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Pil in calo, tutti chiedono una scossa al governo

Pil in calo, tutti chiedono una scossa al governo

Avvenire

I dati resi noti dall’Istat sul Pil in calo. O meglio sullo stato di recessione, hanno aperto un dibattito intenso e molto vasto. Impossibile riassumerlo in tutti i sui aspetti. In sintesi politici, economisti e imprenditori chiedono una scossa al governo per uscire dalla recessione. E dal governo si fa sapere che si andrà avanti con decisione per fare le cose che vanno fatte:

” Un dato negativo, ma ci sono anche aspetti positivi, la produzione industriale sta andando molto meglio e i consumi continuano seppur lentamente a crescere”. Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan commenta il dato sul Pil del secondo trimestre e punta sul positivo e sulle cose da fare. “Se ne esce – dice Padoan – continuando con la strategia del governo, riforme strutturali, semplificazioni, aumento della competitività”. Il ministro poi assicura ancora una volta che non ci saranno manovre autunnali.

“Certo questi dati sul Pil non ci fanno stare contenti, ma tutto quello che stiamo mettendo in campo lo stiamo facendo proprio perché ci rendiamo conto della straordinaria urgenza della situazione – spiega  il ministro allo Sviluppo economico Federica Guidi – Ma i primi segnali di inversione di tendenza ci sono: ad esempio  sono tornati a salire i mutui per le famiglie. E  questo di solito è un dato che precede una ripresa su più larga scala. Anche il credito al consumo sta migliorando e gli stock di crediti per le piccole e medie imprese si sono stabilizzati” Sulla necessità di attrarre investimenti, Guidi ha poi ha sottolineato che la frammentazione che abbiamo oggi non funziona: senza spendere un euro di più dobbiamo accorpare le strutture esistenti, dall’Ice a Invitalia, e renderle più efficienti. Quindi, puntare ad avere una cura maniacale nell’attrarre investimenti con una attenzione alle esigenze di ogni azienda.

 

“Dal 2007 al 2010 – fa notare Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia – il Dpef veniva presentato tra giugno e settembre. Pertanto, i tecnici avevano maggiori livelli di certezza statistica che consentivano di avvicinarsi più puntualmente al dato reale di crescita di quell’anno. Dal 2011, invece, l’Ue ha obbligato il Governo in carica a presentare il Documento di Economia e Finanza ad aprile. Questa anticipazione ha reso il lavoro dei tecnici molto più arduo – sostiene Bortolussi – con il risultato che la forbice si è allargata e gli obbiettivi di bilancio sono stati raggiunti solo attraverso manovre correttive redatte in autunno”.

“Sapevamo, come ho sempre detto, che il problema nostro è del secondo semestre, gli effetti li vedremo nel secondo semestre quindi non c’è bisogno di allarmarsi”. Così il sottosegretario Graziano Delrio, uscendo da Palazzo Chigi, valuta i dati sul Pil, sostenendo che “questo secondo trimestre era abbastanza scontato che avesse un’inerzia simile al primo, ma sono più preoccupato del dato complessivo europeo”.

“Il nostro senso di responsabilità ci porta a dare un contributo decisivo in materia di riforme. Ma non possiamo non rilevare l’inadeguatezza di Renzi e del suo governo di fronte alle vere esigenze del Paese”. Lo afferma il senatore Maurizio Gasparri (FI).

 “È evidente che non possiamo affrontare le difficoltà che si I dati disastrosi del Pil sono una nuova mazzata su un’economia che già soffriva di stagnazione, disoccupazione e chiusura di migliaia di imprese.” Lo sostiene in una nota Marco Venturi, presidente della Confesercenti: È un’Italia in quarantena da 11 trimestri, mentre aumenta il rischio di gettare al vento anche il 2014″. “Se il 2014 terminasse con un -0,3% di Pil, secondo nostri calcoli l’aggravio di spesa pubblica sarebbe nell’ordine di 10-15 miliardi di euro, ovvero preziose risorse sottratte alla crescita. Anche sul fronte dei consumi ci troveremmo nuovamente a mal partito con una prevedibile flessione nel 2014 di circa 814 milioni di euro”, aggiunge Venturi: “è inutile girarci attorno, siamo all’allarme rosso. Bisogna reagire in fretta”.

“Il dato del Pil relativo al secondo trimestre comunicato oggi dall’Istat va oltre ogni previsione negativa e unito a quello del I trimestre mostra un Paese in recessione. A questo punto bisogna assolutamente accelerare ogni investimento pubblico e provare rapidamente a raddrizzare la barca per chiudere l’anno con un segno di crescita positiva”. Lo affermaGuglielmo Epifani, presidente della commissione Attività Produttive della Camera, secondo il quale “Tutto il Paese si deve concentrare attorno al tema dell’economia e dell’occupazione”.

 “Il Paese è da ricostruire, ma non servono altre manovre, piuttosto ci vogliono investimenti in nuove fabbriche e infrastrutture”. Così l’economista Giacomo Vaciago commenta il calo del Pil nel secondo trimestre e il ritorno dell’Italia in recessione. “Il 12 febbraio scorso – spiega l’economista – una settimana prima di lasciare Palazzo Chigi, Enrico Letta ha scritto: l’Italia è ancora fragile, ma è pronta per essere ricostruita. Quella dichiarazione la sottoscrivo in pieno. Fragile vuol dire che quando ci sono guai in giro per il mondo, vedi l’Ucraina a un tiro di schioppo, l’Italia ne subisce le conseguenza. Da ricostruire vuol dire che dobbiamo rimboccarci le maniche, fare gioco di squadra e smetterla di litigare stupidamente in Senato per far ripartire l’economia a ricostruire il Paese”. “Ma attenzione – precisa Vaciago – ricostruire non vuol dire fare manovre e dunque continuare a flagellarci, ma significa fare investimenti. Il Paese non cresce da venti anni e va indietro da cinque. È stato come un terremoto, abbiamo perso il 20% delle nostre fabbriche. Dobbiamo ricostruirle e fare nuove infrastrutture, andare avanti”.
“La recessione in atto dell’economia italiana – che purtroppo si colloca in un quadro europeo complessivamente stagnante – richiede lo stimolo di straordinarie riforme strutturali rivolte a  cambiare il mercato del lavoro, il sistema tributario, la pubblica amministrazione con particolare riguardo alla giustizia”. Ha invece detto in una nota Maurizio Sacconi, capogruppo al Senato del Nuovo Centrodestra aggiungendo che “il ceto politico non può fuggire dalle proprie responsabilità. Esso deve, al contrario, incoraggiare a fare cose che in condizioni migliori possono risultare più difficili. Questa è l’ora delle grandi scelte”.
“In questa fase più che interventi di riforma strutturale, sono necessari maggiori stimoli alla domanda che coinvolgano l’Europa: politiche per il sostegno della congiuntura nei paesi core e rimodulazione del percorso di consolidamento del fiscal compact nei periferici”. È quanto sostiene il capo economista di Nomisma, Sergio de Nardis.
 “Diventa sempre più complesso, garantire il pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione entro il 21 settembre così come annunciato nei giorni scorsi dal Governo”. È quanto osserva il presidente di ImpresaLavoro Massimo Blasoni.  “Con questi numeri il governo rischia di trovarsi le mani legate – sostiene Blasoni – da un lato ha molte meno risorse libere da impiegare per lo sblocco dei crediti della Pubblica amministrazione, dall’altro non potrà ricorrere agevolmente a nuovo debito per procurarsi le dotazioni necessarie al pagamento completo di queste somme, così come immaginato in un primo momento. Il rischio concreto è che, anche per il 2014, le imprese saranno costrette a ‘subire’ costi indotti dall’inefficienza pubblica del cattivo pagatore statale per sette miliardi di euro: una tassa occulta che rischia di diventare insostenibile”.
“Dalla caduta non si salva neppure l’agricoltura”, nota il presidente della Cia-Confederazione italiana agricoltori, Dino Scanavino, secondo il quale il settore “paga anche gli effetti del clima, sempre più segnato da eventi estremi. Serve uno scatto in avanti dal governo, con misure strutturali a sostegno dei redditi delle famiglie e provvedimenti attenti ai bisogni reali delle imprese settore produttivo, neanche l’agricoltura che nei primi tre mesi dell’anno era stato l’unico comparto a crescere con un aumento del 2,2% del valore aggiunto. Purtroppo la situazione di stagnazione del Paese, con i consumi fermi e la deflazione a sottolineando come il quadro dei consumi delle famiglie sia completamente negativo anche per quanto riguarda gli alimentari”.
Bisogna essere tutti i giorni sulla stampa internazionale per spiegare ciò che l’Italiaha detto e fatto, dimostrare quanto abbiamo resistito alla crisi senza chiedere aiuto a nessuno e con numeri impressionanti: basta vedere gli interessi sul debito. Nessun altro Paese Ue può reggere il paragone”. Fa notare l’economista Alberto Quadrio Curzio in un’intervista: “L’Italia ha dimostrato nella crisi una capacità di resistenza straordinaria che è quella tipica dei maratoneti. È l’unico Paese dell’Eurozona che ha sopportato manovre di finanza pubblica senza nessun cappello protettivo dal punto di vista dei poteri spettanti alla Commissione e al Consiglio d’Europa”.
“Ma con queste manovre correttive – continua l’economista – il nostro Pil è andato dov’è andato: perché con una pressione fiscale al 54% del Pil c’è poco da fare crescita”. Adesso, oltre alla strada europea, c’è un’altra “strategia per attuare la tempistica del maratoneta: procedere sollecitamente con la spending review per riallocare la spesa Tutti gli spazi di risparmio che riuscissi ad ottenere, li metterei in un rilancio infrastrutturale del Paese. E accanto alla spending penso alle privatizzazioni i cui proventi almeno in parte dovrebbero spingere gli investimenti infrastrutturali”.
Massimo Blasoni a “Fatti e Misfatti” – TgCom24

Massimo Blasoni a “Fatti e Misfatti” – TgCom24

Il presidente di ImpresaLavoro interviene al TgCom24 e illustra i contenuti della prima ricerca pubblicata dal nostro centro studi, che riguarda i debiti della Pubblica Amministrazione verso le imprese italiane.
Blasoni commenta anche i dati negativi diffusi da Istat riguardo il Pil italiano, facendo notare come, in questo scenario, sarà difficile per il governo mantenere la promessa di saldare il debito della PA entro la data del 21 settembre 2014.

Pil, Blasoni: “Con questi numeri impossibile pagare i debiti della PA entro il 21 settembre”

Pil, Blasoni: “Con questi numeri impossibile pagare i debiti della PA entro il 21 settembre”

NOTA DEL CENTRO STUDI IMPRESALAVORO

L’Italia è in recessione tecnica: il Prodotto Interno Lordo, così come certificato dall’Istat, diminuisce per il secondo trimestre di fila e fa registrare un dato peggiore di quello già negativo stimato dai principali analisti. Non è un numero “freddo”, quello che stiamo commentando, ma un fatto reale che produrrà conseguenze reali: senza crescita finiranno per peggiorare tutti gli indicatori di finanza pubblica (rapporto deficit/pil, debito/pil, ecc) e saranno ancor più ristretti i margini di manovra che il governo italiano avrà per mettere in campo misure utili a stimolare la crescita.
C’è poi un aspetto che riguarda molto da vicino lo studio che ImpresaLavoro ha presentato lunedì sul costo che le aziende sostengono per i ritardi di pagamento dello Stato: con questi numeri il governo rischia di trovarsi le mani legate. Da un lato ha molte meno risorse libere da impiegare per lo sblocco dei crediti della Pubblica Amministrazione, dall’altro non potrà ricorrere agevolmente a nuovo debito per procurarsi le dotazioni necessarie al pagamento completo di queste somme, così come immaginato in un primo momento.
«Diventa sempre più complesso, insomma, garantire il pagamento dei debiti della Pubblica Amministrazione entro il 21 settembre così come annunciato nei giorni scorsi dal Governo» osserva il presidente di ImpresaLavoro Massimo Blasoni. «Il rischio concreto è che, anche per il 2014, le imprese saranno costrette a “subire” costi indotti dall’inefficienza pubblica del cattivo pagatore statale per 7 miliardi di euro: una tassa occulta che rischia di diventare insostenibile per un sistema produttivo già fortemente provato dalla difficile congiuntura economica, dalla stagnazione dei consumi e dalla stretta creditizia».
Le speranze (mal) riposte

Le speranze (mal) riposte

Dario Di Vico – Corriere della Sera

Gli economisti che si erano detti favorevoli agli 80 euro e non a un maxi-taglio dell’Irap per le imprese avevano sostenuto il provvedimento confidando che i redditi medio-bassi, beneficiari del primo e significativo taglio delle tasse deciso da tempo, spendessero immediatamente i soldi in più trovati in busta paga. La domanda interna ne aveva e ne ha un bisogno enorme e ci si augurava che gli italiani cogliessero al volo l’occasione. Purtroppo dobbiamo constatare che non è andata così. Non c’è stata trasmissione di input tra la riduzione dell’Irpef e l’aumento dei consumi e il motivo prevalente della débacle è abbastanza chiaro: c’erano in parallelo troppe (altre) tasse da pagare e quindi il popolo degli 80 euro ha dovuto abbassare le penne, ha rinunciato a fare shopping e ha malinconicamente accantonato i soldi per ridarli allo Stato sotto forma di Tasi, Tares e quant’altro. Tassa entra e tassa esce. Una partita di giro, se non addirittura una beffa.

Con il senno di poi viene da dire che la trasmissione ai consumi che non si è avuta avrebbe potuto essere stimolata da qualche accorgimento in più, ci volevano politiche di accompagnamento. Se commercianti e albergatori avessero preso a modello il marketing aggressivo di Ikea – solo per fare un esempio – e avessero promosso sconti e offerte speciali qualcosa forse si sarebbe mosso ma arrivati a questo punto è inutile palleggiarsi le responsabilità e litigare, come è accaduto ieri tra Confcommercio e Palazzo Chigi.

A questo punto bisogna essere più pazienti e più determinati allo stesso tempo, non decretare con troppa fretta il fallimento di un’operazione che rimane giusta e da settembre tornare a batere il chiodo con maggiore convinzione e spirito di iniziativa. Gli 80 euro in più restano comunque in busta paga per tutto il 2014, piuttosto non si sa se saranno confermati il prossimo anno e se la platea dei beneficiari verrà allargata, come pure sarebbe giusto. Ben vengano, dunque, i tagli alle tasse anche se bisogna sapere che miracoli non se ne fanno. L’attesissima ripresa dell’economia italiana si è spostata più in là e dovremo aspettare il 2015 per intravedere un incremento del Pil degno di questo nome. Ma dobbiamo anche sapere che la Grande Crisi ci consegna un’economia diversa rispetto a sei anni fa, i cicli non saranno più durevoli come in passato e le imprese dovranno attrezzarsi a fare i conti con mercati in eterna fibrillazione e consumatori impauriti. Facciamoci gli auguri.

L’export non è questione di buona volontà

L’export non è questione di buona volontà

Antonio Armellini – Corriere della Sera

Le esportazioni italiane tirano, ma non quanto sarebbe necessario, e l’internazionalizzazione del «Sistema Paese» arranca. Il mercato globale richiede tanto una forte capacità di organizzazione da parte delle imprese, quanto una visione strategica da parte dei governi: le parole chiave sono sinergie e gioco di squadra. Come stanno da noi le cose?

L’Italia ha una grande abbondanza di strumenti per il sostegno delle esportazioni. Ci sono le ambasciate, con compiti di supporto generale e di coordinamento; l’Istituto per il commercio estero (Ice) per le analisi di mercato e l’assistenza agli operatori; la Servizi assicurativi del commercio estero (Sace), per l’assicurazione crediti all’esportazione; la Società italiana per le imprese all’estero (Simest), per il sostegno agli investimenti esteri; le Camere di commercio estero. La catena di comando è barocca: ambasciate e Ice fanno capo rispettivamente al ministero degli Esteri e a quello dello Sviluppo economico; di Sace e Simest è stata decisa la privatizzazione e sono entrate nell’orbita della Cassa depositi e prestiti; le Camere di commercio hanno una propria struttura federale. Molti Paesi hanno un numero di strumenti pari, se non superiore, al nostro: essi dispongono in genere di risorse ben maggiori e possono sopportare il peso di qualche ridondanza che, in clima di spending review, non potremmo permetterci. La vera differenza sta nel fatto che, diversamente da noi, la prassi di mettere a fattor comune esperienze e risorse è da tempo consolidata.

Di razionalizzazione si è parlato per anni, ma lo scontro fra incrostazioni burocratiche e logiche corporative ha finito per portare a un nulla di fatto. Nel tentativo di por mano alla situazione il governo Monti ha dato vita a una «cabina di regia per l’internazionalizzazione» che, riunendosi almeno una volta l’anno, dovrebbe fissare le linee strategiche della nostra politica per l’esportazione. L’intenzione è lodevole, ma tradisce il vecchio vizio italiano di affrontare i problemi non già creando linee operative snelle, bensì creando comitati dal carattere consociativo in cui non si capisce bene chi faccia cosa. Alla «cabina di regia» partecipano tutti, dai ministeri alle associazioni industriali, dalle autonomie alle Regioni: quello che ne viene fuori è un’azione informativa magari utile ma non certo una indicazione effettiva di priorità.

Lasciando alla «cabina» la sua funzione di cornice, sarebbe urgente stabilire una linea di comando univoca all’interno: oggi, come detto, essa è divisa fra due ministeri, costantemente tesi alla reciproca sopraffazione, mentre il rapporto con le istituzioni finanziarie – Sace e Simest – rimane in un limbo affidato alla buona volontà dei singoli. La riforma Monti una tale catena l’ha creata, ma solo per l’estero, affidandola alle ambasciate. Basterebbe eliminare la discrasia fra i due modelli per evitare ambiguità e recuperare efficienza. Non importa tanto a chi debba incombere la responsabilità finale: quel che conta è che – in analogia con quanto stanno facendo i nostri partner – questa sia chiara.

Siamo rimasti uno dei pochissimi Paesi in cui il supporto pubblico all’export è gratuito, o quasi, e la cosa non ha più alcuna ragione di esistere. Quello che è gratis è ritenuto spesso senza valore: succede così che quando il servizio è inadeguato – e la cosa succede, ovviamente – viene accettato come il portato delle carenze del settore, con il risultato di aggravarne le inefficienze. È necessario far pagare le attività di supporto agli operatori, a prezzi di mercato: otterremmo da un lato un miglioramento – necessario – della qualità e, dall’altro, una presa di coscienza del fatto che il supporto pubblico non è una concessione del sovrano ma un diritto del cittadino. Il gioco di squadra non riguarda solo il pubblico. L’«effetto chioccia» comune in tanti Paesi a partire dagli Usa – per cui le grandi multinazionali fanno da traino con le loro commesse a interventi a cascata di piccole e medie imprese che, da sole, non avrebbero alcuna possibilità – è da noi praticamente sconosciuto. I pochi grandi gruppi rimasti – Eni, Fiat (ma l’Iri dei tempi d’oro non era da meno) – hanno sviluppato diplomazie parallele, in autonomia e talvolta in contrasto con quella istituzionale, e l’idea di favorire l’inserimento complementare di altre imprese – quando non appartengano al loro stesso gruppo – non fa parte del loro lessico industriale.

Ci siamo cullati per anni con «piccolo è bello», nella convinzione che la flessibilità delle nostre piccole e medie imprese bastasse a garantirne il successo, ma la sfida della globalizzazione richiede dimensioni adeguate. Le nostre imprese sono perlopiù restie a unire gli sforzi, così come da tempo fanno i loro concorrenti, e finiscono spesso per ingaggiare lotte sfibranti fra loro sui mercati esteri per poi cedere, esauste, a concorrenti stranieri che hanno saputo consorziarsi. È stupefacente che il Paese che ha inventato i distretti industriali – nati per sfruttare al meglio le sinergie produttive – non sia stato capace di riprodurre questo modello al di là dei confini della provincia o, al massimo, della regione. C’entrano la nostra storia, la diffidenza nei confronti dello Stato visto come alieno, il peso dei localismi e l’individualismo della nostra società. L’uomo con la ventiquattrore della nostra mitologia industriale ha comunque fatto il suo tempo: potrà ogni tanto mettere a segno qualche colpo, ma andare oltre sarà vieppiù difficile. Pubblico e privato devono imparare a muoversi sempre più in maniera coordinata, per affrontare una concorrenza che non è agguerrita solo nei mercati emergenti, ma anche in quelli dove l’Italia ha occupato tradizionalmente posizioni di forza.

Pagamenti PA, i ritardi costano 6 miliardi

Pagamenti PA, i ritardi costano 6 miliardi

Adolfo Spezzaferro – La voce sociale

Come se non bastasse la crisi economica, a spezzare le nostre imprese ci si mette pure la pubblica amministrazione. Infatti il ritardo dei pagamenti ai fornitori della Pa ha finora determinato un costo del capitale a carico delle imprese italiane di oltre sei miliardi di euro all’anno, pari a quasi 30 miliardi nel periodo 2009-2013. Il dato emerge da una ricerca realizzata dal centro studi ImpresaLavoro di Udine, promosso dall’imprenditore Massimo Blasoni e il cui board scientifico è presieduto dal professor Giuseppe Pennisi (economista, consigliere del Cnel e docente all’Università Europea di Roma, già Banca Mondiale e dirigente generale dei Ministeri del Bilancio e del Lavoro).

Lo studio sottolinea come ci si debba peraltro accontentare in questo campo di una stima prudenziale, dal momento che le stesse amministrazioni pubbliche non dispongono di una sistematica e organizzata documentazione sui crediti dei propri fornitori e sulle fatture associate, a causa delle insufficienze nei sistemi di contabilizzazione delle transazioni. Finora, infatti, le stime sulla dimensione del fenomeno si sono basate sull’impiego di metodologie statistiche e di indagini campionarie. «Quel che invece si sa con certezza – osserva il presidente Massimo Blasoni – è che i pagamenti del committente pubblico italiano arrivano in media dopo 170 giorni dal ricevimento della fattura, mentre i fornitori privati di norma pagano dopo 60 giorni. Questo mismatching di uscite ed entrate aggrava la situazione finanziaria di migliaia di imprese, esponendole nei casi più gravi al rischio default. Il fenomeno ha assunto rilevanza maggiore a seguito dell’attuale situazione di congiuntura economica, la quale ha provocato anche una riduzione del credito concesso dalle banche alle imprese, con conseguente aggravio della situazione finanziaria di queste ultime».

Secondo le stime prudenziali di ImpresaLavoro, l’ammontare per il 2013 è di circa 74,2 miliardi di euro, pari a circa il 4,8% del PIL. Lo stock di debito commerciale della nostra Pa risulta in calo: nel 2010 aveva toccato la cifra record di 87,3 miliardi di euro, pari al 5,5% del Pil. La diminuzione dello stock è dovuta alla riduzione della spesa pubblica relativa all’acquisto di beni e servizi, nonché dei tempi di pagamento concordati con i fornitori. Non è quindi diminuito il ritardo medio nel pagamento delle fatture.

La ricerca rivela inoltre come, a livello europeo, sia in termini nominali che relativi, l’Italia risulti essere il Paese col maggiore stock di debito. Già dal 2010, ha infatti il peggior rapporto tra debiti commerciali e PIL, superando tanto la Spagna quanto la Grecia, le uniche in Europa (a parte l’Italia) a superare il 3% in questo rapporto. Per un’impresa italiana che lavora con PA, l’incidenza di questi costi sulla singola fornitura risulta così pari al 4,2%: un dato circa 4 volte superiore a quello sostenuto da un’impresa francese (1,2%) e circa 7 volte superiore a quello sostenuto da un’impresa tedesca (0,6%). E nel caso di Francia e Germania stiamo parlando di economie non disastrate come la nostra.

La beffa dei debiti dello stato: alle imprese costano 7 miliardi

La beffa dei debiti dello stato: alle imprese costano 7 miliardi

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

Un salasso da 6,8 miliardi di euro nel 2013, un altro record negativo in ambito europeo e, soprattutto, un finanziamento indiretto alla “casta” che ai cittadini l’anno scorso è costata 5,1 miliardi. E’ questa la sintesi di una ricerca sulla ricadute negative dei ritardati pagamenti della pubblica amministrazione condotta da “ImpresaLavoro”, il centro studi creato dall’imprenditore friulano Massimo Blasoni e il cui board è presieduto da Giuseppe Pennisi.

Lo studio, infatti, analizza gli effetti del malcostume tutto italiano di non onorare prontamente le scadenze verso i fornitori. Il centro studi, basandosi sui dati di Eurostat e di Intrum Justitia, ha stimato in 72,2 miliardi di euro il totale dei debiti della pubblica amministrazione non saldati l’anno scorso, una cifra pari al 4,8 del Pil. Il valore, però, non tiene conto dei debiti delle partecipate dello Stato e degli enti pubblici che spesso sfuggono a queste misurazioni e, probabilmente, è sottostimato. Anche se lo stock si sta riducendo (nel 2010 era di 87 miliardi e nel 2012 di 81 miliardi circa) per effetto del recepimento della normativa europea – su imput dell’ex commissario Antonio Tajani – sui tempi di pagamento e sullo stanziamento di risorse ad hoc, ciò non toglie che i 170 giorni medi per un pagamento costituiscano un grave problema per le aziende.

Aspettare sei mesi per ottenere il pagamento di una fattura vuol dire rischiare il fallimento, a meno di non ricorrere a un “cuscinetto” di capitale che consenta di ovviare alla difficoltà. Questo “cuscinetto”, in molti casi, si chiama finanziamento bancario che può, ovviamente, articolarsi in differenti modalità di erogazione. Il centro studi ImpresaLavoro ha pertanto simulato quanto paghino le aziende queste risorse aggiuntive cui non si farebbe ricorso se lo Stato fosse un buon pagatore. Tecnicamente parlando, il costo del capitale è una variabile microeconomica funzione anche degli utili attesi, ma – in questo caso – si utilizza il costo medio dei finanziamenti bancari che, grosso modo, rappresentano una misura equivalente. Ebbene, la media ponderata tra linee di credito (tassi oltre il 10%), scoperti di conto (oltre il 16%), anticipo e sconto crediti (tra il 5,5% e l’8%) e factoring (tra il 4,2 e il 7,7%) restituisce un valore medio del 9,1 per cento. Ciò significa che quei 74,2 miliardi non pagati dallo Stato costano alle imprese 6,8 miliardi di extracosti di finanziamento, una cifra elevata anche a causa della congiuntura economica che rende sempre meno convincente alle banche prestare soldi alle aziende in difficoltà.

Per ironia della sorte, la memoria scritta del pg della Corte dei Conti Salvatore Nottola sul giudizio di parifica del rendiconto dello Stato indica in 5,1 miliardi di euro il costo sostenuto per gli organi istituzionali (Presidenza della Repubblica, Camera, Senato, Presidenza del Consiglio, enti locali). Insomma, è come se con quei soldi non pagati alle imprese lo Stato finanziasse la “casta” a spese delle attività produttive. Ma soprattutto, ed è questo ciò che conta, le aziende non recupereranno mai totalmente il costo dei finanziamenti: il centro studi ha infatti calcolato in circa 3,3 miliardi il valore degli interessi di mora applicabili ai debiti non saldati. Ben 3,5 miliardi se ne vanno perciò in fumo. Ultimo ma non meno importante è il costo sociale dei ritardati pagamenti: minori investimenti, meno sviluppo, perdita di posti di lavoro e fallimenti. Questo si traduce in una progressiva diminuzione della competitività: l’Italia è il Paese dell’Ue con il più elevato stock di debiti commerciali della Pa scaduti e il secondo dopo la Grecia (che però non fa testo essendo tecnicamente in default) per incidenza dei debiti sul Pil. Difficile dar torto a chi non investe in un Paese dove avere come controparte la Pa significa rischiare più del necessario.

C’è chi dice no, ecco chi ferma l’Italia

C’è chi dice no, ecco chi ferma l’Italia

Filippo Caleri – Il Tempo

Sono i più fieri avversari del cambiamento. Si oppongono sempre e comunque a qualunque riforma. Sono i sindacati italiani che spesso, in nome di difese corporative, si confrontano con le istanze di categorie nuove e con la complessità degli interessi da rappresentare. È il partito del «no», che non sperimenta soluzioni innovative e perpetua vecchi modelli di gestione delle relazioni industriali, facendo male a se stesso e al Paese. Con conseguenze per gli stessi lavoratori. L’inchiesta de Il Tempo ha preso in esame gli ultimi dossier economici passati al vaglio di Parlamento e governo. Ebbene, in ognuno di questi non è mai mancato l’atteggiamento pregiudiziale di chiusura verso ogni tipo di cambiamento. Una breve disamina, senza nessuna pretesa scientifica, che dimostra però come esista in Italia un autentico blocco di conservazione e resistenza al cambiamento.

Il partito del «Niet»
Un blocco che è in realtà trasversale ai vari schieramenti politici, ma nella cui composizione sono fortemente rappresentati i sindacati confederali Cgil, Cisl, Uil e una miriade di associazioni datoriali, dalle più grosse a quelle di particolari settori. Da loro tanti e reiterati sono stati i dinieghi nonostante i richiami degli organismi internazionali, della Bce e di Bruxelles, per riforme incisive in grado di aumentare la competitività del Sistema Italia. Una regola, quella del «mettersi di traverso», che ha portato un solo risultato: Italia paese del Gattopardo, nel quale si fa finta di cambiare ma alla fine non cambia nulla. Dalla riforma del lavoro alla legge sulla rappresentanza, dal blocco dell’aumento Iva allo spostamento della tassazione dal lavoro alle cose, ci sono almeno 20 cambiamenti che, negli ultimi anni, sono stati stoppati o svuotati, dal fuoco di veti incrociati provenienti dalle parti sociali.

La tattica
La lunga sequela di stop, rallentamenti, no mascherati, apre, sul cambiamento dell’Italia, una contrapposizione continua. Si adotta una tecnica dilatoria che allontana la soluzione e che si avvale dei bizantinismi usati nelle relazioni tra padroni e operai nel ’900. Un mondo, allora chiuso, stretto tra barriere nazionali e che oggi non esiste più. La dinamica lineare ha lasciato il posto alla «complessità» per dominare la quale gli strumenti e le logiche del passato non sono più adeguati. Resta ancora in auge, anche se in lento declino, l’ultima eredità della fine del secondo millennio. Il «compromesso» che spesso lascia le cose più o meno al punto di partenza. Ognuno fa il proprio mestiere e le rappresentanze hanno il diritto legittimo a tutelare gli interessi dei loro rappresentati. Ma attenzione, spesso, troppo spesso, per proteggere gli interessi di pochi si perdono le opportunità di modernizzazione ineludibili.

Cgil campione di no
Il partito del Conserva Italia non ha un colore definito, è liquido, permeabile, si spacca e si ricompatta a seconda delle convenienze. Ma la predominanza del «no preventivo» è congeniale alla Cgil. Che si mette puntualmente di traverso quando si tentano di modernizzare le norme in qualunque settore economico. Il sindacato guidato da Susanna Camusso ha detto no su quasi tutto. Dalla costruzione del Ponte di Messina (scelta che avrebbe anche motivate ragioni visto la sostenibilità economica dell’opera) alla flessibilità per facilitare l’ingresso al lavoro dei più giovani. La stessa confederazione si è dichiarata contraria anche al Job Acts che ha in parte aggiustato alcune storture introdotte dalla riforma Fornero. No anche all’utilizzo delle prove Invalsi nelle scuole italiane (metodo di confronto dei rendimenti scolastici che ci avvicina ai partner europei) e al taglio delle province. Così come alle dismissioni dei beni statali per l’abbattimento del debito pubblico. E non è da dimenticare il rifiuto al piano degli esuberi di Alitalia che ha messo a rischio la fusione della compagnia italiana con gli arabi di Etihad.

Compagni di viaggio
La Cgil non è però la sola a mostrare forti resistenze al cambiamento. Il «virus» della conservazione colpisce innanzitutto i compagni di viaggio della Cgil e cioè la Cisl e la Uil. Anche loro, con opportuni distinguo, sono sempre pronti a cavalcare il destriero del rallentamento per i provvedimenti di cambiamento. Fronte compatto delle tre sigle per norme che rappresentano una delle riforme più richieste dagli italiani come la mobilità obbligatoria nella pubblica amministrazione e per l’abolizione del Cnel.

Le associazioni
Non sono solo i sindacati a dire no e a opporsi ai tentativi di riforma. Insieme a loro, brillano per resistenza alle liberalizzazioni e alle norme anti corporazioni, tanti altri soggetti. Dai commercianti ai vescovi della Cei, ma anche farmacisti e balneari. Tutti pronti a erigere muri. Il caso emblematico è la riforma del mercato del lavoro, nata male e trasformata in peggio per la paura di stravolgere le protezioni oggi esistenti solo per chi lavora. Ebbene, doveva ridurre le tipologie contrattuali, la complessità dell’impianto normativo e introdurre i licenziamenti economici. Ad alzare le barricate le Pmi di Rete Imprese Italia sul primo punto, e quelle dei sindacati sul secondo. Stop che hanno prodotto una legge che non raggiunge quanto richiesto dai mercati: sui licenziamenti economici, dicono i giudici, non è cambiato quasi nulla. E la giungla di contratti non è stata disboscata.

Le professioni
Poca fortuna hanno avuto anche le liberalizzazioni delle professioni. I paletti posti dai sindacati delle categorie di farmacisti, notai e avvocati, l’hanno resa monca in partenza. Altro dossier e solito no, anche questo trasversale, sugli orari di apertura delle attività commerciali. Considerazioni economiche si scontrano con ragioni etiche. Così da una parte si sono schierate Confesercenti e Cei, dall’altra la Federdistribuzione. Una consuetudine che in altri paesi è la norma, con catene commerciali, aperte 24 ore su 24 ore per 365 giorni l’anno, in Italia è un tabù. La discrasia tra volontà di cambiamento e conservazione si ritrova nei tagli alla spesa statale: tutti d’accordo. Ma solo in via di principio. Poi prevalgono i no sindacali. Perfino sul taglio delle province sono arrivate le chiusure. La categoria Funzione Pubblica di Cgil si è opposta, così come l’Api che rappresenta gli enti.

Infratrutture
È uno dei campi preferiti nei quali si esercita il potere di veto dei sindacati. La Camusso, ad esempio, non è contraria alla Tav Torino-Lione. Ma ha sempre espresso una netta contrarietà alla costruzione del Ponte di Messina. Con Cisl e Uil, poi, il fronte è compatto per contrastare la costruzione di una centrale Centrale a biogas a Bertinoro tra Forlì e Cesena. Per tutte e tre le sigle è una scelta incompatibile con la vocazione turistico termale del territorio. La motivazione – spiegano le tre sigle – non è quella di una contrarietà a priori ma di una posizione di merito, legata principalmente alla scelta di quel territorio e alla mancanza di chiare garanzie sull’impatto ambientale». Per i sindacati l’approvvigionamento energetico non è una priorità.

Il fisco
Persino la grande battaglia contro l’evasione, che vede tutti d’accordo sull’obiettivo, non trova sintonia sui mezzi per contrastarla. Sul Durt – il documento unico di regolarità tributaria – tutte le associazioni di imprese hanno fatto la guerra. No corale anche per sulle norme di semplificazione che danneggiano i Centri di Assistenza Fiscale, i Caf, da cui sindacati e associazioni di imprese ricavano circa la metà degli introiti.

Il caso Alitalia
È l’esempio più recente ed emblematico di come il sindacato del «no» possa arrivare anche a far rischiare di naufragare una trattativa aziendale delicata in nome della conservazione dei posti anche quando l’azienda non è più in grado di remunerarli. Così nonostante il via libera della società all’arrivo di Etihad nel capitale sociale, le divisioni dei sindacati che si sono arroccate rispetto alla chiusura dell’accordo hanno fatto avvicinare pericolosamente Alitalia al fallimento. All’ostinazione della Cgil a non mollare sugli esuberi dei lavoratori si è aggiunta anche la Uil che ha puntato i piedi sul rinnovo contrattuale e sui piani di risparmio contrattati con i vertici aziendali. Divergenze rientrate ma che hanno messo in evidenza quanto ancora forte sia il potere di interdizione delle organizzazioni confederali nei processi di ristrutturazione aziendale.

La lezione Fiat
Nonostante la forza residuale il sindacato italiano non è più una parte attiva nel processo di governo dell’economia. Questo a causa della complessità connaturata ai mercati del mondo d’oggi. Il caso di scuola è quello della Fiat che ha compreso anzitempo l’impossibilità di reggere così come strutturata in Italia la competizione internazionale. Se n’è andata e ha lasciato i sindacati in balia di loro stessi. Un atteggiamento, quello di Marchionne, dettato dal fatto che oggi è il mercato che detta le regole e non più le corporazioni. La velocità di trasformazione del mondo industriale ha reso vetusti gli strumenti sindacali di un tempo. La concertazione è di fatto ridotta a una rappresentazione di interessi al tavolo delle trattative. Vecchi metodi per un nuovo mondo. Il no preventivo sta perdendo la sua forza. Forse è il momento di ripensare il sindacato in un’ottica più moderna.

GIUSEPPE PENNISI (Presidente Board Scientifico): serve un cambio di passo

GIUSEPPE PENNISI (Presidente Board Scientifico): serve un cambio di passo

Il Documento del Centro Studi Impresa Lavoro tratta, in modo originale, un tema non nuovo: gli effetti drammatici dei ritardi dei pagamenti della pubblica amministrazione nei confronti delle imprese sulla competitiva complessiva del sistema produttivo  italiano. Sono state proposte varie soluzioni. Il Documento ne delinea le principali.
Ma, nonostante , in seguito ad accordi con il resto della maggioranza e con il maggiore partito di opposizione, il Governo attualmente in carica abbia adottato misure per affrontare il problema, si tratta di provvedimenti parziali, la cui applicazione è molto più lenta di quanto anticipato dall’Esecutivo medesimo.
Se non c’è un cambiamento di passo, gli esiti non saranno positivi: sotto il profilo micro-economico molto imprese si troveranno in serie difficoltà tanto da dover chiudere i battenti, sotto il profilo settoriale si rischia la sparizione di interi settori prodottivi, sotto il profilo macro-economico, aumenta il pericolo di deflazione e prolungata recessione ove non depressione con un aumento del disagio sociale.
Giuseppe Pennisi, Presidente del Board Scientifico del Centro Studi ImpresaLavoro
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Debiti Commerciali della Pubblica Amministrazione: confronto con gli altri paesi europei. 

Ammontare debiti commerciali

Debiti Commerciali della Pubblica Amministrazione in rapporto al Pil: confronto con gli altri paesi europei. 


Debiti commerciali pil

 

Giorni medi per il pagamento dei debiti commerciali della Pubblica Amministrazione: confronto con gli altri paesi europei. 

Giorni di pagamento

 Costi a carico delle imprese italiane.  

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