renzismo

Il braccio di ferro fra i “renzismi”

Il braccio di ferro fra i “renzismi”

Luca Ricolfi – La Stampa

Da ieri le cose sono un po’ più chiare. Grazie a una bella intervista del direttore del Sole24ore Roberto Napoletano a Matteo Renzi, siamo in grado di capire molto meglio che cosa il nostro giovane premier ha in mente, ovvero: quali sono le sue intenzioni, quali sono le sue priorità, qual è la sua visione del mestiere di governare. Ma soprattutto: qual è la sua diagnosi dei mali dell’Italia e dei rimedi necessari a curarli.

Il passaggio chiave dell’intervista a me pare quello in cui Renzi dice «io non credo che chi governa debba necessariamente scontentare […]. Noi dobbiamo coinvolgere il popolo e io oggi sento che il Paese è coinvolto, la gente mi dice “andiamo avanti” […]. Non ho paura di perdere le prossime elezioni, ma molte delle riforme che dobbiamo fare sono popolari». Più o meno è il contrario di quanto, in una conversazione con Claudio Cerasa pubblicata sul «Foglio», gli suggerisce il suo amico Dario Nardella, che di Renzi ha preso il posto come sindaco di Firenze. Nardella ricorda che la Germania fu sottratta al declino dal coraggio del cancelliere socialdemocratico Gerhard Schroeder, che nel 2003 non esitò a varare riforme impopolari, a costo di sacrificare la sinistra del suo partito e perdere le successive elezioni politiche. Di qui il consiglio di osare: «Io auguro a Renzi di vincere anche le prossime elezioni, ma la priorità oggi è far vincere il Paese, e per far vincere il Paese qualche volta occorre muoversi sfidando il vento».

Quel che è interessante, di queste due interviste, non è solo il fatto che, nello stesso giorno, compaiano due interpretazioni del renzismo piuttosto diverse, se non opposte, di cui una, quella di Renzi stesso, blanda e populista, l’altra, quella del renziano Nardella, radicale e a suo modo aristocratica. Quel che a mio giudizio è veramente significativo è che queste due interpretazioni rimandino, a loro volta, a due diverse diagnosi sui mali dell’Italia. Le due diagnosi non differiscono in alcun modo significativo nella denuncia dei grandi mali del paese, e concordano perfettamente sull’esigenza di modernizzare e rendere più efficienti il mercato del lavoro, la burocrazia, la giustizia civile (tutte riforme che costano poco o nulla), ma divergono drasticamente sulla politica economica in senso proprio: dove e quanto tagliare la spesa pubblica, quanto deficit possiamo permetterci, dove e come impiegare le risorse così liberate.

Secondo il renzismo di Renzi stesso, che chiamerò «renzismo di prima specie», la spesa pubblica si può tagliare di 20 miliardi di euro in un anno (perché il popolo è con noi), il pareggio di bilancio non è una priorità (il 3% di Maastricht non è sacro), il ritorno alla crescita richiede un rilancio della domanda di consumo (conferma ed estensione del bonus da 80 euro). Ma c’è anche un «renzismo di seconda specie», che qua e là si manifesta nelle parole del sindaco di Firenze Dario Nardella, ma in realtà è condiviso da molti studiosi ed osservatori della vicenda italiana. Secondo questo punto di vista molte delle riforme che Renzi dice di voler compiere non sono affatto popolari (se fatte sul serio), a partire dai 20 miliardi di tagli alla spesa pubblica; le scelte coraggiose non sono in alcun modo eludibili, specie in materia di mercato del lavoro e lotta agli sprechi; la riduzione delle tasse va convogliata innanzitutto verso i produttori, per aumentare competitività e occupazione. In poche, crude, parole: il bonus da 80 euro è un pannicello caldo, e non servirà a creare occupazione.

Entrambe le posizioni hanno le loro buone ragioni. Il renzismo di prima specie (quello populista), a mio avviso ha un’unica giustificazione robusta: se pensi di essere l’unica salvezza per l’Italia, e per cambiare il Paese ti occorrono alcuni anni, allora è naturale che il primo obiettivo della tua azione sia durare, e che tu pianifichi di fare solo quello che non mette a repentaglio il governo; la politica, dopo tutto, non è testimonianza, ma è l’arte del possibile. Il renzismo di seconda specie (quello aristocratico), invece, affonda le sue radici in una visione drammatica delle condizioni del Paese. Secondo questo punto di vista, che per molti versi è stato quello di Renzi stesso nella sua fase eroica ed utopistica, il declino dell’Italia è in atto da almeno vent’anni, e invertire la rotta è un’impresa ciclopica, che richiede sacrifici e scelte dolorose. In questa prospettiva nessuno è indispensabile, ma nessuno può farcela se non sfida l’impopolarità. Governare l’Italia significa avere il coraggio che ebbe Schroeder nel 2003, anziché barcamenarsi per tenere a bada le correnti del proprio partito. La debolezza del renzismo populista è che, per voler durare, rischia di non cambiare davvero il Paese. La debolezza del renzismo aristocratico è che, per voler cambiare davvero il Paese, rischia di non durare.

Chi vincerà? Il renzismo populista, immagino. Il populismo è fede nel popolo, e sottovaluta sistematicamente la complessità dei problemi, due attitudini che lusingano e rassicurano l’opinione pubblica. Ed è questa ostinata volontà di farsi lusingare e rassicurare che spinge gli elettori a rivolgersi a leader come Grillo, Berlusconi e Renzi. Il renzismo aristocratico, invece, difficilmente potrà prevalere, perché non lusinga e non rassicura. La sua diagnosi dei mali italiani è troppo impietosa, i rimedi che suggerisce sono troppo radicali. C’è solo da augurarsi che quella diagnosi sia sbagliata, e che l’allegria del premier non venga ricordata, in futuro, come «allegria di naufragi», per dirla con la bellissima poesia di Ungaretti.

Sta per scoppiare la bolla speculativa chiamata Matteo

Sta per scoppiare la bolla speculativa chiamata Matteo

Maurizio Belpietro – Libero

C’è una bolla speculativa che minaccia di esplodere provocando vari danni nel nostro Paese. La bolla si chiama renzismo, fenomeno mediatico che è stato gonfiato ad arte da chi aveva il compito di vigilare e invece ha preferito, per calcolo o incapacità, chiudere non solo un occhio ma tutti e due. Il renzismo è un atteggiamento di totale fiducia che ha colto gli italiani dopo anni di delusioni. Senza che nessuno li mettesse in guardia, gli elettori si sono dunque affidati ciecamente alle promesse del presidente del Consiglio, accogliendo senza perplessità ogni sua dichiarazione. Risultato, dopo sei mesi di governo con la disoccupazione alle stelle, il debito pubblico fuori controllo, un’inflazione che ci ha fatto tomare indietro di 50 anni e un Pil in discesa, la fiducia in Renzi comincia a vacillare e con essa l’idea che bastasse un rottamatore per rottamare la crisi.

I segnali che ci fanno intravedere il rischio di un’esplosione della bolla speculativa sono più d’uno e tutti portano il marchio della disillusione. Come spesso accade, anche perché quando ha un’idea in testa non si tiene un cecio in bocca, il primo a parlare è stato Diego Della Valle, cioè l’imprenditore che aveva seguito con gioia la discesa in campo del pifferaio magico di Firenze. Il padrone delle Tod’s all’improvviso, mentre ancora Renzi aveva il vento in poppa perché non erano stati resi noti i dati riguardanti il Prodotto interno lordo, se n’è uscito con un’invettiva contro i riformatori al gelato, accusando il premier di voler cambiare la Costituzione senza avere rispetto del sistema di pesi e contrappesi messo a punto dall’Assemblea costituente. Poteva sembrare un’invettiva dettata da rancori personali, magari dalla stangata sulle aziende ferroviarie che rischia di mettere in ginocchio una delle società dell’imprenditore a pallini. E invece, dopo la sparata di Della Valle ne sono arrivate altre e quasi tutte di gente che sei mesi fa aveva gratificato il capo del governo di un’ampia apertura di credito.

Prima Giorgio Squinzi, il quale da presidente di Confindustria aveva salutato Enrico Letta con la carta vetrata, minacciando di rivolgersi direttamente al capo dello Stato. Un calcio negli stinchi cui era seguito un incontro proprio con Renzi, non ancora premier ma già segretario del Partito democratico. Ma se quella di Squinzi allora era sembrata un’investitura da parte del capo degli imprenditori, qualche giorno fa è arrivata la sconfessione, con un discorso molto critico sulla situazione economica e i famosi 80 euro. Come se non bastasse, si è aggiunta la botta di Sergio Marchionne, un altro che aveva guardato a Renzi con grande entusiasmo. Al manager con il pullover non è piaciuto il presidente del Consiglio gelataio e non ne ha fatto mistero, spiegando che non bastano le battute a far ripartire un Paese.

Tre imprenditori e tutti di primo piano già significano qualcosa e cioè che l’industria e la finanza cominciano a non credere più nel cambiamento di verso promesso dal premier. Tuttavia a questa presa di distanza se ne sono aggiunte altre, quasi sempre di persone che in principio avevano creduto nel progetto di rinnovamento dell’ex sindaco. Luca Ricolfi, sociologo di sinistra e autore di molti ragionati editoriali sulla Stampa e Panorama, ha confessato sul giornale piemontese il proprio pessimismo, spiegando che non si risolve una crisi sperando semplicemente che passi. Per Ricolfi aspettare confidando nel fatto che prima o poi torni il sole e la ripresa rimetta le cose a posto è un’illusione che rischia di rivelarsi catastrofica. Previsioni fosche si intravedevano anche sulla prima pagina del Corriere della Sera, a commento del tanto sbandierato pacchetto di misure economiche soprannominato «Sblocca Italia». Dario Di Vico, l’editorialista cui è stato affidato il compito di commentare, non ha nascosto la delusione, lasciando trasparire anche un sospetto, ossia che il presidente del Consiglio, invece di pensare a come far uscire l’Italia dalla crisi, pensi piuttosto a come farla entrate al più presto in campagna elettorale, portando il Paese alle urne già nel 2015. Insomma, altro che mille giorni: qui l’ex rottamatore sembra pensare ai prossimi cento.

I dubbi che ci hanno colpito di più sono però quelli di Giuliano Ferrara, cioè di uno che fin dal principio ha sostenuto il renzismo e per giunta stando seduto sull’altra sponda e non su quella comoda della sinistra. Da renzista devoto qual è, ieri l’Elefantino ha lanciato un barrito, scrivendo sul Foglio dei Fogli un editoriale in cui racconta un presidente del Consiglio in trappola, vittima degli stessi nemici e degli stessi errori di Berlusconi. «Non vorrei che tutti gli elogi alle grandi doti di comunicatore, per Renzi oggi come per Berlusconi ieri, alludano all’artista compiaciuto di sé che prende il posto dello statista». Da statista a ballista. E se le balle scoppiano fanno male.

Il renzismo si sta un po’ afflosciando

Il renzismo si sta un po’ afflosciando

Marco Bertoncini – Italia Oggi

La conferenza stampa sui mille giorni è stata in linea perfetta col personaggio Matteo Renzi. Dal trionfalismo alle battute, dagli annunci alla passione quasi sfrenata per i lanci di agenzia (nel senso che i suoi cinguettii, i suoi messaggi, i suoi lucidi, i suoi siti, vivono essenzialmente di fosforescenti immagini, di sintesi, di avvisi), c’era tutto R. nella compiaciuta presentazione di programmi, impegni, realizzazioni.

Per lui l’ideale sarebbe una generale sospensione di giudizio, sino al termine dei mille giorni, come non ha mancato di auspicare. Le valutazioni, tuttavia, già arrivano. Non è vero che siano riedizioni di negativi commenti già falliti prima del voto europeo. Infatti, oggi non ci sono soltanto alcuni sondaggi che indicano una minor presa di R. sugli elettori, del resto quasi scontata, anche perché il successo, le attese, le speranze, la percentuale medesima ottenuta alle europee, erano talmente elevati da non poter rimanere senza qualche caduta. No: l’elenco dei critici e degli insoddisfatti cresce. Si guardi ai republicones, dagli assalti del Fondatore contro il «Pifferaio» ai dubbi sui conti e sulle mancate coperture che si leggono con frequenza su L’Huffington Post. Si vedano i segnali non amichevoli giunti dal sindacato degli imprenditori (e collegato giornale): non paiono di sostegno talune dichiarazioni di personaggi quali Marchionne o Della Valle. Fior di commentatori, di analisti, di osservatori, validi o tali presunti o, insomma, quotati per la maggiore, hanno espresso dubbi, riserve, critiche, così su La Stampa come sul Corriere. Mentre il montismo durò fino alle urne, il renzismo pare un po’ afflosciarsi. Soltanto il Cav resta in attesa, magari non benevola, però attesa.