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Il martedì di Imu-Tasi: 12 miliardi e nell’83% delle città saldo a rischio rincaro – La Repubblica

Il martedì di Imu-Tasi: 12 miliardi e nell’83% delle città saldo a rischio rincaro – La Repubblica

Roberto Petrini – La Repubblica

Conto alla rovescia per il tax­Day sulla casa. Martedì 19,7 milioni di proprietari di prima casa e 25 milioni di proprietari di altri immobili saranno chiamati a pagare rispettivamente l’acconto Tasi e la prima rata dell’Imu. Un doppio prelievo fiscale che vale almeno 12 miliardi (9,7 di Imu e 2,3 di Tasi). La data rischia di essere un vero e proprio «martedì nero»: tra acconti e saldi Irpef, Ires e Irap e altro i contribuenti saranno chiamati a versare altri 38 miliardi.

Il costo medio della Tasi, secondo il consueto rapporto della Uil servizio politiche territoriali, sarà di 180 euro medi (90 euro da versare con l’acconto), ma se si prendono a riferimento le città capoluogo l’importo sale a 230 euro medi (115 euro per l’acconto), con punte di 403 euro. Cifre decisamente più alte per quanto riguarda l’acconto Imu sulle seconde case: il costo medio in questo caso è di 866 euro di cui 433 euro da pagare con l’accconto di giugno, con punte di 2.028 euro a Roma (1.014 euro l’acconto) e 1.828 euro a Milano (914 euro di acconto). Tra le città in cui l’acconto Tasi prima casa sarà «mini», la classifica vede in prima fila Asti (10 euro), seguita da Ascoli Piceno (23 euro) e da Crotone con 26 euro.

Le sorprese tuttavia non sono finite. Quest’anno non dovrebbe verificarsi il caos del 2014 quando si rimase nell’incertezza dell’aliquota in attesa delle delibere: si pagherà infatti con l’aliquota approvata dai Comuni per l’anno 2014.Tuttavia questo sollievo potrebbe essere solo apparente, perché i Municipi hanno tempo fino al 31 luglio per approvare i bilanci e le relative delibere Tasi- Imu: di conseguenza in sede di saldo, il 16 dicembre, potrebbe arrivare la «stangata» dell’aumento. Ad oggi infatti, secondo uno studio dell’Agefis, l’associazione dei geometri fiscalisti, solo il 16,5 per cento dei Comuni ha deliberato le nuove aliquote, il restante 83,5 per cento potrebbe riservare una sgradevole scoperta al contribuente. In pochissimi casi, a parte la virtuosa Valle d’Aosta che raggiunge un 81 per cento, nelle regioni italiane si trovano percentuali superiori al 20 per cento. Al Sud le delibere non raggiungono il 10 per cento. «Dove non c’è delibera non si possono dormire sonni tranquilli», dice Mirco Mion, presidente dell’Agefis.

La pressione fiscale sulla casa è comunque in crescita: secondo una rilevazione del Centro studi ImpresaLavoro il totale delle imposte che gravano sugli immobili sono cresciute rapidamente negli ultimi quattro anni, passando dai 38 del 2011 agli oltre 50 nel 2014. Si attende per il prossimo anno la più volte annunciata local tax: «Cambierà il nome, ma non la sostanza delle cose, bisogna rivedere le addizionali comunali Irpef, avverte Guglielmo Loy, segretario confederale della Uil.

Oro nero

Oro nero

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Petrolio sotto i 60 dollari: c’è una rivoluzione in corso? No, c’è già stata. Nella storia delle politiche petrolifere si è aperto un nuovo e inedito capitolo: ex uno, plures. Se, infatti, semplicemente aumentando o tagliando l’estrazione del greggio, nei decenni passati pochi produttori stabilivano i prezzi, condizionando i mercati e gli assetti geopolitici del pianeta, oggi non c’è più né il monopolio delle fonti, né un unico canale di trasmissione. La vecchia catena lineare di estrazione, raffinazione e distribuzione è finita schiacciata dalla ruota della modernità e il solo e unico custode del rubinetto mondiale dell’oro nero non è più né unico, né solo, né tantomeno in grado di influire in modo diretto e immediato sull’economia del pianeta. Anzi, il mondo dell’energia in generale, e degli idrocarburi in particolare, si è evoluto in una realta policentrica e poliarchica, stratificata e complessa, con reti interconnesse e interressi incrociati. Le catene di distribuzione dell’energia sono ormai più importanti dei produttori stessi, e proprio in ragione delle novità sono chiamati a svolgere un ruolo strategico, di equilibrio del sistema energetico planetario.

Dal 1973 per ognuna delle sette volte che il prezzo del petrolio è calato oltre il 30 per cento in meno di sei mesi come in questa fase, l’industria manifatturiera statunitense è cresciuta significativamente per almeno un anno e gli indici di Borsa sono saliti in media del 18 per cento in America e del 12 per cento in Europa. Questa volta, per, potrebbe essere diverso, come dimostrano le crescenti tensioni sui mercati dovute a Grecia e Cina. Cosa può fare la differenza?

Innanzitutto, c’è stata la rivoluzione delle rinnovabili: i costi di produzione del fotovoltaico sono calati del 96 per cento in 40 anni, e in Italia, per esempio, il costo del kWh eolico si è ridotto del 58 per cento e quello fotovoltaico del ’78 per cento solo tra il 2009 e il 2014. Inoltre, con il recente accordo sul clima tra Usa e Cina (due nazioni responsabili complessivamente del 40 per cento delle emissioni globali) e la Conferenza sul clima di Parigi del 2015, le emissioni di gas serra dovrebbero calare dal 40 al 70 per cento a livello globale entro il 2050. Nonostante ciò, fino al 2030, il 65 per cento della generazione globale si baserà comunque ancora su fonti fossili. Ma, attenzione, tra le fossili c’è la “novità” dello shale gas americano, che sembra poter reggere la concorrenza dei fossili tradizionali anche con un costo del barile intorno ai 50 dollari, smentendo la teoria dell’Opec che ne riteneva antieconomica l’estrazione sotto i 75 dollari al barile: la produzione americana da “scisto” dovrebbe infatti continuare a crescere, arrivando l`anno prossimo a 9,4 milioni di barili al giorno, un record che in America non si vedeva dal 1972. Quindi mind the fracking, perché la tecnica estrattiva che ha rotto il vecchio oligopolio dei produttori e ha scatenato una guerra ribassista, ha profondamente alterato gli equilibri energetici internazionali.

Con il crollo delle quotazioni, per esempio, piange la Russia, che realizza oltre metà del suo bilancio pubblico dall’esportazione di energia e che ha inoltre, alti costi estrattivi e di trasporto sia economici che politici, come dimostrano la crisi in Ucraina e l’alleanza con la Turchia, acerrimo nemico di Mosca sulla vicenda siriana. Ridono invece i paesi importatori (Corea del sud e Giappone in primis) e con i loro crescenti consumi sorridono gli emergenti (India, Brasile e Cina). L’Arabia Saudita, con le sue immense riserve, ha deciso di non tagliare la produzione, sia per non perdere quote di mercato sia per mettere in difficoltà l’odiato e vicino Iran. E, intanto, gli Stati Uniti cercano di capire quanti danni possa provocare il deprezzamento in corso: con il petrolio sotto i 60 dollari, gli investimenti in shale potrebbero dimezzarsi e la produzione smettere di crescere. In ogni caso, l’unico importatore che subisce contraccolpi è l’Eurozona, che con il deprezzamento degli idrocarburi rischia di alimentare la deflazione. Oltre alle ripercussioni finanziarie, l’Europa paga per la propria incapacità strategica, sia dei singoli paesi sia come continente. Ogni stato membro si è nel tempo singolarmente affidato a fornitori inaffidabili e ballerini (l’Italia, per esempio, a Libia e Algeria), senza così riuscire a programmare nessun investimento a lungo termine. E quando è stato fatto, come nel caso del South Stream, sono sorti problemi.

Sono sempre stato sostenitore di una “unione energetica europea” – ottenibile unendo le rinnovabili italiane, il nucleare francese, l’idroelettrico austriaco, il carbone tedesco – per creare un sistema integrato ed equilibrato dalla grande forza politica e negoziale nella geopolitica mondiale. Oggi, però, nell’inedito scenario che ho cercato di descrivere, le nuove alleanze che possono rivoluzionare i rapporti di forza sono quelle tra i distributori, tra chi gestisce a livello sistemico il mercato. Ora che nessun produttore è più dominus assoluto, infatti, i grandi operatori possono cavalcare la rivoluzione dello shale gas, delle rinnovabili, dell’efficienza energetica, dell’auto elettrica. Uno modo per evitare la restaurazione del potere dei produttori e così smettere di essere, Italia e Ue, totalmente dipendenti da paesi da cui è bene guardarsi le spalle.

Rivoluzione catastale: abitazioni rivalutate in futuro anche del 180 per cento

Rivoluzione catastale: abitazioni rivalutate in futuro anche del 180 per cento

Roberto Petrini – La Repubblica

Scatta l’operazione catasto, una vera e propria rivoluzione, attesa da anni, che porterà alla revisione delle rendite catastali di oltre 60 milioni di immobili. Al taglio del traguardo, tra circa cinque anni, i valori catastali potrebbero subire rivalutazioni dal 30 al 180 per cento, ma l’obiettivo è quello di colpire soprattutto chi fino ad oggi ha pagato di meno per case di maggior prestigio. Il decreto legislativo varato ieri definitivamente dal consiglio dei ministri, dopo l’esame del Parlamento, avvia il primo passo. Ripartono le nuove «commissioni censuarie» provinciali: 106 organismi composti da membri dell’Agenzia delle entrate, dell’Anci e dei professionisti (geometri, fiscalisti, ingegneri ecc.) che avranno il compito nei prossimi cinque anni di stimare casa per casa, capannone per capannone, le nuove rendite catastali, misura cruciale per calcolare l’imponibile sul quale si pagano Imu, Tasi e Irpef. Da segnalare che il decreto prevede che non saranno corrisposti gettoni di presenza.

Il decreto varato ieri è tuttavia solo il primo passo, importante perché le Commissioni erano di fatto congelate dal 1989, che crea l’infrastruttura decisionale dell’intera operazione. Il secondo, che si attende prima di marzo del prossimo anno quando scadranno i termini per l’esercizio della delega, fornirà i nuovi meccanismi di calcolo che terranno conto del valore di mercato mandando in pensione i vecchi estimi calcolati in base ad «ingessate» zone censuarie e categorie catastali (le famose A1, A2 ecc). Al posto del sistema archiviato ne arriverà uno nuovo che si articolerà in tre classi principali: abitazioni, attività produttive e immobili ad uso sociale. Il calcolo si baserà sui metri quadrati e non più sui vani, ma terrà conto di una serie di variabili in grado di definire il reale valore dell’immobile avvicinandolo al prezzo di mercato: si valuterà per definire il nuovo «algoritmo» della presenza di scale, dell’anno di costruzione, del piano, dell’esposizione e della localizzazione.

Naturalmente le rendite catastali e gli imponibili fiscali non potranno che lievitare, ma la legge delega assicura l’invarianza di gettito: dunque ci sarà da aspettarsi un intervento selettivo. Al traguardo gli immobili situati nelle zone di prestigio o residenziali, con vecchie rendite catastali che consentono un peso fiscale ancora relativamente basso, pagheranno di più rispetto ad immobili periferici della stessa categoria. «La riforma dovrà sanare gli squilibri che oggi esistono, squilibri per cui due case molto simili, se non uguali, pagano tasse differenti in virtù delle diverse collocazioni catastali. Pur con l’invarianza di gettito appare quindi ovvio che, domani, ci sarà chi pagherà più rispetto ad oggi e chi meno. Ieri pagava molto chi aveva poco e pagava poco chi aveva molto», spiega Mirco Mion, presidente dell’Agefis, l’associazione dei geometri fiscalisti. Secondo un recente studio della voce.info l’applicazione dei nuovi criteri per la determinazione della rendita determina un aumento significativo e generalizzato della base imponibile delle imposte immobiliari, a testimonianza della distanza tra le tariffe d’estimo e i valori di mercato. Nelle grandi città il rapporto tra le due rendite potrebbe variare in un intervallo compreso tra 4 e 7.

I calcoli che vengono fatti dall’Agefis, l’associazione dei geometri e fiscalisti, che raffrontano la media degli attuali valori catastali (cioè l’imponibile sul quale si calcolano le tasse da pagare) di categorie A2 e A3 (l’80 per cento del mercato) con le stime dei nuovi valori «agganciati » al mercato, lasciano presagire un rincaro generalizzato: si andrebbe da una media del 30 per cento ad Aosta, fino al 180 per cento a Bolzano e Salerno, passando per un aumento del 150 per cento a Napoli. Prosegue intanto il cammino della legge di Stabilità alla Camera: nel mirino l’anticipo del Tfr in busta paga che è stato oggetto di una serie di emendamenti di tutti i gruppi parlamentari, dal Pd, a Forza Italia a M5S. Il Pd chiede in particolare la neutralità fiscale che chi opta per l’anticipo rispetto a chi arriva a fine percorso, tutti chiedono di eliminare l’aumento della tassazione per fondi pensione e liquidazione, mentre un emendamento del Pd chiede l’estensione della misura anche agli statali.

Deficit, dubbi della Ue sulle promesse italiane

Deficit, dubbi della Ue sulle promesse italiane

Roberto Petrini – La Repubblica

«Tutto normale, contatti di routine», dice Pier Carlo Padoan in occasione dell’Eurogruppo. Mentre Renzi continua ad incrociare le spade con Juncker. Ma in realtà la questione che è emersa negli ultimi giorni sui conti pubblici italiani rischia di trasformarsi in una ennesima grana e acuire la tensioni tra Roma e Bruxelles. Le ultime valutazioni di autunno della Commissione, pubblicate martedì scorso, se guardate con attenzione, fanno emergere che il rafforzamento dell’ultima ora di 4,5 miliardi varato da Padoan il 27 ottobre in risposta ai rilievi dell’allora commissario agli Affari monetari Katainen, non è servito a molto. Il mega-assegno, pari allo 0,3 per cento del Pil, firmato dal nostro ministro dell’Economia, è stato considerato praticamente «a vuoto».

Come si ricorderà infatti il contrasto tra Roma e Bruxelles verteva sull’intervento sul deficit strutturale: l’Italia si era presentata con una correzione dello 0,1 per cento (1,5 miliardi) ma la Commissione voleva almeno lo 0,5 (circa 7,5 miliardi). Alla fine Renzi e Padoan dovettero cedere a Bruxelles chiudendo con un intervento dello 0,3 del Pil, i famosi 4,5 miliardi fatti con stretta all’evasione, fondi europei e rinuncia alla riduzione delle tasse. L’emendamento alla “Stabilità” è stato formalizzato ieri.

La «correzione», secondo le previsioni italiane, avrebbe dovuto ridurre il deficit-Pil strutturale, quello che conta ai fini del raggiungimento del pareggio di bilancio dopo la firma del Fiscal Compact: dallo 0,9 per cento contestato da Bruxelles si sarebbe scesi allo 0,6 per cento come cifrato dalla «Relazione di variazione alla nota di aggiornamento al Def» del 28 ottobre. L’intervento avrebbe avuto effetto anche sulla variabile tradizionale di Maastricht: dal 2,9 previsto in settembre al 2,6 post-rafforzamento stimato dal governo. Invece, con un certo stupore emerso tra i palazzi del governo, le previsioni della Commissione hanno ritenuto che l’intervento da 4,5 miliardi abbia avuto effetto sulla riduzione del deficit-Maastricht anche se la discesa viene cifrata al 2,7 (non al 2,6 come sperava il governo). Ma non ha avuto effetto sul deficit strutturale che dallo 0,9 proposto a settembre dall’Italia scenderà per Bruxelles solo dello 0,1 per cento del Pil attestandosi nel 2015 allo 0,8 (e non allo 0,6 come contava Roma).

Questa valutazione si abbatte sulla variabile cruciale che dobbiamo portare a zero nel 2017, dopo aver chiesto il rinvio di due anni del pareggio di bilancio, e anche il giudizio sulla legge di Stabilità potrebbe risentirne: segnali di strada in salita per Italia e Francia sono giunti ieri dal presidente dell’Eurogruppo Dijsselbloem che ha annunciato lo slittamento del verdetto a fine mese. Perché lo sforzo sul «3 per cento di Maastricht» non transita sul deficit «al netto della congiuntura del Fiscal compact»? Il tema è stato posto dal Tesoro italiano da settimane: è stato sollevato dal Cer, oggetto di osservazioni dell’Upb e di un articolo della voce.inf a firma Cottarelli (Fmi) e Giammusso (Tesoro). Il problema è di modelli economici: la Commissione pensa che l’Italia non abbia le potenzialità per crescere più di tanto e dunque, visto che il deficit viene depurato dalla mancata crescita rispetto a quella possibile, lo «sconto» si riduce. L’Italia invece la vede in modo diametralmente opposto.

Ogni anno sulle famiglie fardello fiscale da 15.330 euro. Con Tasi e Iva peserà di più

Ogni anno sulle famiglie fardello fiscale da 15.330 euro. Con Tasi e Iva peserà di più

Roberto Petrini – La Repubblica

La montagna di tasse e contributi, pari a 15.330 euro l’anno, che grava sulle spalle degli italiani sposta in avanti il cosiddetto «tax freedom day». Secondo i calcoli della Cgia di Mestre, con una pressione fiscale che per il 2014 è destinata a toccare il record storico del 44 per cento, quest’anno i contribuenti italiani hanno lavorato per il fisco fino alla prima decade di giugno: precisamente l’11 giugno, cioè 161 giorni. Ben 12 giorni in più di quanto avevano fatto nel 1995, quando, però, la pressione fiscale era inferiore di oltre 3 punti percentuali.

Del resto, sempre secondo la Cgia, su ogni famiglia italiana grava un carico fiscale medio annuo di quasi 15.330 euro: considerando l’Irpef e le relative addizionali locali, le ritenute, le accise, il bollo auto, il canone Rai, la tassa sui rifiuti e i contributi a carico del lavoratore. Ogni nucleo famigliare versa all’erario, alle Regioni e agli enti locali mediamente 1.277 euro al mese: un importo che, dice la Cgia, corrisponde allo stipendio medio percepito mensilmente da un impiegato. Nel 2013, spiega il presidente del centro studi Giuseppe Bortolussi, grazie all’abolizione dell’Imu sulla prima casa, il prelievo medio annuo era sceso a 15.329 euro: ben 325 euro in meno rispetto a quanto versato nel 2012. Per l’anno in corso, invece, il gettito è destinato ad aumentare ancora a causa dell’introduzione della Tasi e degli effetti legati all’aumento dell’aliquota Iva avvenuto nell’ottobre scorso.

Intanto si avvicina la data del versamento della Tasi. Secondo la Confedilizia sono più di cinquemila, precisamente 5.050, i Comuni che hanno emanato dopo il 31 maggio le delibere relative al pagamento della tassa sugli immobili. Tra le grandi città compaiono Roma, Palermo, Firenze, Trieste. La questione fiscale è nell’agenda del governo. «Per stabilizzare gli 80 euro bisogna evitare l’errore fatto con l’Imu», ha detto il responsabile economico del Pd, Filippo Taddei, a margine del Meeting Confesercenti. «Un intervento spot – ha aggiunto – che non venne bilanciato da un intervento sulla spesa cosicché la tassa è riemersa sotto altro nome».

Province quasi abolite

Province quasi abolite

Roberto Petrini – La Repubblica

Sono enti “fantasma” destinati, dopo una lunga battaglia per razionalizzare la macchina dello Stato, a scomparire, ma ancora riscuotono le tasse. Alla fine di quest’anno, nonostante il forte ridimensionamento, le 110 Province italiane incasseranno, secondo un’analisi della Uil servizio politiche territoriali, ancora imposta per 4,5 miliardi. Tre prelievi – sulla Rc auto, sui passaggi di proprietà e sui rifiuti – che andranno direttamente a pescare nelle tasche dei cittadini. Anche se il legislatore, nel corso degli anni, è stato assai abile a nasconderli e a renderli vere e proprie tasse occulte.

L’imposta più pesante che va alle Province è quella sulla Rc auto: fu introdotta nel 1981 da Spadolini con la motivazione bizzarra che chi guida può provocare incidenti e quindi deve contribuire a sostenere il servizio sanitario. L’aliquota va dal 9,5 al massimo del 16 per cento del premio assicurativo e quest’anno darà un gettito di 2,6 miliardi. Le Province, non soddisfatte di riscuotere ancora la tassa, hanno pigiato sul pedale: tutte e 110 la applicano e di queste 76 – tra le quali Roma, Torino, Napoli e Bologna – hanno imposto l’aliquota massima del 16 per cento.

L’altro balzello riguarda sempre l’automobilista: si tratta della Ipt, l’imposta provinciale di trascrizione che si paga quando si cambia macchina o moto. Incasso previsto per quest’anno: 1,3 miliardi. Si deve in tutte le Province ma in 75 – tra le quali figurano Milano, Roma, Firenze, Bologna, Napoli e Torino – viene applicata anche la maggiorazione del 30 per cento. A Roma, tanto per fare un esempio, la Provincia ricava dalla tassa sui passaggi di proprietà 120 milioni, mentre Milano incassa 90 milioni. Della incongruenza di una tassa incassata da enti “fantasma” si è accorto persino il recente decreto sulla pubblica amministrazione che ha previsto, a partire dal prossimo anno, di trasferire l’incasso alle Regioni. Ma per quest’anno pagheremo ancora.

Terzo pilastro che resta in piedi della fiscalità provinciale è il Tefa: pochi lo conoscono ma tutti lo pagano. Si tratta del Tributo provinciale ambientale che versiamo, per una percentuale tra l’1 e il 5 per cento, insieme alla tassa sui rifiuti. Una tassa sulla tassa che renderà alle Province ancora quest’anno 355 milioni. E non è finita: altre microtasse provinciali danno un gettito di circa 99 milioni. Si tratta della Cosap, tassa sull’occupazione del suolo pubblico, pagata sui passi carrabili sulle strade provinciali o per lo spazio occupato da tralicci o centraline. Oppure del tributo per i rifiuti speciali che le aziende versano alle società di raccolta che poi lo girano all’ente provinciale.

Purtroppo la spending review va a senso unico, taglia le spese e lascia pure in piedi le tasse. Tanto è vero che l’Upi, l’associazione delle Province, si trova a protestare per la violenza dei tagli e lamenta effetti «devastanti» sui servizi. «La riforma ha ancora contorni nebulosi – commenta il segretario confederale della Uil Guglielmo Loy – e si rischia che diminuiscano i servizi ma non le tasse». Chi pagherà le tasse provinciali lo farà con qualche mugugno in più. Le Province infatti hanno avuto un forte ridimensionamento con la riforma dell’aprile scorso e hanno perso molti compiti: non gestiscono più i centri per l’impiego, le politiche del lavoro, trasporti e sostegno allo studio per i disabili. I costi della politica sono stati tagliati per 400 milioni: gli amministratori non saranno più eletti direttamente dai cittadini ma saranno sindaci e consiglieri comunali che faranno il doppio lavoro senza doppia indennità. Anche il personale, pari oggi a 56mila unità, è destinato dopo la riforma a scendere notevolmente: 6mila andranno in mobilità e altri 8mila potranno essere trasferiti ad altri enti. I tagli alla spesa pubblica non servono per diminuire le tasse?