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Fisco e contribuenti in lite per 52 miliardi

Fisco e contribuenti in lite per 52 miliardi

Cristiano Dell’Oste e Giovanni Parente – Il Sole 24 Ore

Dall’Iva all’Irpef, dai tributi locali all’Irap,le liti con il fisco valgono più di 52 miliardi di euro.Sulle scrivanie dei 3.400 giudici tributari di primo e secondo grado – esclusa quindi la Cassazione – ci sono i fascicoli di 570mila controversie fiscali ancora in attesa di decisione. I dati sono aggiornati al 31 dicembre scorso e sono contenuti nella relazione sullo stato della giustizia tributaria, che sarà presentata giovedì prossimo a Roma e che Il Sole 24 Ore del Lunedì è in grado di anticipare.

Se la mole dell’arretrato resta notevole, va comunque rilevato un calo di 55mila liti pendenti rispetto al 31 dicembre 2013. Ma si tratta di un dato da maneggiare con cura. Di fatto. la diminuzione arriva tutta dalle commissioni tributarie provinciali e dipende più dal calo dei nuovi ricorsi arrivati nel 2014 (21mila in meno) che da un aumento di quelli decisi (mille in più). Si sentono, in particolare, gli effetti dell’introduzione del contributo unificato, cioè la tassa d’ingresso perla giustizia tributaria varata a luglio del 2011, e della mediazione obbligatoria, la procedura che impone di presentare prima del ricorso un’istanza di reclamo agli uffici delle Entrate per le liti fino a 20mila euro di valore. Due novità normative che hanno consolidato un trend già visibile nel 2013.

La situazione non migliora – anzi peggiora – se si guarda alle 21 commissioni tributarie regionali. Qui l’arretrato aumenta e si assiste a una doppia variazione negativa: più ricorsi in appello e meno sentenze depositate. La spiegazione non sembra dipendere dalle carenze in organico, visto che i giudici di secondo grado hanno un tasso di scopertura leggermente più basso rispetto a quelli di primo grado (24% di giudici in meno in Ctr, contro il 27% delle Ctp). Piuttosto, si può immaginare che il calo del contenzioso registrato in primo grado non sia ancora arrivato in appello. Anche perché la durata media di una lite in Ctp è poco superiore ai due anni e mezzo. Tra primo grado e appello un processo tributario dura in media quattro anni e tre mesi. Se però si aggiunge anche la Cassazione si arriva a otto anni. Insomma, anche i giudici della Suprema corte sono in affanno. Tant’è vero che il nuovo presidente della sezione tributaria, Mario Cicala, sta studiando le soluzioni migliori per rendere più efficiente la trattazione. Accelerare i processi tributari non aiuterebbe solo i cittadini, ma anche lo Stato, che potrebbe stabilire definitivamente se ha diritto o no a incassare certe somme contestate.

Secondo le stime del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, il contenzioso pendente – senza contare la Cassazione – vale più di 52 miliardi, tra imposte, sanzioni e interessi per i tributi amministrati da Entrate, Dogane, Equitalia, Regioni, Province e Comuni. Anche ipotizzando che il fisco abbia ragione solo in un caso su due, si tratta di un importo capace di far impallidire una manovra finanziaria di medie dimensioni. È interessante anche vedere “come” si arriva al totale. Dei 52 miliardi pendenti, 19 sono già in appello, mentre il resto è rappresentato dalle liti davanti alle 103 commissioni tributarie provinciali. Ma è soprattutto lo spaccato per fasce di valore a svelare che pochissime liti fanno il grosso degli importi. Per esempio, davanti ai giudici di primo grado le liti con un valore superiore ai 250mila euro sono solo 13mila, ma incidono per 28 miliardi su 33. Al contrario, le controversie di valore fino a 20mila euro sono più di 345mila, ma pesano solo per meno di un miliardo.

Non è un caso chela delega per la riforma fiscale, nel capitolo dedicato al processo tributario, preveda tra l’altro la possibilità di introdurre un giudice unico per le cause minori, di rivedere le soglie per l’«autodifesa» (ora a 2.582,28 euro) e di ampliare le categorie professionali abilitate all’assistenza in giudizio. Misure che dovrebbero affiancarsi al processo telematico e al potenziamento della conciliazione.

Oltre le tasse, la difficoltà di scrivere buone regole

Oltre le tasse, la difficoltà di scrivere buone regole

Cristiano Dell’Oste – Il Sole 24 Ore

Facciamo un po’ di storia. Alla fine del 2011 la manovra salva-Italia introduce l’Imu. Negli anni seguenti, le compravendite di abitazioni – già in discesa rispetto alle 877mila del 2006 – arrivano fino alle 407mila del 2013, con un trend ancora in calo quest’anno. Nel frattempo, non si allenta la stretta sui mutui, crollano gli investimenti in nuove costruzioni e aumenta la morosità degli inquilini. Intendiamoci, non è solo colpa delle tasse. Ma è evidente che la pressione fiscale sul mattone, unita alla crisi economica, costringe i proprietari di immobili e le imprese di costruzioni a barcamenarsi in una situazione di equilibrio sempre più precario. Il rischio concreto è quello di avvitarsi in una spirale recessiva sempre più grave, dove la crisi chiama altre tasse, che a loro volta generano altra crisi, e così via all’infinito.

I dati elaborati da Assimpredil, però, consentono anche di sviluppare una riflessione in chiave positiva. Se è vero che le imposte oggi erodono buona parte dell’investimento immobiliare realizzato da un’impresa di costruzioni, è altrettanto vero che questo investimento – se il contesto regolatorio e fiscale fosse ottimizzato – potrebbe tradursi in un gioco a somma positiva: riqualificazione urbana, nessun consumo di suolo, imposte per lo Stato e i Comuni, profitti per i costruttori, nuove abitazioni (o uffici, o negozi) per i privati. Chiedersi perché questo non avvenga, è la domanda chiave.

Deve far riflettere, in questo senso, la leggerenza con cui i parlamentari nelle scorse settimane hanno ipotizzato un emendamento allo “sblocca Italia” – poi liquidato dal ministro delle Infrastrutture – che avrebbe aumentato al 22% l’Iva sugli acquisti dal costruttore. Non proprio il massimo della lungimiranza, in un periodo come questo. Allo stesso modo, deve far riflettere – nel bene e nel male – l’esperienza della detrazione del 65% per il risparmio energetico, che il Ddl di stabilità si propone di prorogare anche per il 2015: dopo anni di tira-e-molla, ci si è resi conto che l’agevolazione si ripaga praticamente da sola, tra incremento dei cantieri, contrasto al lavoro nero e sostegno alle imprese del settore. Eppure, il catalogo dei lavori premiati è quasi identico a quello stilato dalla Finanziaria 2007, e i piani per estenderne l’utilizzo sono sempre rimasti nel cassetto.

Anche i continui ritocchi alla disciplina dei permessi edilizi – ultimo in ordine di tempo quello dettato dallo “sblocca-Italia”- lasciano qualche perplessità. Da un lato, va detto che servirebbe un intervento organico. Dall’altro, bisogna ricordare che spesso le procedure non si inceppano al livello del Testo unico dell’edilizia, ma negli uffici comunali. Insomma, se il circolo virtuoso non si innesca, non è solo perché non si possono abbassare le tasse. È anche perché scrivere buone regole, abbandonare vecchie abitudini amministrative e disciplinare al meglio i bonus fiscali esistenti si rivela spesso troppo complicato. Una lezione da non dimenticare mentre ci si prepara a scrivere la nuova local tax che sostituirà Imu e Tasi.

La Tari alza il conto per le famiglie numerose

La Tari alza il conto per le famiglie numerose

Cristiano Dell’Oste e Michela Finizio – Il Sole 24 Ore

L’unica consolazione è che il bollettino arriva a casa precompilato: la Tari sui rifiuti – diversamente dalla quasi omonima Tasi – non impone ai cittadini di farsi da soli i calcoli. Se però si guardano le cifre, si scopre che il tributo per la raccolta e lo smaltimento della spazzatura spesso è più pesante della service tax sugli immobili. La Tari segue il calendario stabilito da ogni Comune, e in molte città l’acconto è in scadenza in questi giorni. Per una famiglia di tre persone che vive in un appartamento medio-grande, il conto su base annua può andare dai 118 euro di Oristano ai 482 euro di Napoli, con un livello medio di 342 euro.

I dati emergono dalle elaborazioni condotte da Ref Ricerche su un campione di 51 capoluoghi di provincia, ed evidenziano due trend ormai consolidati. Da un lato, un aumento medio del prelievo del 12-13% negli ultimi quattro anni, con punte del 25% per le famiglie numerose. Dall’altro, grandi differenze territoriali, con il servizio che in alcune città costa il triplo o il quadruplo che in altre. Come si spiega questa evoluzione del prelievo? «Gli aumenti – afferma Donato Berardi direttore del laboratorio servizi pubblici locali di Ref Ricerche – dipendono in primo luogo dal taglio dei trasferimenti agli enti locali e dall’introduzione del principio secondo cui il tributo deve coprire i tutti i costi del servizio: se nel 2010 la copertura era dell’85%, oggi si arriva di fatto al 100 per cento». Ma ci sono anche altre spiegazioni. Sull’andamento del tributo, infatti, incide anche l’adozione del principio comunitario «chi inquina paga»: in assenza di criteri di misurazione effettiva della quantità di rifiuti prodotti, molte città hanno intanto alzato il prelievo in base al numero degli occupanti dell’immobile. E poi, conclude Berardi, «non va dimenticato che le variazioni di tariffa possono riflettere anche presenza di costi del servizio molto diversi sul territorio. In particolare, dove la raccolta non è efficiente o non ci sono discariche o impianti adeguati, la spesa per le famiglie tende ad aumentare».

Non è un caso, allora, che il conto della Tari raggiunga il picco massimo proprio a Napoli, dove da anni si combatte contro l’emergenza rifiuti, sia per i single (198 euro per 50 mq) sia per le famiglie di cinque persone (628 euro per 120 mq). «I prelievi più marcati – aggiunge Berardi – spesso nascondono problemi di finanza pubblica oppure tecnologie di gestione dei rifiuti più o meno trascurate». Tra le città con i costi più alti, ad esempio, c’è anche Alessandria, da tempo in difficoltà finanziaria.

Oltre all’importo totale, c’è anche un altro aspetto importante da valutare: la progressione del prelievo in base al numero di occupanti. Che una famiglia di tre persone paghi più di un single è assodato, ma “quanto” di più dipende dalla modulazione della tariffa scelta a livello comunale. È Cremona, in particolare, a differenziare maggiormente il tributo in base al numero di occupanti, a parità di superficie: qui il conto in euro al metro quadrato per le famiglie di cinque persone è dell’80% superiore a quello per i single. La maggior parte dei Comuni, però, sceglie di non “stressare” troppo questo criterio: una ventina di città introduce differenze minori del 10% tra i single e le famiglie di tre persone, sempre ragionando a parità di metratura. D’altra parte, il numero degli occupanti è solo un surrogato di un vero criterio di misurazione dei rifiuti. Ma sono ancora pochi gli enti locali che applicano criteri puntuali più incisivi, legati ad esempio al conteggio degli svuotamenti dei cassonetti o al peso dei sacchetti. A influenzare, infine, gli aumenti sulla tariffa rifiuti è anche la morosità dei contribuenti che, sempre secondo Ref Ricerche, in alcune città arriva a toccare tassi a doppia cifra, imponendo di fatto un sussidio a carico delle altre utenze.

Equitalia, 475 miliardi da recuperare

Equitalia, 475 miliardi da recuperare

Cristiano Dell’Oste e Giovanni Parente – Il Sole 24 Ore

Valgono un quinto del debito pubblico le somme che i contribuenti italiani devono pagare a Equitalia: 474,5 miliardi di euro. Una cifra enorme, in gran parte derivante dall’evasione fiscale, e che tra l’altro conteggia solo i ruoli affidati al concessionario dalle Entrate alla data del 31 dicembre 2013. Ma in alcuni casi si sa già che il recupero sarà quasi impossibile: il 25% dei debiti con il Fisco – oltre 120 miliardi – è a carico di soggetti falliti. I numeri sono stati forniti ieri dal sottosegretario all’Economia, Enrico Zanetti, nel question time in commissione Finanze alla Camera, e danno l’esatta dimensione di uno stock sul quale nei giorni scorsi erano circolate le cifre più diverse. Al totale si arriva conteggiando, oltre alle imposte non versate, anche le sanzioni e gli interessi. Due voci che costituiscono la metà del “carico netto” di Equitalia. Gli interessi, in particolare, arrivano a 39,7 miliardi e corrispondono al 17,4% dei tributi non pagati.

Contando anche le società di capitali, le società di persone e gli enti non commerciali, in media ogni contribuente italiano deve versare a Equitalia quasi 12mila euro per debiti con l’agenzia delle Entrate, ma di fatto in 13 regioni su 20 gli importi stanno nella forbice tra 7mila e 10mila euro, e senza neppure grandi differenze tra Nord e Sud. Ad alzare la media sono il Lazio (21mila euro), la Campania (15mila) e la Lombardia (14mila). Regioni nelle quali storicamente il debito con Equitalia è più alto, ma per le quali vanno ricercate anche spiegazioni diverse: in Lazio e Lombardia potrebbe pesare la presenza della sede di grandi imprese o, comunque, di debitori con importi maggiori. In Campania, invece, ci sono soltanto 3,2 milioni di contribuenti su 5,7 milioni di abitanti, e questo si riflette sulle statistiche.

Oltre alle somme che dovrebbero essere versate da società e imprenditori falliti – e che sarà quasi impossibile recuperare – ci sono anche una ventina di miliardi per i quali i giudici tributari hanno decretato la sospensione della riscossione durante il processo. Anche escludendo queste cartelle, però, resta una cifra altissima – superiore ai 330 miliardi – che appare fuori scala rispetto ai 3,7 miliardi riscossi da Equitalia nei primi sei mesi di quest’anno, secondo i dati diffusi ieri dallo stesso agente. Di questo passo, insomma, servirebbero 40 anni per abbattere lo stock, sempre a patto che altri debiti non diventino nel frattempo inesigibili. D’altra parte, Equitalia – da quando esiste – ha moltiplicato gli importi riscossi rispetto all’attività dei vecchi concessionari, e non si può dimenticare che dal 2011 Governo e Parlamento hanno introdotto una serie di norme per allentare la presa su aziende e contribuenti, già provati dalla crisi. Nel primo semestre 2014, ad esempio, gli importi recuperati sono rimasti in linea con quelli dell’anno scorso nonostante la possibilità di riscossione sia stata di fatto congelata dalla rottamazione dei ruoli scaduta a fine maggio. Senza dimenticare – ultima misura in ordine di tempo – la chance di essere riammessi alla rateazione fino a un massimo di sei anni anche per chi era decaduto al 22 giugno dell’anno scorso.

Il problema, insomma, non è tanto nell’attività di riscossione, ma nell’entità del debito, oltre che nella situazione economica. La stessa Equitalia ieri ha comunicato che al 30 giugno scorso al risultavano attive più di 2,3 milioni di rateazioni (in questo caso fino a un massimo di dieci anni) per un ammontare di 25,6 miliardi di euro.