncker ci scrivesse una lettera chiedendo come mai nella legge di stabilità abbiamo messo alla voce “recupero di evasione fiscale” 3,4 miliardi per il 2015 quando quest’anno il gettito da lotta all’evasione sarà meno di un terzo (lo stesso ministero dell’Economia ha annunciato come nei primi nove mesi sia stato di 760 milioni), cosa potremmo rispondergli? Che triplichiamo il recupero di evasione perché abbiamo ingaggiato dei veggenti? Che faremo l’ennesimo condono fiscale? Che faremo rientrare i capitali un’altra volta? Oppure, confessiamo la verità, ammettendo che quella cifra, così come quella relativa alla spending review è dilatata per far quadrare i conti?

Insomma, c’è poco tempo per imbracciare il coraggio e la saggezza: non solo perché tra 45 giorni finisce il nostro semestre e perdiamo un’arma utile, ma perché in primavera si rifaranno i conti e se non torneranno scatteranno le clausole di salvaguardia – su cui ora è stato deciso l’assenso della Ue alla manovra – le cui conseguenze saranno, specie dal punto di vista della pressione fiscale per imprese e persone, micidiali. E a rifare i conti non sarà solo Bruxelles, ma anche i mercati finanziari, che si sono messi in stand-by in attesa di dare una nuova zampata ai nostri titoli di stato e all’euro. E questa volta, rispetto a quella del 2011, sarà mortale.

Can che abbaia

Can che abbaia

Enrico Cisnetto – Il Foglio

In Europa abbiamo perso 2-0. Ora non commettiamo l’errore di far finta che non sia così, altrimenti sarà impossibile metterci rimedio e continueremo a perdere. Di quale partita sto parlando? Di quella che misura il peso specifico dell’Italia nell’eurosistema. In particolare, i due gol li abbiamo beccati sul terreno del nostro potere decisionale sulle politiche di bilancio e su quello del sistema bancario e gli obblighi che è costretto a contrarre.

Che il primo sia un gol a tutti gli effetti lo ha certificato un arbitro di vaglia come Jean-Paul Fitoussi: Italia e Francia non hanno affatto rotto gli schemi di gioco di Bruxelles, anzi, si sono fatte imporre i vincoli europei molto più di quanto abbiano raccontato ai propri cittadini. E non è tanto o solo questione di numeri. Infatti, che la correzione dei conti rispetto al mezzo punto percentuale previsto dall’Europa sia stata dello 0,33 come dice il Tesoro o dello 0,38 come sostiene chi ha rifatto i calcoli, poco cambia: 17 o 12 decimi di punto che sia, non siamo certo di fronte non dico a una rottura, ma neppure a una significativa presa di posizione. Non abbiamo detto, come pure i francesi: noi facciamo così, poi ne riparliamo. O meglio, questo abbiamo raccontato in casa di averlo detto, per mostrare muscoli che in realtà non abbiamo o che comunque non usiamo oltre confine. Al contrario, abbiamo negoziato per ridimensionare una forzatura che già era meno importante di quanto non fosse stato fatte immaginare con le solite slide, e che strada facendo è diventata ancor meno significativa. Alla fine lo scarto sul deficit programmato è troppo per passare inosservato e poco per determinare un cambio di linea, rispetto a quella a marchio tedesco dell’austerità.

Ma proprio perché abbiamo provocato – il cane che abbaia dà fastidio anche se non morde – è arrivato il secondo gol: le bocciature agli stress test bancari. Nove banche sulle 25 mandate in purgatorio, 4 (poi scese a 2) su 13 quelle bocciate, significa che è stato acclarato che un terzo dei problemi del sistema bancario europeo è tricolore. Possibile? Ragionevolmente no. A parte le considerazioni da me svolte in questa sede venerdì scorso sull’inopportunità di procedere a un pubblico lavacro di questo genere quando nel sistema finanziario mondiale ci sono problemi di ben maggiore portata e pericolosità (oggi nel mondo c’è il 25 per cento in più della massa di derivati esistenti nel 2008 al momento della scoppio della grande crisi) e quando sarebbe stato sufficiente ricorrere a una più silenziosa ma ben più efficace azione di moral suasion, basta mettere in fila alcune questioni per capire che l’operazione stress test richiedeva ben altra attenzione e attività lobbistica da parte del governo di Roma.

Quali? Prima di tutto il trattamento concesso alla Germania: le casse dei Lander non erano tra le 131 banche europee esaminate, non ha importato a nessuno che il 70 per cento degli attivi degli istituti tedeschi sia relativo a rischi finanziari (per quelli italiani è circa il 40 per cento) e solo il rimanente riguardi impieghi rivolti a imprese e famiglie, ma soprattutto non si è tenuto per nulla conto dei 250 miliardi spesi a sostegno del sistema bancario tedesco dal 2008 a oggi. A fronte, per esempio, del quasi nulla (i bond dati al Paschi, per di più al tasso usuraio del 9 per cento, e già quasi del tutto restituiti) dato dall’Italia alle sue banche. Se poi a questo si aggiungono le diverse modalità di giudizio usate, sapendo che il patrimonio dipende da come lo calcoli (se fossero stati usati i dati 2014 anziché quelli dell’anno precedente, Mps e Carige non sarebbero state bocciate) e a quali elementi lo parametri, ecco che ne esce un quadro di disparità in cui come minimo c’è disparità di trattamento tra nord e sud dell’Europa, se non proprio un trattamento specifico per l’Italia.

Di fronte a queste considerazioni, che era possibile fare da tempo se solo si fosse posta un po’ di attenzione a un tema così delicato, forse avremmo potuto far presente le buone ragioni italiane, e se del caso anche alzare la voce. Anche perché, siccome tutta questa “ammuina” è stata fatta per arrivare al (lodevole) obiettivo del mercato bancario unico europeo, una volta fatta l’integrazione poi non si può più tornare indietro. Qualcuno faccia il calcolo di cosa ci è costata la pazza idea di cedere a Londra il controllo di Piazza Affari, e poi ne parliamo.

Insomma, la vicenda delle banche non è cosa che riguardi solo loro, i loro azionisti e obbligazionisti – che già sarebbe un buon motivo per occuparsene – e neppure solo dei loro clienti – che sarebbe motivo di preoccupazione – ma riguarda l’intero sistema economico. Tanto più in un paese dove il cavallo dell’economia non beve da sette anni. Dunque, non era il caso di aprire un fronte con la signora Merkel anche su questo tema? Trasparenza per trasparenza, possiamo sapere cosa hanno fatto i signori del Tesoro in questa circostanza? Magari stamattina il ministro Padoan alla giornata del risparmio officiata dall’Acri ce lo potrebbe raccontare. Magari.

La prima e decisiva riforma di Renzi

La prima e decisiva riforma di Renzi

Il Foglio

Non si sa ancora cosa accadrà in Parlamento sulla legge di stabilità ma una cosa è certa: l’incontro fra sindacati e rappresentanti del governo ha sancito la fine della concertazione come politica economica dello stato. I ministri delegati ad ascoltare i sindacati hanno risposto a monosillabi sulle loro richieste di “concessioni”. Il succo era: i sindacati facciano le passerelle in piazza e indichino le loro correzioni specifiche, poi noi vedremo se tenerne conto ma non contrattiamo il loro consenso. Renzi ha chiarito il concetto dicendo che il governo non chiede “permesso” perché “le leggi non si scrivono con i sindacati ma in Parlamento”. E ha aggiunto: “Forse in Italia è arrivato il momento che ciascuno torni a fare il suo mestiere”. La frase più significativa è quella finale: “Le trattative le organizzazioni sindacali devono invece farle, giustamente, con le imprese”. Il premier invita i sindacati a dialogare con le aziende e non solo con la Confindustria che tiene al suo monopolio dei contratti di lavoro e si cura delle grandi imprese. L’esecutivo vuole la disintermediazione, rompere il filo tra politica e parti sociali, per approdare a un mercato del lavoro che privilegi i contratti aziendali. La Confindustria fatica ad ammettere che la concertazione è finita anche per lei tant’è che plaude alla deduzione dell’Irap per i contratti a tempo indeterminato, graditi alle grandi società, ma poi glissa sugli incentivi per i contratti di produttività, rivolti alle piccole. Se lo dicesse, apparirebbe chiaro pure ai mercati che il governo Renzi ha avviato la madre di tutte le riforme: la fine della concertazione che garantiva impropri poteri sia sindacali sia confindustriali.

La deflazione e il governo Renzi

La deflazione e il governo Renzi

Carlo Debenedetti – Il Foglio

Nella lettera che il governo italiano ha inviato a Bruxelles per correggere la legge di stabilità si riconosce finalmente la deflazione come un rischio grave per la nostra economia. Meglio tardi che mai. Ma per la verità la deflazione più che un rischio è ormai una drammatica realtà, in Italia e in una parte crescente dell’Eurozona. Eppure c’è stata in questi anni una sorta di negazione del problema. A me è sembrato evidente già da oltre un anno, e l’ho ripetutamente scritto, che l’Europa andasse in questa direzione. Ma non si è voluto vedere quello che era sotto gli occhi di tutti. La cultura economica continentale, formatasi sulla paura dell’inflazione, ha come rimosso la questione. L’ha negata finanche semanticamente.

In tutti i documenti ufficiali delle Banche centrali si è continuato a parlare di rischio di bassa inflazione, e in parte lo si fa ancora ora, mentre era evidente che l’Europa scivolava verso la deflazione. Chi ha visto prima e meglio sono stati gli economisti americani. Io stesso ho maturato per tempo le mie preoccupazioni attraverso i contatti con il mondo della Fed e dei think tank di Washington.

Istruttivo, in questo senso, l’ultimo rapporto al Congresso del Tesoro americano “International Economic and Exchange Rate Policies”. Ne consiglio a tutti un’approfondita lettura. C’è tutto, ed è detto con chiarezza. E’ spiegato, per esempio, come “l’Europa sia di fronte a una vera e propria deflazione”, che c’è la possibilità che questa venga esportata a tutto il mondo, che la “domanda europea è cronicamente troppo debole”. Gli errori della Germania sono individuati con una limpidezza che non trovo nella pubblicistica “ufficiale” al di qua dell’Atlantico: Berlino, dicono dal Tesoro americano, sta indebolendo l’economia europea portandola alla deflazione, perché non spinge sulla domanda interna, pur avendo i conti in sostanziale pareggio, e perché non permette una politica europea di bilancio più flessibile ed espansiva.

È anche così che l’Eurozona è diventata il buco nero della crescita mondiale. L’epicentro di un possibile terremoto deflattivo in grado di scuotere l’intera economia mondiale. Una minaccia tanto più consistente se pensiamo che gran parte delle Banche centrali del mondo sviluppato hanno già abbassato i tassi vicino allo zero. E, ciononostante, anche in America, nel Regno Unito, finanche in Cina l’inflazione è sotto il 2 per cento. Le aspettative sull’andamento dei prezzi sono calate ulteriormente quest’estate sia negli Stati Uniti, che in Europa o in Giappone. Di certo, quelle scosse hanno già colpito duramente il cuore del nostro continente. A settembre il dato medio dell’inflazione nell’eurozona è stato di 0,3 per cento (0,8 per cento depurato dall’andamento del prezzo del petrolio). Un’area che rappresenta un quinto dell’output mondiale sta cadendo nella deflazione e nella stagnazione. E i paesi cosiddetti periferici sono in una vera e propria trappola, stretti tra la moneta unica e la loro scarsa competitività: per guadagnare forza competitiva rispetto ai Paesi “core”, infatti, non potendo svalutare, devono tenere salari e prezzi a livelli molto bassi.

È da sette anni così che non riusciamo a uscire da una crisi economica che sta sfinendo il nostro tessuto sociale. Non muoviamo un passo. È una crisi che abbiamo importato proprio dagli Stati Uniti, ma loro hanno reagito subito e sono tornati a crescere, noi europei ci siamo invece avvitati in un dogmatismo di regole superate e nella storica paura tedesca dell’inflazione. Il Trattato di Maastricht risale ormai alla preistoria. Nel 1992 non esistevano Google, Facebook, Twitter. Era un altro mondo. Internet in Italia muoveva i primissimi passi. Ancora nel 2001, alla vigilia della circolazione monetaria dell’euro, Google fatturava 70 milioni, oggi fattura 60 miliardi. La Cina all’epoca di Maastricht era un paese dall’economia autarchica e conosceva i primissimi sviluppi industriali.

L’Europa era il centro del mercato mondiale e da poco, con fatica, aveva imparato a gestire lo spettro dell’inflazione. Uno spettro che veniva dai tempi di Weimar (ma andrebbe ricordato che il nazismo si afferma in realtà per effetto del diffondersi della disoccupazione in seguito alle rigide politiche deflazionistiche della Reichsbank tedesca all’indomani della crisi del 1929) e si era riaffacciato poi a più riprese nel Dopoguerra. I parametri adottati allora erano (forse) giusti per quel mondo dei primi anni Novanta, per quella cultura economica. Oggi sono semplicemente senza senso. Sono vecchi. Come vecchia è l’interpretazione fondamentalista che se ne dà. Perché vecchi sono gli occhiali attraverso cui in questi anni si è guardato in Europa alla dinamica dei prezzi e dell’economia. Non bisognava essere dei rabdomanti della moneta per capire da anni che la deflazione era un male incombente per l’Europa. Bastava guardare a quello che succedeva lì fuori, nel mondo reale, dove le merci si comprano e si vendono, dove i prezzi si formano.

Era evidente che il prezzo del petrolio sarebbe sceso in seguito alla scoperta dello shale gas, che ha trasformato gli Stati Uniti da importatore a esportatore di idrocarburi, e davanti al diffondersi delle buone pratiche di risparmio energetico. Era chiaro che la globalizzazione avrebbe abbassato i prezzi dei prodotti, dislocando le produzioni dove il costo del lavoro è 60 volte più basso che da noi. Era sotto gli occhi di tutti quanto Internet e il commercio elettronico spostassero verso il basso la concorrenza sui prezzi. Avremmo dovuto reagire da subito buttando via i modelli teorici su cui erano costruite le previsioni dei nostri Istituti centrali e introducendo il massimo della flessibilità in quei parametri ottusi che rischiano di impiccare una generazione di europei al patibolo del 3 per cento. Abbiamo risposto, invece, con l’austerità e il pareggio di bilancio. Scoprendo solo ora che così il peso del debito non poteva che aumentare, in una spirale drammatica tra recessione, deflazione e oneri degli interessi da pagare. La deflazione è una rovina per tutti. Ma per chi è molto indebitato lo è di più. Il costo di quel debito diventa un macigno, sempre più difficile da ripagare. Nel mondo il totale dei debiti privati e pubblici raggiunge il 272 per cento del pil.

Nessuno può permettersi la deflazione. Ma tanto meno può permettersela l’Europa che ha una popolazione uguale al 5 per cento di quella mondiale, un pil pari al 20 per cento e un debito pari al 50 per cento del debito pubblico mondiale. E ancor meno può permettersela l’Italia che ha l’1 per cento della popolazione mondiale, il 2.5 per cento del pil e il 20 per cento del debito mondiale.

Matteo Renzi ha dimostrato di essere un eccellente politico e quindi saprà fare la sua parte in Europa. Anche questa manovra è nel complesso positiva. Ma è proprio da un punto di vista tecnico che dico che la legge di stabilità appena approvata non serve a far uscire l’Italia dal suo declino o meglio dal suo degrado. Le misure adottate nella manovra, seppur positive, sono totalmente insufficienti a fare superare al paese la spirale recessione-deflazione. Lo sono per il semplice fatto che non modificano in modo netto la consumer behavior e le consumer expectations. Senza la fiducia in una svolta, e nella convinzione che i prezzi caleranno di mese in mese, gli italiani continueranno a rinviare le loro scelte di acquisto. Così non si va da nessuna parte. Anche perché, come ha ben spiegato Larry Summers, non c’è livello di tassi nominali che, ai tassi di inflazione di oggi, possa bilanciare investimenti e risparmi. Gran parte del lavoro allora dovrebbe farlo l’Europa. Dovrebbe farlo la Bce, comprando bond societari (un mercato di circa 9 mila miliardi complessivi, per intenderci), titoli di Stato europei e anche titoli del debito Usa.

Stress test

Stress test

Enrico Cisnetto – Il Foglio

La Banca dei Regolamenti internazionali ha calcolato che attualmente nel mondo ci sono derivati per 710 trilioni di dollari, oltre 9 volte l’ammontare del pil planetario, di cui circa 300 allocati nelle prime cinque banche americane (quelle “too big to fail”). Se si pensa che nel 2007, subito prima che a partire dallo scoppio della bolla dei mutui subprime Usa si innescasse la grande crisi finanziaria mondiale, l’ammontare di questo tipo di strumenti era di 530 trilioni di dollari, e che solo due anni fa era meno di 470 trilioni di dollari, questo dà la misura del grado di pericolo che tutti noi corriamo di ritrovarci nel pieno di una bufera finanziaria epocale, con in più l’aggravante di non aver ancora smaltito, specie in Europa – e in Italia in particolare – le conseguenze, soprattutto recessive e deflattive, della crisi precedente. Naturalmente, questi numeri indicano il valore nominale dei derivati in circolazione, mentre il rischio sottostante è inferiore. Ma è altrettanto vero che essendoci oggi il 25 per cento in più di questi strumenti rispetto al 2007, il pericolo non può che essere aumentato.

Dico questo non per menar gramo, ma per misurare la distanza siderale che c’è tra il rigore dei controlli sulle banche europee che in queste ore, con gli stress test del duo Bce-Eba, stanno facendo tremare i polsi di molti banchieri – e che dovrebbero fare lo stesso effetto agli uomini di governo, se solo avessero contezza della minaccia sistemica che pende sui loro paesi – e l’allegra spensieratezza che, specie oltreoceano, spinge i grandi istituti all’azzardo senza che nessuno intervenga. E già, perché queste verifiche sulla congruità patrimoniale delle banche – che tra l’altro ha generato una speculazione borsistica (e non solo) sugli esiti dei test che definire scandalosa è poco – sono state costruite all’insegna della più assoluta intransigenza, mentre nessun organismo, né nazionale né sovranazionale, ha aperto bocca di fronte al fenomeno della moltiplicazione dei derivati. Non solo.

Come sette anni fa, anche questa volta è sui mercati anglo-americani che si sono prevalentemente sviluppate attività che possano generare titoli tossici, ma anche questa volta, se la storia dovesse ripetersi, sarebbe l’Europa – dove, a parte un caso, non ci sono istituti ingolfati di derivati – a pagare il prezzo più alto. Allora, francamente non si capisce perché accanirsi sulle banche continentali – siamo alla terza tornata di stress test dal 2010 – tra l’altro appena reduci da ristrutturazioni pesanti e massicci aumenti di capitale (complessivamente sono stati chiesti al mercato 70 miliardi, di cui 10 solo in Italia). E se fosse vera la cifra di cui si parla in questa tormentata vigilia (domenica saranno ufficialmente annunciati i risultati dell’asset quality review), e cioè 50 miliardi di ulteriore fabbisogno patrimoniale, si capirebbe che trattasi di puro masochismo.

Si dice: ma così si assicura la stabilità finanziaria europea, indispensabile sia per poter realizzare l’Unione bancaria sia per dare corpo alla ripresa economica. Può darsi, è sperabile. Ma intanto si è ottenuto il risultato di tenere sotto pressione per un anno 130 banche, commerciali e d’investimento, proprio nel momento in cui avrebbero dovuto dedicarsi totalmente al rilancio degli impieghi, e di aver offerto una clamorosa occasione di guadagno alla peggiore speculazione, che ha approfittato per lanciare rumors di ogni genere facendo in molti casi letteralmente crollare il corso dei titoli di diverse banche. Ma questo, paradossalmente, è niente se pensiamo a quale valore di affidabilità si possa assegnare a graduatorie che pretendono di essere uniformi ma sono stilate sulla base di regole nazionali del tutto diverse tra loro. Non sfuggirà, infatti, che chi fosse eventualmente bocciato – e dunque costretto a prevedere nuove ricapitalizzazioni – si troverebbe facilmente preda di banche straniere. E aggregazioni cross-border figlie di asimmetrie normative sarebbero il modo peggiore per costruire un sistema bancario europeo integrato. Cosa abbiamo speso a fare?

È per queste considerazioni che ritengo che la questione doveva e dovrebbe essere affrontata dai governi europei. E in particolare da quelli di paesi, come l’Italia, che potrebbero ricavare maggior danno da questa “giostra”. Per carità, le authority è giusto che abbiano la loro autonomia, ma quando le scelte che esse fanno hanno ricadute sistemiche, allora è necessario che i governi si prendano le loro responsabilità. Il credito è troppo importante per lasciarne i destini in mano – con tutto il rispetto – al signor Andrea Enria (presidente dell’Eba, italiano) e alla gentile signora Daniele Nouy (responsabile della Vigilanza della Bce, francese), Anche perché, uno si domanda, a suo tempo cosa abbiamo speso a fare un mucchio di quattrini per evitare che le nostre banche facessero la stessa fine della Lehman, se poi i governi le lasciano dipendere da improbabili pagelle redatte da maestri (?) totalmente privi di responsabilità pubblica?

Leggere una legge

Leggere una legge

Paolo Cirino Pomicino – Il Foglio

Secondo le migliori tradizioni del giornalismo economico, quando ci si trova dinanzi a una manovra finanziaria di fine d’anno e per giunta di questa portata, prudenza impone di leggere prima le norme e poi dare un giudizio completo. Come si sa, infatti, il diavolo si nasconde nei dettagli. Detto questo, una prima valutazione può essere fatta sulla base delle dichiarazioni del presidente del Consiglio e sulle tabelle consegnate in sala stampa. Diciamo subito che questa legge di stabilità presenta alcune luci, diverse ombre e due bugie.

Partiamo dalle luci. La riduzione dell’Irap escludendo dal suo calcolo il monte salari è una scelta che va nella giusta direzione perché alleggerisce il carico fiscale sulle imprese oppresse da diversi anni da una pressione tributaria e contributiva anomala e da una grave crisi della domanda interna e internazionale. È vero che questa norma premia maggiormente le medie e le grandi aziende, ma d’altro canto sono quelle che hanno il maggior numero di occupati. Altra scelta positiva è la vecchia fiscalizzazione degli oneri sociali (cosi si chiamava all’epoca) per i nuovi assunti con un contratto a tempo indeterminato e per soli tre anni, Questa norma abbassa, insieme alla riduzione dell’Irap, il costo del lavoro in maniera significativa e orienta le imprese ad assumere con questo tipo di contratto rispetto alle altre tipologie vigenti. Ma qui finiscono le luci, salvo scoprire nell’intero provvedimento qualche altra cosa di buono.

Le ombre, invece, sono diverse e nella sostanza riguardano i tagli per 15 miliardi di spesa. Innanzitutto è da verificare nel concreto se questi tagli esistono per davvero, e se esistono come noi crediamo perché parte di essi sono tagli lineari ai trasferimenti alle regioni, province e comuni, bisogna capire a cosa danno origine. La cosa più probabile è che parte di essi si trasformeranno in più alte imposte locali mentre un’altra parte si trasformerà in una riduzione della spesa in conto capitale delle regioni e degli enti locali. Entrambi gli effetti andranno a vanificare in parte quelle misure che abbiamo definito come le luci del provvedimento approvato. D’altro canto, affrontando un equilibrio dei conti pubblici e un rilancio della crescita con gli ordinari strumenti a disposizione, difficilmente si può sfuggire a questi effetti uguali e contrari. Come è noto, noi eravamo e siamo tra quanti ritengono che solo un abbattimento di una parte significativa del debito può dare delle risorse fresche perché riduce quella spesa per interessi che da circa 80 miliardi alla finanza nazionale e internazionale, senza dover ricorrere a tagli che amplificano gli input recessivi. Non è un caso che l’Italia quest’anno sarà l’unico paese dell’Eurozona a rimanere con un pil negativo.

E qui passiamo alle bugie. Le prime sono le previsioni in gran parte sbagliate. Quest’anno la nostra crescita negativa, se avviene un miracolo nelll’ultimo trimestre, si può fermare a meno 05-0,6 per cento, cioè circa il doppio di quanto previsto nel documento finanziario con un trascinamento negativo anche sulla prima parte dell’anno prossimo che prevede, peraltro, una striminzita crescita positiva dello 0,6 per il 2015 e che sarà a rischio. Perché in questa manovra manca l’altro tassello fondamentale per fare uscire l’ltalia dal tunnel, e cioè gli investimenti pubblici. Viviamo una crisi della domanda, che non si accresce mettendo un po’ di soldi in più nelle tasche di chi ha già un reddito (80 euro o il tfr nella busta paga), perché in costanza di crisi questi soldi si trasformano in risparmi per un futuro che resta ancora incerto. La domanda si accresce se si allarga la base occupazionale e il “la” lo danno gli investimenti pubblici che languono e ora rischiano di diminuire ulteriormente sul versante degli enti locali. Alla stessa maniera manca qualunque incentivo per gli investimenti privati, come un più rapido ammortamento degli investimenti fatti nei prossimi 18 mesi, una norma premiante a termine, capace di sollecitare le aziende a cogliere questa opportunità e ad anticipare i propri investimenti.

Abbiamo lasciato per ultima la bugia più grande perché ci intenerisce come una vecchia gag di Totò. Il presidente del Consiglio ha detto che con questa manovra si tolgono 18 miliardi di tasse. Non è vero. Renzi calcola come riduzione di tasse il mantenimento dei famosi 80 euro del maggio scorso. Se non li avesse confermati noi avremmo avuto un aumento delle tasse; avendoli confermati, l’aumento non c’è stato, ma nemmeno la riduzione rispetto all’anno che sta per finire. Per dirla meglio, se la detrazione che produce il beneficio degli 80 euro viene fatta con norme che si rinnovano anno dopo anno, secondo Renzi dopo 5 anni avremo ridotto la pressione fiscale di 50 miliardi o saremo rimasti sempre al palo di quelle detrazioni che danno i famosi 80 euro? Si dia una risposta! Se non volessimo bene a Renzi, ai suoi lupetti e ai tanti dc presenti nel governo e nel Pd, diremmo che questa comunicazione è un imbroglio. In verità è il frutto di una velenosa tentazione mediatica e di una giovinezza goliardica. Certo è che la riduzione della pressione fiscale è solo quella dell’Irap e quella contributiva è nei limiti di due miliardi per l’esenzione contributiva dei nuovi assunti con contratto a tempo indeterminato. Non pochi ma molto lontani da ciò che serve all’Italia per uscire dalle secche.

Il Fus resiste (o no?)

Il Fus resiste (o no?)

Marco Valerio Lo Prete – Il Foglio

Ammesso pure che per le regioni non ci sia la possibilità di “scontare” risorse dai fondi aggiuntivi per la sanità concordati con l’esecutivo, alcuni governatori adesso si mostrano pronti in linea di principio ad accogliere la sfida di Renzi. Il presidente della Toscana, Enrico Rossi, ieri ha annunciato per esempio l’intenzione di “riorganizzare il servizio in tre aziende sanitarie ospedaliere universitarie al posto delle attuali 16. Tuttavia – e questa per certo sarà la seconda linea di difesa rispetto all’esecutivo – anche le riorganizzazioni più drastiche richiedono tempo per generare risparmi. Linea cui si potrebbero opporre alcuni dati pubblicati dalla Corte dei Conti, non esattamente un bastione di turbocapitalisti prevenuti con la Pubblica amministrazione: dal 2003 al 2008, cioè alla vigilia dell’inizio della crisi, la spesa regionale è cresciuta dell’53 per cento all’anno, con una frenata soltanto a partire dal 2009. Poi ci sono vicende patologiche che arrivano ai giorni nostri, e che contraddicono la retorica di chi agita lo spauracchio degli ospedali da chiudere: la stessa Corte dei Conti infatti, nella sua Relazione sulla gestione finanziaria delle regioni, osserva che “spesso i bilanci regionali si giovano delle risorse destinate alla sanità per far fronte ad esigenze di liquidità in altri settori”.

Non a caso alcune regioni tentano timidamente di differenziare la propria posizione rispetto a quella del “Fronte unico spendaccíone”: “Il fronte unico si forma per contrastare la palese irragionevolezza della proposta – dice al Foglio Massimo Garavaglia, assessore all’Economia della Lombardia, già deputato e senatore della Lega nord – Dopodiché al governo, che nella legge di stabilità propone di suddividere i 4 miliardi di tagli in base a popolazione e pil delle diverse regioni, chiediamo piuttosto di applicare i “costi standard”. Garavaglia fa un esempio, diverso da quello più noto della siringa che ha un costo diverso da Asl a Asl: “In Lombardia la spesa pro capite per il personale e di 19,8 euro. Quella della Basilicata è di 97,1 euro. Ridurre la spesa in modo ragionevole vorrebbe dire per esempio portare tutti e due a 18 euro, così da accrescere i risparmi. E non invece concedere con la stessa legge di stabilità 40 milioni di euro, o 1.200 euro pro capite alla sanità del Molise solo perché alla vigilia di un voto locale”. L’esecutivo della regione Lombardia, inoltre, è certo di avere “la giurisprudenza” dalla propria parte: già nel 2013, conclude infatti Garavaglia, la Corte costituzionale si è espressa contro i tagli lineari alle regioni. Procedere con la legge di stabilità di oggi vorrebbe dire dunque andare incontro a un’altra bocciatura, facendo automaticamente mancare le coperture per le misure dell”esecutivo Renzi.

Ambizioni

Ambizioni

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Da 20 a 36 miliardi in poche ore: di questi tempi, meglio una legge di stabilità ambiziosa che una stitica, ma purtroppo la dimensione non fa automaticamente la qualità della manovra. Contano i dettagli. E quelli non li conosciamo – come da troppo tempo a questa parte capita, sarebbe ora di smettere di usare le slide al posto dei testi di legge – per poter dare un giudizio serio. E non è solo una questione di coperture – dai tagli di spesa per 15 miliardi al fondamento dei 3,8 miliardi previsti come rivenienti dalla lotta all’evasione – che naturalmente più i numeri sono grandi più diventano complicate. No, il tema è (sarebbe, se avessimo i documenti ufficiali) capire l’efficacia di alcune voci della manovra per misurarne gli effetti sull’unica cosa che conta davvero in questo momento, e cioè la ripresa dell’economia. Pur andando nella giusta direzione, sono sufficienti gli sgravi Irap e le decontribuzioni per le nuove assunzioni per spingere gli investimenti privati? La conferma degli 80 euro e l’eventualità (ancora tutta da capire) del Tfr in busta paga sono provvedimenti che possono far ripartire i consumi interni? Ma, soprattutto, la domanda è: visto che dei 36 miliardi 11 sono già esplicitamente a carico del deficit – e speriamo che a consuntivo la cifra si fermi lì – stiamo spendendo bene i soldi? La risposta di merito verrà più avanti, come ho detto, ma francamente è lecito dubitare che il tutto sia sufficiente. Luca Ricolfi l’ha efficacemente chiamato “keynesismo debole”: poco per riuscire a scuotere un’economia che apprestandosi a chiudere anche il 2014 in recessione (il quinto anno, dal 2008) ha perso 10 punti di pil e bruciato un quarto della sua capacità produttiva manifatturiera; troppo per essere più che sufficiente a scatenare la reazione sia della conservazione interna (da battere), sia di Bruxelles (e pazienza), sia dei mercati (pericolosa).

E già, perché un po’ tutti gli osservatori hanno sottolineato il reciproco “vaffa” con le regioni e immaginato lo scontro con la Commissione europea, la Merkel e la Buba. Renzi, si sa, ha nella tattica di “un nemico al giorno toglie i problemi di torno”, uno dei suoi cavalli di battaglia. Ma il vero pericolo viene da un nemico, impalpabile e nello stesso tempo concretissimo, che non conviene mai sfidare: i mercati finanziari. Sia chiaro, le Borse non sono crollate negli ultimi giorni per colpa del governo di Roma, né gli spread sono schizzati (ieri il differenziale Italia-Germania ha toccato i 200 punti, per poi ripiegare un po’) dopo aver visto la manovra di Renzi. Ma una cosa è sicura: quel clima positivo verso l’Italia che si era manifestato qualche mese fa – e sulla cui durata mi ero permesso, solitario, di dubitare – è completamente cambiato. E non sarà questa manovra a far cambiare opinione a chi sta nuovamente valutando se scommettere sulla (non) tenuta dei debiti sovrani dei paesi europei più deboli, dalla Grecia all’Italia, e dell’eurosistema nel suo insieme. E non perché sarà giudicata sbagliata o eccessiva, come l’hanno già ribattezzata i conservatori italici, ma perché scarsa. E’ inutile sfidare l’Europa e i suoi vincoli di bilancio per fare un po’ di deficit in più se poi quella maggiore esposizione non produce pil perché è insufficiente e mal utilizzata, cioè non induce nuovi investimenti, che sono l’unica leva che può risollevare la crescita. Tanto più se i mercati hanno nuovamente dissotterrato l’ascia di guerra.

Quindi? Suggerirei di proporre all’Europa e di far sapere al mondo finanziario internazionale le seguenti due cose. Primo: che l’Italia ha intenzione di sforare sul deficit – anche molto di più degli 11 miliardi previsti dalla manovra – non perché non voglia pagare il prezzo politico di tagli e riforme impopolari, ma perché ha un piano – tra riduzione massiccia dell’imposizione fiscale sulle imprese e investimenti diretti in conto capitale – per rilanciare l’economia a sostegno del quale servono ingenti risorse. Secondo: che compenserà queste minori entrate e maggiori uscite con un massiccio intervento di riduzione una tantum del debito pubblico (e quindi anche degli oneri finanziari, circa 80 miliardi nel 2014, sul debito stesso). Come? Sia con alcune riforme capaci di ridurre in modo strutturale il perimetro della spesa pubblica, prima tra le quali la semplificazione del decentramento amministrativo e la riconduzione della sanità allo stato centrale, sia con un’operazione straordinaria sul patrimonio pubblico.

Una manovra di portata epocale – questa sì – che avrebbe il duplice effetto di ridare la credibilità perduta al paese e alle sue istituzioni in sede europea, e di calmierare i mercati togliendo loro dalle mani gli strumenti della speculazione finanziaria contro i nostri titoli del debito e contro l’euro. E che, last but not least, consentirebbe meglio di ogni altra cosa di tenere lontana la Troika, il cui spettro è tornato in queste ore ad aleggiare su Palazzo Chigi.

Trovare i soldi, nella bufera

Trovare i soldi, nella bufera

Il Foglio

“La differenza tra la finanziaria 2014 e quella 2015 è che ci sono 18 miliardi di tasse in meno. Tutto qui”, ha twittato ieri mattina Matteo Renzi. Il presidente del Consiglio, prima di riunire il governo in serata per approvare la legge di stabilità da inviare a Bruxelles e in Parlamento, non ha nominato nemmeno il predecessore, Enrico Letta, ma il confronto al momento è impietoso. Nell’ottobre 2013, Letta le tasse le ridusse di soli 3,7 miliardi per l’anno successivo, in una manovra di 11,6 miliardi. Renzi punta ad alleggerire il fardello per i contribuenti di 18 miliardi su una manovra di oltre 30 miliardi. Domanda più che legittima: ma come è possibile che Renzi d’un tratto, dopo gli ultimi anni di manovre levigate con un timido cesello, trova invece i soldi per tentare uno stimolo robusto dell’economia? Perdipiù nei giorni in cui le nubi di una nuova tempesta finanziaria si avvicinano minacciose superando di parecchio il proverbiale orizzonte?

Un primo indizio si trova proprio nel fosco scenario internazionale. Ieri la Borsa di Atene ha perso 6,32 punti: si teme che la fretta di abbandonare la tutela della Troika (Ue, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale) e l’accelerazione verso possibili elezioni faccia deragliare il percorso di risanamento. Proprio lì dove la crisi dell’euro è deflagrata nel 2010. Contemporaneamente l’attesa per i risultati degli esami della Bce sulle banche europee trascina giù un po’ tutti i listini (Milano ha perso 4,4 punti). Si aggiunga il calo sempre più rapido dei prezzi del petrolio e un qualsiasi dato statunitense peggiore del previsto: la congiuntura economica mondiale rallenta, e per l’Eurozona già a rischio deflazione non è un belvedere. “Un possibile nuovo choc recessivo per l’Italia, associato a un rallentamento europeo e a segnali di un certo tipo che arrivano dalle urne… Qualcuno, anche a Bruxelles, si è allarmato”, dice Sergio De Nardis, economista di Nomisma. Anche così si spiega “il percorso potenzialmente in conflitto con la Commissione” avviato dal governo Renzi che rinvia il pareggio di bilancio strutturale al 2017 e conta (per trovare circa 11 miliardi) sull’aumento del deficit nel 2015 dal 2,2 al 2,9 per cento del pil. Le regole europee per stringere i bulloni della finanza pubblica, tra cui il noto Fiscal compact, furono finalizzate tra 2011 e 2012: allora Bruxelles e i mercati dicevano con una sola voce che il default degli stati era possibile ed era necessario un segnale. Due anni dopo, con un “whatever it takes” di Mario Draghi alle spalle che ha placato lo spread, i vincoli austeri di Bruxelles non sono cambiati, ma Fmi, analisti e agenzie di rating hanno cambiato musica: l’ortodossa Berlino se ne faccia una ragione, la crescita viene prima di tutto. I dati di contesto contano, dunque, poi c’è il quid di spavalderia connaturato al premier rottamatore: “Renzi fin dall’inizio ha insistito sullo ‘sviluppo’ – dice Paolo De Ioanna, economista che ha coperto ruoli di governo e ai vertici della Pa – Ora, per la prima volta rispetto agli ultimi due governi, l’effetto netto della legge di stabilità sarà espansivo e non riduttivo”.

“La forza politica di Renzi è un ingrediente di questa finanziaria di cui non si può non tenere conto”, aggiunge De Nardis. Così, mentre ieri l’Abi (Associazione bancaria italiana) rompeva tutti gli indugi sull’idea del tfr in busta paga, si registra pure un cambiamento di tono della Confindustria che giudica “un sogno” il tris composto da stabilizzazione del bonus di 80 euro, abbattimento dell’Irap per 6,5 miliardi e decontribuzione sui nuovi contratti a tempo indeterminato. Le risorse per fare tutto ciò e pagare le spese indifferibili, oltre che nel deficit (11 miliardi) e nella consueta lotta all’evasione fiscale (3 miliardi), si troveranno in tagli alla spesa per oltre 15 miliardi. Cifra monstre pure questa per i nostri standard, da recuperare tra regioni, enti locali, ministeri e acquisti di beni e servizi della Pa. Se la spending review non basterà, ed è probabile, il governo procederà con tagli lineari. Il Parlamento capirà, dicono spavaldi nell’esecutivo. Altrimenti toccherà far scattare le clausole di salvaguardia (leggi: aumenti di tasse). E sarà proprio così, secondo autorevoli “gufi”, che alla fine si troverà invece una risposta alla domanda di cui sopra: ma com’è possibile che oggi Renzi i soldi li trova, e nemmeno pochi?

Una frustata chiamata Irap

Una frustata chiamata Irap

Il Foglio

Matteo Renzi ha annunciato un progetto strutturale di grande importanza, ossia l’abolizione dell’Irap sui costi del lavoro, che consentirebbe di togliere di mezzo una tassazione dei costi di produzione che va pagata anche dalle imprese che sono in perdita. L’onere di questa abrogazione sarebbe complessivamente di 6,5 miliardi, secondo i calcoli del Sole 24 Ore. Ma ciò comporterebbe di immaginare che venga abrogato lo sgravio dello scorso anno, che dovrebbe valere circa 2,5 miliardi. E probabilmente ciò ancora non basterebbe, dato che attualmente il gettito sul lavoro dell’Irap è attorno ai 12-13 miliardi.

C’è. dunque. nell’immediato, un problema di copertura. Ma la linea che viene adottata è quella giusta e potrebbe essere completata in un biennio, anziché in un anno, con effetti equivalenti, purché il provvedimento sia reso certo e non sia coperto con imposte sul contribuente italiano, ma con una riduzione delle spese o con privatizzazioni e condoni che sterilizzano l’effetto negativo sul pil, generando un rientro di entrate permanenti (come nel caso degli accordi sul rientro di capitali tenuti in Svizzera). Una volta abrogata la tassazione dei costi del lavo- ro con l’Irap ci sarà il problema di dare alle regioni un contributo equivalente, da destinare alla spesa sanitaria, senza però aumentare l’ammontare dei contributi sociali. Cio puo avvenire togliendo da quelli nazionali, le aliquote che non hanno una base nel diritto a pensioni o indennità di malattia oppure invalidità. L’Irap rimanente è un tributo sul reddito, detraibile per gli accordi internazionali sulla doppia imposizione.

Questa riforma, così, può avere un importante effetto sugli investimenti in Italia da parte delle imprese multinazionali il cui carico fiscale risulterà così ridotto sia sul lavoro sia sul profitto. E, allo stesso modo, favorirà il mantenimento in Italia delle produzioni di servizi di lavoro qualificato, come ad esempio quelli dei centri manageriali e di ricerca, delle attività finanziarie e delle aziende che producono beni di qualità che maggiormente contribuiscono alle esportazioni, come molte dell’elettronica e della meccanica. Certo, rimangono ancora interrogativi a cui rispondere a partire da quello sull’onere da coprire e sul modo di finanziario. Ma la spinta strutturale alla crescita con occupazione può essere molto rilevante grazie alla mossa di Renzi.