massimo riva

Per creare lavoro una legge non basta

Per creare lavoro una legge non basta

Massimo Riva – L’Espresso

Dice il ministro dell’Economia che le novità previste con la legge di Stabilità dovrebbero portare a 800 mila nuove assunzioni nel corso del prossimo triennio. Ne saremmo tutti oltremodo felici, anche perché l’Istat ha appena certificato che dal 2008 ad oggi sono andati perduti oltre due milioni di posti di lavoro soltanto nella fascia di età fra i 25 e i 34 anni. Riassorbirne cosi tanti nell’arco di trentasei mesi si offre come una prospettiva entusiasmante. Forse anche un po’ troppo. perché c’è il rischio di alimentare speranze che potrebbero rivelarsi illusioni con ricadute negative sulla credibilità di un governo che, in realtà, qualcosa di buono e di utile per il rilancio della crescita economica sta facendo.

È fuor di dubbio, infatti, che almeno un paio di novità introdotte nella manovra per il 2015 dovrebbero avere effetti positivi in termini di creazione di posti di lavoro. Non solo i nuovi assunti a tempo indeterminato costeranno meno quanto a oneri contributivi ma le imprese potranno anche godere di un robusto sgravio dell’Irap proprio sul versante del lavoro. Perciò è senz’altro ragionevole pensare che il combinato disposto di queste due misure possa schiudere in ingresso quei portoni di fabbriche e uffici che da tempo sono aperti soltanto in uscita. Ma declamare cifre così imponenti come fa il governo è operazione politica temeraria anche perché l’esperienza storica indica che un rientro significativo della disoccupazione è possibile soltanto quando il tasso di crescita annuo si avvicina ad almeno un paio di punti percentuali, non agli stentati decimali previsti per l’anno venturo e seguenti. Non c’è impresa disposta ad assumere lavoratori perfino a costo zero se il mercato dei suoi prodotti non si rianima. In altre parole, se la domanda per consumi non riprende a ritmi vivaci.

E qui siamo a un primo punto dolente. L’orso della crisi dell’occupazione si sta rivelando un animale sempre più difficile da addomesticare con gli strumenti tradizionali e da parte di un singolo domatore. immaginare che oggi il mercato del lavoro possa essere rilanciato soltanto con interventi legislativi su fiscalità e oneri contributivi significa non aver compreso appieno la vastità e la profondità del problema. Per carità, in momenti difficili tutto serve: a cominciare da un buon bricolage legislativo come quello proposto dal governo. Ma con queste riforme si adempie una prima condizione, sicuramente necessaria e però anche del tutto insufficiente. In un sistema economico esposto alla combinata minaccia di una recessione sommata alla deflazione non si esce da una simile tenaglia – mortale per l’occupazione – senza produrre sforzi rilevanti sul versante degli investimenti, dapprima pubblici e a seguire privati.

E qui siamo al secondo, essenziale, passaggio. Oggi non esiste l’ipotesi di perseguire efficacemente la crescita economica da soli e in casa propria: non lo consente l’integrazione con il mercato unico europeo e ancor più la globalizzazione economica planetaria. Ovvero: l’Italia può risalire la china solo all’interno di un concerto europeo nel quale la musica deprimente del mero rigore contabile venga sostituita da uno spartito che preveda un piano di grandi investimenti collettivi e di rilancio della domanda interna.

Conta, dunque, poco che Parigi si ribelli al limite del tre percento sul disavanzo o che Roma voglia procrastinare l’ingresso nella gabbia del pareggio di bilancio. Fino a quando si incrociano le armi attorno alla maggiore o minore sacralità dei vincoli europei si continua a restare dentro il gioco degli idolatri di un codice di regole concepito e sottoscritto in tempi (ormai lontani) di benessere crescente per tutti. Oggi l’orizzonte è cambiato. L’obiettivo degli 800mila posti di lavoro declamato dal ministro Padoan può diventare realistico a una condizione su tutte prevalente: che qualcuno in Europa riesca a rovesciare il tavolo di una politica economica che, dietro il vessillo dell’euro forte e dell’austerità, sta rendendo tutti più poveri.

La spending review dall’alto

La spending review dall’alto

Massimo Riva – La Repubblica

Stavolta il fronte interno delle reazioni alla manovra 2015 minaccia di rivelarsi anche più caldo, se possibile, di quello esterno in Europa. In particolare sul versante degli enti locali: le Regioni innanzi a tutti. Si potrà dire che lo scontro fra Palazzo Chigi e i governatori è una costante nella stagione in cui si allestiscono le misure di aggiustamento del bilancio: anche ai tempi dei tagli lineari del duo Berlusconi-Tremonti si sono viste scintille infuocate. Quest’anno, però, c’è una novità politica da non prendere sottogamba: il conflitto si è aperto all’interno dello stesso schieramento della sinistra governante. Da una parte c’è il segretario del Pd che è anche presidente del Consiglio, dall’altra c’è Sergio Chiamparino, governatore del Piemonte e presidente della conferenza delle Regioni. Un personaggio di estrazione diessina ma che, nelle battaglie interne al Pd, finora si era manifestato fra i sostenitori di Matteo Renzi.

Alto, quindi, è il rischio che il conflitto sulla portata dei provvedimenti possa essere inquinato anche da tentativi di piccolo o grande cabotaggio per rimettere in discussione gli equilibri interni di un partito dove i non-renziani sono sì una minoranza e però non pacificata. I toni durissimi con i quali Chiamparino ha aperto le ostilità, purtroppo, non fanno presagire granché di buono. Né le prime reazioni di Renzi suonano particolarmente accomodanti. Ha detto il governatore del Piemonte che questa manovra per le Regioni è «insostenibile a meno di non incidere sulla sanità». Ha replicato il presidente del Consiglio: «Sono pronto a incontrare gli esponenti delle Regioni, ma dire che ora si alzano le tasse o si taglia la sanità è una provocazione». Controreplica di Chiamparino: parole offensive.

Così non va: in un’ottica di responsabilità istituzionale reciproca sarebbe auspicabile da parte di entrambi un linguaggio più legato alla sostanza delle questioni. Nessuno pensa che chiedere alle Regioni ulteriori sacrifici per oltre quattro miliardi sia come l’invito a una passeggiata. Così com’è vero che la spesa per la sanità costituisce la posta di gran lunga maggiore nei bilanci regionali. Ma davvero all’interno di questi consuntivi non ci sono altri spazi, meno socialmente odiosi, su cui operare risparmi di spesa? C’è qualcosa di non sempre credibile nelle reazioni degli enti locali alle richieste di tagli che vengono dai governi centrali. Non appena la scure si alza sui bilanci comunali, pronti i sindaci dichiarano che così dovranno chiudere gli asili nido. Quando la mannaia minaccia le Regioni, la risposta consolidata è: taglieremo i servizi sanitari. È una storia vecchia, che però rimane ancora del tutto irrisolta.

Come altrettanto totalmente irrisolta è un’altra partita che riguarda i bilanci patrimoniali degli enti locali da dove – molto meno dolorosamente per i cittadini – si sarebbero già potute ricavare non piccole risorse per migliorare lo standard dei servizi sociali e al tempo stesso risanare i consuntivi anno dopo anno. La partita è quella delle innumerevoli aziende partecipate da Comuni e Regioni che talora portano nelle casse pubbliche qualche buon profitto, ma più spesso operano in perdita a esclusivo benefico di coloro che hanno avuto – diciamo così – la buona sorte di trovarvi un canonicato, pingue per sé e inutile per gli altri.

Da quanti decenni sul tavolo della politica italiana è aperto questo problema? Quanti commissari alla spending review vi si sono spaccati invano la schiena? Ecco se il presidente del Consiglio, anziché parlare di provocazione, avesse puntato il dito su questo nodo forse si potrebbe sperare in un esito più proficuo – per i cittadini e i conti pubblici – del confronto che si aprirà fra governo e Regioni. Anche perché in materia risulta del tutto insoddisfacente quell’inciso della legge di stabilità in cui si richiede agli enti decentrati di predisporre entro il marzo prossimo un piano di cessioni e accorpamenti delle aziende controllate con riferimento anche alle retribuzioni dei dirigenti.

Francamente da un decisionista come Matteo Renzi c’era da aspettarsi qualcosa di ben più ultimativo su una materia che, oltre tutto, potrebbe portare a risparmi anche parecchio superiori a quei quattro miliardi che hanno fatto così imbufalire Chiamparino e soci. Peccato, un’occasione persa: sulla quale sarebbe stato davvero interessante per i contribuenti assistere a un confronto fra governo ed enti locali. Magari per ascoltare questi ultimi chiedere conto allo Stato di ciò che intende fare per liberare il campo anche dai suoi tanti e persistenti enti inutili o addirittura dannosi. Purtroppo, non l’unica occasione persa di una manovra che comunque contiene buone misure mirate a spingere verso la crescita economica. Anche se talora contraddittorie: che senso ha, per esempio, aprire il capitolo dell’anticipazione del Tfr per poi richiuderlo con una maggiorazione delle imposte? Lo spazio di tempo per un riesame più sobrio e coerente di alcune misure non manca. C’è da sperare che – al lordo del conflitto con le Regioni – governo e Parlamento lo sappiano sfruttare.

Il vero incubo adesso è il debito

Il vero incubo adesso è il debito

Massimo Riva – La Repubblica

A preoccupare non è tanto che Moody’s tagli le sue stime sul Pil di quest’anno: ormai lo sanno anche a Palazzo Chigi che il previsto più 0,8 per cento è diventato un obiettivo irraggiungibile. Quel che più dovrebbe allarmare è l’effetto che i giudizi negativi sulla lentezza delle riforme possono avere sui mercati finanziari. Le agenzie di rating – ormai questi anni di crisi ce l’hanno insegnato – non sono né arbitri distaccati da interessi concreti né istituti di beneficenza. Il loro ruolo è quello di orientare gli operatori mercantili ed è un compito che ne alimenta il reddito e il successo soltanto nella misura in cui le annunciate profezie si avverino.

Occorre, dunque, maneggiare con cura questa sortita di Moody’s perché essa potrebbe facilmente trasformarsi in un nuovo segnale di attacco sul fronte più fragile delle tante nostre oggettive difficoltà. In particolare, quello del finanziamento del debito pubblico che in questi mesi è riuscito a reggere con il vento in poppa di una costante e significativa discesa dei tassi d’interesse. È chiaro a tutti, infatti, che un brusco rincaro del servizio del debito non solo priverebbe il governo di risorse utili a misure di stimolo all’economia ma metterebbe a rischio anche quel rispetto del fatidico 3 per cento di deficit che è condizione importante per poter fare la voce grossa in Europa.

Il nodo cruciale attorno al quale ruotano i giudizi negativi dell’agenzia americana riguarda soprattutto la lentezza con cui l’Italia procede sul terreno delle riforme strutturali. Dunque, la stessa questione sollevata appena qualche giorno fa dal presidente della Bce, Mario Draghi. A quest’ultimo il presidente del Consiglio ha risposto in termini al tempo stesso consenzienti e infastiditi. Da un lato, ha detto di essere anche lui consapevole della necessità di attuare le attese riforme. Dall’altro lato, ha tenuto a ricordare che la scelta sulle riforme da fare spetta al governo italiano e non alla Bce o alla Commissione di Bruxelles, tanto meno alla troika fra i due e il Fondo monetario.

Una rivendicazione di sovranità formalmente legittima e per certi versi oggi anche ovvia sul piano istituzionale. Ma che per non avere un senso di battuta occasionale ed estemporanea avrà bisogno di essere seguita da comportamenti e azioni all’altezza dei problemi del momento su due tavoli principali, interno ed esterno.

In primo luogo, evidentemente, si tratterà di realizzare le attese riforme in tempi che evitino al Paese il rischio di quel discredito sui mercati che potrebbe essere alimentato da iniziative come quelle di Moody’s. In secondo luogo, si tratterà di muoversi con più cautela sul piano europeo proprio per quanto riguarda i rapporti di potere all’interno dell’Unione, laddove sempre Moody’s (non a caso) preconizza forti tensioni fra Italia e Germania.

Nel reclamare cessioni di sovranità dai governi nazionali alle istituzioni comunitarie, Mario Draghi ha posto il dito sulla piaga più dolente di un impianto europeo dove ogni spinta in senso federale è regolarmente bloccata dall’esercizio della legge del più forte. Come dimostra l’impotenza dei paesi favorevoli a una politica economica espansiva a far cadere il muro dell’austerità contabile a qualunque costo costruito dalla Germania. Perciò Matteo Renzi, tanto più nel corso del semestre italiano di presidenza, dovrà fare non poca attenzione alle controindicazioni implicite nella sua rivendicazione di sovranità. Quello che può oggi sembrare un punto di forza a Roma facilmente può diventare un fattore di debolezza a Bruxelles perché fornirebbe alibi potenti ai governi che intendono l’Europa come poco più di un’unione doganale.

Le inattese avvisaglie di stagnazione che si profilano all’orizzonte della grande Germania stanno facendo capire anche ai tedeschi che la crescita in un Paese solo è oggi una pura illusione. Berlino ha bisogno dell’Europa non meno di quanto l’Europa di Berlino. Figuriamoci, quindi, quanto più questa equazione possa essere valida per l’Italia. A maggior ragione in una fase nella quale lo scenario internazionale – dall’Ucraina alla Libia passando per il Medio Oriente – solleva nubi minacciose anche sui rifornimenti energetici.

L’inverno non è così lontano e tutto l’Italia può permettersi fuorché trovarsi nella tenaglia di rincari congiunti dei tassi d’interesse e di gas e petrolio. Coraggio, perciò, presidente Renzi mandi in porto le riforme “sovrane” che vuole ma lo faccia presto. Anche perché solo su questa strada troverà i titoli politici per promuovere una svolta nella politica economica europea. Ci sono treni, in politica e nella vita, che passano una sola volta.