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Dalla ragione su tutto alla ragione su niente

Dalla ragione su tutto alla ragione su niente

Italia Oggi

Un tempo i matti erano gli altri, i «destri», quelli che ignoravano l’Abc del retto pensiero progressista in tema di cinema, d’economia, di balletto classico, di cucina, di filosofia e soprattutto di lavoro. Adesso i matti sono loro. A dirglielo è il loro stesso segretario generale: avete torto su tutto, sulla cultura, sull’economia e sul balletto classico, sui formaggi tipici e sul cinema, ma soprattutto avete torto in fatto di lavoro.

Per trent’anni non hanno mai smesso di difendere l’art. 18 (è l’articolo dello Statuto dei lavoratori, aprendo una parentesi, che negli anni settanta i comunisti avevano avversato di più) e adesso Renzi lascia che se ne parli come d’un malato terminale: due fiori, una prece e amen, si torna alle regole del mercato. Sono diventati tutti dei «Fassina chi» e dei «Bersani cosa». A lungo, per esempio nelle fantasie letterarie degli opinionisti di Repubblica, i progressisti sono stati dipinti come X-Men dei fumetti: mutanti, antropologicamente superior, una o due spanne sopra l’homo sapiens. Tutti pendevano dalle loro labbra. Adesso parlano e nessuno li capisce più. Sono sbertucciati da tutti. Dal Comico, dal loro stesso segretario, tra un po’ anche da Repubblica.

Jobs Act: tanti annunci, pochi fatti e le imprese congelano le assunzioni

Jobs Act: tanti annunci, pochi fatti e le imprese congelano le assunzioni

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

L’economia vive di aspettative razionali. Robert Lucas nel 1995 ricevette il premio Nobel per aver dimostrato con sofisticati modelli come individui e imprese usino in modo efficiente le informazioni che hanno a disposizione per orientare consumi e investimenti senza commettere errori frequenti. Il governo Renzi nel portare avanti la riforma del mercato del lavoro non appare, invece, eccessivamente preoccupato delle distorsioni che gli annunci ripetuti non seguiti dai fatti possono provocare nel regolare svolgimento di un mercato. Il Jobs Act doveva prendere forma in G.U. dopo un mese, forse due dall’insediamento dell’attuale esecutivo. Ad oggi siamo ancora ai prolegomeni della nuova riforma che nel frattempo è stata data per fatta almeno una ventina di volte tra Tweet e passaggi parlamentari o interviste varie di vari esponenti del governo. Si abolisce l’art. 18 come chiede senza se e senza ma Angelino Alfano. L’art. 18 non si tocca per parte importante del Pd, perché non è al centro del programma. Solo per i neoassunti l’art. 18 sparirà. O ancora diventerà un art. 18 a tutele crescenti con il passare del tempo ma senza obbligo di reintegro per le imprese in caso di licenziamento. Eppoi ancora promesse di bonus fiscali per i neoassunti o di esenzioni Irap per i nuovi posti creati in favore delle aziende.

Passano le settimane e del Jobs Act restano solo gli annunci e le proposte che, in ordine sparso, si candidano a riformare il mercato del lavoro. Risultato? Le imprese hanno smesso di assumere con contratti a tempo indeterminato, restano alla finestra e cercano di capire dove si fermerà il pendolo di questa logorrea riformista. Nel frattempo solo contratti a termine o occasionali vengono conclusi. È la legge delle aspettative razionali applicata alla follia della politica economica italica modellizzata da Lucas tanti anni fa. Razionalmente le imprese, non sapendo cosa succederà nell’immediato futuro, smettono di prendere posizioni contrattuali definitive rispetto al fattore di produzione lavoro. Così agendo, evitano di incorrere in un maggior potenziale costo da minor flessibilità o di perdere potenziali incentivi. Tutto perfettamente razionale, talmente razionale che resta un mistero su come l’esecutivo possa tenere aperto per così tanti mesi un dossier tanto critico come il Jobs Act. Soprattutto perché l’Italia è un paese in deflazione, in recessione da tre anni consecutivi e che vanta una disoccupazione superiore al 12,6%, quindi interessato a inviare ben altri segnali agli investitori potenzialmente capaci di creare nuova occupazione. Morale: crescerà il 52,9% di under 25 già oggi occupati con contratti precari.

Renzi s’è proprio stancato delle manfrine sindacali

Renzi s’è proprio stancato delle manfrine sindacali

Sergio Soave – Italia Oggi

Il discorso che Matteo Renzi ha voluto pronunciare per illustrare il programma di legislatura del suo governo aveva lo scopo di rintuzzare le critiche di chi, non senza ragioni in Italia e in Europa, contrappone l’ampiezza degli impegni assunti alla miseria dei risultati raggiunti, ma, soprattutto, serviva a lanciare un messaggio chiaro ai settori riottosi della sua maggioranza e del suo partito. Rimettere in testa all’agenda la riforma elettorale, che era finita nelle sabbie mobili dopo l’approvazione ottenuta alla Camera, significa rendere possibile la via d’uscita di elezioni anticipate nel caso in cui la maggioranza si squagli sui temi più controversi. Ai suoi gruppi parlamentari Renzi deve far digerire la riforma del mercato del lavoro che sostituisce indennizzi all’obbligo di riassunzione previsto dall’articolo 18 e all’alla giustizialista un avvio di riorganizzazione del sistema giudiziario che parta dal settore apparentemente meno minato della giustizia civile. Agli alleati centristi, soprattutto a quelli che insistono sulla loro ispirazione cristiana, invece deve far digerire una qualche forma di riconoscimento delle unioni di fatto.

Su questi temi cruciali il premier è stato abbastanza chiaro, anche se non è entrato nei dettagli, il che consente ai suoi sostenitori di esibirsi in lodi per la concretezza del messaggio, ai dissenzienti (che non coincidono con gli oppositori al suo governo) di lamentare che si tratta sempre e solo di parole. Un punto però è stato affrontato con decisione: se ci saranno ostacoli all’applicazione della delega sulla riforma del mercato del lavoro, il governo agirà per decreto. È un modo per far intendere a sindacati e oppositori interni che non saranno tollerate più altre manovre dilatorie, che su questa questione, quella della flessibilità in uscita del mercato del lavoro, che viene peraltro messa al primo posto come priorità dalle indicazioni di tutte le autorità sovranazionali a cominciare dalla Bce di Mario Draghi, il governo vuole arrivare a una decisione, più o meno nelle direzioni indicate da Maurizio Sacconi e da Pietro Ichino, che pare siano diventate convergenti. Molti diranno che è poco, il che si può sempre dire, ma se Renzi riuscirà davvero ad archiviare i due elementi di subalternità storica della sinistra italiana, al sindacalismo radicale sul mercato del lavoro, al giustizialismo sulle garanzie, avrà cambiato e nella direzione giusta anche se forse impopolare tratti essenziali della tradizionale imballatura ideologica che rende da decenni sterile il ventre del riformismo italiano.

Le riforme annunciate adesso non bastano più

Le riforme annunciate adesso non bastano più

Marco Bertoncini – Italia Oggi

L’invito del commissario europeo Katainen (Non basta mettere in agenda le riforme, bisogna applicarle) riecheggia stimoli di molti commentatori. Siccome la fase fabulatoria di Matteo Renzi procede, è invitato a smetterla con frasi a effetto, messaggini, battute. Gli arrivano esortazioni a riflettere sulle priorità.

Nella situazione economica e finanziaria, nella condizione dei conti pubblici, con la salita del debito e del peso fiscale, anche da personaggi favorevoli al riformismo predicato da R. giungono consigli: scelga, presto, quali siano le riforme meglio rispondenti alle esigenze di questi mesi. E tenga presente la condizione di Camera e Senato. Finora Renzi ha peccato (per presunzione?; per ignoranza?) di sottoconsiderazione per tempi, riti, problemi, numeri in Parlamento. Non tiene in sufficiente conto, per esempio, la legge di Stabilità, con relative sessioni di bilancio. Eppure al medesimo strumento legislativo sono state rinviate decine di disposizioni originariamente previste nel decreto- legge sblocca Italia (e non solo in esso), uscito pesantemente ridimensionato rispetto all’originale.

È diffuso, insomma, l’invito a lasciar andare le promesse sulla rivoluzione totale, quasi su una rinnovata «ricostruzione futurista dell’universo», per passare a poche indispensabili riforme, immediatamente attuabili, che producano effetti tanto entro poco tempo quanto in futuro. Non si tratta soltanto di rispondere a quel che (si dice spesso a vanvera) ci è chiesto dall’Europa, dalle organizzazioni internazionali, dalla Banca europea ecc. Si tratta di darsi alcuni obiettivi, grandi e strategici, e d’imporli, prima di tutto al Pd, poi alle Camere. Altrimenti, è facile prevedere una nemmeno lenta corrosione del fenomeno Renzi.

Leggi balorde ed enti locali scoppiati si oppongono ai nuovi posti di lavoro

Leggi balorde ed enti locali scoppiati si oppongono ai nuovi posti di lavoro

Pierluigi Magnaschi – Italia Oggi

Gli economisti la fanno facile. Apri lì, chiudi là. Il grafico parla chiaro. La correlazione spiega tutto. Il risultato finale però è che, con il denaro quasi a costo zero (ma solo per le banche), nessuno assume più nessuno in Italia. È vero che l’articolo 18 non ispira fiducia. Che il codice del lavoro, in pratica, non esiste e, in ogni caso, le norme che ci sono, hanno una complessità tale da non essere traducibili in inglese, una lingua fattuale, non bizantina come quella che usano i nostri burocrati ma che, in ogni caso, è anche la lingua degli affari, qualsiasi sia la nazionalità dei contraenti. Ma è soprattutto vero, e questo è il punto, che in Italia non c’è un pensiero di massa favorevole all’investimento e quindi alla creazione di nuovi posti di lavoro che producono più ricchezza di quanta ne distruggano.

Fin che i posti di lavoro (veri o falsi) li poteva creare la filiera pubblica (Stato ed Enti locali) il guaio della non creazione di nuovi posti di lavoro era ugualmente presente ma era poco percepito. Ma adesso che la pubblica amministrazione non può più assumere, o sta assumendo con il contagocce, il problema è diventato drammatico come ben illustrato, sinteticamente, dai livelli stellari della disoccupazione giovanile che, in alcune aree del Sud, raggiunge il 70%.

Dagli anni 70 in poi (e lo Statuto dei lavoratori ne è un esempio; ma non certo il solo; né il più pericoloso per l’occupazione) è prevalsa, nel nostro paese, la cultura anti-industrialistica, come risultato del matrimonio fra il movimentismo sessantottardo, il comunismo impermeabile alle dure repliche della storia e il sinistrismo cattolico (diventato, nel frattempo, ateo) ma basato sempre sulla certezza che, alla fine, interverrà la provvidenza a sistemare le cose nate male e costruire peggio. Questo mix ha prodotto una mentalità legislativa devastante che si è tramutata in leggi e regolamenti incomprensibili e che spesso rasentano la demenza, che però sopravvivono al mutato clima intervenuto nel Paese e che spesso impediscono ai burocrati avveduti (ce ne sono) di evitare di creare ostacoli allo sviluppo.

Con norme stupide, anche un burocrate intelligente opera da stupido. Un esempio? Il Politecnico di Milano decide di impartire in inglese l’insegnamento per la laurea specialistica, ambito nel quale i testi di riferimento sono già al 90% in questa lingua. Ebbene, un professore in arretrato sui tempi ricorre al Tar. E il Tar gli dà ragione. Da qui l’accusa che quel magistrato del Tar è uno stupido. No, non è stupido. Ha solo obbedito (come deve) a una legge, quella sì stupida, che, essendo del 1933, in piena epoca fascista, esprimeva un momento in cui il mito italico era stato ingigantito da Mussolini. Il guaio, in questo caso, non è quindi del Tar ma del legislatore (che si dice, da 70 anni, democratico e antifascista) ma che non ha provveduto a cancellare questa norma, appunto, fascista.

Il Corriere della Sera di ieri, in un ottimo articolo da Londra di Michele Farina, ha bene illustrato il calvario di un’imprenditrice inglese innamorata del Salento, nel tentativo di realizzare a Nardò, «in una zona semi-abbandonata con la spazzatura in giro» un resort basato sull’ecoturismo e legato a Slow Food. Un resort che fosse «qualcosa di bello da cui guadagnassero tutti». Per realizzare questo obiettivo, aveva stanziato 70 milioni di euro che però non hanno potuto essere spesi per l’ignavia della Regione (ma non dell’amministrazione comunale e persino dei sindacalisti locali che, onore al merito, si sono immediatamente schierati a sostegno del progetto). Subito è partito «un ricorso al Tar», dice l’imprenditrice inglese. «Il Tar ci ha dato ragione. Ma, subito dopo, è arrivato l’appello. Adesso siamo al Consiglio di stato. Ma la sentenza potrebbe arrivare fra due anni. Non si sa». L’imprenditrice intanto chiede un incontro con la Regione Puglia: «Mi ha accompagnato», spiega, «anche il mio partner nel progetto, Ian Taylor, broker nel petrolio. In Regione ci hanno concesso mezz’ora. Mezz’ora per rispondere a una domanda: Possiamo parlarne? Cosa possiamo fare? La risposta è stata: Forse».

L’imprenditrice coinvolta in questo caso, Allison Deighton, è moglie di Lord Paul Deighton, sottosegretario al tesoro britannico, ex top manager di Goldman Sachs. «Mio marito», dice la Deighton, «era contrario. Oltretutto, il suo lavoro è attirare gli investitori in Gran Bretagna. Adesso lo so anch’io: investire in Italia mette paura». Anche se lo fai per amore dell’Italia, anzi del Salento. Una prece. Per noi. Per i nostri figli e nipoti. Altro che riforma del Senato.

Tassare la capacità contributiva invece dei patrimoni virtuali

Tassare la capacità contributiva invece dei patrimoni virtuali

Corrado Sforza Fogliani – Italia Oggi

Il tema è uno, e uno solo: che le tasse devono colpire la reale capacità contributiva anche secondo il precetto costituzionale. Soprattutto se il Fisco vuole essere rispettato e vuole essere un Fisco civile. A cominciare dall’annuale nostro convegno che si tiene oggi a Piacenza (a segnare la nuova stagione del mercato immobiliare) iniziamo una campagna serrata su questo punto. Basta colpire i risparmiatori dell’edilizia tassando rendite catastali (aumentate del 5% da Prodi, e a livelli smodati da Monti) che «fabbricano» artificialmente un reddito che non c’è, per colpirlo (esattamente quel che già capita anche per le aree fabbricabili, tali, nell’attuale congiuntura, solo per il Fisco, una vergogna sesquipedale). Basta tassare anche immobili collabenti, comunque inagibili o che non si riesce ad affittare (per una crisi che i politici riescono solo ad aggravare), basta con i macroeconomisti e le loro strambe teorie, al di fuori della realtà. Basta, basta, basta quello e basta questo. La crisi si risolve ricreando la fiducia. E la fiducia diffusa (diffusa, cioè, quanto è diffusa la proprietà delle case) ritornerà quando ritornerà la convenienza nell’investimento immobiliare, perché l’affitto della proprietà diffusa tornerà a rendere qualcosa.

Finché si continua a parlare per slogan desueti, acriticamente accettati, la ripresa non arriverà mai. Se la coperta è corta, è perfettamente inutile cercare di tirarsela addosso per intero più di quanto già ciò non avvenga. Chi continua a dire che la ricchezza immobiliare è statica, ignora che (come tutti gli studiosi di economia sanno) vi è una ricchezza immobiliare ferma e un’altra dinamica. Soprattutto, è inutile continuare a voler dare addosso a una ricchezza che non c’è più, addirittura sostenendo che il costo degli immobili è elevato, quando ogni passante in strada sa che i prezzi sono crollati e che si è distrutto ogni risparmio. La spesa per i consumi (lo sa ogni semplice massaia) diminuisce per l’emergenza sociale in atto, non certo perché sia immobilizzata, quand’anche ci fosse e, poi, soprattutto perché, crollati i valori delle case, gli italiani non si sentono più garantiti dagli stessi in caso di difficoltà (e, quindi, non spendono, conservano quella liquidità di cui le banche, per mancanza di corrette richieste e di altrettanto corretti investimenti, sono piene). La redistribuzione del carico tributario deve esserci, certo. Ma non sulla base del ritornello lavoro ed imprese, ma sulla base dei reali redditi, come si fa nei Paesi civili qual è la Germania, ove ogni forma di tassazione patrimoniale è stata cancellata, e ciò anche se da noi i mandarini di Stato e di organismi vari, più o meno parassitari, continuano a fare il tifo per essa per mettersi al riparo loro e le loro megaretribuzioni.

Gutgeld succederà a Cottarelli

Gutgeld succederà a Cottarelli

Michele Arnese – Italia Oggi

Chi sarà il successore di Carlo Cottarelli come commissario alla revisione della spesa pubblica? Alla domanda, alcuni renziani rispondono: non abbiamo bisogno di chiamare dall’esterno un Cottarelli o un altro Enrico Bondi, perché il «commissario» lo abbiamo già in casa. E si chiama, dicono, Yoram Gutgeld, nato a Tel Aviv nel ’59, filosofo e matematico di formazione, manager e consulente strategico per imprese e istituzioni. Il «Cottarelli renziano» ha tre caratteristiche che lo rendono agli occhi del premier Matteo Renzi adatto al ruolo di stratega della spesa pubblica, da riformare, da riorganizzare e da tagliare.

Primo: ha una sensibilità politicasuperiore a Cottarelli, che è sulla via del ritorno al Fondo monetario internazionali; infatti Gutgeld dal 2013 è deputato del Pd e membro della Commissione Finanze, oltre che esperto ascoltato da tempo a Palazzo Chigi proprio su questioni sui costi statali. Materia in cui servono decisioni politiche e non più, e non solo, dissertazioni e ipotesi tecniche (visti anche i risultati non entusiasmanti di personalità del calbro diPiero Giardacome ammesso dallo stesso Giarda in un rapporto della Cattolica).

Seconda caratteristica di Gutgeld: è esperto di riorganizzazioni in aziende ed enti, visto che per 24 anni ha lavorato in McKinsey ed è stato tra l’altro consulente di vari governi, come ad esempio quello israeliano per la spesa militare.

Terza caratteristica: Gutgeld, dicono molti renziani, forse per la sua personalità riesce a dialogare in maniera fruttuosa con i vertici del ministero dell’Economia. Capacità che non tutti i renziani, e le renziane, come ad esempio Antonella Manzione capo del Dagl (Dipartimento affari giuridici e legislativi), possono vantare nei confronti delle strutture del dicastero retto da Pier Carlo Padoan.

A Palazzo Chigi si nutre dunque fiducia sul lavoro del deputato-tecnico, che peraltro non inizia da zero. Da tempo, per conto di Renzi, è al lavoro sul bilancio statale. E da mesi, se non da anni, elabora ipotesi e studi su come rendere più produttiva la spesa pubblica anche attraverso i tagli. Nel suo ultimo libro «Più uguali più ricchi» edito lo scorso ottobre da Rizzoli si possono scorgere soluzioni di metodo e di merito. Il metodo Gutgled? Eccolo, in sintesi. Il primo anno si deve studiare, elaborare un piano e condividerlo con le strutture. Un commissario può coordinare, ma il lavoro va fatto dentro i ministeri e richiede il loro coinvolgimento. Il secondo punto è che si devono elaborare piani industriali dettagliati. Il terzo è procedere con leggi a «kilometro 0» (non si va da nessuna parte con leggi delega, alle quali seguono decreti legislativi, ai quali seguono regolamenti attuativi, ecc). Quarto, gli obiettivi devono essere misurabili e trasparenti, con un responsabile preciso. Infine ci vuole meritocrazia.

Facile a dirsi, difficile a farsi. L’obiettivo «politico» per Gutgeld? «Servirebbe», scriveva circa un anno fa, «una riduzione strutturale e sostenibile dei costi per la macchina pubblica di almeno 20-30 miliardi l’anno per consentire una significativa riduzione delle tasse sul lavoro». E per far questo, bisogna evitare tre errori, aggiungeva. Ovvero: no a interventi una tantum ma strutturali, si possono ridurre i costi senza intaccare la qualità e, infine, niente «tagli lineari». Ma forse il lavoro di Gutgeld inizierà facendo uno strappo alla regola.

Renzi liberi l’Inps dai sindacati e sblocchi 736 miliardi per fare il Pil

Renzi liberi l’Inps dai sindacati e sblocchi 736 miliardi per fare il Pil

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

Alla fine di settembre scade il mandato di Vittorio Conti, commissario dell’Inps a termine nominato da un già defunto governo Letta. Sei mesi di surplace sono però troppi per il più grande ente previdenziale dell’Unione europea che annualmente movimenta, tra entrate e uscite, flussi finanziari per 763 miliardi. L’Inps merita una strategia e una visione alta in un paese che ha perso il 10% del suo Pil e che registra mensilmente record negativi in serie nella sua disoccupazione. L’Inps non può permettersi di galleggiare o di avere poca ambizione. L’istituto ha il dovere di essere un motore dello sviluppo e della politica economica italiana gestendo e mobilitando al meglio le sue cospicue risorse. Non può permettersi di investire male e neppure di investire solo in Btp.

Archiviata la stagione della parole in libertà della gestione Mastrapasqua, quando si vagheggiava dell’Inps come nuova casa del welfare, adesso il governo Renzi è chiamato a cambiare passo. Non tanto e, soprattutto, non solo in materia di governance dell’ente. Fatto sicuramente importante, ma l’Inps non può più permettersi di essere solo oggetto di dibattito sui ruoli e sulle deleghe di chi lo gestisce. Un paese contestualmente in deflazione e in recessione è obbligato a chiedere molto di più alla strategia del suo più importante intermediario finanziario. Come? Innanzitutto il Premier deve affrontare il capitolo Inps con la stessa determinazione con la quale ha rifiutato di partecipare al congresso della Cgil e alla passerella di Cernobbio. Renzi, nel fare le nuove nomine all’Inps, deve prendere tutti in contropiede puntando a disboscare la foresta pietrificata sindacale che da sempre, di fatto, governa l’istituto. L’Inps deve rendere conto ai sindacati di come opera, ma non essere gestito dai delegati dei sindacati in ogni articolazione della sua organizzazione. Poi, Renzi deve scegliere per l’Inps un profilo tecnico effettivamente qualificato in materia previdenziale e pensionistica anche integrative. Non un ex ministro o un politico trombato ma una figura stimata nella materia in campo internazionale e a livello comunitario. In Italia qualche profilo appropriato ancora c’è, anche se, magari, non ha frequentato la Leopolda. Infine, serve qualcuno in grado di lavorare a stretto contatto con il ministro Padoan, che ne parli lo stesso linguaggio, visto che l’Inps rappresenta la componente più importante del bilancio pubblico.

La nomina del prossimo presidente dell’Inps è uno snodo chiave della strategia di politica economica di Renzi. Scegliendo la persona giusta può dare, contestualmente, tanti positivi segnali nella direzione giusta della rottamazione creativa e aiutare il Pil made in Italy a rimettersi in marcia.

Il sadismo fiscale di Mario Monti

Il sadismo fiscale di Mario Monti

Cesare Maffi – Italia Oggi

La storia della Tasi si misura in mesi, ma ammaestra come se fosse una vicenda secolare, tra assurdità, frenesie tassatorie e velleità burocratiche. Partiamo dall’Isi, che non è l’acronimo di uno Stato islamico, bensì cela l’imposta straordinaria sugli immobili, nata sotto il governo Amato I, nel ’92. Secondo l’italico costume di rendere permanente tutto quello che dovrebbe essere transitorio, l’Isi divenne presto Ici. Una patrimoniale, certo; però l’intendimento originario era diverso. Si voleva istituire un tributo sui servizi comunali: chi gode sicurezza e strade, giardini e illuminazione pubblica, deve pagare per i vantaggi che riceve. Avrebbe dovuto essere soggetto passivo chiunque ne traesse giovamento, indipendentemente dal titolo di proprietà o di possesso o di essere conduttore di un’unità immobiliare. Ovviamente non fu così, perché è molto più semplice, per far cassa, mazzolare un bene immobile piuttosto che mettersi a cercare un’altra base imponibile. Anche l’ipotesi di creare un’Imposta sui servizi comunali, che avrebbe dimezzato l’Ici, finì in cavalleria.

L’esigenza di lucrare somme sempre crescenti portò ad aumenti delle aliquote (il tetto del sette per mille da eccezionale divenne ordinario), addirittura sfondando in qualche caso il massimo per salire al nove, perfino sopprimendo il tetto, e rivalutando le rendite catastali del 5% ai fini dell’Ici. Non paghi, i legislatori crearono l’Imu, falsamente definita imposta municipale unica. Da sperimentale l’Imu è divenuta definitiva mentre le rivalutazioni delle rendite catastali hanno assunto, sotto Mario Monti, livelli di sadismo fiscale (+60% per gli immobili residenziali).

A un certo momento, nelle discussioni sul federalismo fiscale, venne fuori l’ipotesi d’introdurre una tassa sui servizi comunali. Avrebbe dovuto sostituire l’imposta patrimoniale. Si tornava alle origini, in certo modo. Ecco motivata la Tasi. La nuova imposta, però, non si misura sui servizi goduti, bensì sulla rendita catastale. È una patrimoniale. Non sostituisce l’Isi-Ici-Imu, ma si assomma. Le complicazioni dell’Ici (il ministro Vincenzo Visco, un signore che se ne intende, denunciò «l’inestricabile giungla dell’Ici») si sono moltiplicate con Imu e Tasi. I contribuenti continuano a pagare somme crescenti e incontrano difficoltà sempre maggiori. Non hanno nemmeno contezza di quanto sia la pretesa del proprio comune nei loro confronti. Non hanno alcuna certezza su modi e tempi e rate di pagamento.

Anche la Tasi deriva la propria esistenza alla volontà erariale di far cassa: sempre, dovunque, comunque. Ogni sistema è buono. Quindi, è più facile ricorrere a un’imposta patrimoniale che non a una reddituale. È più semplice colpire un bene immobile che non un bene mobile. È più facile far salire un’aliquota o una rendita catastale che non prevedere meccanismi più razionali e meno brutali. È più facile aggiungere una nuova forma impositiva a quelle esistenti, invece di sopprimerne qualcuna. È più semplice rendere stabile quel che era provvisorio, piuttosto che studiare un diverso provvedimento. A tutti questi ammaestramenti si aggiunge la beffa di qualche politico. Il bocconiano col loden, assurto a palazzo Chigi a furor di urla («fate presto!» gridava il Sole-24 ore), si è vantato: «In pochi giorni ho messo in campo la riforma della tassazione, introducendo di fatto una patrimoniale». Disse Maffeo Pantaleoni: «Qualunque imbecille può inventare e imporre tasse».

Pil: è diventato un guazzabuglio

Pil: è diventato un guazzabuglio

Mario Lettieri e Paolo Raimondi – Italia Oggi

Nel 2014 gli Stati membri dell’Unione Europea apporteranno cambiamenti importanti nei metodi di contabilità nazionale per la definizione del Prodotto interno lordo (Pil) e del Reddito nazionale lordo. Non si tratta di un’opzione ma dell’attuazione di una direttiva dell’Onu. Gli Usa l’hanno adottata nel 2013. Adesso tocca all’Europa. Di conseguenza i parametri di Maastricht saranno profondamente modificati, anzitutto i rapporti decifit/Pil e debito/Pil utilizzati, come è noto, per definire la situazione della finanza pubblica dei singoli Paesi. I mercati ovviamente ne tengono conto per decidere i loro comportamenti finanziari. Ad esempio, lo spread, naturalmente, riflette anche il livello di tali rapporti. Le organizzazioni internazionali e sovranazionali di controllo oggi li valutano per imporre politiche restrittive o commisurare sanzioni nei confronti di chi li viola.

In Europa il Reddito nazionale lordo è utilizzato per determinare il contributo di ciascun Paese al bilancio dell’Unione. È da decenni che si parla della necessità di migliorare il sistema di contabilità nazionale in quanto i metodi utilizzati sono notoriamente insoddisfacenti.

Il parametro del Pil infatti fu «inventato» nel lontano 1934 e è stato un utile riferimento anche se ritenuto altamente impreciso finanche dai suoi promotori. Il problema della riforma oggi è l’introduzione di proposte intelligenti e necessarie e di altre purtroppo davvero improponibili anche sul piano etico. Ad esempio, le spese in Ricerca e Sviluppo, fino ad oggi considerate come costi intermedi, verranno conteggiate come spese di investimento perché contribuiscono, come capitale intangibile, alla crescita della capacità produttiva. Ciò comporterà un impatto positivo sulla domanda aggregata e quindi sul Pil. Però anche le spese per gli armamenti saranno contabilizzate come spese di investimento. E qui incomincia la «perversione» del nuovo metodo contabile. Con il Pil si misura non solo la forza economica di un Paese ma anche la sua serietà e la sua affidabilità. Ne consegue che le dittature militari, che preparano una guerra di aggressione, diventano, con i numeri delle loro economie, degli esempi virtuosi da imitare.

La nuova riforma perciò supera tutti i limiti della decenza laddove introduce nel nuovo calcolo del Prodotto interno lordo anche le attività illegali. Di fatto la nuova direttiva indica esplicitamente che «le attività illegali di cui tutti i paesi inseriranno una stima nei conti (e quindi nel Pil) sono: il traffico di sostanze stupefacenti, la prostituzione ed il contrabbando». Sarà addirittura l’Eurostat a stabilire le linee guida della metodologia di stima. Tutto ciò è giustificato «in ottemperanza al principio secondo il quale le stime devono essere esaustive, cioè comprendere tutte le attività che producono reddito, indipendentemente dal loro status giuridico». È proprio l’avverbio, «indipendentemente», che contiene il virus più distruttivo per la società ed il benessere dei suoi cittadini. Allora anche la rapina diventa un’attività economica, «indipendentemente» dal fatto che distrugge l’ordine sociale e uccide. Anche una guerra di aggressione diventa un evento economico di grande profitto, «indipendentemente» dal fatto che comporta distruzioni, genocidi e fame. È una vera e propria aberrazione. Anche se vi fosse l’esigenza di conoscere l’ammontare delle singole e di tutte le transazioni finanziarie, non sarebbe comunque giustificato il vulnus allo status giuridico. Ma che le attività illegali entrino di diritto a far parte del Pil che poi determina alcuni parametri che influiscono sulla vita dei Paesi e di intere popolazioni è inaccettabile.

È in atto una enorme campagna mediatica per dimostrare la bontà delle nuove regole. Si sottolinea in particolare che tutti i governi europei ne beneficeranno in quanto i parametri di Maastricht verrebbero ridefiniti a loro favore. Se il Pil aumenta allora si guadagnano dei margini sul famoso 3% relativo al rapporto deficit/Pil. Anche il rapporto Pil/debito pubblico migliorerebbe. Pazzesco! Il Trattato di Maastricht diventa così il verbo intoccabile. Invece di cambiarlo si pensa di produrre dei dati «falsi» per aggirarne gli effetti più negativi. Eppure è noto che anche il magico 3% non ha alcuna base scientifica. Fu definito arbitrariamente da un giovane impiegato del governo francese nel 1981 su richiesta del presidente François Mitterand che, sembra, necessitasse di mettere freno alle astronomiche promesse di spesa pubblica fatte durante la campagna elettorale.

Se le spese di R&S fossero giustamente conteggiate il Pil aumenterebbe del 5% in Svezia, del 3% in Germania e Francia e di poco più dell’1% in Italia. Ma che fare con le attività illegali notoriamente difficili da quantificare? Se si prendessero i dati della Banca d’Italia sull’economia illegale, allora il nostro Pil dovrebbe aumentare dell’11%. E secondo l’Istat, nel 2010 l’intera economia sommersa «valeva» circa il 17% del Pil.

Noi crediamo che tale riforma contabile sia figlia dell’ultima, forse la più pericolosa, ideologia sopravvissuta del ventesimo secolo, quella del liberismo economico «selvaggio». Si sente forte l’influenza di Milton Friedman, il caposcuola dell’ economia monetarista, che nel 1994, parlando di economia e dell’Italia, diceva: «Il vostro mercato nero è un modello di efficienza. Il vostro governo è modello di inefficienza. In certe situazioni l’evasore è un patriota. L’Italia si regge solo grazie al mercato nero e all’evasione fiscale che sono in grado di sottrarre ricchezze alla macchina parassitaria ed improduttiva dello Stato per indirizzarle verso attività produttive.» Riteniamo che la crisi economica che investe i Paesi dell’Ue non si risolva così: il rimedio ci sembra peggiore del male. Ogni ripresa economica non può prescindere dalla legalità a tutti i livelli e ha bisogno di ben altro rispetto al «trucco contabile» proposto.