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Una buona scuola anche se è privata

Una buona scuola anche se è privata

Giorgio Vittadini – Corriere sella Sera

Questa settimana sono attesi i decreti attuativi del pacchetto sulla «Buona scuola» con cui il governo intende «riscrivere le regole» del sistema formativo, come ha ribadito di recente il premier Matteo Renzi. Il progetto cerca di chiudere definitivamente l’annosa questione dei circa 123mila precari (obbligo imposto dall’Unione Europea), impiegando a questo scopo quasi tutti i fondi disponibili e lasciando ben poco ad altri obiettivi previsti nel piano, come la formazione degli insegnanfi o l’innovazione tecnologica. La proposta tocca anche altri punti importanti, come la carriera dei docenti legata al merito ma, nei complesso, avrebbe potuto essere più coraggiosa. Non bisogna dimenticare intatti che dalla scuola dipende chi saranno gli adulti di domani e come porteranno avanti la vita del Paese.

Studi internazionali certificano che una proposta formativa di qualità dipenda da: un progetto chiaro, condiviso, partecipato in modo attivo; un potere centrale che dialoga con le scuole flssando poche regole essenziali e controllando il raggiungimento degli obiettivi. Si tratta – alla radice – dei temi dell’autonomia, rimasti per lo più sulla carta a diciotto anni dalla legge 59 che sancì la trasformazione delle scuole in «istituzioni scolastiche dotate di autonomia gestionale e personalità giuiidica». Nemmeno il secondo principio essenziale all’evoluzione del sistema formativo, quello della parità scolastica, ha fatto passi avanti dalla legge 62 voluta ormai quindici anni fa dall’allora ministro dell’istruzione Luigi Berlinguer, legge che, benché rimasta senza copertura finanziaria, ha equiparato scuole Statali e paritarie in un unico sistema pubblico.

Anche in tema di parità, studi comparati sui sistemi scolastici, insieme all’evidenza dei cambiamenti sociali in atto, mostrano come continuare a far coincidere «scuola pubblica» con «scuola gestita dallo Stato» sia ormai anacronistico e deleterio per il bene del servizio pubblico. Sistemi di scuole autonome e paritarie, di diritto pubblico e privato, sono concepiti ormai in tutti i Paesi avanzati per favorire una competizione virtuosa tra scuole in funzione della qualità e per costruire un sistema che valorizzi forza ideale, creatività ed energie presenti nel tessuto sociale, secondo il principio di sussidiarietà. È utile ricordare che in Italia le scuole paritarie sono promosse da ordini religiosi ma anche da laici di diverse estrazioni culturali e che il finanziamento pubblico della scuola privata è previsto è previsto in quasi tutti i Paesi dell’Unione Europea garantendo l’accesso e l’iscrizione libera e gratuita per tutti i gli studenti.

È davvero arrivato il momento di dare una svolta. Non con grandi rivoluzioni, ma ad esempio a partire da una sperimentazione controllata, che preveda una autonomia piena, didattica, organizzativa e finanziaria delle scuole statali. E, per chi frequenta le paritarie, estendendo metodi di finanziamento già condivisi tra le diverse forze politiche, quali i voucher, i buoni scuola o altri contributi alle famiglie (attivi in diverse regioni tra cui Toscana, Emilia-Romagna, Lombardia) e prevedendo la detraibilità fiscale delle rette pagate dalle famiglie. Questo permetterebbe senza traumi di continuare sul piano economico la strada intrapresa da Berlinguer su quello giuridico. E sarebbe un riconoscimento per i 2 miliardi e 680 milioni di euro che lo Stato risparmia grazie all’esistenza delle scuole paritarie con il loro milione di studenti. Nell’orizzonte delle riforme verso cui deve avviarsi il nostro Paese questo nuovo approccio alla scuola, prima o poi, dovrà essere intrapreso.

Bocciofile e club privati: il business del non profit

Bocciofile e club privati: il business del non profit

Enrico Lagattolla – Il Giornale

Che orrore, il denaro. Molto più nobile «la crescita culturale e civile dei propri soci». Magari annaffiata da un paio di birre. Diciamo pure inondata da 40mila birre ogni anno, con ricarichi sulla singola pinta anche del 400 per cento. Perché non profit è bene, ma profit è pure meglio. Ed è così che il circolino emiliano tutto dibattiti e umanesimo è finito nei guai con gli 007 del Fisco. Hai voglia a dire che il lucro è roba da turbo-capitalisti se hai 2mila e 500 tesserati, una media di 800 consumazioni a serata e un giro d’affari di 370mila euro. Ovviamente in nero. Non puoi. Non regge. Eppure lo fanno in molti. Centinaia, migliaia di associazioni smascherate ogni anno dall’Agenzia delle entrate. È il grande business dei furbetti del Terzo settore, un mercato sconfinato e ricchissimo fatto di regole poco chiare e di approfittatori che ci sguazzano. È qui che piovono contributi pubblici e donazioni private, è qui che si ottengono agevolazioni fiscali e appalti dedicati. Ed è qui che si affollano gli sciacalli dell’«utilità sociale» e delle tragedie.

Colossale imbroglio
È solo dal 2009, anno in cui l’Agenzia delle entrate ha dato il via al censimento degli enti non commerciali e delle onlus, chelo Stato ha cominciato a fare ordine nel mondo delle associazioni e del volontariato. Fino ad allora l’Erario era andato alla guerra con le pistole giocattolo. Morale: una colossale evasione. E la riprova si è avuta l’anno successivo. Nel 2010, incrociando i dati nella neonata anagrafe del Terzo settore con le migliaia di controlli effettuati dal Fisco, sono emersi proventi non dichiarati per oltre 230 milioni di euro. Nel 2012, ultimo dato disponibile, le imposte recuperate hanno superato i 350 milioni, con una previsione di crescita per il biennio 2013-2014. E naturalmente la truffa si è consumata con fantasia tutta italiana. Bed&breakfast spacciati per centri di assistenza socio-sanitaria, circoli di sostegno agli anziani che nascondevano case d’appuntamento, locali per scambisti che difendendo «i diritti e le libertà dei diversi orientamenti sessuali, senza discriminazione, distinzione di sesso e ceto sociale», facevano soldi alla faccia dei contribuenti onesti e delle vere organizzazioni che contribuiscono a tenere in piedi il Paese.

Gli esiti delle attività di controllo svolte ogni anno dall’Agenzia delle entrate sono il racconto tragicomico di un magma di profittatori e furbetti più o meno grandi, quando non si tratta di veri e propri banditi. Da nord a sud, senza distinzioni di latitudine. Ci sono circoli per il golf piemontesi – alcuni anche decisamente esclusivi – che hanno avuto accesso ai fondi del 5 per mille. Ci sono ristoranti travestiti da associazioni, come quelli scoperti in anni recenti a Salerno. Un bel business per evasori totali che avevano nascosto al Fisco ricavi per 800mila euro. E sempre nel Salernitano era finito sotto controllo anche il litorale, dove avevano scoperto che un rinomato circolo – ovviamente non profit – era in realtà un ristorante con servizio di attracco e rimessaggio barche. 0 nelle Marche, dove un’associazione per promuovere «lo sviluppo e la conoscenza della scienza optometrica» era di fatto un laboratorio oculistico, vendeva prodotti e se li faceva pagare. A Torino, poi, un bel gruppetto di (presunte) bocciofile promuovevano sul web serate mangerecce, mettendo online menu e coupon per cenare a prezzi scontati, mentre un anonimo club privato era in realtà una palestra per clienti selezionatissimi a cui venivano offerte anche sauna, bagno turco e vasca idromassaggio. In Lombardia, invece, il Fisco aveva deciso di dare un’occhiata a una ventina di maneggi – pardon, associazioni sportive dilettantistiche operanti nel settore dell’equitazione -, col risultato che tutte tranne una (una!) nascondevano una vera e propria attività commerciale. L’Iva evasa? Quasi un milione di euro. Persino una guaritrice emiliana si era fatta una onlus su misura. Altro che fattura. Più che magia nera, magia in nero.

Soldi senza controlli
Eccola qui, l’altra faccia del non profit. Il lato oscuro del Terzo settore, che stando all’ultimo report dell’Istat – pubblicato nel novembre dello scorso anno – dà lavoro a oltre 650mila persone, ha un giro d’affari di circa 67 miliardi di euro, un fatturato superiore a quello dell’intero settore della moda made in Italy e rappresenta da solo il 4,3% del Pil nazionale. Capito quanto vale questa torta? Una gigantesca fortuna che fa gola anche ai più spregiudicati. Quanto costino allo Stato gli enti non commerciali, invece, lo si legge in un documento ufficiale della Corte dei conti, sezioni riunite in sede di controllo, presentato alla Commissione affari sociali della Camera dei deputati il 21 novembre del 2014: «Audizione sul disegno di legge» relativo alla riforma del Terzo settore. Un mondo «frammentario e disorganico», lo definisce la Corte. Ebbene, stimano i giudici contabili, le ricadute del settore non profit sulla finanza pubblica superano il miliardo di euro, per oltre i due terzi riconducibili al 5 per mille e alle agevolazioni Ires, e per la quota residua agli sconti Irpef, Iva e prelievo sugli immobili. Si tratta insomma di una bella sforbiciata alle imposte dirette (detassazione dei redditi) e a quelle indirette (Iva, imposta registro, bollo), di adempimenti semplificati e misure di sostegno economico. Un miliardo di euro. Un miliardo di buoni motivi per sedersi al tavolo e tentare di prendersene una fetta.

Ma a chi va quella più grossa e a chi le briciole? Si crea, è scritto ancora nel documento, una «indubbia situazione di vantaggio per gli organismi di maggiori dimensioni e più strutturati, in grado di investire in attività promozionali» così da orientare i contribuenti. Dall’altro, una «dispersione eccessiva, in favore di una pletora di beneficiari». Ma non è tutto. Perché il sistema così come è concepito determina «costi di gestione non indifferenti, un rallentamento delle procedure di erogazione e il rischio di indebolire l’istituto, trasformandolo in un inutile contributo a pioggia». E in effetti, a scorrere l’infinito elenco delle onlus che hanno avuto accesso all’ultimo 5 per mille – sono state 34.581 nel 2012, ultimo dato disponibile, e ben 3.034 quelle escluse -, le sproporzioni sono enormi. Si va dai 55 milioni di euro destinati all’Associazione italiana per la ricerca sul cancro ai 0,09 centesimi finiti nelle casse di Militello Rosmarino, comune di mille e 300 abitanti in provincia di Messina, dai 10,3milioni di Emergency ai 2 euro e 94 centesimi della «Dieta mediterranea Onlus» di Ostuni, dagli 8 milioni di Medici senza frontiere aí 12 euro scarsi del Motoclub Enduro Piemonte.

E fin qui, tutto più che comprensibile. Ma poi si scopre che i destini dei terremotati Abruzzesi e quelli dei felini randagi («Mondo gatto») muovono a medesima solidarietà i contribuenti, che per i primi hanno destinato 54mila euro e per i secondi 52mila. Che l’Accademia della Crusca (42mila euro per custodire e coltivare la lingua italiana) prende meno di un terzo di «Save the dogs and other animals», onlus animalista che porta a casa 135mila euro. O ancora, che la Fondazione italiana del notariato – la cui imprescindibile missione è quella di «formare e migliorare le qualità professionali e culturali dei notai italiani» – riceve la bellezza di 343mila euro, che la Fondazione rinnovamento dello Spirito santo – la quale «persegue in particolare lo scopo di sensibilizzare, orientare e far comprendere l’azione e le finalità dello Spirito Santo, che è Signore e dà la vita» – ha ricevuto dallo Stato 164mila euro, che sono stati 134mila quelli versati all’Unione degli atei e degli agnostici razionalisti (il cui scopo è «portare avanti iniziative a tutto campo in difesa dei diritti degli atei e degli agnostici»), mentre l’Admo – l’Associazione donatori midollo osseo, una cosetta con cui si cura la leucemia – si è dovuta accontentare di 73mila. O infine, che Fondazione Slow Food per la biodiversità ha ricevuto 67mila euro, che 37mila sono andati alla Federazione italiana amici della bicicletta e 36mila al Naga, l’associazione di assistenza sanitaria e per i diritti dei cittadini stranieri, rom e sinti. Sono troppi per curare dei nomadi? Punti divista. A Palazzolo Milanese, che non è nemmeno una città ma un quartiere del piccolo Comune di Paderno Dugnano, l’«Asilo del cane» ne ha avuti 70mila.

Quei 363 enti pubblici a carico dello Stato

Quei 363 enti pubblici a carico dello Stato

Claudio Marincola – Il Messaggero

Che ci fa la presidenza del Consiglio nello stesso calderone di Afragol@net srl? E l’Agenzia del demanio con l’azienda del cavalier Marco Rossi Sidolì? L’Istituto Ville Tuscolane con il Cnel o con il Cnr? Fanno parte della stessa famiglia, una grande famiglia allargata: 363 amministrazioni arcinote o misconosciute tenute insieme da un filo. Tutte, grandi o piccole, sono inserite nel conto economico consolidato della Pubblica amministrazione. Avrebbero dunque l’obbligo di seguire le stesse regole di bilancio, programmare le entrate, pianificare le uscite, monitorare e rispettare i tetti di spesa per gare, retribuzioni, consulenze, etc, etc. Ogni anno l’Istat, che ne fa parte, aggiorna l’elenco pubblicandolo sulla Gazzetta ufficiale ai sensi della legge 3l dicembre 2009, n.196. Elenco che anziché diminuire misteriosamente si espande come il polistirolo (nel 2013 erano 293). Risultato: orientarsi in questo dedalo di enti – autorità amministrative indipendenti, strutture associative, federazioni sportive, istituti di ricerca, amministrazioni locali, camere di commercio, consorzi di bonifica, fondazioni, spa, enti di previdenza – è quasi impossibile. La trasparenza – a parte qualche eccezione – è un optional. Link che rimandano ad altri link fino a perdersi nel vortice nero del web. Sarà un caso ma la “controllabilità” della spesa – ferita che sanguina, all’origine dell’emorragia del nostro debito pubblico – e la verifica degli andamenti della finanza, passa proprio da questa giungla.

La giungla
C’è l’Accademia della Crusca; il Museo storico della Liberazione; la Federazione italiana bocce; la Fondazione Biennale di Venezia; il Festival dei Due Mondi; lo storico Cnr, fondato nel 1923 e ora sottoposto alla vigilanza del Miur; il Cnel, svuotato ormai di fondi e tra non molto anche di personale; l’Enit, che si occupa di turismo ma sta per essere rivoltato come un calzino; quel che resta dell’Ice, l’Istituto per il commercio estero, persino Equitalia, e l’Agenzia per le Entrate ma anche Itcity.it, una partecipata del comune di Parma. E poi c’è il Fondo edifici di culto. Un fondo immobiliare nato nel 1866 per gestire il patrimonio della Chiesa, 750 edifici religiosi, abbazie, basiliche, incamerati dallo Stato e sparsi per la Penisola. Fino al 1932 il Fondo ricadeva sotto il ministero di Grazia e giustizia, dal 1932 è passato al ministero dell’Interno, Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione. C’è di tutto e di più, insomma.

Esodati e felici
Poteva mancare in questo gigantesco rassemblement la Resais spa? Cos’è? Fu creata dalla Regione Sicilia per assorbire i dipendenti degli enti Azasi, Ems ed Espi (l’ex Fiera del Mediterraneo). Un’azienda partecipata al 100% e nata per ricollocare il personale in esubero: ha la mission di accompagnare fino alla pensione i dipendenti che non hanno ancora i requisiti. Qualche tempo fa erano 257, retribuiti con lo stipendio base e lasciati a casa. “Oneri sociali” a tutti gli effetti che avrebbero potuto essere spalmati in altri settori della PA, in uffici dove il personale è carente. Alcuni lo hanno chiesto e ottenuto. Altri no. Così che «Resais» a Palermo e dintorni fatalmente è diventato «un sogno», l’aspirazione segreta a una condizione umana e sociale di dipendente messo da parte ma stipendiato. Un esodato felice. Nata come si diceva per accompagnare i lavoratori alle panchine dei giardinetti pubblici, Resais può utilizzare gli ammortizzatori sociali a tempo indeterminato o quasi. Il primo a concepire questa lampada di Aladino fu nel 1986 l’allora presidente dell’Ars, Nicolais. Si era pensato di chiuderne l’attività nel 2020. Poi sono arrivati i 50 dipendenti dell’ex Fiera. Potevano restare fuori? No. E l’orologio è stato spostato al 2030. Pazienza se in questo modo c’è chi usufruirà di scivoli decennali.

La grande mamma
Mai avuto dubbi. La PA è una grande mamma – o forse una manna – che costa milioni e milioni. E nessuno che muova un dito, che si stupisca. Anzi. Il 4 giugno dello scorso anno una delegazione di lavoratori della Resais spa marciò verso l’Ars al grido di «giù le mani dallo stipendio»; fu ricevuta da Mariella Maggio, vice presidente della commissione Lavoro; chiese e ottenne l’applicazione della legge regionale 26/2012, la garanzia della salvaguardia occupazionale e il recupero delle spettanze arretrate.

Il sottotetto
Che non si dica che certe cose accadono solo in Sicilia. Ci mancherebbe. Della grande famiglia fa parte anche l’Agea, l’Agenzia per le erogazioni in agricoltura. La cassaforte del ministero delle Politiche agricole in cui transitano 5 miliardi di euro è al centro di varie inchieste e interrogazioni parlamentari (l’ultimo caso è l’indagine della Procura di Roma su una presunta maxitruffa sui contributi). Come tutti gli enti sottoposti ai controlli l’Agea è tenuta a rispettare i tetti delle retribuzioni. I due dipendenti di prima fascia guadagnano rispettivamente 214.199 mila euro e 166.546 mila euro l’anno, compresa l’indennità di risultato. Più di loro guadagna il direttore generale del Consiglio per la ricerca in agricoltura, il Cra, anch’esso nell’elenco Istat. Essendo il tetto fissato a 240 mila euro lordi – scrive nella sua interrogazione il deputato di Sel Zaccagnini- la dirigente si è ridotta lo stipendio di 42 euro e 97 centesimi l’anno, attestandosi nel più congruo “sottottetto” di 239.957,03 euro lordi. Quando si dice: spending review.

Il torto
Per non far torto a nessuno va citata a questo punto anche l’Inea, l’Istituto di economia agraria che finanzia le ricerche economiche. L’articolo 32 della Legge di stabilità ne prevede la fusione con il Cra. Ma l’accorpamento non fermerà 1’indagine avviata dalla Procura di Roma sulle consulenze esterne affidate tra il 2007 e il 2010. PA che vai “pasticcio” che trovi? Non sempre. Ci sono anche le eccellenze. La Fondazione Gioacchino Rossini Opera festival; l’Istituto culturale ladino; 1’Agenzia per l’Italia digitale (che si regge con un finanziamento di 1 milione 721.669 euro). In questo spaccato che racconta il nostro Paese da cima a fondo non poteva mancare l’Agenzia nazionale per l’amministrazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. Discorso a parte meriterebbero infine i consorzi di bonifica, istituiti dal duce. Li accusano di essere trasformati in poltronifici. Vorrebbero chiuderli. Ma la grande famiglia non abbandona nessuno.

Liberalizzazioni dimezzate, così funziona la lobby del rinvio

Liberalizzazioni dimezzate, così funziona la lobby del rinvio

Paolo Baroni – La Stampa

È solo un caso se in Italia, che ha il numero di farmacisti più alto d’Europa, ben 79mila contro i 72mila della Francia o i 52mila della Germania, non si riesce più a fare passi avanti sul fronte delle liberalizzazioni di farmaci e farmacie? Dal 2006, ovvero da quando il decreto Visco-Bersani ha aperto la prima breccia istituendo le parafarmacie, in questo campo l’apertura alla concorrenza s’è fermata. Ci aveva provato Monti nel 2011 a proporre di rendere libera la vendita dei medicinali di fascia C, ma poi ha dovuto fare dietrofront. E stessa sorte tocca ora a Renzi, che pure l’altro giorno ha iniziato a incrociare le spade con molte lobby varando un disegno di legge che interviene in tanti settori e intacca molti privilegi. Una cura di cui l’Italia ha particolarmente bisogno se si considera che il nostro Paese è agli ultimi posti in Europa con un indice di apertura alla concorrenza del 66%, stima l’Istituto Bruno Leoni, contro il 94% del Regno Unito. Solo Grecia e Lussemburgo fanno peggio di noi.

Medicina amara
Non solo sulle farmacie non si passa, ma non è passata nemmeno la richiesta avanzata a suo tempo dall’Antitrust di aumentare la diffusione di prodotti equivalenti, misura che oltre a disturbare i farmacisti non fa piacere nemmeno agli industriali del settore che sfornano prodotti “firmati” ben più cari. Cassate pure le proposte che puntavano ad aumentare il numero dei punti vendita. Potenza della lobby forse oggi tra le più potenti del Paese, ma non certo l’unica ad essersi attivata in queste settimane. Non importa che anche nelle parafarmacie e nei corner dei supermercati sia presente un farmacista e non importa che per questo genere di prodotti (antidolorifici e anti infiammatori) serva comunque la ricetta medica: è bastato evocare il rischio di favorire un abuso di farmaci su larga scala, e tirare il ballo il ministro della Salute Lorenzin (che non ha indugiato un attimo a schierarsi coi farmacisti, anziché coi loro clienti), per stroncare ancora una volta l’idea di sbloccare la vendita dei farmaci di fascia C.

Uber resta al palo
I taxisti non hanno dovuto fare lo stesso can-can. O meglio è bastata bloccare Torino per mezza giornata per mandare a “quelli di Roma” un messaggio chiaro: volete che vi blocchiamo il Paese nell’anno dell’Expo? Detto fatto, l’articolo che doveva fare cadere le barriere che ostacolano l’attività di Uber o dei noleggi con conducente è svanito. Rinviato ad una legge delega già prevista dal Milleproroghe, si è affrettato ad assicurare il ministro dei Trasporti Maurizio Lupi. Intanto la questione è stata rinviata.

Salvi porti e aeroporti
Rinviata anche la riforma del porti che, tra l’altro, avrebbe certamente guastato molti affari a tante autorità semplicemente impedendo a questi enti di gestire direttamente l’attività portuale o di farlo indirettamente attraverso società controllate che svolgono attività industriali o commerciali (altra richiesta specifica dell’Antitrust). Anche in questo caso Lupi ha spiegato di aver in cantiere una legge ad hoc avendo così buon gioco nel pretendere lo stralcio. Mai entrate nel menù nemmeno le richieste dell’Antitrust sugli aeroporti (gestione aree commerciali messe a gara) e sul trasporto pubblico locale.

Il muro di Comuni
L’Antitrust nella sua segnalazione annuale, che ha fatto da guida al lavoro dei tecnici del ministero dello Sviluppo, tra l’altro aveva evidenziato «la necessità di intervenire nei servizi pubblici locali e nelle società pubbliche al fine di superare quel “capitalismo pubblico” che non consente di raggiungere adeguati livelli di efficienza e di qualità dei servizi». Ed in particolare, nel comparto del trasporto locale, proponeva aprire a imprese diverse dai concessionari pubblici servizi di carattere commerciale come i trasporti turistici e i collegamenti con porti, aeroporti e stazioni ferroviarie, prevedendo anche la possibilità di fornire servizi in sovrapposizione alle linee gestite in regime di esclusiva. Niente da fare anche in questo caso in cui non è difficile intravedere lo zampino del “partito dei sindaci”, sempre geloso delle attività delle partecipate. Come del resto sui rifiuti, le cui attività di raccolta andrebbero messe una buona volta a gara.

Ania passa all’incasso
Anche norme come quelle sulle assicurazioni, che prevedono un severo giro di vite sulle truffe, anche se vengono presentate come importanti risultati a favore dei cittadini, lette con gli occhiali delle associazioni dei consumatori si trasformano in un “bel regalo” per la potentissima lobby delle assicurazioni, che questa volta sarebbe riuscita a far passare la legge scritta dalla loro associazione di categoria, l’Ania, garantendosi così un forte taglio dei rimborsi. Mentre i paventati sconti sulle tariffe rischiano di essere vanificati dall’aumento dei costi a cominciare da quelli legati all’installazione della scatola nera. Infine va detto che anche edicolanti e librai, questa volta l’anno fatta franca, ma in questo caso più che le pressioni dei settori interessati ha fatto premio la situazione ancora molto disastrata in cui versa il nostro comparto editoriale. Ovviamente la carica delle lobby non è finita. Adesso il disegno di legge arriva in Parlamento e il ministro dello Sviluppo Federica Guidi è preoccupata. Tanto più che tra la bozza iniziale e il ddl approvato venerdì si sono già persi per strada almeno 15 articoli sui 50 previsti.

I 145 consorzi di bonifica, poltronifici dimenticati

I 145 consorzi di bonifica, poltronifici dimenticati

Claudio Marincola – Il Messaggero

Li creò il duce, e d’allora prosperano. Qualcuno vorrebbe sopprimerli con un colpo di spugna. Qualcun altro parla invece di riordino. E su questo nodo che non si scioglie e si aggroviglia sempre più si va avanti da anni. Centoventi consorzi di bonifica che hanno competenza interregionale. Cui si aggiungono altri 25 enti di bonifica montana “di miglioramento fondiario”. Sfumature diverse e latitudini diverse ma la stessa mission: il «miglioramento fondiario». Sono “le sentinelle dei fossi”; “i presidii del territorio”, più spesso, purtroppo, “gli angeli del fango”. Ma quanto ci costano? Il Belpaese frana, 8 Comuni su 10 sono a rischio. La mappa del dissesto idrogeologico è sconfinata: per la bonifica – isole comprese – servirebbero almeno 8 miliardi di euro. E loro si dicono disposti a gestire una bella fetta dell’emergenza maltempo. Sono tutti affiliati all’Anbi, l’associazione nazionale bonifiche, irrigazioni e miglioramenti fondiari.

Hanno messo radici profonde, sono carrozzoni per un certo verso ormai “irrottamabili”. Si occupano di salvaguardia ambientale, regolazione idraulica, difesa del territorio, flussi. Disciplinati dal regio decreto 215 del 1933, noto anche come legge Serpieri, dal nome del padre fondatore della bonifica integrale. Mettono insieme un esercito di circa 7500 dipendenti. In Toscana, dove ogni anno entrano in cassaforte circa 130 milioni di euro, su 500 dipendenti gli operai sono solo 160. Il presidente di un consorzio toscano si mette in tasca 33.500 euro l’anno. Un consigliere in media 30 euro a gettone di presenza. Sono retti da amministratori nominati in parte da enti locali, in parte da consorziati. Così che negli anni sono saliti a bordo burocrati di vario genere, ex politici, trombati, riciclati, a volte a parziale risarcimento delle spese elettorali. La percentuale dei votanti normalmente è irrisoria, di rado supera il 2% degli aventi diritto.

La sforbiciata
Il progetto per eliminarli ci sarebbe. Si chiama «sforbicia Italia», annunciato da Matteo Renzi all’indomani dell’arrivo al governo. I consorzi di bonifica hanno incassato dati alla mano (2012), solo di “contribuenza” 579 milioni di euro, di cui 212 a carico dei proprietari urbani. Ai quali bisogna aggiungere i contributi di Regioni, Province e Comuni. Con gli anni e data la fragilità congenita del nostro assetto idrogeologico le funzioni si sono ampliate: sempre più spesso sostituiscono gli enti locali andando oltre così il perimetro del regio decreto che li ha istituiti. L’obiettivo dei consorzi è ampliare il raggio d’azione: estendere la base imponibile e dunque il numero e il valore delle contribuzioni. Che vuol dire ampliamenti, interventi su immobili e territori lontani chilometri e chilometri dalle opere ritenute necessarie di bonifica. C’è chi si è visto addebitare contributi per opere realizzate decine di anni prima. Di tanto in tanto spunta fuori qualche scandaluccio. Chi li paga? Versano il contributo annuale di bonifica tutti i proprietari di beni immobili, terreni e fabbricati ricadenti all’interno del perimetro di bonifica che ricevono benefici dall’ente.

Rosso fisso
In Sicilia operano 11 consorzi di bonifica che costano circa 120 milioni l’anno. Sono chiamati a gestire tra l’altro la distribuzione dell’acqua che notoriamente scarseggia per via della rete- colabrodo. Il consorzio di Siracusa è in rosso per 20 milioni, Palermo di oltre 15. Chi li ripianerà? Il rapporto tra estensione del territorio e dipendenti è una delle tante incongruenze siciliane. Con il caso limite di Messina: un dipendente ogni 2,2 ettari. La risposta a chi accusa i consorzi di essere sovradimensionati è che le condutture sono fatiscenti e le infrastrutture carenti. Questo non ha impedito a Catania che la procura aprisse un’inchiesta sulle consulenze e le assunzioni facili. Per non parlare delle controversie sulla stabilizzazione dei lavoratori. Il fenomeno non riguarda solo la Sicilia, naturalmente.

La proposta
I consorzi hanno svolto in passato un ruolo di particolare rilievo per l’agricoltura italiana. Questo è fuori discussione. Ma il ruolo andrebbe ripensato. Gli interventi per modificarli sono stati innumerevoli. Non si contano i commissariamenti, le chiusure per liquidazione, le inchieste. Con le proposte di legge per cambiarli o abolirli ci si potrebbero scrivere enciclopedie. Il deputato aretino Marco Donati (Pd) ha presentato nello scorso novembre una proposta di legge firmata da un gruppo di deputati renziani. Con la benedizione del premier potrebbe andare a dama. Si chiede che le competenze e le funzioni vengano trasferite «a enti già costituiti all’entrata in vigore delle nuova legge». Donati spiega: «In Toscana la necessità di semplificare il rapporto tra cittadini e istituzioni è molto sentito. La mia proposta va in questa direzione. Sono istituti che possono essere integrati nelle Regioni e nei Comuni. Più che una politica è una filosofia, un’operazione simile alla riduzione delle municipalizzate». Non più consorzi lottizzati, trasparenza, dipendenti assorbiti dagli enti locali. Più semplice pianificare gli interventi. Proprio in Toscana, nell’ultima alluvione, si è scatenata l’ennesima polemica tra i consorzi e il governatore Enrico Rossi per interventi mai iniziati o non a regola d’arte. Accuse, scaricabarile, etc, etc. L’Italia dei siparietti che non cambia mai.

I nuovi prof assunti quasi tutti al sud e non insegnano materie che servono

I nuovi prof assunti quasi tutti al sud e non insegnano materie che servono

Gianna Fregonara – Corriere della Sera

L’idea del governo di adottare una «terapia d’urto» per chiudere definitivamente le graduatorie ad esaurimento è «comprensibile», ma «assumere tutti e subito i circa 140 mila precari avrà effetti molto negativi sulla scuola italiana abbassandone la qualità e ostacolandone il rinnovamento per molti anni a venire». Il grido dall’allarme sul decreto che Matteo Renzi dovrebbe presentare domenica prossima a Roma e il consiglio dei ministri approvare il 27 febbraio, è contenuto in un documento della Fondazione Agnelli, che da anni monitora e studia il sistema scolastico italiano: gli insegnanti che si stanno per assumere non sono quelli di cui la scuola avrebbe bisogno. Il direttore Andrea Gavosto e la sua squadra hanno confrontato numeri e proposte di quella che sarà la più grande «stabilizzazione di precari» della scuola degli ultimi trent’anni, mentre al ministero dell’Istruzione stanno scrivendo il testo del decreto, cercando di far tornare i conti di questa imponente operazione. Il punto di partenza dell’analisi della Fondazione Agnelli è che la promessa di assunzione di tutti i precari nelle graduatorie ad esaurimento non è stata preceduta da «un’analisi dei profili professionali necessari alla scuola italiana, ma si è adottata una logica capovolta: assumo questi insegnanti e poi vediamo che cosa gli possiamo far fare», spiega Gavosto. Dei problemi denunciati dalla Fondazione si stanno occupando anche nel governo e nel Pd, tanto che il sottosegretario Davide Faraone ha annunciato che ci saranno delle correzioni.

Musica ed economia
Ma alcuni punti fermi restano. Come le ore di musica alle elementari: nelle graduatorie ci sono circa diecimila insegnanti di musica o strumento che verranno assunti a settembre. Così per economia e materie giuridiche, che il ministro Stefania Giannini ha annunciato verrà introdotta nelle superiori per una/due ore alla settimana, ma solo in terza e quarta, perché se si ampliasse l’offerta all’ultimo anno sarebbe necessario poi cambiare anche l’esame di maturità: ci sono almeno 3.000 insegnanti di questa classe di concorso nelle graduatorie, che altrimenti seguendo l’attuale fabbisogno della scuola che è di circa 200/400 insegnanti di economia ci metterebbero decenni ad essere assorbiti. Invece per una materia come la matematica non ci sono in molte regioni, a partire dalla Lombardia insegnanti in numero sufficiente nelle graduatorie ad esaurimento, neppure per coprire i posti di ruolo disponibili l’anno prossimo. Secondo gli esperti di «Voglioilruolo», il sito per prof che censisce graduatorie e scuole, risultano già esaurite le graduatorie per matematica a Como, Milano, Mantova, Ascoli Piceno, Roma, Pisa e Grosseto, Frosinone e Foggia: «In provincia di Milano – si legge nel testo della Fondazione Agnelli – servono ogni anno tra i 50 e i 100 insegnanti di matematica, nelle Graduatorie ad esaurimento ce ne erano a settembre solo 31».

La carica dei supplenti
Come si farà con gli altri posti? «Probabilmente continueranno ad essere almeno in parte coperti dai supplenti delle graduatorie di istituto, come avviene ora». Con il paradosso che in queste materie così importanti continueranno le difficoltà che si vorrebbero cancellare, a partire dai cambi continui di supplenti. «Non solo, se non si cambia il criterio di assunzione, si crea un problema di equità perché i prof che sono in queste graduatorie di istituto sono persone mediamente più giovani, con una preparazione e un’anzianità di servizio non inferiore a quella di chi verrà assunto, ma destinati a non diventare di ruolo», e a restare precari per chissà quanto tempo. Si aggiunga che proprio per materie importanti come quelle scientifiche proprio in questi giorni l’Ocse ha lanciato l’allarme: solo con professori più preparati ad affrontare le classi, usando metodi anche innovativi, si potranno migliorare la preparazione e i risultati dei ragazzi, che continuano a «soffrire» nei test proprio in queste discipline.

Nuove assunzioni
Il problema di questi precari fuori dalle graduatorie ad esaurimento è ben chiaro, non solo ai sindacati che oggi incontreranno il ministro Giannini, ma anche al governo tanto che il sottosegretario Faraone ha dichiarato che si sta pensando anche a loro, e qualcosa nel testo definitivo ci sarà: «Aspettate a dire chi sarà dentro e chi sarà fuori». Non sarà possibile cambiare molto ma potrebbero essere assunti almeno in parte a partire dall’anno prossimo, prima del concorso, per ora annunciato ma non indetto: il rischio restano i ricorsi in massa al Tar. «Ma il turn over nei prossimi anni è intorno ai 13 mila insegnanti all’anno. Si può ritenere che l’ingresso in ruolo dei 140 mila in blocco ostacoli per i prossimi dieci anni l’ingresso dei giovani neolaureati», si legge ancora nel documento elaborato dalla Fondazione. A tutto questo si aggiunge che i maestri e i professori che verranno assunti a settembre vivono lontano da dove il loro lavoro servirebbe. Le proiezioni sul numero di studenti in Italia nei prossimi dieci anni dicono che al Sud diminuiranno e cresceranno al Nord. E invece, per esempio, in una regione come la Sicilia, ci sono quasi 20 mila precari. Nel decreto, anche per non avere «migrazioni» di professori si sta pensando di irrobustire, con le nuove assunzioni, le scuole nelle zone più problematiche o dove i risultati dei ragazzi nei test internazionali non sono all’altezza, e dunque in molte aree del Sud.

La formazione rinviata
C’è un ultimo non secondario problema che non è stato risolto nei piani del governo: secondo l’approfondimento della Fondazione, di moltissimi di questi insegnanti non si sa nulla, se non i requisiti formali. «La metà di questi precari, che resteranno nella scuola per i prossimi venti anni, risulta non ha insegnato nelle scuole pubbliche negli ultimi anni – continua Gavosto – Una parte certamente lavora nelle scuole private, ma altri potrebbero aver intrapreso altre carriere e tornerebbero soltanto ora in vista di un posto a tempo determinato. Come pensiamo di prepararli al loro lavoro? Non è prevista alcuna verifica della loro preparazione e l’idea di un anno di prova non è sufficiente». Anche di questo si stanno occupando al ministero. Sempre Faraone: «Quest’anno i fondi sono per le assunzioni, il prossimo saranno per la formazione».

Fisco e contribuenti in lite per 52 miliardi

Fisco e contribuenti in lite per 52 miliardi

Cristiano Dell’Oste e Giovanni Parente – Il Sole 24 Ore

Dall’Iva all’Irpef, dai tributi locali all’Irap,le liti con il fisco valgono più di 52 miliardi di euro.Sulle scrivanie dei 3.400 giudici tributari di primo e secondo grado – esclusa quindi la Cassazione – ci sono i fascicoli di 570mila controversie fiscali ancora in attesa di decisione. I dati sono aggiornati al 31 dicembre scorso e sono contenuti nella relazione sullo stato della giustizia tributaria, che sarà presentata giovedì prossimo a Roma e che Il Sole 24 Ore del Lunedì è in grado di anticipare.

Se la mole dell’arretrato resta notevole, va comunque rilevato un calo di 55mila liti pendenti rispetto al 31 dicembre 2013. Ma si tratta di un dato da maneggiare con cura. Di fatto. la diminuzione arriva tutta dalle commissioni tributarie provinciali e dipende più dal calo dei nuovi ricorsi arrivati nel 2014 (21mila in meno) che da un aumento di quelli decisi (mille in più). Si sentono, in particolare, gli effetti dell’introduzione del contributo unificato, cioè la tassa d’ingresso perla giustizia tributaria varata a luglio del 2011, e della mediazione obbligatoria, la procedura che impone di presentare prima del ricorso un’istanza di reclamo agli uffici delle Entrate per le liti fino a 20mila euro di valore. Due novità normative che hanno consolidato un trend già visibile nel 2013.

La situazione non migliora – anzi peggiora – se si guarda alle 21 commissioni tributarie regionali. Qui l’arretrato aumenta e si assiste a una doppia variazione negativa: più ricorsi in appello e meno sentenze depositate. La spiegazione non sembra dipendere dalle carenze in organico, visto che i giudici di secondo grado hanno un tasso di scopertura leggermente più basso rispetto a quelli di primo grado (24% di giudici in meno in Ctr, contro il 27% delle Ctp). Piuttosto, si può immaginare che il calo del contenzioso registrato in primo grado non sia ancora arrivato in appello. Anche perché la durata media di una lite in Ctp è poco superiore ai due anni e mezzo. Tra primo grado e appello un processo tributario dura in media quattro anni e tre mesi. Se però si aggiunge anche la Cassazione si arriva a otto anni. Insomma, anche i giudici della Suprema corte sono in affanno. Tant’è vero che il nuovo presidente della sezione tributaria, Mario Cicala, sta studiando le soluzioni migliori per rendere più efficiente la trattazione. Accelerare i processi tributari non aiuterebbe solo i cittadini, ma anche lo Stato, che potrebbe stabilire definitivamente se ha diritto o no a incassare certe somme contestate.

Secondo le stime del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, il contenzioso pendente – senza contare la Cassazione – vale più di 52 miliardi, tra imposte, sanzioni e interessi per i tributi amministrati da Entrate, Dogane, Equitalia, Regioni, Province e Comuni. Anche ipotizzando che il fisco abbia ragione solo in un caso su due, si tratta di un importo capace di far impallidire una manovra finanziaria di medie dimensioni. È interessante anche vedere “come” si arriva al totale. Dei 52 miliardi pendenti, 19 sono già in appello, mentre il resto è rappresentato dalle liti davanti alle 103 commissioni tributarie provinciali. Ma è soprattutto lo spaccato per fasce di valore a svelare che pochissime liti fanno il grosso degli importi. Per esempio, davanti ai giudici di primo grado le liti con un valore superiore ai 250mila euro sono solo 13mila, ma incidono per 28 miliardi su 33. Al contrario, le controversie di valore fino a 20mila euro sono più di 345mila, ma pesano solo per meno di un miliardo.

Non è un caso chela delega per la riforma fiscale, nel capitolo dedicato al processo tributario, preveda tra l’altro la possibilità di introdurre un giudice unico per le cause minori, di rivedere le soglie per l’«autodifesa» (ora a 2.582,28 euro) e di ampliare le categorie professionali abilitate all’assistenza in giudizio. Misure che dovrebbero affiancarsi al processo telematico e al potenziamento della conciliazione.

Giochi, stretta del governo: via una slot machine su tre

Giochi, stretta del governo: via una slot machine su tre

Roberto Giovannini – La Stampa

Per adesso, più che una notizia è soltanto un avvertimento, visto che la novità scatterà soltanto a partire dal 2017. Sempre che non ci siano ripensamenti. Parliamo delle slot machine, le fatidiche macchinette mangia soldi che tanti considerano un fenomeno sociale non certo edificante, se non davvero pericoloso. Nell’ultima bozza del decreto in tema di giochi in attuazione della delega fiscale – che il governo dovrebbe approvare venerdì prossimo in Consiglio dei ministri – si prevede infatti una drastica riduzione del numero delle slot: dal 2017 ne dovranno sparire almeno un quarto del totale. Altre misure, come un aumento del prelievo fiscale sulle vincite, e una nuova stretta sugli (imperversanti) spot televisivi sui giochi sembrano invece pronte ad entrare in vigore in tempi più stretti. Il testo, dicono i bene informati, potrebbe pero avere bisogno ancora di ulteriori approfondimenti e potrebbe quindi non arrivare, come annunciato nei giorni scorsi, sul tavolo del Consiglio dei ministri del 20 febbraio – quando saranno esaminati i nuovi testi su catasto, compliance, fiscalità internazionale, fatturazione elettronica e probabilmente anche sulle partite Iva.

Scendono le entrate
Per adesso, a leggere la bozza, il taglio delle slot machine (rinviato però al 2017) comporterà certamente una riduzione delle entrate per le casse dell’Erario. Sicuramente sarà una pessima notizia per i tanti bar e locali pubblici che fanno tornare i loro conti con persone che trascorrono ore a premere pulsanti e (quasi sempre) a perdere i loro soldi. Oggi ne sono operative circa 350mila, ma tra un paio di anni con le nuove regole – si potrà installare una macchina ogni 7 metri quadri di superficie del locale pubblico, e in ogni caso non più di 6 macchine in cifra assoluta – si calcola che spariranno dalla circolazione circa 80-100mila «macchinette». Un po’ più di un quarto del totale. Oltre a stabilire vincoli legati a metri quadri e numero massimo di slot, per bar e sale scommesse il decreto stabilirà anche che le slot non devono essere visibili dall’esterno dei locali, devono avere uno spazio dedicato e devono essere, come già previsto, assolutamente vietate ai minori. Le sale da gioco (gaming hall), invece, per avere le «macchinette», devono avere «una superficie non inferiore a 50 metri quadrati» e rispettare il parametro di «un apparecchio ogni 3 metri quadrati».

Giro di vite sulle pubblicità
Scatterà invece immediatamente l’aumento dal 6 all’8% della cosiddetta «tassa sulla fortuna», il prelievo introdotto dal 2012 su giochi numerici, lotterie istantanee e videolottery. La bozza del decreto sui giochi non ha ancora però identificato la soglia di vincita oltre la quale scatterà il prelievo: attualmente è fissata a 500 euro. In arrivo anche una nuova stretta sulla pubblicità: oltre a recepire le norme già in vigore (introdotte con un decreto del governo Monti) che vietano gli spot durante e mezzora prima e dopo programmi destinati ai minori – in tv, in radio, al cinema – si aggiunge infatti lo stop anche in fascia protetta, tra le 16 e le 19. Fatta eccezione per i canali e le trasmissioni sportive o quelli dedicati al gioco.

Premi e assenteismo, se la Corte dei Conti salva solo se stessa

Premi e assenteismo, se la Corte dei Conti salva solo se stessa

Paolo Bracalini – Il Giornale

«Una corruzione devastante per la crescita». Come ogni monito della Corte dei conti anche dall’ultimo esce un Paese allo sbando, una pubblica amministrazione preda di sciacalli, tangentari, ladri di ogni tipo. Ma chi vigila su questo disastro di pubblica amministrazione? La Corte dei conti stessa, per l’appunto. Che però, quando si tratta di giudicare il proprio operato, pur di fronte ad uno scenario descritto come devastante, si promuove a pieni voti. Basta guardare le tabelle sugli incentivi e premi pubblicati dalla magistratura contabile nella sezione «Trasparenza» per l’ultimo anno disponibile, il 2011 (e quelli più recenti?). Anche per i severissimi giudici contabili non ci si distacca da una prassi molto diffusa negli uffici pubblici italiani: la percentuale schiacciante cioè di funzionari modello che si meritano, ogni anno, un premio economico in aggiunta allo stipendio. Nel caso della Corte dei conti, su 2.477 dipendenti totali (circa 600 magistrati), le pecore nere che non hanno avuto incentivi o bonus sono stati soltanto 56, gli altri 2.421 invece hanno incassato premi fino a 1.760 euro a testa per i risultati ottenuti nel controllo di sprechi, opacità e dissesti delle finanze pubbliche, oggetto però di malagestione e corruzione come denunciato dalla stessa Corte. Se la percentuale di premiati si avvicina al 100%, non così avviene per le presenze negli uffici. A gennaio 2014 un terzo degli uffici superava il 30% di assenze, mentre negli ultimi mesi dell’anno ferie e malattie sono calate, anche se con punte del 26% all’Ufficio servizi sociali o e del 27% all’Ufficio centralino.

E come sono i conti della Corte dei conti? Nel decreto di approvazione del bilancio firmato dal presidente Raffaele Squitieri, segnala come le misure della spending review «abbiano inciso in modo evidente anche sulle risorse assegnate alla Corte dei conti». Rispetto al 2014, parliamo di un 5% in meno di fondi. Quest’anno, per il funzionamento della Corte dei conti, andranno 268.427.893 euro, 12 milioni in meno del 2014. La dieta a cui la spending review ha costretto i magistrati contabili – che non sembrano averla gradita particolarmente – non tocca però alcune voci di spesa, definite «non modulabili», cioè intoccabili. Leggiamo: «Risultano incomprimibili le spese non rimodulabili, che incidono per circa il 78% sul totale del bilancio, con una percentuale del 74% riservata alle competenze fisse ed accessorie a favore di tutto il personale. In particolare, per i capitoli relativi al trattamento economico del personale di magistratura si rileva uno stanziamento invariato rispetto a quello del precedente esercizio».

La spesa per gli stipendi e il personale, dunque, resta «incomprimibile». Il totale previsto per questa voce, nel 2015, è di 236 milioni di euro. I vertici hanno subito il taglio della retribuzione al tetto di 240mila euro fissato dal governo. Così, se fino al 30 aprile 2014 al presidente della Corte andavano 311mila euro, ora lo stipendio, al netto di contributi previdenziali e assistenziali, è solo di 227mila euro. Tra i 150mila e i 200mila sono gli altri incarichi di vertice, mentre ai dirigenti vanno dai 70mila ai 135mila. Tra le spese del segretariato generale, «missione tutela delle finanze pubbliche», si trovano 140mila euro per «erogazione dei buoni pasto al personale di magistratura», 475mila euro come «indennità di rimborso spese di trasporto al personale di magistratura per trasferimenti nel territorio nazionale», 84mila per quelle all’estero, 76mila euro per «acquisto mobili e arredi», e 26 milioni complessivi come «retribuzioni corrisposte al personale di magistratura». I quali magistrati, poi, sono spesso impegnati fuori, con incarichi esterni. Il prospetto relativo al primo semestre 2014 conta 76 dipendenti, non solo magistrati, autorizzati a svolgere una funzione in un altro ente pubblico. Comuni, regioni, ministeri, Asl. Dove vengono chiamati a svolgere funzioni apicali. Come il consigliere Luigi Caso, che al ministero del Lavoro ricopre il ruolo di Capo di Gabinetto, o il consigliere Francesco Alfonso, capo dell’Ufficio del consigliere giuridico al ministero dell’Economia; o come i vari magistrati nei consigli di revisori o organismi di controllo di enti pubblici. Cioè proprio quella pubblica amministrazione verso cui la Corte dei conti lancia i suoi ripetuti (e sacrosanti) strali.

E Cottarelli disse: la riforma Madia? Non ha risparmi

E Cottarelli disse: la riforma Madia? Non ha risparmi

Antonella Baccaro – Corriere della Sera

Gli ormai mitici testi della spending review dell’ex commissario Carlo Cottarelli, reclamati da più parti in nome della trasparenza, restano tuttora coperti dal mistero. In compenso l’Istituto Bruno Leoni ha dato alle stampe l’ultimo discorso ufficiale del commissario: la «Lectio Marco Minghetti», tenuta a fine 2014, commentata da Lucrezia Reichlin (London Business School) e Nicola Rossi (Università Tor Vergata Roma). Parole, quelle di Cottarelli, che suonano talvolta caute, talaltra accusatorie. Come quando afferma che «non bisogna farsi illusioni: la riforma è stata avviata ma è lontano dall’essere completata», o quando ammette che la parte del leone nella spending «l’hanno fatta i tagli alle spese di beni e servizi», e che va verificato ex post che «gli enti territoriali siano riusciti effettivamente a raggiungere i risparmi» senza aumenti di tasse.

Ed ecco i messaggi in bottiglia: al ministro della Funzione pubblica, Marianna Madia, dice che «gli obiettivi della riforma della P.a. non sembrano includere, almeno non esplicitamente, il risparmio di risorse»: «Spero si possa ovviare» è la chiosa. E ancora: «Non si può tar tinta che (con i tagli ndr) non ci siano risparmi in termini di personale». Al governo (Letta e Renzi, l’incarico di Cottarelli è a cavallo tra i due esecutivi) rimprovera la mancanza di obiettivi: «In un anno non ho mai sentito dire che una certa proposta di spesa non è accettabile perché è contraria ai nostri principi fondamentali su quello che lo Stato dovrebbe fare». Ma anche che «occorre riconoscere che spesso scelte impopolari sono necessarie». E possono «comportare revisioni che toccano non solo i soliti “pochi privilegiati”, ma anche un’ampia fascia della popolazione».

Ed è ancora un’accusa quella del commissario che dice: «La complessità dei testi legislativi è tale che i vertici dei ministeri a partire dai ministri hanno difficoltà» a seguirne la definizione: «Non è talvolta chiarissimo chi abbia scritto materialmente questo o quell’altro comma». O quando, sull’attuazione delle leggi, sollecita «controlli di sostanza e non di forma» e «penalità in caso di mancata implementazione». Infine una curiosità: proponendogli l’incarico, il ministro del Tesoro, Fabrizio Saccomanni, spiegò che «si cercava una figura che elevasse il profilo del dibattito sulla revisione della spesa». D’accordo sul profilo ma il bilancio, commenta Rossi, è «piuttosto deludente». Alla spending è «mancata una motivazione» di fondo, conclude Lucrezia Reichlin.