tasse

Sotto tiro anche gli altri fabbricati

Sotto tiro anche gli altri fabbricati

Il Sole 24 Ore

Non solo prima casa. In una città su due, la Tasi colpisce anche gli immobili diversi dall’abitazione principale. Come dimostrano le elaborazioni del Caf Acli sulle delibere ufficiali, in più di 3.800 Comuni su 7.405 la nuova imposta sui servizi indivisibili comunali si aggiunge all’Imu sugli immobili locati, i fabbricati produttivi, le aree edificabili, gli edifici rurali strumentali. Le regole locali variano secondo molte sfumature, ma la sostanza è che la Tasi – oltre a essere l’erede dell’Imu sulla prima casa – costituisce spesso una sorta di addizionale impropria dell’Imu: stessa base imponibile, identico limite di prelievo dato dalla somma delle due aliquote e scadenze di versamento parzialmente allineate (acconto Tasi al 16 ottobre per i Comuni che non avevano deliberato a maggio, saldo Tasi e Imu al 16 dicembre per tutti i contribuenti).

L’aliquota media della Tasi sugli “altri immobili” è pari all’1,31 per mille. Lontana dall’1,95 per mille della Tasi sull’abitazione principale, ma pur sempre al di sopra del livello base dell’1 per mille. Oltretutto, in questo caso bisogna considerare che c’è anche un limite generale fissato dalla legge, per cui la somma di Tasi e Imu può superare il 10,6 per mille solo se il Comune sfrutta il margine di aumento straordinario dello 0,8 per mille, con un tetto massimo dell’11,4 per mille. È probabile, quindi, che molti dei Comuni che non hanno istituito la Tasi sugli immobili diversi dalla prima casa avessero già l’Imu al massimo e non abbiano voluto fare una sorta di “scambio” tra i due tributi.

A complicare il quadro c’è il fatto che molti Comuni hanno previsto aliquote differenziate tra le diverse tipologie di “altri immobili”, modulando il prelievo in modo diverso – ad esempio – tra abitazioni locate, case sfitte, negozi, capannoni e così via. Sugli immobili affittati, ad esempio, l’aliquota media è pari all’1,33 per mille, mentre la quota a carico dell’inquilino ammonta al 18,4% e si piazza a metà della forchetta dal 10 e il 30% prevista dalla legge. A quanto pare, molti amministratori locali si sono discostati dalla quota minima – che secondo le previsioni della vigilia avrebbe dovuto essere la più usata – per evitare che l’imposta dovuta si riducesse a pochi spiccioli, finendo così sotto la soglia minima di versamento e diventando quasi impossibile da riscuotere in caso di mancato pagamento. È tutto da dimostrare, però, che l’aumento della quota a carico dell’inquilino sia sufficiente a superare questo difetto di costruzione del tributo: oltretutto, a dover pagare non solo gli inquilini, ma gli occupanti in generale, e quindi anche i comodatari, che detengono un immobili in prestito dai parenti, i titolari di contratti di leasing, le badanti e i conviventi non sposati con il proprietario.

La beffa Tasi, più cara dell’Imu. Detrazioni solo in un comune su tre

La beffa Tasi, più cara dell’Imu. Detrazioni solo in un comune su tre

Mario Sensini – Corriere della Sera

Il termine è scaduto alla mezzanotte di ieri e i Comuni che non hanno deliberato in tempo le aliquote della nuova Tasi dovranno accontentarsi, a dicembre, di un incasso ridotto. Tutti gli altri sindaci possono sorridere, ed i loro cittadini preoccuparsi. Messe tutte le carte sul tavolo – le delibere comunali – l’imposta destinata a superare l’Imu rischia di essere ben più salata della progenitrice nella maggior parte dei Comuni per molte famiglie italiane, in particolare quelle più povere e quelle con i figli. E più leggera per chi sta meglio. L’Associazione dei Comuni dice che nei municipi dove le aliquote sono state già fissate a maggio, sulla prima casa, si è pagato il 30% in meno, ma i Caf e molti centri studi sono convinti che, alla fine, il conto complessivo sarà più salato dell’Imu 2012, che fu di 4,4 miliardi.

Sugli 8.057 Comuni italiani, quelli che hanno fissato le aliquote Tasi entro la scadenza definitiva sono stati 7.405. Nei poco più di 600 municipi che non hanno voluto o non sono stati in grado di decidere, la Tasi sulla prima casa si pagherà il 16 dicembre in una sola rata, con l’aliquota di base dell’1 per mille (applicata allo stesso imponibile della vecchia Imu: rendita catastale rivalutata del 5% e moltiplicata per 160). Negli altri Comuni la tassa sulla casa di abitazione, dovuta in due rate il 16 ottobre e il 16 dicembre, sarà ben più cara.

Secondo i calcoli del Caf si pagherà l’1,95 per mille, ma è una media di tutti i Comuni, piccoli e grandi: nelle città maggiori il conto sarà di sicuro più salato. Secondo il Servizio Politiche Territoriali della Uil, l’aliquota media deliberata dai municipi capoluogo di provincia è del 2,6%. La Cgia di Mestre sostiene che in un grande Comune su due la Tasi sarà più cara dell’Imu. Tra i capoluoghi di provincia, vale la pena di sottolineare, la Tasi non si paga solo a Olbia e a Ragusa. È tuttavia e soprattutto il meccanismo caotico delle detrazioni, più delle aliquote, a generare gli effetti meno gradevoli. Con l’Imu c’era una detrazione fissa di 200 euro, più 50 euro per ogni figlio a carico, mentre stavolta i sindaci sono stati lasciati liberi di scegliere, potendo applicare una maggiorazione dello 0,8 per mille proprio per finanziare le detrazioni, e si sono sbizzarriti con la fantasia. A conti fatti, però, le agevolazioni sono state drasticamente tagliate.

Solo il 35,9% dei Comuni ha previsto uno sconto. Il 15% ha optato per una detrazione fissa, il 19% le ha legate alla rendita catastale della casa, e solo il 13,3% del totale (appena 869 Comuni) le ha concesse per i figli a carico, e quasi in tutti i casi solo a partire dal terzo o quarto figlio. Uno sparuto gruppo di 37 Comuni ha tarato le agevolazioni sul reddito del proprietario, altri 173 si sono affidati all’Isee. Ma solo 179 hanno tenuto conto dei figli con handicap, e 146 hanno previsto sconti in base all’età dei proprietari. Premiando i più anziani, over 65 e over 70, quando uno degli effetti dell’Imu era quello di spostare il carico fiscale dalle nuove alle vecchie generazioni.

Quel poco di funzione redistributiva della vecchia Imu, in ogni caso, non c’è più. Un esempio di come sono destinate a cambiare le cose lo fa Paolo Conti, direttore generale del Caf Acli. Con la vecchia Imu del 2012 (nel 2013 è stata sospesa, e solo in alcuni Comuni si è pagato una quota minima) su una prima casa con valore catastale di 60 mila euro, tassata all’aliquota massima del 4 per mille, si pagavano 40 euro: 240 d’imposta meno i 200 della detrazione fissa. Se ci fosse stato anche solo un figlio, addirittura niente. In un Comune dove non sono previste detrazioni, e sono i due terzi del totale, con la Tasi al 2 per mille (il tetto massimo è il 2,5), quest’anno si pagheranno 120 euro. Al contrario, una casa di abitazione più lussuosa, con un valore di 150 mila euro, se pagava 400 euro di Imu (600 di imposta meno 200 di detrazione), domani pagherà 300 euro di Tasi.

Nei Comuni che hanno optato per le detrazioni è molto più difficile capire fin d’ora, basandosi sulle carte, come andrà a finire. Anche perché la maggiorazione poteva essere spalmata anche sulle seconde case, i terreni, gli esercizi commerciali, i capannoni industriali, dove la Tasi si somma all’Imu, e dove i sindaci, ad ogni buon conto, non hanno rinunciato a fare cassa. Là dove l’Imu non era già ai livelli massimi, e dunque si potevano alzare le tasse, in tanti ci hanno infilato anche la Tasi: metà dei Comuni ha «arrotondato» con la Tasi l’Imu sulle seconde e terze case, sugli esercizi commerciali e gli studi professionali, sulle aree edificabili, sugli immobili agricoli, sui capannoni industriali. Pochissimi, appena il 5%, hanno assimilato alla prima casa gli immobili concessi in comodato ai figli. La metà dei Comuni, piuttosto, ha imposto la Tasi anche sulle case affittate, colpendo anche gli inquilini. Pagheranno, in media, poco meno del 20%. Molti, tra l’altro, ne sono ignari. Ed è un’altra complicazione, perché inquilini e proprietari dovranno provvedere ciascuno per proprio conto ai calcoli e al pagamento della Tasi. Se l’inquilino non paga la sua quota, riceverà prima o poi una cartella esattoriale, ma dopo esser stata esclusa, ora è prevista la responsabilità solidale dei proprietari, che alla fine potranno esser chiamati a pagare.

La “pulizia” nel territorio dell’Iva e quei 72 sconti fiscali in un triennio

La “pulizia” nel territorio dell’Iva e quei 72 sconti fiscali in un triennio

Mario Sensini – Corriere della Sera

In vista della prossima legge di Stabilità «il governo sta valutando, oltre alla revisione delle detrazioni, deduzioni e agevolazioni fiscali, anche la struttura delle aliquote agevolate dell’Iva» del 4 e del 10%. La possibilità di un nuovo intervento sulla tassa di consumo è stata avanzata ieri in Parlamento dal sottosegretario all’Economia, Enrico Zanetti, quando solo due giorni fa il ministro Pier Carlo Padoan, in televisione a Porta a Porta, rispondendo ad una precisa domanda sull’Iva di Bruno Vespa, aveva detto che il governo «non ha intenzione di aumentare le tasse». Nella maggioranza il Nuovo Centrodestra, e Forza Italia, all’opposizione, sono subito scattate all’offensiva, come le associazioni dei consumatori.

Da quanto pare di capire, tuttavia, il governo non starebbe ipotizzando il semplice aumento delle aliquote Iva agevolate, ma la possibilità di una loro revisione e semplificazione, garantendo una sostanziale parità di gettito rispetto ad oggi. Il governo, piuttosto, sembra propenso a intervenire per sfoltire e, in questo caso, tagliare, la sterminata messe di regimi agevolati concessi a varie categorie di imprese per il pagamento dell’imposta sul valore aggiunto che per inciso denota un indice di evasione molto elevato, sicuramente tra i più alti d’Europa, e che secondo alcune stime raggiungerebbe addirittura il 25%.

La “pulizia” nel territorio dell’Iva dovrebbe essere uno dei capitoli fondamentali della revisione di tutte le cosiddette “tax expenditures”, e cioè l’interminabile elenco di detrazioni, deduzioni, sconti e benefici fiscali esistenti nell’ordinamento, che sono più di 700 e costano circa 250 miliardi l’anno. Zanetti ha confermato che l’operazione, di cui si parla dal 2011, quando l’allora ministro Giulio Tremonti ne avviò la ricognizione, è allo studio. «Non ci sono ancora posizioni definite, ma si sta valutando. La questione fondamentale – ha detto Zanetti – è che le detrazioni che possono dare il maggior apporto sono anche quelle più sensibili». Ovvero, quelle politicamente più costose.

Gran parte delle detrazioni Irpef riguarda infatti il lavoro, le pensioni, i familiari a carico, la casa, le spese per la salute. Tutti ambiti molto difficili da aggredire, il che limita notevolmente la portata dell’operazione. Nel frattempo, da quando si è cominciato a parlare della loro razionalizzazione, gli “sconti” fiscali hanno continuato ad affastellarsi. Dal luglio del 2011 al giugno del 2014, ne sono stati varati altri 72, di vario genere, con una spesa di 16 miliardi di euro.

Stangata sulla tassa di successione

Stangata sulla tassa di successione

Filippo Caleri – Il Tempo

Era il 2001 e l’Italia apprendeva dalle parole dell’allora presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, che una delle tasse più odiate dagli italiani, quella sulla trasmissione dei beni di famiglia per morte o volontà dei proprietari, scompariva dal codice tributario. «Sono state approvate le norme per l’abolizione dell’imposta di successione e donazione» disse allora il Cavaliere aggiungendo anche una frase che forse Renzi dovrebbe ripassare: «Pensiamo che con questo provvedimento si possa contare sul ritorno in Italia di investimenti ingenti».

Sono passati quasi 13 anni da quel momento e dopo un parziale dietrofront sul balzello con l’arrivo al governo del vorace ministro delle Finanze, Vincenzo Visco, si sta per tornare alla situazione di partenza. Non c’è scampo. La ricerca spasmodica di nuove fonti di finanziamento per il bilancio pubblico spingono i tecnici a raschiare il barile e a verificare tutte le possibili opzioni per reperire soldi. Così, visto che i capitoli di entrata sono però sempre gli stessi, era inevitabile che si andasse a toccare l’imposta sulle successioni. Anche in questo caso la motivazione del rialzo è sempre la stessa: la possibilità di aumentarla è legata al fatto che nel resto d’Europa l’aliquota applicata ai passaggi ereditari è molto più alta che in Italia. Senza tenere conto però che molti capitali italiani sono già andati all’estero a causa del dumping fiscale, ovvero di condizioni favorevoli di trattamento dei redditi, praticati oltreconfine. E che ogni aumento di tasse scoraggia non solo quelli che vogliono investire da fuori ma anche quelli che i soldi li vorrebbero tenere nel Paese.

Eppure quando si tratta di far cassa le motivazioni macroeconomiche passano in secondo piano, salvo poi scoprire tra qualche anno che le misure restrittive hanno provocato più danni del beneficio. Comunque secondo quanto ha riportato il Sole 24 Ore ieri lo scopo che si prefigge il governo è di recuperare almeno un miliardo di euro alzando le aliquote applicate al valore dei beni e abbassando la soglia della franchigia ovvero il tetto esente da contributo allo Stato. La decisione potrebbe essere presentata con la legge di stabilità entro il 15 ottobre.

Una norma che modificherà il quadro esistente che prevede oggi, nel caso di trasferimenti di beni avvenuti dopo la morte del proprietario o ad una sua donazione spontanea, una franchigia di un milione di euro, al di sotto della quale non viene effettuato alcun prelievo. Sopra questa soglia bisogna distinguere diverse aliquote a seconda del grado di parentela: 4%, per i beni devoluti a favore del coniuge e dei parenti in linea diretta, (sopra 1 milione di euro); il 6%, per i beni devoluti a favore di fratelli e sorelle, degli altri parenti fino al quarto grado e degli affini in linea diretta, (sopra i 100mila euro); 8%, per i beni devoluti a favore di altri soggetti.

Secondo le indiscrezioni del quotidiano economico l’ipotesi a cui il governo lavora è quella dell’aumento delle aliquote e l’abbassamento della franchigia sopra a cui scattano i prelievi. La soglia di 1 milione di euro per gli eredi in linea retta potrebbe essere ridotta tra 200 e 300mila euro. E contestualmente, innalzate le aliquote dal 4 al 5% per gli eredi in linea retta, dal 6 all’8% per gli altri parenti e dall’8 al 10% per gli estranei.

Ma nessuno tocchi le tasse sull’eredità

Ma nessuno tocchi le tasse sull’eredità

Francesco Forte – Il Giornale

Matteo Renzi sembra stia pensando a una nuova nefandezza fiscale, cioè l’aumento dell’imposta di successione. Si ridurrebbe la attuale franchigia di un milione di euro, portandola a 300mila euro. L’aliquota fra parenti in linea retta del 4% salirebbe al 6%, quella del 6% sui parenti meno stretti andrebbe all’8% e l’aliquota ordinaria attuale, dello 8%, passerebbe al 10%. Il gettito, attualmente di mezzo miliardo, cosi raddoppierebbe.

Dato lo schema della proposta, il gravame andrebbe soprattutto sui ceti medi e modesti, sui parenti del defunto e sulle piccole aziende non strutturate. La tesi che viene avanzata per questa nuova vessazione tributaria è che si tratta di spostare le imposte dai redditi ai patrimoni. Tesi, comunque, priva di senso in un Paese con un debito pubblico che supera il 130% del Pil, in cui una buona ricchezza privata è garanzia del debito collettivo. Occorrerebbe un maggiore investimento, per accrescere la nostra produttività e competitività onde aumentare il Pil e rafforzare la bilancia con l’estero.

Silvio Berlusconi, sulla base di queste considerazioni, rilevanti anche allora, seppure un po’ meno pressanti aveva abolito l’imposta di successione. Io avevo fatto notare che essa aveva un gettito miserevole, incoerente con il valore annuo dei lasciti ereditari, che si può calcolare dividendo il presunto patrimonio annuo nazionale per 33 che è l’intervallo medio fra le generazioni. Quel calcolo vale anche ora. Se il patrimonio nazionale privato è 9.000 miliardi (evidente sottostima), il 33% è 300 miliardi. Se l’aliquota effettiva è il 4% (media prudenziale fra le aliquote del 4/6/8% attuali e gli esoneri vigenti), il gettito annuo dovrebbe essere 12 miliardi, non mezzo.

Chiaramente i ricchi e i furbi non pagano il tributo di successione anche ora che è al massimo dello 8%, cifra comunque consistente. Ricchi e furbi in parte hanno il controllo dei loro beni all’estero, tramite holding a catena e altre «scatole cinesi» con varie intestazioni e in parte detengono titoli e gioielli in cassette di sicurezza e casseforti. E inoltre con la partecipazione di figli e altri eredi alle varie società e alle scatole cinesi, sono in grado di generare passaggi di proprietà non tassabili. Il tributo successorio lo pagano i familiari del colonnello in pensione che oltre alla prima casa lascia due alloggi: uno che affittava e l’altro che usava come seconda casa. Lo pagano gli eredi del professionista che lascia l’ufficio, dell’artigiano e del negoziante che lasciano i loro piccoli capitali produttivi e l’avviamento.

L’esonero faceva perdere un gettito minimo, liberava gli uffici fiscali da pratiche complicate. Ma ciò che fa Berlusconi è considerato dal Pd, a priori, iniquo, anche se in realtà è ragionevole e liberale. Così Prodi, con un coro di sì dei giustizialisti, aveva reintrodotto il tributo successorio. Qualcuno ha voluto persino sostenere che l’imposta di successione era propugnata da Einaudi, dimenticando che questi, però, sosteneva l’esonero del reddito mandato a risparmio dall’imposta sul reddito, che egli voleva molto moderata. Einaudi non voleva l’imposta di registro. E non voleva che si tassassero i redditi distribuiti dalle società ove già tassati. Invece ora il tributo personale sul reddito arriva al 45% e non esonera il risparmio, salvo quando è tassato con l’elevata cedolare sulle rendite finanziarie. Le società sopportano un carico fiscale che può arrivare al 65%, mentre gli utili distribuiti sono tassati. Sugli immobili gravano sia l’Imu che l’imposta di registro del 9% per i trasferimenti a titolo oneroso. Per le successioni essa è comunque del 3% (però si chiama imposta ipotecaria e catastale) e si aggiunge al tributo di successione.

Basta tasse, l’Iva non può essere alzata

Basta tasse, l’Iva non può essere alzata

Achille Perego – La Nazione

Ce lo chiede l’Europa. Quando un governo deve mettere le mani nelle tasche degli italiani – dalla riforma delle pensioni alle imposte sulla casa – si difende con la scusa di Bruxelles. Vista la sfida lanciata da Matteo Renzi ai “tecnocrati” europei, c’è da credere che questa volta non verrà utilizzato il solito ritornello per inasprire ancora le aliquote Iva. Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, dopo le voci circolate con forza negli ultimi giorni e l’immediato allarme lanciato da consumatori e commercianti, ha smentito nuovi interventi sulle tasse. Speriamo. Perché alzare di nuovo l’Iva (l’imposta più evasa dagli italiani, con una percentuale quasi doppia rispetto all’Irpef) si trasformerebbe nell’ennesimo colpo sui consumi. E soprattutto sulle famiglie a minore reddito dove verrebbe quasi annullato l’effetto bonus da 80 euro, che ancora non si è visto sul fronte dei consumi.

È vero che la Ue, tutti gli anni, raccomanda un’armonizzazione dell’Iva, ma le aliquote dei Paesi dell’Eurozona restano una vera e propria giungla. E un’eventuale riforma complessiva, nel nome di un’unione non solo monetaria ma anche fiscale, dovrebbe spettare a Bruxelles. Non si capisce, invece, perché l’Italia, dopo aver già alzato dal 20 al 22% l’aliquota ordinaria (oramai tra le più alte d’Europa) dal 2012 al 2013 – con ridotti risultati per l’Erario che nel 2013 ha perso 3 miliardi di gettito Iva su un totale di 112 – dovrebbe ancora affossare i consumi che dal 2008 sono crollati di quasi l’8%. E hanno visto bruciare ben 78 miliardi di spesa. Una caduta che non si è ancora arrestata anche se il fondo sembra ormai vicino.

Del resto con i redditi degli italiani tornati a livelli di 30 anni fa e il potere d ‘acquisto scivolato a meta anni Novanta, con 2700 euro all’anno spariti dalle tasche delle famiglie, era difficile sperare in una ripartenza dei consumi. Che restano fondamentali per vendere beni e servizi e quindi per la buona salute delle imprese. E per la difesa e la crescita dei posti di lavoro in un Paese che ha un 12,6% di tasso di disoccupazione e ben oltre il 40% per i giovani. Mettere una nuova “tassa sul pane”, alzando dal 4 al 10 o addirittura al 15% l’aliquota Iva agevolata (applicata su molti altri beni di prima necessità come il latte o l’ortofrutta) e colpire anche prodotti e servizi che oggi scontano un’Iva al 10% (tra i quali tutta la filiera del turismo, uno delle poche industrie tricolori che ancora tirano), rischia di trasformarsi in un boomerang anche per le casse dello Stato. Soprattutto se l’inasprimento delle imposte indirette scatterà – come sempre, purtroppo – senza ridurre e tasse sul lavoro e sulla casa. Così siamo sempre in recessione, la luce in fondo al tunnel si allontana e restiamo, come ci ha avvertiti l’Ocse, l’unico Paese del club dei Sette grandi al palo. Forse perché ci siamo dimenticati che la cura delle tasse, Iva compresa, non fa mai rima con la parola crescita.

Una strategia da ripensare per non disperdere le risorse

Una strategia da ripensare per non disperdere le risorse

Alessandro Rota Porta – Il Sole 24 Ore

Bisogna voltare pagina rispetto all’attuale sistema dei bonus per le assunzioni. Il gap tra fondi utilizzati rispetto a quelli stanziati dalle diverse norme in materia dimostrano lo scarso appeal delle misure adottate dal legislatore negli ultimi anni. Il rischio è quello di disperdere risorse preziose che potrebbero essere destinate a un taglio trasversale del costo del lavoro, a maggior ragione nella fase economica attuale, con l’instaurazione di nuovi rapporti di lavoro praticamente al palo.

Il declino dell’impianto che regola le agevolazioni sulle assunzioni è peraltro da ricercare in altri fattori, oltre alla negativa congiuntura occupazionale. Intanto, le misure sono state via via introdotte badando solo alle esigenze contingenti, volte a favorire questa o quella particolare categoria di lavoratori o di settore produttivo, senza seguire una logica organica. Inoltre, l’applicazione effettiva delle misure si è rivelata spesso farraginosa, per via del ritardo con cui sono arrivati i provvedimenti attuativi rispetto alle norme istitutive dei bonus. Allo stesso modo, anche le istruzioni di prassi – indispensabili per garantire la piena operatività degli incentivi – hanno creato criticità agli operatori per la loro complessità o per le procedure di assegnazione, talvolta legate alla “lotteria” dei click-day. Non è bastato, ad esempio, come aveva previsto la riforma Fornero del 2012, sostituire un incentivo cambiandogli semplicemente pelle: la staffetta tra il contratto di inserimento e i bonus destinati alla ricollocazione degli over 50 e delle donne «svantaggiate» non ha sortito infatti risultati attesi (come dimostrano i dati pubblicati in questa pagina).

L’altro “flop” – più recente – è stato quello del «bonus Letta» per l’assunzione dei giovani, destinato nei piani del Governo di allora a creare centinaia di migliaia di posti di lavoro: i risultati si sono rivelati modesti, anche per la complicatezza delle regole da rispettare. La stessa agevolazione ha addirittura rischiato di mettersi in concorrenza con altri contratti incentivati, come l’apprendistato, dal momento che si rivolgeva alla stessa platea di soggetti. Proprio i dati recenti sulle assunzioni in apprendistato, che danno questo istituto in sensibile crescita nel secondo trimestre dell’anno, dimostrano che la chiarezza delle regole è un presupposto fondamentale per dare appeal alle misure adottate agli occhi dei datori di lavoro. Gli ultimi interventi legislativi sull’apprendistato (il decreto «Giovannini» dell’anno scorso e soprattutto il decreto «Poletti») hanno portato una ventata di semplificazione, ricreando fiducia nei confronti di questa tipologia di rapporto.

Alla luce di queste esperienze – per non ripetere gli errori commessi – varrebbe forse la pena di abbandonare il puzzle dei bonus per dare vita a un concreto abbattimento del costo del lavoro, svincolato dalla sussistenza di doti specifiche da ricercare nei lavoratori. Se è vero che alcune categorie di soggetti sono più penalizzate di altre nell’entrare nel mercato del lavoro o nel ricercare nuova occupazione, è altrettanto vero che una sforbiciata al cuneo fiscale potrebbe portare a una maggiore competitività e quindi al rilancio dell’occupazione in genere.  

Ogni anno sulle famiglie fardello fiscale da 15.330 euro. Con Tasi e Iva peserà di più

Ogni anno sulle famiglie fardello fiscale da 15.330 euro. Con Tasi e Iva peserà di più

Roberto Petrini – La Repubblica

La montagna di tasse e contributi, pari a 15.330 euro l’anno, che grava sulle spalle degli italiani sposta in avanti il cosiddetto «tax freedom day». Secondo i calcoli della Cgia di Mestre, con una pressione fiscale che per il 2014 è destinata a toccare il record storico del 44 per cento, quest’anno i contribuenti italiani hanno lavorato per il fisco fino alla prima decade di giugno: precisamente l’11 giugno, cioè 161 giorni. Ben 12 giorni in più di quanto avevano fatto nel 1995, quando, però, la pressione fiscale era inferiore di oltre 3 punti percentuali.

Del resto, sempre secondo la Cgia, su ogni famiglia italiana grava un carico fiscale medio annuo di quasi 15.330 euro: considerando l’Irpef e le relative addizionali locali, le ritenute, le accise, il bollo auto, il canone Rai, la tassa sui rifiuti e i contributi a carico del lavoratore. Ogni nucleo famigliare versa all’erario, alle Regioni e agli enti locali mediamente 1.277 euro al mese: un importo che, dice la Cgia, corrisponde allo stipendio medio percepito mensilmente da un impiegato. Nel 2013, spiega il presidente del centro studi Giuseppe Bortolussi, grazie all’abolizione dell’Imu sulla prima casa, il prelievo medio annuo era sceso a 15.329 euro: ben 325 euro in meno rispetto a quanto versato nel 2012. Per l’anno in corso, invece, il gettito è destinato ad aumentare ancora a causa dell’introduzione della Tasi e degli effetti legati all’aumento dell’aliquota Iva avvenuto nell’ottobre scorso.

Intanto si avvicina la data del versamento della Tasi. Secondo la Confedilizia sono più di cinquemila, precisamente 5.050, i Comuni che hanno emanato dopo il 31 maggio le delibere relative al pagamento della tassa sugli immobili. Tra le grandi città compaiono Roma, Palermo, Firenze, Trieste. La questione fiscale è nell’agenda del governo. «Per stabilizzare gli 80 euro bisogna evitare l’errore fatto con l’Imu», ha detto il responsabile economico del Pd, Filippo Taddei, a margine del Meeting Confesercenti. «Un intervento spot – ha aggiunto – che non venne bilanciato da un intervento sulla spesa cosicché la tassa è riemersa sotto altro nome».

L’Italia non tema la vigilanza

L’Italia non tema la vigilanza

Alberto Quadrio Curzio – Il Sole 24 Ore

I ministri finanziari della Uem e della Ue, nelle recenti riunioni milanesi, hanno prefigurato “nuove” politiche economiche per ricomporre crescita, riforme, rigore e per evitare all’Europa una lunga stagnazione-deflazione. Il ministro dell’economia Padoan, quale presidente di turno di Ecofin, vi ha contribuito non poco malgrado la nostra debole posizione. Per favorire la crescita e l’occupazione sono stati messi al centro gli investimenti (a dimensione prevalentemente europea) e la riduzione del cuneo fiscale sul lavoro(nei singoli Paesi). Speriamo che si passi presto all’azione.

Finanziamento degli investimenti. Per le politiche europee si è rafforzata la posizione che il rilancio della crescita passa da un partenariato pubblico-privato con un ruolo più importante della Bei che assuma anche maggiori gradi di rischio su varie filiere precisate da proposte franco-tedesche ed italiane. Si tratta dei finanziamenti agli investimenti sia delle imprese sia delle infrastrutture con ampio coinvolgimento del settore privato e creando anche un fondo ad hoc in cui convogliare risorse e potenziando le Casse depositi e prestiti dei vari Paesi. La complementarietà di queste posizioni, la loro natura di interventi a scala prevalentemente europea, che ricadono positivamente sui singoli Paesi membri, è chiara e non è nuova. La novità è invece politica perché in passato è stata proprio la concordia (sotto la guida e la vigilanza tedesca) dell’Eurogruppo e dell’Ecofin, della Commissione e del Consiglio Europeo che ha consentito l’affermarsi della linea del rigore senza attenzione alla crescita e all’occupazione. Se adesso davvero si darà un forte impulso agli investimenti in infrastrutture (materiali e immateriali, purchè di qualità) raccogliendo risorse finanziarie nel mercato attraverso Enti Pubblici Europei e/o con garanzie pubbliche, allora l’Europa uscirà ben presto dalla crisi. Su queste colonne Beda Romano ha segnalato che anche la Germania dovrebbe aver capito la necessità di questi interventi sia pure come ponte pubblico per ovviare le carenze del mercato. Bisogna inoltre evitare che l’enorme liquidità in circolazione (e che aumenterà con i prefigurati interventi della Bce) crei pericolose bolle finanziarie che darebbero un’altra mazzata all’Europa.

Progetti e Commissione. Bisogna anche evitare di perdere tempo ad elaborare nuovi progetti essendoci già i programmi di Europa 2020, quelli sulle TransEuropean networks, quelli del quadro finanziario pluriennale 2014-2020. Negli stessi si tratta, in modo diretto o indiretto, di investimenti infrastrutturali europei nell’ordine dei 2.000 miliardi di euro nei prossimi 15-20 anni. È positivo che di questo abbia tenuto conto il neo presidente della Commissione europea Juncker nel suo “programma per l’occupazione, la crescita, l’equità e il cambiamento democratico” dove si è data una forte rilevanza ai sistemi europei di infrastrutture integrate con un potenziamento dei finanziamenti (via bilancio comunitario, Bei, partenariato pubblico-privato, nuovi strumenti finanziari di impresa) per mobilitare 300 miliardi di investimenti in tre anni. Preoccupa invece che la Vice presidenza della Commissione europea per l’occupazione, la crescita, gli investimenti e la compatitività sia stata affidata a Jyrki Katainen che coordinerà, anche con poteri di veto, l’attività di tutti gli altri commissari con competenze economiche. Prudenza vuole che i giudizi non siano affrettati anche se nel suo breve periodo quale Commissario agli affari economici e finanziari Katainen ha fatto di tutto per rafforzare il plateale rigorismo del suo predecessore Olli Rehn in tal modo facendo di fatto leva sul sostegno dei rigoristi tedeschi. Qui non possiamo tacere il nostro rammarico che a quella carica di vice presidente, il Presidente Renzi non abbia candidato Marco Buti che in un ruolo di coordinamento di altri Commissari non avrebbe probabilmente trovato ostacoli date le sue forti credenziali europee.

Detassazione, rigore, riforme. Qui è stata netta la posizione dell’Eurogruppo (che amplia quella di luglio) sulla necessità di ridurre il cuneo fiscale sul lavoro anche perché nella Uem si combina con una tassazione totale ben sopra quella della media Ocse. Questo danneggia la ripresa economica e dell’occupazione, i consumi e l’offerta di lavoro, la competitività e la profittabilità delle imprese. La proposta dell’Eurogruppo viene ben collocata in quattro coordinate da declinare sui singoli Paesi. E cioè: quella della semplificazione tributaria e della selezione di componenti del cuneo da ridurre per tipologie di lavoro e per massimizzarne l’effetto; quella delle riforme per l’efficienza dei mercati del lavoro; quella della consenso politico e sociale, da ottenere con la giusta gradualità, per la riallocazione del gravame fiscale; quella del rispetto dei vincoli di bilancio prescritti dal Patto di stabilità e di crescita o aumentando altre imposte o riducendo le spese pubbliche improduttive. Qui l’Italia ha un grosso problema visto che negli anni passati ha continuato ad aumentare la pressione fiscale invece di ridurre gli sprechi pubblici con effetto molto negativo sulla crescita. Riteniamo quindi che una mera riallocazione della pressione fiscale senza tagli agli sprechi avrebbe effetti limitati sulla crescita e la competitività italiana. Così come sappiamo che l’Italia necessita di tante altre riforme su cui regolarmente il Sole 24 Ore si intrattiene e su cui il Governo Renzi deve impegnarsi a fondo lasciando in secondo piano successi pura immagine.

Una conclusione italiana. Ciò detto, visto che l’economia italiana va male, dobbiamo contrattare adesso e subito con le Istituzioni europee margini di flessibilità nel bilancio a fronte di rigorosi impegni contrattuali a fare le riforme sotto il controllo della Ue. Polemiche o dichiarazioni che facciamo da soli non bastano. La Francia sta contrattando il suo rientro del deficit sul Pil sotto il 3% al 2017 con l’impegno a riforme vigilate in base ad un impegno ammissibile a termini giuridico-politici. Non per emulazione politica ma per necessità di sopravvivenza, anche noi dobbiamo contrattare con le Istituzioni Europee più flessibilità sotto la condizione di riforme specifiche vigliate dalla Ue e sotto il vincolo di destinare le risorse a ridurre (subito e non simbolicamente) il cuneo fiscale e contributivo specie per la nuova occupazione giovanile orientata all’innovazione e alla produttività.

Tassare la capacità contributiva invece dei patrimoni virtuali

Tassare la capacità contributiva invece dei patrimoni virtuali

Corrado Sforza Fogliani – Italia Oggi

Il tema è uno, e uno solo: che le tasse devono colpire la reale capacità contributiva anche secondo il precetto costituzionale. Soprattutto se il Fisco vuole essere rispettato e vuole essere un Fisco civile. A cominciare dall’annuale nostro convegno che si tiene oggi a Piacenza (a segnare la nuova stagione del mercato immobiliare) iniziamo una campagna serrata su questo punto. Basta colpire i risparmiatori dell’edilizia tassando rendite catastali (aumentate del 5% da Prodi, e a livelli smodati da Monti) che «fabbricano» artificialmente un reddito che non c’è, per colpirlo (esattamente quel che già capita anche per le aree fabbricabili, tali, nell’attuale congiuntura, solo per il Fisco, una vergogna sesquipedale). Basta tassare anche immobili collabenti, comunque inagibili o che non si riesce ad affittare (per una crisi che i politici riescono solo ad aggravare), basta con i macroeconomisti e le loro strambe teorie, al di fuori della realtà. Basta, basta, basta quello e basta questo. La crisi si risolve ricreando la fiducia. E la fiducia diffusa (diffusa, cioè, quanto è diffusa la proprietà delle case) ritornerà quando ritornerà la convenienza nell’investimento immobiliare, perché l’affitto della proprietà diffusa tornerà a rendere qualcosa.

Finché si continua a parlare per slogan desueti, acriticamente accettati, la ripresa non arriverà mai. Se la coperta è corta, è perfettamente inutile cercare di tirarsela addosso per intero più di quanto già ciò non avvenga. Chi continua a dire che la ricchezza immobiliare è statica, ignora che (come tutti gli studiosi di economia sanno) vi è una ricchezza immobiliare ferma e un’altra dinamica. Soprattutto, è inutile continuare a voler dare addosso a una ricchezza che non c’è più, addirittura sostenendo che il costo degli immobili è elevato, quando ogni passante in strada sa che i prezzi sono crollati e che si è distrutto ogni risparmio. La spesa per i consumi (lo sa ogni semplice massaia) diminuisce per l’emergenza sociale in atto, non certo perché sia immobilizzata, quand’anche ci fosse e, poi, soprattutto perché, crollati i valori delle case, gli italiani non si sentono più garantiti dagli stessi in caso di difficoltà (e, quindi, non spendono, conservano quella liquidità di cui le banche, per mancanza di corrette richieste e di altrettanto corretti investimenti, sono piene). La redistribuzione del carico tributario deve esserci, certo. Ma non sulla base del ritornello lavoro ed imprese, ma sulla base dei reali redditi, come si fa nei Paesi civili qual è la Germania, ove ogni forma di tassazione patrimoniale è stata cancellata, e ciò anche se da noi i mandarini di Stato e di organismi vari, più o meno parassitari, continuano a fare il tifo per essa per mettersi al riparo loro e le loro megaretribuzioni.