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Tasse sulle imprese: l’Italia resta la matrigna d’Europa e scivola al 141esimo posto al mondo

Tasse sulle imprese: l’Italia resta la matrigna d’Europa e scivola al 141esimo posto al mondo

NOTA

L’Italia resta la matrigna d’Europa per quanto riguarda le tasse sulle imprese. Lo dimostra un’elaborazione del Centro studi “ImpresaLavoro” sui nuovi dati riferiti al 2014 contenuti nel rapporto Doing Business 2015. Nel rank generale che misura la facilità per le imprese del sistema fiscale l’Italia si classifica ultima a livello continentale e 141esima nel mondo, riuscendo a fare addirittura peggio dell’anno scorso quando si classificò 137esima. Un risultato determinato da un mix micidiale composto da pressione fiscale elevata, sistema fiscale complesso, tempi lunghi anche per pagare quanto dovuto allo Stato. Tra i Paesi dell’Europa a 28 la palma di miglior sistema fiscale va all’Irlanda, seguita dalla Danimarca e dal Regno Unito. Dietro, ma comunque meglio dell’Italia, tutte le tradizionali economie dell’area euro: l’Olanda è sesta, la Germania 18esima, la Spagna 20esima e la Francia 25esima.
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In termini di Total Tax Rate sulle imprese l’Italia fa leggermente meglio dello scorso anno e passa da un prelievo complessivo del 65,8% ad uno del 65,4%. Una cifra comunque inferiore alla sola Francia (66,6%) e che distanzia di molto tutti i principali partner europei. Anche volendo tralasciare sistemi di particolare favore verso le imprese come quello croato (Total Tax Rate al 18,8%) e Irlanda (25,9%), non si può fare a meno di notare come, tranne la Francia di cui si è detto, nessuno dei nostri partner tradizionali a livello comunitario sconti una pressione fiscale cosi asfissiante: la Germania si ferma a 16,6 punti percentuali di Total Taxe Rate in meno (48,8%) e anche Grecia (49,9%), Portogallo (42,4%) e Spagna (58,2%) fanno meglio di noi. Per tacere di una grande economia matura come quella del Regno Unito che riesce comunque a garantire alle sue imprese un prelievo statale complessivo del 33,7%.
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Al prelievo elevato, nel nostro Paese, si associa anche un sistema burocratico particolarmente complicato. Tra IRES, IRAP, tasse sugli immobili, versamenti IVA e contributi sociali in Italia un imprenditore medio effettua in un anno 15 versamenti al fisco, 6 in più di un suo collega tedesco, 7 in più di un inglese, di uno spagnolo o di un francese e 9 in più di uno svedese. Anche per essere in regola con il fisco le nostre aziende sono costrette ad occupare una parte consistente del loro tempo: con 269 ore l’anno impiegate per adempimenti fiscali, l’Italia è sesta in Europa e prima tra le grandi economie. Un’azienda tedesca ha bisogno di “sole” 218 ore all’anno (51 in meno) e fa comunque peggio di Spagna (167 ore, 102 in meno dell’Italia) e Francia (137 ore, 132 in meno). Particolare la situazione del Regno Unito: a un sistema fiscale già leggero in termini quantitativi si accompagna un sistema di pagamento molto semplice. Gli imprenditori inglesi effettuano in un anno una media di 8 versamenti al fisco, occupando “solo” 110 ore del loro tempo, meno della metà di un imprenditore italiano.

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Rassegna Stampa
Italia Oggi
Crescita, debito, esportazioni: la moneta comune ha fatto bene solo a Berlino

Crescita, debito, esportazioni: la moneta comune ha fatto bene solo a Berlino

Sergio Patti  – La Notizia

Dall’avvento dell’euro ad oggi tutti i principali indicatori della condizione economica del nostro Paese sono nettamente peggiorati: la disoccupazione è passata dal 9 al 13%, il rapporto tra debito e Pil è cresciuto di più di venti punti percentuali mentre l’Istat ha appena certificato come il rapporto tra deficit e Pil sia ormai arrivato nei primi tre trimestri del 2014 al 3,7%.Volendo fare un irriguardoso paragone calcistico, si potrebbe dire che se si giocasse oggi Italia-Germania non finirebbe certamente 4 a 3 come nell’epico scontro dell’Azteca: i tedeschi, infatti, ci batterebbero 7 a 0. A tanto ammontano gli indicatori che il Centro studi ImpresaLavoro ha analizzato prendendo come base di partenza il 2001 (ultimo anno prima dell’entrata in circolazione dell’euro) e confrontandolo con gli ultimi dati disponibili.

La forbice s’allarga
Ne esce un quadro molto chiaro nella sua drammaticità: l’euro ha fortemente avvantaggiato la Germania, aumentando il divario con l’Italia e le rigidità che ci sono state imposte dalla moneta unica ci hanno impedito la flessibilità necessaria a fare riforme importanti in un tempo di crisi. Veniamo ai numeri: il Pil pro-capite tedesco cresce a valore nominale del 29,5%, il nostro “solo” del 17,1%. Se prima dell’euro tra un cittadino di Roma e uno di Berlino c’era una differenza del 16%, oggi il gap è quasi di un terzo (il 28%). I governi guidati da Schroeder e Merkel hanno visto il deficit passare da una cifra di poco superiore al 3% (3,1%) a un surplus di bilancio dello 0,1. L’Italia, invece, nonostante gli sforzi, è passata dal 3,4% del 2001 al 2,80% del 2013 fino all’attuale 3,7%. Contemporaneamente, rispetto al Pil, il nostro debito è passato dal 104,70 al 127,9% mentre il loro dal 57,5% si è fermato al 76,9%. Dove la moneta unica risulta determinata è però nel settore delle esportazioni. L’export tedesco ha visto salire il suo valore nominare dell’84,3% mentre quello italiano è cresciuto del 32,3%: significa che mentre prima della moneta unica l’export tedesco valeva il doppio di quello italiano, oggi vale quasi tre volte tanto (2,8 volte).

Poche prospettive
Quanto alla disoccupazione, in Germania i senza lavoro sono scesi di 2,2 punti mentre la nostra disoccupazione è salita del 4,4%. Se prima dell’euro il tasso di disoccupazione italiano era del 20% più elevato di quello tedesco, oggi per ogni disoccupato in Germania ce ne sono addirittura tre nel Belpaese. “Dall’adozione della moneta unica – osserva il presidente di ImpresaLavoro Massimo Blasoni – non c’è pertanto un solo indicatore economico che non sia peggiorato nel confronto con i tedeschi. Crescita, debito, bilancia commerciale. Senza inflazione che ridurrebbe il peso del debito e una valuta più debole in grado di aiutare, o quantomeno non penalizzare, le esportazioni delle nostre aziende anche le riforme rischiano di non bastare a far ripartire il Paese”.

Grazie all’euro Berlino ci ha battuti sette a zero

Grazie all’euro Berlino ci ha battuti sette a zero

Libero

Germania-­Italia? Finisce 7 a 0. Non si tratta di uno sfortunato incontro di calcio, ma del confronto tra i due Paesi nei principali indicatori economici dall’introduzione dell’euro (2001) al 2013 (ultimi dati disponibili). L’analisi impietosa è stata realizzata dal Centro studi “ImpresaLavoro” che condensa così lo sconfortante raffronto: in Italia la disoccupazione è passata dal 9 al 13% (a novembre 2014 al 13,5), il rapporto debito/Pil è cresciuto del 23,2%, senza dimenticare che l’Istat ha appena certificato come questo sia ormai arrivato nei primi tre trimestri del 2014 al 3,7%. Insomma, se si trattasse di una sfida calcistica i tedeschi, negli ultimi 12 anni, ci batterebbero 7 a 0. Questo perché l’euro – secondo la ricerca – ha fortemente avvantaggiato la Germania aumentando proprio il divario con l’Italia.

Il taglio dell’Irap è inutile per lo sviluppo

Il taglio dell’Irap è inutile per lo sviluppo

Massimo Blasoni – Panorama

In Italia non mancano le imprese virtuose, che ottengono ottimi risultati e incrementano l’occupazione. Quello che manca sono semmai il sostegno della politica e la fiducia nella loro capacità di far ripartire il Paese. Per rendersene conto è sufficiente analizzare uno dei principali provvedimenti contenuti nella Legge di Stabilità: il taglio dell’Irap. Una misura sostanzialmente lineare che si applica a tutte le imprese con dipendenti a tempo indeterminato: certamente utile per le aziende «labor intensive» ma che sconta l’errore di non finalizzare l’intervento a beneficio di chi ha il coraggio di fare investimenti.
Per capire quanto questa misura rischi di essere debole basta analizzare il suo impatto concreto sulle nostre imprese. Il beneficio fiscale sarà nell’ordine di 400 euro annui a lavoratore. Larga parte delle imprese italiane occupano oggi fino a tre dipendenti (fonte Istat): ciò significa una minore pressione fiscale annua di 1200 euro ad azienda, circa 100 euro al mese. È evidente che si tratta di una cifra né in grado di stimolare investimenti né di salvare aziende in difficoltà.
Da imprenditore rimango convinto che una vera spinta alla crescita si otterrebbe soltanto rendendo beneficiari della misura unicamente coloro che effettivamente investono in innovazione, ristrutturazioni e ampliamento delle aziende. Certo si ridurrebbe la platea dei beneficiari ma si otterrebbero effetti reali sulla crescita. L’intervento pubblico (anche se in forma di riduzione delle imposte) va indirizzato con certezza allo sviluppo, altrimenti si rivela soltanto un inutile dispendio di risorse: gli effetti degli 80 euro, al di là di ogni teoria economica, sono lì a dimostrare proprio questo.
C’è un ultimo aspetto: lo sgravio Irap produrrà effetti sul bilancio delle aziende solo nel 2015, dunque sulle imposte pagate a giugno e novembre 2016. Gli interventi in economia hanno un senso soltanto se immediati e invece da qui al 2016 potrebbe ricambiare tutto: anche le regole del gioco. Non sarebbe purtroppo la prima volta. L’attuale abbattimento Irap assorbe e cancella la riduzione del 10% già prevista dal cosiddetto “DL Irpef” di Aprile 2014. Un provvedimento, quest’ultimo, che come molti altri è stato solo un annuncio: prima approvato e poi eliminato senza che nessuno avesse la possibilità di beneficiarne.
Crisi: ImpresaLavoro, con l’euro sono peggiorati tutti gli indicatori

Crisi: ImpresaLavoro, con l’euro sono peggiorati tutti gli indicatori

Repubblica.it

Dall’avvento dell’euro ad oggi tutti i principali indicatori della condizione economica del nostro Paese sono nettamente peggiorati: la disoccupazione è passata dal 9 al 13%, il rapporto debito/Pil è cresciuto di più di venti punti percentuali mentre l’Istat ha appena certificato come il rapporto deficit/Pil sia ormai arrivato nei primi tre trimestri del 2014 al 3,7%. Ad evidenziarlo il Centro studi di ‘ImpresaLavoro’ che azzarda anche un irriguardoso paragone calcistico: se si giocasse oggi Italia-Germania non finirebbe certamente 4 a 3 come nell’epico scontro dell’Azteca. I tedeschi, infatti, ci batterebbero oggi 7 a 0.

A tanto ammontano gli indicatori che il Centro studi ImpresaLavoro ha analizzato prendendo come base di partenza il 2001 (ultimo anno prima dell’entrata in circolazione dell’euro) e confrontandolo con gli ultimi dati disponibili. Ne esce un quadro chiaro nella sua drammaticità: l’euro – evidenzia l’istituto – ha fortemente avvantaggiato la Germania aumentando il divario con l’Italia e le rigidità che ci sono state imposte dalla moneta unica ci hanno impedito la flessibilità necessaria a fare riforme importanti in un tempo di crisi.

La moneta unica risulta determinante è nelle esportazioni. L’export tedesco ha visto salire il suo valore nominale dell’84,3% mentre quello italiano è cresciuto del 32,3%: mentre prima della moneta unica quindi l’export tedesco valeva il doppio di quello italiano, oggi vale quasi tre volte tanto (2,8 volte).

Quanto alla disoccupazione, in Germania i senza lavoro sono scesi di 2,2 punti mentre la nostra disoccupazione ha fatto segnare un’impennata del 4,4%. Se prima dell’euro il tasso di disoccupazione italiano era del 20% più elevato di quello tedesco, oggi per ogni disoccupato in Germania ce ne sono addirittura tre nel Belpaese.

Economia: dopo 13 anni di euro l’Italia perde 7 a 0 con la Germania

Economia: dopo 13 anni di euro l’Italia perde 7 a 0 con la Germania

ANALISI

Dall’avvento dell’euro ad oggi tutti i principali indicatori della condizione economica del nostro Paese sono nettamente peggiorati: la disoccupazione è passata dal 9 al 13%, il rapporto debito/Pil è cresciuto di più di venti punti percentuali mentre l’Istat ha appena certificato come il rapporto deficit/Pil sia ormai arrivato nei primi tre trimestri del 2014 al 3,7%,
Volendo poi fare un irriguardoso paragone calcistico, potremmo dire che se si giocasse oggi Italia-Germania non finirebbe certamente 4 a 3 come nell’epico scontro dell’Azteca: i tedeschi, infatti, ci batterebbero oggi 7 a 0. A tanto ammontano gli indicatori che il Centro studi “ImpresaLavoro” ha analizzato prendendo come base di partenza il 2001 (ultimo anno prima dell’entrata in circolazione dell’euro) e confrontandolo con gli ultimi dati disponibili. Ne esce un quadro molto chiaro nella sua drammaticità: l’euro ha fortemente avvantaggiato la Germania, aumentando il divario con l’Italia e le rigidità che ci sono state imposte dalla moneta unica ci hanno impedito la flessibilità necessaria a fare riforme importanti in un tempo di crisi.
Veniamo ai numeri: il Pil pro-capite tedesco cresce a valore nominale del 29,5%, il nostro “solo” del 17,1%. Se prima dell’euro tra un cittadino di Roma e uno di Berlino c’era una differenza del 16%, oggi il gap è quasi di un terzo (il 28%).
I governi guidati da Schroeder e Merkel hanno visto il deficit passare da una cifra di poco superiore al 3% (3,1%) a un surplus di bilancio dello 0,1. L’Italia, invece, nonostante gli sforzi, è passata dal 3,4% del 2001 al 2,80% del 2013 fino all’attuale 3,7%. Contemporaneamente, rispetto al Pil, il nostro debito è passato dal 104,70 al 127,9% mentre il loro dal 57,5% si è fermato al 76,9%.
Dove la moneta unica risulta determinata è però nel settore delle esportazioni. L’export tedesco ha visto salire il suo valore nominare dell’84,3% mentre quello italiano è cresciuto del 32,3%: significa che mentre prima della moneta unica l’export tedesco valeva il doppio di quello italiano, oggi vale quasi tre volte tanto (2,8 volte).
Quanto alla disoccupazione, in Germania i senza lavoro sono scesi di 2,2 punti mentre la nostra disoccupazione ha fatto segnare un’impennata del 4,4%. Se prima dell’euro il tasso di disoccupazione italiano era del 20% più elevato di quello tedesco, oggi per ogni disoccupato in Germania ce ne sono addirittura tre nel Belpaese.
«Dall’adozione della moneta unica – osserva il presidente di “ImpresaLavoro” Massimo Blasoni – non c’è pertanto un solo indicatore economico che non sia peggiorato nel confronto con i tedeschi. Crescita, debito, bilancia commerciale. Senza inflazione che ridurrebbe il peso del debito e una valuta più debole in grado di aiutare, o quantomeno non penalizzare, le esportazioni delle nostre aziende anche le riforme di cui si parla da tempo rischiano di non bastare a rilanciare l’economia del nostro paese. Il semestre europeo si è concluso senza risultati apprezzabili e oggi l’euro appare sempre più come una gabbia e sempre meno come un’opportunità».

 

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Disoccupazione: nei primi 9 mesi Renzi riesce a far peggio di Berlusconi e Letta

Disoccupazione: nei primi 9 mesi Renzi riesce a far peggio di Berlusconi e Letta

NOTA

Il governo Renzi non fa bene al lavoro, ottenendo nei suoi primi nove mesi di attività risultati decisamente peggiori di quelli conseguiti nel medesimo periodo di tempo dai governi Berlusconi e Letta. Lo dimostra una ricerca del centro studi “ImpresaLavoro” realizzata elaborando i dati delle serie storiche dell’Istat sulla disoccupazione.
Dal giorno del suo insediamento i disoccupati sono aumentati di 203mila unità, passando da 3 milioni 254mila a 3 milioni 457mila. Un risultato nettamente peggiore rispetto a quello dei primi nove mesi del quarto governo Berlusconi (aprile 2008 – gennaio 2009), che ha visto crescere la disoccupazione di “sole” 19mila unità, e dei primi nove mesi del Governo Letta (aprile 2013 – gennaio 2014) che si è fermato ad un saldo di più 165mila senza lavoro. Peggio dell’ex sindaco di Firenze ha fatto solo il “Governo dei Professori”: nei primi nove mesi di Monti-Fornero (ottobre 2011 – luglio 2012) il numero dei disoccupati in Italia ha infatti avuto un’impennata senza precedenti, crescendo di 605mila unità e passando da 2 milioni 183mila a 2 milioni 788mila. In tema di disoccupazione generale, quindi, chi ha fatto meglio nei suoi primi nove mesi è abbastanza nettamente il Governo Berlusconi, seguito dall’esecutivo guidato da Enrico Letta.

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Anche in tema di disoccupazione giovanile, Berlusconi riesce a far meglio di tutti gli altri governi: nei primi nove mesi del Berlusconi IV, il numero di giovani senza lavoro passa da 392mila a 422mila soggetti, con un incremento di 30mila unità. Peggio di lui fanno sia Letta (+42mila giovani disoccupati) che Monti (+109mila). Nei primi nove mesi di Renzi a Palazzo Chigi, i giovani senza occupazione salgono, invece, di 54mila unità facendo segnare una performance migliore soltanto di quella, disastrosa, del Governo Monti.

tabella 2

L’altro elemento storicamente debole nel nostro mercato del lavoro è quello relativo al numero di donne senza occupazione. Nei suoi primi nove mesi il Governo Berlusconi riesce addirittura a ridurre la disoccupazione “rosa” di 31mila unità. Risultato mai più ottenuto dai governi che si sono succeduti: con Monti le donne senza lavoro sono cresciute di 312mila unità, con Letta l’emorragia si è temporaneamente fermata (+29mila) per poi risalire con i primi nove mesi del Governo Renzi che proprio tra le donne fa segnare uno dei suoi dati peggiori (+145mila disoccupate).

tabella 3

Dati in migliaia di persone. Elaborazione ImpresaLavoro su serie storiche ISTAT su disoccupazione
PERIODI CONSIDERATI:
* per governo Berlusconi: Aprile 2008 e Gennaio 2009
**per governo Monti: Ottobre 2011 e Luglio 2012
***per governo Letta: Aprile 2013 e Gennaio 2014
****per governo Renzi: Febbraio 2014 e Novembre 2014
 
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