occupazione

Se il grande fratello fiscale mette gli occhi sul mattone

Se il grande fratello fiscale mette gli occhi sul mattone

Francesco Forte – Il Giornale

La disoccupazione è volata in ottobre al 13,2%. Quella giovanile è salita al 43,3. La pressione fiscale eccessiva, la sua distribuzione sbagliata, le tecniche vessatorie di accertamento attuate dai tre governi succeduti a Berlusconi hanno generato disoccupazione e bloccato il Pil fra recessione e stagnazione. E il Pil quest’anno decresce dello 0,3%, per il brusco peggioramento del secondo semestre, mentre nel 2015 si recupera solo lo 0,3 perso nel 2014. L’Italia non è solo fra gli stati con la più alta pressione fiscale del mondo, con il 44% del Pil. Ha anche una distribuzione sbagliata del carico fiscale e aliquote eccessive che riducono il gettito, distorcono l’economia, bloccano la domanda interna ed estera e creano tutti i presupposti per la disoccupazione.

Monti, Letta e Renzi hanno commesso un errore fiscale enorme inasprendo di continuo la tassazione di immobili e rendite finanziarie, mentre la teoria della crescita in economia di mercato dice che le imposte sui capitali sono particolarmente dannose. Ora noi abbiano il record della tassazione patrimoniale che arriva al 3% del Pil, contro lo 1,8 della media Ocse (l’organizzazione economica mondiale che include gli stati sviluppati) e lo 1,7 dell’Unione europea. Nel 2011 eravamo sulle medie Ocse ed europee.

Il brusco balzo in avanti non solo ha creato la crisi edilizia e la connessa perdita di Pil e di occupazione. Ha anche indebolito le banche perché i loro parametri patrimoniali, al netto delle sofferenze (molto aumentate per la crisi edile) sono peggiorati. In più, la riduzione del valore degli immobili ha ridotto le garanzie della clientela, con aumento del rischio di credito. Situazione aggravata dall’esodo di capitali, stimolato della fiscalità su immobili e rendite finanziarie e dal fatto che i possessi patrimoniali diventano sempre più la base per le verifiche fiscali.

Adesso, con l’emendamento alla legge di Stabilità, promosso dal governo, per cui i dati bancari vengono incrociati automaticamente con quelli dell’Agenzia delle entrate, si ha una spinta alla riduzione degli impieghi di denaro nei depositi e nei portafogli gestiti dalle nostre banche, un aumento dei flussi contante e di quelli all’estero. Renzi ha preferito erogare 80 euro in busta paga che eliminare l’Irap sul costi del lavoro, per la generalità delle attività economiche. Ha finanziato le sue operazioni di consenso sociale con l’inasprimento fiscale sui patrimoni, non solo con la Tasi e l’unificazione di essa con l’Imu e la tassazione al 26% sulle rendite finanziarie, ma anche con quella sulla previdenza integrativa.

Questa manovra di presunta equità sociale doveva generare crescita e occupazione ma ha avuto l’effetto contrario. Non serve il «Grande fratello fiscale» per dare più entrate. Occorre ridurre le aliquote. Ad esempio, le vendite di immobili sono tassate con imposte di registro del 9%. E ciò ingessa il mercato. Le maggiori imposte sul risparmio e le aspre aliquote progressive di tassazione sul reddito falcidiano le classi medie. Ciò mentre le classi di reddito più alte sfuggono all’alta tassazione, tramite la globalizzazione finanziaria. Sulle imprese italiane grava un peso fiscale differenziale a causa dell’Irap, che distorce la nostra competitività. Riducendo le aliquote ci sarebbe più gettito dal flusso di attività che si genererebbe. E la gente, pagando i tributi penserebbe di pagare il dovuto.

L’occupazione fantasma

L’occupazione fantasma

Davide Giacalone – Libero

La disoccupazione cresce, ma il dato che descrive il dramma italiano non è questo, bensì quello dell’occupazione, che rimane patologicamente bassa. Non è un gioco di parole, perché i due indici segnalano due problemi diversi. E la disoccupazione non è il più grave. Si deve capirlo, se non si vogliono applicare ricette illusorie, o meramente anestetizzanti.

L’Istat rende noto che nello scorso mese di ottobre la disoccupazione è giunta al 13.2%, in crescita dello 0.3 rispetto al mese precedente e dell’1% su base annua. Il male c’è, è grave e cresce, fino a toccare il suo record storico negativo, perché il peggiore dal 1977, quando si cominciarono a redigere le serie trimestrali. Così i disoccupati arrivano a 3 milioni 410 mila. Certamente troppi. Per non parlare della disoccupazione giovanile, anche se si deve considerare che la mostruosa percentuale del 43.3 è influenzata dal fatto che, seguendo le indicazioni europee, la si calcola nella fascia d’età tra i 15 e i 24 anni, ma da noi è ben difficile dare lavoro a dei minorenni, senza incorrere nella pubblica dannazione e nel rischio di finire incriminati. Certi modi di contare discendono anche da certi modi di ragionare, sconosciuti nel Paese in cui tutto è proibito, tranne ciò che è esplicitamente regolato in modo che non si possa farlo.

Ma, ripeto, non sono questi i dati che fanno più paura. Quello decisivo è un altro: gli occupati sono appena il 55.6% della popolazione da considerarsi attiva. A ottobre erano 22 milioni e 374 mila, sostanzialmente stabili: -0.1 rispetto al mese precedente, + 0.1 rispetto all’anno precedente. Una stabilità che non ha nulla di buono, perché va letta in questo modo: in Italia un terzo dei cittadini ne mantiene due terzi e di quelli che potrebbero e dovrebbero lavorare se ne trovano impegnati poco più della metà. E in un Paese in cui poco meno della metà di quelli che dovrebbero essere al lavoro sono nullafacenti (salvo il mercato nero, ma allora si dovrebbe sottrarre dagli attivi i non produttivi) le cose non possono che andare male. Questo è il dramma. Nella fascia d’età fra i 20 e i 64 anni la partecipazione al lavoro è ferma al 59.8%, poco più del dato risalente al 2002, il che significa che si tratta di una problema strutturale (in Germania lavora il 77.1% di quella fascia). Siamo ben 8.5 punti al di sotto della media europea. Posto che i dati regionali disaggregati dimostrano che c’è un’Italia europea e una africana, il che non deve indurre a spropositi etnicodemenziali, ma a considerazioni amare sulla tolleranza della devianza sociale, economica e criminale, nella media nazionale mancano all’appello due “categorie”: le donne e i giovani fra i 25 e i 34 anni. Due eserciti con i quali si potrebbero vincere importanti battaglie contro il declino.

Chiedo scusa per la raffica di numeri, ma quel che chiedo al lettore di considerare è un concetto semplice: se la seconda potenza industriale d’Europa riesce a essere tale avendo una partecipazione al lavoro patologicamente inferiore alla media continentale, cosa accadrebbe se fossimo capaci di cancellare questo svantaggio? L’Italia schizzerebbe in avanti, il motore produttivo farebbe sentire un ruggito, la ricchezza crescerebbe e potremmo lenire un umore collettivo sempre più tetro. E questa non è la prospettazione di un ipotetico miracolo, ma il riassunto di un immediato dovere, per chi ha la responsabilità di governare il Paese.

Questo genere di problemi si affronta non con sgravi fiscali limitati nel tempo o con deregolamentazioni altrettanto passeggere, ma con modifiche profonde del modo in cui si considera il lavoro, sia in ingresso che in uscita. Quando la metà degli abili e arruolabili è assente senza essere renitente è segno che il modello legislativo ed economico adottato è errato. E l’enormità di questi dati rende piccinino l’ozioso e sempre uguale scontro sull’articolo 18 dello statuto dei lavoratori. Già solo che se ne parli ancora è segno che non si è capito nulla della realtà. Il nostro primo problema è quello di far tornare a essere reale quell’esercito fantasma, composto da italiane e italiani che dovrebbero essere al lavoro e che si ritrovano sbattuti altrove. Le celeberrime “garanzie” e i mitici “diritti acquisiti” sono i loro nemici. Non la meta da raggiungere, ma il dirupo da cui fuggire. E se riguardate con attenzione i dati relativi all’età vi accorgete di una cosa evidente: stiamo tutelando l’invecchiamento della popolazione al lavoro, così covando la bancarotta previdenziale, che già ha preso corpo negando ai più giovani quel che oggi è considerato meno del minimo per i pensionati.

Certo che i disoccupati sono troppi, ma il dramma sono gli occupati: troppo pochi. Se lo si capisse si metterebbe fine a tante discussioni inutili.

Garanzia giovani, impegnato solo un terzo dei fondi

Garanzia giovani, impegnato solo un terzo dei fondi

Claudio Tucci – Il Sole 24 Ore

Finora «sono stati impegnati 561 milioni di euro» (sugli oltre 1,5 miliardi complessivi a disposizione di Garanzia giovani per il biennio 2014-2015); ma la programmazione attuativa nei territori va avanti ancora a passo lento. Solo 12 regioni (Lombardia, Veneto, Liguria, Emilia Romagna, Toscana, Umbria, Lazio, Campania, Puglia, Sicilia, Sardegna, provincia autonoma di Trento) hanno pubblicato avvisi per misure dirette ai Neet; il Piemonte è in dirittura d’arrivo, mentre la Calabria è «in grave ritardo».

Registrati 262mila giovani Neet
I giovani registrati al programma Ue antidisoccupazione giovanile, partito in Italia lo scorso 1° maggio, sono poco più di 260mila (262.171 al 23 ottobre – appena 62mila hanno fatto un primo colloquio con i servizi per l’impiego). Le opportunità di lavoro pubblicate sono 19.109, per un totale di 27.393 posti disponibili (il 71,6% delle occasioni è concentrata al Nord, il 14,6% al Centro, il 13,8% al Sud, solo lo 0,1% all’estero). La fotografia sullo stato di avanzamento di «Youth Guarantee» è stata scattata, ieri, direttamente dal ministro, Giuliano Poletti, nel corso di un’audizione dinnanzi la commissione Lavoro del Senato, presieduta da Maurizio Sacconi. A livello internazionale solo Italia e Francia hanno approvato piani attuativi di Garanzia giovani (gli altri paesi sono indietro). Ma da noi, da Milano a Palermo, «la messa a punto» del programma viaggia a macchia di leopardo: «Alcune regioni, come Lombardia e Piemonte, sono più avanti perchè disponevano già di piani territoriali per i giovani. Altre sono indietro».

Risorse da impegnare entro il 2015
Il punto, ha ricordato Poletti, è che le risorse vanno impegnate entro fine 2015 (tassativamente). Poi possono essere spese nell’arco dei tre anni successivi. Finora sono stati impegnati circa 230 milioni per le misure nazionali (oltre 188 milioni per il bonus occupazionale e quasi 40 milioni per il servizio civile). Altri 70 milioni (nazionali) sono in corso d’impegno. Mentre le risorse oggetto di programmazione attuativa regionale sono poco più di 260 milioni, il 22,01% degli 1,1 miliardi totali (al netto dei fondi per bonus occupazionale e servizio civile). Il ministero del Lavoro «sta operando a stretto contatto con le Regioni – ha detto il dg per le politiche attive, i servizi per il lavoro e la formazione, Salvatore Pirrone -. Da un lato, stiamo monitorando le iniziative già messe in campo, dall’altro cerchiamo di dare una spinta propulsiva». Del resto, gli iscritti a Garanzia giovani viaggiano al ritmo di 50mila giovani Neet al mese, e con i soldi attualmente a disposizione il servizio potrà essere garantito «potenzialmente a 4-500mila ragazzi». «Il ministro ci ha dato l’immagine di un piano nazionale che solo alcune Regioni riescono in qualche misura a implementare, sia pure con un generale ritardo – ha commentato il giuslavorista, senatore di Sc, Pietro Ichino -. Cè il grave rischio che gran parte delle risorse messe a disposizione dall’Ue restino inutilizzate».

L’ultimo inganno di Bruxelles, la Garanzia Giovani è un flop

L’ultimo inganno di Bruxelles, la Garanzia Giovani è un flop

Sergio Patti – La Notizia

Un’altra grossa fregatura dall’Europa. Più che uno strumento efficace per offrire concrete opportunità di lavoro a centinaia di migliaia di giovani italiani, l’applicazione italiana del Programma comunitario Garanzia Giovani (che il Ministero del Lavoro ha di fatto delegato nella sua gestione alle singole Regioni) si è purtroppo rivelata un labirinto burocratico che non conduce da nessuna parte. Lo dimostra una ricerca del Centro Studi “ImpresaLavoro” (consultabile all’indirizzo www.impresalavoro.org) le cui conclusioni sono sconfortanti, a maggior ragione se si tiene conto che tale programma è volto in particolare a risolvere il fenomeno dei giovani Neet 15-24enni (non impegnati in un’attività lavorativa, né inseriti in un percorso scolastico o formativo), stimabili, in Italia, in circa 1,27 milioni (di cui 181mila stranieri) e che corrispondono al 21% della popolazione di questa fascia di età. Un dato estremamente rilevante in ragione della stretta connessione tra l’identificazione della platea dei destinatari e l’entità delle risorse attribuite, per la gestione della Garanzia Giovani, dalla Commissione Europea.

L’Italia ha peraltro deciso di allargare il target group ai giovani di età compresa tra 25 e 29 anni, per un totale di ben 2.254.000 ragazzi. Sulla base di tali dati il nostro Paese riceverà infatti risorse, a titolo della YEI (Youth Employment Initiative), pari a circa 567 milioni di euro. A questi si dovrà sommare un pari importo a carico del FSE, oltre al co-finanziamento nazionale. La disponibilità complessiva del Programma sarà, pertanto, pari a circa 1.513 milioni di euro. Una montagna di denaro pubblico che ha partorito un costosissimo topolino: la ricerca di “ImpresaLavoro” rende noto che al programma comunitario hanno infatti aderito 250.770 giovani, di cui solo 59.150 sono stati poi effettivamente presi in carico dal sistema di Garanzia Giovani.

Mentre l’Europa chiede ai sistemi Paese ingentissime risorse, persino aumentando il budget dei trasferimenti dei singoli Stati alla Comunità, dall’inizio del programma sono stati offerti ai Neet 25.747 posti di lavoro. Questo significa che ogni ragazzo preso in carico è costato sin qui 25.600 euro e che ogni offerta di lavoro ci è costata finora la somma ragguardevole di 58.700 euro. Mentre molte iniziative valide sono rimaste escluse dai fondi.

Il flop della Garanzia Giovani

Il flop della Garanzia Giovani

Metronews

«Più che uno strumento efficace per offrire concrete opportunità di lavoro a centinaia di migliaia di giovani italiani, l’applicazione italiana del Programma comunitario “Garanzia Giovani”, attuata in ordine sparso dalle Regioni, si è rivelata un labirinto burocratico che non conduce da nessuna parte». Lo rivela una ricerca del Centro Studi “ImpresaLavoro” le cui conclusioni sono sconfortanti. «A maggior ragione – sosiene lo studio – se si tiene conto che tale programma è volto in particolare a risolvere il fenomeno dei giovani NEET 15-24enni (quelli non impegnati in un’attività lavorativa, né inseriti in un percorso scolastico o formativo), stimabili nel nostro Paese in circa 1,27 milioni». L’Italia ha peraltro deciso di allargare il target group ai giovani di età compresa tra 25 e 29 anni, per un totale di ben 2.254.000 ragazzi. Sulla base di tali dati il nostro Paese riceverà infatti risorse, a titolo della YEI (Youth Employment Initiative), pari a circa 567 milioni di euro. A questi si dovrà sommare un pari importo a carico del FSE, oltre al co-finanziamento nazionale. La disponibilità complessiva del Programma sarà, pertanto, pari a circa 1.513 milioni di euro.

«Una montagna di denaro pubblico – spiega Giancamillo Palmerini, curatore della ricerca – che ha partorito un costosissimo topolino». Al programma comunitario hanno infatti aderito 250.770 giovani, di cui solo 59.150 sono stati poi effettivamente presi in carico dal sistema di Garanzia Giovani. Dall’inizio del programma sono stati offerti ai NEET 25.747 posti di lavoro. Questo significa che ogni ragazzo preso in carico è costato sin qui 25.600 euro e ogni offerta di lavoro 58.700 euro. «Sono stati offerti pochi posti perché l’economia non va e nessuno assume solo per un incentivo ma quando ne ha necessità» spiega ancora Palmerini. «Occorrerebbero interventi strutturali con l’adeguamento della formazione alle richieste del mercato e la ricucitura dello scollamento tra scuola e mondo del lavoro».

Garanzia giovani: ogni offerta di lavoro è finora costata 58.700 euro

Garanzia giovani: ogni offerta di lavoro è finora costata 58.700 euro

ABSTRACT

Più che uno strumento efficace per offrire concrete opportunità di lavoro a centinaia di migliaia di giovani italiani, l’applicazione italiana del programma comunitario Garanzia Giovani (che il Ministero del Lavoro ha di fatto delegato nella gestione alle singole Regioni) si è purtroppo rivelata un labirinto burocratico che non conduce da nessuna parte.
Lo dimostra una ricerca del Centro Studi “ImpresaLavoro” le cui conclusioni sono sconfortanti, a maggior ragione se si tiene conto che tale programma è volto in particolare a risolvere il fenomeno dei giovani NEET 15-24enni (non impegnati in un’attività lavorativa, né inseriti in un percorso scolastico o formativo), stimabili, in Italia, in circa 1,27 milioni (di cui 181mila stranieri) e che corrispondono al 21% della popolazione di questa fascia di età. Un dato estremamente rilevante in ragione della stretta connessione tra l’identificazione della platea dei destinatari e l’entità delle risorse attribuite, per la gestione della Garanzia Giovani, dalla Commissione Europea. L’Italia ha peraltro deciso di allargare il target group ai giovani di età compresa tra 25 e 29 anni, per un totale di ben 2.254.000 ragazzi.
Sulla base di tali dati il nostro Paese riceverà infatti risorse, a titolo della YEI (Youth Employment Initiative), pari a circa 567 milioni di euro. A questi si dovrà sommare un pari importo a carico del FSE, oltre al co-finanziamento nazionale. La disponibilità complessiva del Programma sarà, pertanto, pari a circa 1.513 milioni di euro.
Una montagna di denaro pubblico che ha partorito un costosissimo topolino: la ricerca di “ImpresaLavoro” rende noto che al programma comunitario hanno infatti aderito 250.770 giovani, di cui solo 59.150 sono stati poi effettivamente presi in carico dal sistema di Garanzia Giovani. Complessivamente, dall’inizio del programma, sono stati offerti ai NEET 25.747 posti di lavoro. Questo significa che ogni ragazzo preso in carico è costato sin qui 25.600 euro e che ogni offerta di lavoro ci è costata finora la somma ragguardevole di 58.700 euro.
Scarica il Paper “Garanzia giovani: ogni offerta di lavoro è finora costata 58.700 euro“.
Rassegna Stampa:
Italia Oggi
La Notizia
Metronews
Così a scuola può aiutare l’occupazione

Così a scuola può aiutare l’occupazione

Walter Passerini – La Stampa

Bastano alcuni dati per capire quanto pesa la scarsa comunicazione tra la scuola e il lavoro. In Italia solo il 4% dei ragazzi tra 15 e 29 anni riesce a integrare studio e lavoro (il 22% in Germania); l’abbandono scolastico è al 17,6% (in Europa al 12,6%); solo quattro imprese su dieci hanno frequenti contatti con la scuola (il 70% in Germania) e quando cercano personale lamentano una difficoltà di reperimento di figure tecniche che supera il 40%. C’è da chiedersi che cosa aspettiamo per mettere in comunicazione questi mondi. L’andamento della consultazione on line sulla buona scuola, che scade tra pochi giorni, conferma invece che i principali temi di accesa discussione sono quelli che stanno «dentro la scuola» e non «tra scuola e realtà» circostante. E’ importante parlare di insegnanti, graduatorie, supplenze e risorse, ma al tema scuola-lavoro viene riservata scarsa attenzione. Del resto nell’agenda proposta dal ministero solo due punti su 12 riguardano la scuola e il lavoro. Ci ha provato anche Confindustria con le sue «100 proposte per la scuola» di cui una trentina riguardano il rapporto scuola-lavoro, ma l’uscita pubblica non ha ancora trovato un’adeguata attenzione. Colpisce sul tema il silenzio dei sindacati. Il dialogo tra sordi deve essere sostituito da una più stretta collaborazione.

La disoccupazione giovanile (44,2%) ha molto a che fare con la scarsa comunicazione tra i due mondi. L’Europa ci chiede di lavorare sulle quattro priorità della Vet (Vocational educational training): alternanza, apprendistato, istruzione tecnica e professionale, autoimprenditorialità. Ma noi sembriamo ancora fermi alla vecchia triade della vita: prima si studia, poi si lavora, poi si va in pensione; sappiamo bene quanto sia cambiato il nostro piccolo mondo antico. Eppure le migliori pratiche dei nostri concorrenti dovrebbero guidarci. Sono almeno dieci le proposte attuabili. Innanzitutto un piano di orientamento nazionale, dalla scuola media, per accompagnare le scelte e rafforzare le iscrizioni alle discipline tecnico-professionali. Va resa obbligatoria l’alternanza scuola-lavoro obbligatoria negli ultimi tre anni delle superiori. Anziché soffocarlo, l’apprendistato avrebbe bisogno di un rilancio sia per l’acquisizione di qualifiche sia per l’alta formazione (modello duale).

Gli imprenditori che svolgono attività di formazione per i giovani vanno incentivati e premiati. L’offerta formativa dopo il diploma dovrebbe arricchirsi di un nuovo ordinamento aggiuntivo, oltre all’università, attraverso l’istruzione tecnica superiore, sul modello tedesco. L’inefficacia della formazione in Italia dipende anche dalla frammentazione in 20 sistemi regionali, per i quali andrebbe prevista una regia e un coordinamento nazionale. Stage e tirocini dovrebbero diventare obbligatori sia negli istituti tecnici che nei licei con una durata almeno doppia. Ogni istituto superiore dovrà dotarsi di ufficio placement e banche dati per favorire i contatti con il mondo produttivo. Per ovviare alla carenza di risorse si possono usare i laboratori aziendali aprendoli alle classi. Infine, è tempo che le scuole si colleghino in rete ai fabbisogni e ai monitoraggi nazionali e territoriali, per legare più strettamente la domanda e l’offerta di lavoro.

C’è anche chi non cerca lavoro

C’è anche chi non cerca lavoro

Michele Tiraboschi – Italia Oggi

I dati del mercato del lavoro e i principali indicatori economici dell’arco temporale 2007-2013 forniscono una fotografia della crisi molto diversa da quelle che sono le principali notazione dell’opinione pubblica e dei mezzi di comunicazione. È vero che si segnala un raddoppio del tasso di disoccupazione dal 6% a 12%, sia per l’intera popolazione che per i giovani, per i quali il tasso ha superato il 40%. È anche vero che il tema centrale non è solo il lavoro precario, che occupa gran parte dei dibattiti, visto che lavoro temporaneo in Italia è ancora al di sotto del 15%.

I veri problemi
Dall’analisi degli indicatori economici diffusi dall’Eurostat altri sono i problemi principali del nostro mercato del lavoro, primo tra tutti il bassissimo tasso di occupazione regolare, quindi l’ampio numero non solo persone che non hanno un lavoro ma anche di coloro che non lo cercano e che non sono quindi considerati nel numero dei disoccupati.

I numeri
Tre cifre ci aiutano a dipingere la situazione italiana in modo chiaro: in una popolazione di 60 milioni, tra cui una potenziale forza-lavoro di 39 milioni, solo 25 milioni hanno un impiego effettivo o cercano lavoro. Questo spiega tutto, con una popolazione lavorativa sotto i 25 milioni, una persona deve lavorare per sé e per altri due, il vero problema è quindi l’inattività.

Le donne
Questo è evidente guardando la popolazione femminile, inchiodata da trent’anni sotto il 50%, una su due non lavora e se lavora è in nero, in mezzogiorno solo una su quattro. Un ulteriore problema è certamente il tasso di disoccupazione giovanile superiore al 40%, ma più preoccupante è il dato dell’occupazione dei giovani che non supera il 16%. La grande maggioranza quindi non ha un lavoro e non lo cerca.

Gli over 50
È invece significativo il fatto che durante crisi vi sia stato un notevole incremento degli occupati over 50, se ai tempi della Legge Biagi erano uno su tre, oggi siamo a 50%, con 50 italiani su 100 obbligati a lavorare dalla morsa della crisi. Anche in questo caso, oltre agli effetti della riforma Fornero delle pensioni, incide il fatto che molti over 50 sono costretti a lavorare per mantenere quell’ampia fetta di popolazione, soprattutto di giovani, che non lavora e non cerca lavoro.

Conclusione
La semplice lettura di questi dati ci conduce quindi ad ampliare le nostre analisi consuete e a leggerle da un punto di vista differente, con un occhio sì attento alla crisi, ma che guarda anche auna condizione storica del me

Con i processi più veloci l’occupazione salirebbe

Con i processi più veloci l’occupazione salirebbe

Metronews

La lentezza dei contenziosi in materia di lavoro costa in media 4, 8 punti percentuali di disoccupazione per ogni anno di durata. Il dato risulta da una ricerca del Centro Studi “ImpresaLavoro” che approfondisce le interessanti indicazioni emerse in materia di disoccupazione e lunghezza dei processi sul lavoro dallo “Staff Report for the 2014 Article IV Consultation / Italy”, pubblicato a settembre dal Fondo Monetario Internazionale e nel quale si sostiene che un dimezzamento dei tempi dei processi per lavoro in Italia porterebbe a un aumento della probabilità di impiego dell’8%. Secondo l’Fmi, infatti, il nostro sistema giudiziario è ancora molto lento in confronto alla media europea, e necessiterebbe di misure più opportune rispetto al mero incremento dei costi del giudizio introdotto di recente quali la promozione e l’uso dei sistemi alternativi di risoluzione delle controversie, una razionalizzazione del tipo di cause che trovano accesso al terzo grado di giudizio, l’introduzione di indicatori di performance per tutti i tribunali nonché la condivisione di best practice regionali.

Garanzia giovani, perché non va

Garanzia giovani, perché non va

Dario Di Vico – Corriere della Sera

Stavolta non c’è neanche l’alibi dei soldi. Gli stanziamenti per la Garanzia Giovani ammontano addirittura a 1,5 miliardi eppure ci stiamo pericolosamente avvicinando a un clamoroso flop. Sull’apposito portale il ministero del Lavoro pubblica un report aggiornato: al 9 ottobre i giovani registrati erano circa 237 mila di cui però solo 53.800 sono «stati presi in carico e profilati». Le occasioni di lavoro pubblicate online dall’inizio del progetto sono poco più di 17 mila. Ma al di là dei numeri, che pure da soli già raccontano di un’iniziativa a scartamento ridotto, la verità è che Garanzia Giovani sta vivendo come fosse una procedura ministeriale. Al dicastero ammettono le lentezze, parlano di realtà «a macchia di leopardo» (vuol dire che al Sud non si è mosso niente), della difficoltà di far dialogare per via telematica Centro per l’impiego (Cpi), Regioni e Stato e dell’intenzione del ministro Giuliano Poletti di fare il punto con gli enti locali a metà novembre. Auguri sinceri.

La verità è che doveva trattarsi di una grande mobilitazione di energie e persino di un’operazione pedagogica. I giovani fino a 29 anni dovevano essere chiamati a fare uno sforzo culturale, a rendersi occupabili. La comunicazione è stata invece debole, non ha colpito i ragazzi e non li ha messi in movimento. Occorreva spiegare loro che non basta volere un posto di lavoro ma oggigiorno diventa decisivo mettersi in grado di conquistarlo e allora bisogna considerare il curriculum come un tesoretto che si accumula e sul quale si investe di continuo. Niente di tutto questo è stato fatto e non vale la considerazione che pure si sente ripetere spesso ovvero che i nostri Centri per l’impiego contano 9 mila addetti e l’Agenzia nazionale tedesca 100 mila. Di un altro carrozzone pubblico facciamo volentieri a meno. Debole come capacità di mobilitazione il ministero lo è stato anche nel coinvolgimento dei soggetti potenzialmente interessati. Il terzo settore, ad esempio, poteva essere mobilitato per tempo per la capacità di offrire tirocini ai giovani. Più in generale bisognava creare una coalizione di organizzazioni che si facevano promotrici di Garanzia Giovani e lo inserivano in agenda tra le priorità. Vi risulta che qualche associazione di categoria abbia organizzato iniziative in merito o assicurato un’informazione puntuale? E non valeva la pena incalzare anche i sindacati e i loro centri di assistenza? Anche questa capacità è mancata e nei territori questo vuoto si sente. Al Sud non ne parliamo. I ragazzi non vengono interessati nemmeno per via indiretta, non sentono che attorno i «grandi» si sono mobilitati. Così quando vengono chiamati finiscono per adempiere a un obbligo burocratico e non si responsabilizzano. E poi aspettano che il telefono suoni.

Garanzia Giovani poteva essere un test di politiche attive per il lavoro e invece sta perpetuando l’equivoco dei Cpi. Si comincia dal paradosso che a dar lavoro ai disoccupati dovrebbero essere dei co.co.pro. che lavorano a intermittenza nei Centri e poi si arriva alla mancata collaborazione con le agenzie private. Non si contano gli ostacoli che sono stati frapposti alle collaborazioni con le varie Adecco, Gi Group, Manpower, Quanta. Disposizioni regionali di 20-30 pagine, doppio accreditamento nazionale e regionale, impossibilità di avere rapporto diretto con i ragazzi. Accanto ad alcuni assessori regionali più aperti e moderni ce ne sono altri che continuano a pensare che occuparsi di lavoro «sia un compito dello Stato e basta». Il risultato di queste incomprensioni è che Garanzia Giovani alla fine trascura il contatto con le imprese. Non è un caso che la Nestlé voglia assumere qualche migliaio di giovani senza passare di lì o che la McDonald’s in Italia non abbia trovato la collaborazione giusta. Bastava copiare quello che molte università fanno con il placement ovvero i colloqui diretti giovani-aziende e si sarebbe innovato profondamente. Invece sul portale girano sempre gli stessi annunci, lo stesso fotografo viene cercato da settimane e settimane e comunque le richieste puntano su profili esperti e non alla prima prova. E come ha detto il giuslavorista Michele Tiraboschi «basta scavare un po’ più a fondo per accorgersi che il sito governativo non fa altro che rimbalzare offerte presenti su altri siti».

Che fare adesso per evitare che il flop demotivi tutti, le strutture e soprattutto i giovani disoccupati? Tiraboschi ha steso addirittura un decalogo di miglioramenti pratici per far funzionare il portale. Dall’inserire un filtro che selezioni subito i giovani per condizioni occupazionali/formative a permettere una ricerca avanzata tra i diversi annunci che oggi si affastellano in 400 pagine di visualizzazione. Si cominci pure da qui ma è proprio il caso di dire che bisogna cambiare marcia. Non si può lasciare tutto in mano ai ministeriali, se non altro perché non possiamo buttare dalla finestra un miliardo e mezzo.

Ps. Anche questa settimana a Roma ci sarà il solito e inutile mega convegno su Garanzia Giovani.