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Il “bazooka” per l’economia reale

Il “bazooka” per l’economia reale

Isabella Bufacchi – Il Sole 24 Ore

Sui Paesi membri dell’Eurozona pesa un macigno di debito pubblico da 9.200 miliardi di euro, equivalente al 92,7% del Pil contro i 7.900 miliardi rilevati nel 2010, all’epoca pari all’83,7% del Pil. La crisi bancaria e subito dopo la crisi del debito sovrano hanno aumentato lo stock del debito pubblico nell’Eurozona di circa 1.300 miliardi in quattro anni. Un debito che, se non proprio nella sua totalità, è entrato nei portafogli delle banche, degli investitori istituzionali, dei risparmiatori sotto forma di titolo di stato: sottraendo risorse finanziarie che direttamente sarebbero potute confluire nell’economia reale. Ed è lì che la BCE intende arrivare con il suo QE esteso ai titoli di Stato: acquistare sul mercato secondario BTp o Bund, OaT o Bonos per liberare risorse finanziarie e invogliare investitori, intermediari e risparmiatori a impiegare la liquidità altrove a caccia di rendimenti più elevati. Il QE tra le altre cose comprime anche i rendimenti dei titoli acquistati dalla banca centrale.

Rastrellare titoli di Stato in un’Eurozona afflitta dal “public debt overhang” è un’operazione che non ha precedenti. E della quale fino a ieri non si aveva alcun dettaglio. Quanti titoli verranno acquistati, con quale scadenza e per quanto tempo sono gli aspetti più rilevanti che il mercato si aspetta vengano rivelati oggi. Le zone grigie resteranno: è prevedibile che la Bce lasci qualche domanda senza risposta per mantenersi le mani libere, concedendosi qualche margine di manovra per ritocchi in corsa. Stando a fonti bene informate, è corsa voce ieri che nella rosa delle ipotesi esplorate dagli esperti dell’Eurosistema vi sia stata anche la possibilità di stabilire gli importi degli acquisti in base non soltanto al peso dei singoli Paesi nel capitale della Bce (che vedrebbe la Germania al primo posto con grandi quantità di Bund da acquistare) e alla montagna dei titoli di Stato in circolazione ma anche in base alle emissioni lorde del 2015 dei titoli a medio-lungo termine più liquidi (tipologia target del QE): in riferimento a quest’ultimo parametro, l’Italia primeggerebbe essendo il più grande emittente di titoli di Stato nell’Eurozona con 260-270 miliardi di emissioni lorde attese quest’anno sulle scadenze medio-lunghe (BoT esclusi).

Chi venderà i titoli alla banca centrale? Non lo Stato direttamente. La Bce non può acquistare titoli di Stato in asta perché il suo statuto (ispirato al Trattato di Maastricht) vieta il finanziamento diretto degli Stati. Gli acquisti non saranno realizzati sul mercato primario ma solo sul secondario , probabilmente con meccanismo d’asta: la Bce indirettamente sosterrà le aste facendo spazio nei portafogli di investitori e banche partecipanti alle emissioni dei titoli di Stato. Ma la domanda in asta potrebbe via via raffreddarsi a causa di un rapporto rischio/rendimento annacquato dall’eccesso di liquidità: meglio allora, è questo l’invito esplicito del QE, guardare altrove, oltre i titoli di Stato, per incassare rendimenti più elevati e maggiormente commisurati al rischio. “La politica monetaria espansiva delle Bce riduce i rendimenti attesi su investimenti di tipo finanziario e contribuisce a spostare l’interesse degli investitori verso l’acquisto di beni immobili di qualità”, ha detto ieri a un convegno organizzato alla Luiss sulle cartolarizzazioni CMBS Biagio Giacalone, responsabile Credit Solutions Group di Banca IMI. Con questo pronostico: “Il conseguente miglioramento delle quotazioni degli asset immobiliari rende i CMBS italiani più liquidi e attraenti per gli investitori specializzati sul mercato dei capitali, favorendo il finaziamento di operazioni immobiliari a costi più contenuti rispetto al passato”.

Il debito pubblico negoziabile italiano è detenuto prevalentemente (67,1%) da italiani, come risulta dalle ultime statistiche della Banca d’Italia al giugno 2014: 20,1% banche italiane, 13,6% assicurazioni italiane, 3,1% fondi comuni italiani, 12% famiglie italiane, 7,8% detentori italiani quali società non finanziarie, i fondi pensione e altre tipologie di investitori, 5,5% Banca d’Italia, 5% le gestioni patrimoniali e fondi comuni amministrati da operatori esteri ma riconducibili a risparmiatori italiani. Al giugno 2014 l’Eurosistema risultava detenere (al netto dei titoli in Banca d’Italia) il 3,7% dei titoli di Stato italiani in circolazione, acquistati con il Securities markets programme e con lo status di creditore senior (privilegiato, non pari passu) . Il resto, pari al 29,4%, risultava essere in mano a detentori esteri.

Il grande punto interrogativo riguarderà le banche italiane, che detengono oltre 420 miliardi di titoli di Stato italiani (circa 200 in più rispetto al periodo pre-crisi): fino a che punto saranno disposte a vendere i bond alla Bce per impiegare la liquidità altrove? È difficile rinunciare a bond utilizzati come collaterale per finanziarsi a tassi vicino allo 0% presso la Bce; ed è difficile rinunciare ai rendimenti che questi titoli offrono e che contribuiscono ad alzare la redditività della banca.

La sconfitta dei privilegi

La sconfitta dei privilegi

Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore

«Alle banche popolari quotate servono regole per un controllo più efficace dell’operato degli amministratori, un maggiore coinvolgimento degli azionisti in assemblea anche mediante deleghe. Come ho già osservato in passato, un intervento legislativo è necessario». «le modifiche statutarie, che pure abbiamo sollecitato, non possono essere risolutive». Era il 31 maggio 2011, e a dirlo era Mario Draghi, allora Governatore della Banca d’Italia. Il “necessario” intervento legislativo adesso è arrivato, indotto, se non “sollecitato”, dal Single Supervisionary Mechanism della BCE. Sette banche popolari di rilevanza sistemica, pur superando tutte lo stress test e l’asset quality review, hanno però dovuto usare il margine di tempo consentito per mettersi a posto: sono per così dire borderline. Per rafforzarsi le banche ricorrono perlopiù alle fusioni: ma se i loro statuti prevedono il voto capitario, solo con delle acrobazie di governance e di poltrone possono ricorrere a quello strumento, anche se sono quotate in Borsa. Il prezzo delle azioni non riflette il valore potenziale della banca, tant’è che basta l’annuncio dell’eliminazione del voto capitario perché i listini prendano il volo. La conseguenza è che abbiamo banche sistemicamente importanti, perlopiù efficienti, con buon radicamento sul territorio, che però risultano borderline nel nuovo panorama della Banking Union.

Il Governo ha deciso di eliminare gli ostacoli al superamento di questa situazione: entro 18 mesi 10 banche popolari, di cui 7 quotate, ma tutte sistematicamente importanti, dovranno diventare società per azioni. E lo ha fatto, perdipiù, con lo strumento del decreto, evidentemente, e a mio avviso giustamente, ravvisando la “necessità ed urgenza” di evitare che possano nascere problemi in quella parte del nostro sistema creditizio ( e magari sperando che in questo modo se ne possano risolvere alcuni, tanto per intenderci tra Siena e Genova). Evidentemente per Francoforte, e quindi per Roma, l’obbligo di trasparenza richiesto a una banca che per dimensione è sistematicamente rilevante, può essere soddisfatto solo con la governance di società per azioni, e non con quella a voto capitario.

C’è la retorica della cooperazione: le banche popolari – scriveva Raffaele Bonanni a proposito delle vicende BPM che mi indussero a dare le dimissioni da consigliere di quella banca– sono “la forma più compiuta di partecipazione al governo dell’impresa, la forma più avanzata di democrazia economica”. E c’è la realtà degli interessi, quelli di associazioni di soci, magari dipendenti e loro famigli, che organizzando e selezionando l’affluenza in assemblea, riescono a controllare il voto. Nel 2011 in BPM il 73% del capitale era in mano di non soci, il 27% in mano di 53.000 soci, di cui il 4% degli 8700 dipendenti organizzati nell’Associazione Amici. Questi controllano il voto in assemblea, hanno un improprio coinvolgimento nelle scelte gestionali, in particolare in quelle su avanzamenti e promozioni, senza nessuna responsabilità o rischio di sanzioni. Il problema di agenzia c’è anche nelle società per azioni, c’è, moltiplicato, nelle piramidi societarie, ma c’è perlopiù la possibilità di conquistare una maggioranza sufficiente a sostituire il management: una possibilità che invece non esiste in caso di voto capitario. Fin quando possono esistere isole felici in cui risparmiatori coscienti di non contare nulla corrono a dare i loro soldi a dipendenti perché la banca sia gestita in modo da dare a loro vantaggi sicuri, ovviamente a scapito della redditività? È nelle realtà di media dimensione che la cooperazione può non essere retorica, dove anzi si può supporre che si sia ancora capaci di assegnare correttamente il merito di credito alle imprese e ai loro progetti: che sono quindi fuori da quanto dispone il decreto del Governo.

Giuste le ragioni dell’intervento, a lasciar sorpresi è il momento scelto: perché non è che siano mancate le occasioni, nei 4 anni dopo il discorso del Draghi italiano e nei 4 mesi dopo il responso del Draghi europeo. Le banche popolari, proprio per le ragioni implicite al voto capitario, possono contare su sostenitori tra tutte le forze politiche rappresentate in Parlamento. Se a suggerire l’intervento del Governo non c’è qualche brutta notizia di cui non si sia ancora a conoscenza, bisogna riconoscere che Matteo Renzi ha dato dimostrazione di grande determinazione prendendo un provvedimento che gli potrebbe alienare consensi proprio mentre in Parlamento hanno e avranno luogo votazioni di decisiva importanza per il futuro del Paese e suo. Consideriamola allora come una dimostrazione di forza, e attendiamo con fiducia la conversione del decreto.

Giungerebbe proprio a tempo. Infatti uno degli scopi del QE che oggi verrà annunciato dalla BCE è di consentire alle banche di erogare maggiori finanziamenti alle industrie. Ma se l’economia non cresce, gli investimenti diventano più rischiosi, più difficile diventa assegnare il merito di credito. Se è vero che molte banche popolari, anche alcune delle grandi, grazie a una maggiore prossimità alla clientela, hanno (ancora) conoscenze e competenze per saperlo fare, è questo il momento per loro di concentrarsi interamente a valorizzarle: libere dai conflitti di interesse tipici delle governance a voto capitario.

Delega fiscale contro il tempo

Delega fiscale contro il tempo

Beatrice Migliorini – Italia Oggi

Recuperare il comitato ristretto per licenziare nel più breve tempo possibile tutti i decreti legislativi già pronti e scongiurare il fantasma della proroga a fine anno. Questa, in base a quanto risulta a Italia Oggi, la strategia che governo e parlamento starebbero mettendo in campo per dare forma entro la scadenza di fine marzo al contenuto della legge 23/2014 (delega fiscale). A quasi un anno dall’approvazione della legge delega sono, infatti, solo tre i dlgs che hanno ricevuto il via libera delle camere: il semplificazioni fiscali, la riforma delle commissioni censuarie e la riforma della tassazione delle accise sui tabacchi. Di questi, solo i primi due sono stati pubblicati in Gazzetta Ufficiale non, però, senza qualche difficoltà. Un ritmo a dir poco insostenibile per un testo che nasce con l’ambizione di essere quanto meno un’opera di manutenzione straordinaria del sistema fiscale italiano. Ecco, quindi, che per ottimizzare il fattore tempo la soluzione comitato ristretto potrebbe tornare utile.

L’idea, su cui il cui governo dovrà pronunciarsi in queste ore, sarebbe quella reinstaurare il gruppo di lavoro trasversale alle due camere e ai partiti politici. Questa operazione potrebbe, infatti, consentire un rapido esame preliminare dei testi una volta licenziati da palazzo Chigi, in modo tale che una volta giunti all’esame delle Commissioni finanze a ranghi completi siano sufficienti un paio di sedute per esprimere il parere al testo. Ammesso e non concesso che il meccanismo funzioni, sarà poi compito dell’esecutivo non apportare ulteriori modifiche ai testi dei decreti, per evitare di ricadere in dinamiche simili a quelle che hanno dettato le sorti del dlgs sulle semplificazioni fiscali (cambiato dal governo in seconda lettura). Un lavoro che, se ben strutturato, potrebbe portare a licenziare quasi dieci decreti (tra cui, il dlgs contenente i punti cardine della riforma del catasto, il dlgs sulla fatturazione elettronica, sulla certezza del diritto e sui giochi) entro la fine di marzo.

Una missione ai limiti dell’impossibile ma che potrebbe concretizzarsi laddove il governo volesse con ogni mezzo possibile evitare la strada della proroga che assomiglierebbe molto ad una sconfitta. Ma per non rischiare un’altra stoccata a vuoto e lasciare comunque aperta la strada dello slittamento dei termini restano ancora in piedi le altre due opzioni incardinate alla Camera: il ddl di proroga a firma di Marco Causi (Pd) e Daniele Capezzone (Fi) i cui lavori inizieranno questo pomeriggio e il dl Milleproroghe al vaglio delle Commissioni affari costituzionali e bilancio di Montecitorio. E proprio la mancata presentazione di un emendamento ad hoc contenente la proroga sia da parte dell’esecutivo, sia da parte di esponenti della maggioranza, suggerisce che palazzo Chigi e via venti settembre stiano cercando ogni strada per evitare lo slittamento dei termini.

Le riforme solo annunciate non convincono più nessuno

Le riforme solo annunciate non convincono più nessuno

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

I gufi si stanno accanendo sul pil 2015. Dopo Bankitalia e Standard&Poor’s anche il Fondo monetario internazionale ha più che dimezzato le sue previsioni sull’anno in corso portandole a un +0,4%. L’agenzia di rating, a inizio dicembre, nel motivare il downgrade aveva scritto «crescita perennemente debole» e ora il Fmi chiarisce che neppure nel 2016 il pil raggiungerà quota 1%, fermandosi a un misero 0,8%. Insomma l’Italia dei troppi governi emergenziali e di larghe intese, cioè di intese politiche che vanno oltre i risultati delle urne, rimane buona ultima in termini di crescita economica.

Il confronto con la Spagna deve far riflettere. Quello iberico è l’unico pil rivisto al rialzo dal Fmi per il 2015 al +2% a riprova che le riforme dei governi monocolore politici spagnoli sono state efficaci. Madrid, del resto, non ha solo annunciato ma ha anche fatto: abolite le camere di commercio; privatizzata buona parte della sanità; tagliata la tredicesima al pubblico impiego; riformato per tutti e non solo per i neoassunti il mercato del lavoro; tagliate le aliquote sugli utili delle imprese. L’economia spagnola è oggi profondamente diversa da quella del 2008.

Perché in Italia neppure l’ultima legge di Stabilità, presentata dal duo Renzi-Padoan come un taglio storico delle tasse, è riuscita a stimolare il pil? È abbastanza evidente che con queste previsioni di crescita al rating dell’Italia basta un mini incidente di percorso per sprofondare nella categoria dei titoli spazzatura dai quali i Btp sono separati solo da un notch di giudizio. E ciò dovrebbe preoccupare, perché gli agenti del mercato segnalano di non credere più nella capacità riformista italiana poiché tra quanto annunciato a ripetizione dai governi recenti del Belpaese e quanto poi realizzato ci passa troppa differenza. I contenuti delle slide alle primarie sono rivoluzionari, si annacquano una volta preparate a Palazzo Chigi e diventano un brodino inutile a curare la malattia quando vengono pubblicate sulla gazzetta ufficiale. Adesso le aspettative hanno imparato razionalmente a fare la tara alle slide italiche e si incorporano così nelle previsioni sul pil futuro depotenziandone la probabilità di crescita.

Ovvio che un paese come l’Italia, che deve ripagare uno stock di debito pubblico importante, non può permettersi di rinviare al 2017 o al 2018 la possibilità di crescere almeno dell’1%. È vero che il Premier ha contro parte dell’establishment, della burocrazia e del suo stesso gruppo parlamentare, ancora espressione della segreteria welfarista di Bersani, ma è altrettanto vero che se la crisi italiana non fosse stata tanto profonda e critica mai Renzi avrebbe potuto bruciare le tappe verso il potere. Da lui gli italiani e gli investitori non si aspettano quattro slide ma riforme davvero mirabolanti.

Il passo del gambero sul caso dei vigili assenteisti

Il passo del gambero sul caso dei vigili assenteisti

Oscar Giannino – Il Messaggero

Sembrava una svolta drammatica, e finisce a opera buffa. Come spesso avviene in Italia e troppe volte nell’Italia “pubblica”, si parte tra pifferi e tamburi annunciando cambiamenti radicali ma il viaggio si rivela circolare, e dopo poco ci si ritrova mesti e sfiduciati allo stesso punto di prima. E quel che sta avvenendo nella vicenda dei 767 vigili urbani di Roma assenti dal servizio a Capodanno. Il presidente del Consiglio fece fuoco e fiamme annunciando sanzioni e punizioni. Il sindaco disse che la misura era piena. Ora, in capo a tre settimane, i numeri parlando da soli. E sono numeri che suscitano imbarazzo e incredulità, come capita quando ci si scopre vittima di una burla e ce la si prende con se stessi per esserci cascati. Perché di 767 vigili renitenti, i deferiti alla commissione disciplinare per malattia dubbia sarebbero in tutto e per tutto 6. Più un’altra ventina, forse non in regola per non aver risposto all’obbligo di reperibilità sostituiva.

Sei finti malati su 767 è una quantità che dice tutto. Se finirà davvero così, i sindacati dei vigili partiranno lancia in resta per chiedere le scuse ufficiali davanti a tutta Italia. E chissà che non le ottengano. Per il sindaco e per il premier sarebbe una bella figura da don Chisciotte e Sancho Panza. E per i romani e per tutti gli italiani una nuova doccia gelata di sfiducia e rassegnazione. Perché se non si schioda nulla nemmeno di fronte a un caso tanto eclatante, e come tale segnalato, vissuto e condannato dai massimi vertici politici nazionali e della Capitale, allora chiedere a tutti i cittadini di nutrire fiducia in svolte e cambiamenti pubblici diventa non un atto ragionevole, ma un atto di fede. Mettiamolo in chiaro: un esito tanto paradossale è un nuovo eclatante segnale che basta sapersi ben organizzare sul filo dei regolamenti e delle norme e si può continuare nel mondo pubblico a fare i furbi senza pagare ammenda. Altro che svolta.

Non stiamo generalizzando. Per favore ci si risparmino contestazioni sul fatto che manchiamo di rispetto ai vigili di Roma, al corpo e a tantissimi dei quasi seimila di loro. È l’esatto contrario: noi parliamo a difesa dell’onore e della dedizione di tantissimi vigili urbani e dipendenti pubblici. Non li accomuniamo ai furbi, né ai volpini sindacalisti che nella notte di Capodanno a Roma hanno orchestrato l’astensionismo di massa come sciopero non dichiarato: per il contratto, contro la rotazione, per la richiesta che la disponibilità festiva si paghi come straordinario, e per tutte le altre ragioni discutibili ma legittime se avanzate nelle forme di un magari muscolare confronto sindacale con il Comune, ma che in nessun caso e mai possono legittimare la renitenza al lavoro dietro le giustificazioni consentite a chi è malato per davvero, non a chi lo decide a tavolino.

Purtroppo, questo finale da opera buffa non ci fa ridere per niente. Conferma che le regole e i princìpi possono essere anche affermati nelle norme vigenti – visto che i falsi attestati di malattia sono già da anni causa di licenziamento per giusto motivo nel pubblico impiego – ma restano nella realtà sterili e inefficaci grida manzoniane. Comprova che, a furia di dirigenti pubblici inadempienti all’obbligo loro spettante di giudicare produttività e regolarità delle prestazioni di lavoro dei loro sottoposti, alla fine la collusione verso chi ne approfitta regna sovrana. Attesta che è inutile punire sulla carta i falsi certificati, se poi non si dispone di un servizio medico ispettivo operante in tutte le fasce del giorno per smascherare dipendenti finti malati e medici compiacenti.

Tutto questo i furbi lo sanno benissimo. Ed è di questo che si fanno forti. Questa è la ragione per la quale i sindacati insorgono contro chi considera quanto avvenuto a Capodanno una vergogna, urlando che si tratta di calunnie irrispettose. E tutto questo anche i politici lo sanno benissimo: perché sono loro per primi che da decenni non hanno spinto e obbligato i dirigenti pubblici a monitorare i comportamenti dei sottoposti, sono loro ad aver sospeso dal 2011 la comunicazione annuale al parlamento del rapporto sull’assenteismo pubblico e privato comparato. Ma, proprio per questo, politici che finalmente vogliano cambiare verso devono anche sapere che, una volta annunciata una svolta vera, che anche simbolicamente consegni al passato tanti decenni di collusione, allora tale svolta si deve vedere e toccare con mano, nei fatti e nei numeri. A Roma, sta succedendo l’esatto opposto. E vedremo se allo stesso modo finirà anche la partita del salario di produttività, se terminerà davvero l’era che lo vede spalmato a tutti in parti uguali, perché nessuno davvero giudica gli obiettivi conseguiti dal lavoro pubblico secondo veri parametri e risultati noti ex ante e misurabili ex post.

La serietà di un Paese si giudica innanzitutto dalla serietà con cui chi lo serve viene considerato e rispettato. Sei deferiti e 761 salvati vorrebbe dire non prendere sul serio non solo i cittadini romani che pagano le tasse, e quelli di tutta Italia che hanno contributo a due decreti salva-Roma in pochi anni. Significa innanzitutto non prendere sul serio e mancare di rispetto ai tantissimi dipendenti pubblici che non lo meritano, e sui quali cadrà ancora una volta il discredito popolare. Messa così non è un film che finisce in bonarie risate alla Toto e Peppino. A giudicare dalla vicenda capitolina, la riforma della PA italiana rischia di essere un film di Buñuel, che fa restare solo l’amaro in bocca.

Ripresa? Possiamo sprecarla solo noi

Ripresa? Possiamo sprecarla solo noi

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi – Corriere della Sera

Arrivano notizie dall’Europa. Alcune buone, altre meno. Cominciamo dalle seconde. La Commissione europea ha leggermente modificato le regole sui conti pubblici: rimangono sempre astruse, anzi sono più complicate di prima e i cambiamenti riguardano decimali di cui si fa fatica a capire la rilevanza macroeconomica. Ma è comunque un segnale. Bruxelles comincia a riconoscere che le regole devono tener conto della situazione dell’economia e aiutare i governi a fare le riforme. Bene anche che la maggior flessibilità non si applichi agli investimenti: i politici non si devono illudere che costruendo autostrade si faccia ripartire la crescita. La buona notizia è che la Banca centrale europea si appresta ad acquistare titoli pubblici, l’ultimo strumento che le è rimasto per evitare la deflazione. È una novità importante e positiva: fino a poche settimane fa questa ipotesi era considerata anatema da molti europei.

Nel frattempo, ed è la notizia più importante, la nostra economia potrebbe aver raggiunto il punto di svolta: in novembre la produzione industriale ha ricominciato a crescere, con un rialzo dello 0,3% su ottobre, quando ancora si era fermi. Il livello rimane del 10% più basso rispetto al 2008, quindi abbiamo un mare da recuperare, ma non siamo più alla deriva. Gli interventi e gli annunci della Bce hanno già fatto svalutare l’euro rispetto al dollaro del 17% circa, da 1,4 a 1,16. Quando la Banca comincerà i suoi acquisti ci potrebbe essere un ulteriore indebolimento dell’euro. Questo favorirà le imprese esportatrici che grazie al Jobs act cominceranno ad assumere a tempo indeterminato. Ecco la risposta a chi dice che il Jobs act è controproducente. Più domanda con un’offerta bloccata da un mercato del lavoro rigido servirebbe a poco, così come una riforma del lavoro senza domanda non produrrebbe nuovi posti di lavoro. Ma la domanda estera non basta, serve anche quella interna, cioè consumi e investimenti. Ecco perché sarebbe un errore imperdonabile concludere che le nuove regole europee e i prossimi interventi della Bce ci consentano di ricominciare a dormire sonni tranquilli.

Le nuove regole probabilmente ci eviteranno una manovra di correzione dei conti a metà anno, cioè un ulteriore aumento delle tasse. È già qualcosa, ma certo non ci permettono di ridurre (a parità di spesa) il peso del fisco, che non è stato scalfito dalla legge di Stabilità e che continua ad essere incompatibile con una ripresa dell’economia. Il fisco influisce sia sulla domanda, riducendo le buste paga nette, sia sull’offerta, aumentando il costo del lavoro per le imprese. Nel 2015 le tasse, seppur redistribuite per favorire le famiglie, continueranno a pesare sul Prodotto interno lordo per il 48,3%, il medesimo livello dei due anni passati. Il governo prevede che cresceranno di un altro mezzo punto nel 2016. Per ridurre la pressione fiscale vi è un solo modo: avviare seriamente, non a parole, i tagli alla spesa. Ormai non bastano più le dita di una mano per contare le spending review annunciate da vari governi. Ne sta facendo una anche il governo Renzi, ripartendo da zero.

Possiamo sapere a che punto siamo? Tagliare le spese per poter ridurre le tasse sul lavoro è cruciale per due motivi. Per competere con la Germania ad armi pari dobbiamo portare le nostre imposte sul lavoro almeno al livello tedesco, e questo richiede molti miliardi di tasse in meno. Inoltre, i Paesi dell’Europa del Nord sono sempre stati restii ad allentare i vincoli fiscali e a consentire che la Bce intervenga perché temono che in questo modo i Paesi del Sud rilassino i loro programmi di risanamento fiscale e strutturale. Non dobbiamo farlo: innanzitutto perché non conviene a noi, e poi perché, se lo facessimo, potremmo dire addio a qualunque ulteriore aiuto da parte dell’Europa. Insomma, le buone notizie devono essere un trampolino per le riforme, non un poltrona su cui rilassarsi.

Scippo da 9 miliardi sui risparmi

Scippo da 9 miliardi sui risparmi

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Gianni Zorzi, docente di Finanza dell’impresa e dei mercati e consulente per l’area Finanza di “ImpresaLavoro” – Panorama

Un fantasma si aggira, da anni, per l’Italia: la paura di un prelievo forzoso sui risparmi. Tipo quello di Giuliano Amato nel 1992, quando il Fisco incamerò improvvisamente il 6 per mille sulle giacenze dei conti correnti. In realtà questo timore appare infondato. Perché lo Stato ha già, di fatto, colpito pesantemente il risparmio degli italiani con una patrimoniale strisciante che, secondo una ricerca realizzata dal centro studi ImpresaLavoro, vale circa 9 miliardi di euro. Tanto per fare un confronto, se oggi venisse replicata la manovra di Amato sui conti correnti, si tratterebbe di un prelievo di 3 miliardi, un terzo rispetto agli aggravi imposti dal 2011 ad oggi dai governi di Mario Monti, Enrico Letta e Matteo Renzi.

Come si arriva a questo dato? Secondo le più recenti rilevazioni di Banca d’Italia, il totale delle attività finanziarie detenute dalle famiglie supera i 3.800 miliardi di euro. Su questa massa di attivi si è registrato a partire dalla fine del 2011 un progressivo e repentino inasprimento fiscale: in prima istanza, l’aumento tra la fine del 2011 e la metà del 2014 delle aliquote sui redditi di natura finanziaria che sono più che raddoppiate, passando dal 12,5 al 26 per cento, salvo eccezioni (come i titoli di Stato); in secondo luogo, l’introduzione di una tassa su una parte delle transazioni finanziarie (la Tobin tax) a partire dal marzo 2013; infine, la trasformazione dell’imposta di bollo sul deposito titoli in una vera e propria patrimoniale introdotta nel 2012 e già raddoppiata nel giro di due anni: oggi pesa per lo 0,2 per cento sui depositi di titoli (azioni, obbligazioni, titoli di Stato), sui depositi bancari, sui fondi e su alcune polizze, e per 34,20 euro per i conti correnti oltre una giacenza media di cinquemila euro.

Risultato: secondo le nostre ricerche, basate su dati e indici Banca d’Italia, Abi, ministero dell’Economia e Fideuram, la somma di questi interventi corrisponderebbe a un aumento del prelievo fiscale di 9 miliardi annui (corrispondente al 130 per cento in più) per il periodo 2011-2015. In particolare, l’incremento delle imposte sui rendimenti porterebbe un gettito pari a 11,2 miliardi nel 2015 a fronte dei 6,5 stimati per il 2011, nonostante la riduzione dei rendimenti medi di titoli di stato e di conti correnti e depositi bancari e postali; l’imposta di bollo, applicabile su quasi 2.200 miliardi di controvalore di attività finanziarie e depositi, dovrebbe pesare per oltre 4,4 miliardi nelle tasche degli italiani con un incremento di 4 miliardi rispetto al 2011; la Tobin tax, applicata dal marzo 2013, fornisce invece un prelievo marginale che non supera alcune centinaia di milioni l’anno, tanto da non superare, secondo alcune analisi, i costi commerciali derivanti dalla riduzione degli scambi di attività realizzati sui mercati italiani. A queste somme si aggiunga la stima del gettito sui conti correnti che continua a pesare sui risparmiatori persone fisiche nel caso di giacenze medie superiori a cinquemila euro, che risulta pari a circa 0,6 miliardi annui.

Quindi il prelievo complessivo sul risparmio degli italiani passerebbe dai 6,9 miliardi del 2011 ai 15,9 attesi per il 2015. La crescita del prelievo appare vertiginosa anche in considerazione del drastico calo della redditività, sia dei titoli di Stato che dei depositi bancari (e senza considerare che negli ultimi cinque anni la ricchezza complessiva degli italiani si è ridotta di 814 miliardi di euro per colpa della crisi e della tassazione sugli immobili, come rivela un’indagine pubblica sulla Repubblica). C’è poi il capitolo previdenziale, cioé l’incremento della tassazione sulla rivalutazione di strumenti di previdenza come i fondi pensione e le casse previdenziali, nonché del trattamento di fine rapporto (Tfr).

Dopo un lungo tira e molla, gli aumenti sono stati approvati nella Legge di stabilità, e ora sono in vigore (con effetto peraltro retroattivo) sui rendimenti realizzati a partire dall’anno 2014. Per la previdenza complementare (fondi pensione, piani individuali pensionistici) si passa dall’11,5 al 20 per cento, mentre per le casse previdenziali di categoria l’incremento è dal 20 al 26 per cento. In entrambi i casi, l’aliquota sulla quota dei fondi investita in titoli di stato è agevolata al 12,5 per cento, ed è infine previsto un credito d’imposta condizionato che potrebbe in linea teorica compensare gli aumenti. Sul trattamento di fine rapporto, invece, la rivalutazione viene ora tassata al 17 per cento anziché all’11. Questi aumenti si ripercuotono sui montanti contributivi (cioè il capitale che il lavoratore ha accumulato nel corso degli anni lavorativi) specie per chi è a inizio carriera. Nello studio è emerso infatti che l’incremento delle aliquote applicate sui fondi pensione al 20 per cento potrebbe ridurre il montante contributivo di una percentuale compresa tra il 5 e l’8,6 per cento, mentre un eventuale ulteriore aumento al 26 per cento lo ridurrebbe di un importo tra l’8,3 ed il 14,1 per cento. Considerazioni analoghe si possono esprimere naturalmente anche sulle casse previdenziali, i cui giovani iscritti si dovranno attendere prestazioni a fine carriera ulteriormente ridotte di una percentuale compresa tra il 3,3 e il 5,5 per cento, mentre il giro di vite sul Tfr potrebbe ridurre le liquidazioni di chi si affaccia oggi al mondo del lavoro di un importo compreso tra il 3,6 e il 6,2 per cento.

Tornando al quadro generale dei guadagni di natura finanziaria, le varie riforme intervenute di recente hanno mirato soprattutto all’incremento generalizzato delle aliquote, evitando perciò di considerare alcune storture del particolare sistema di fiscalità vigente. Come la doppia tassazione degli utili delle società di capitali distribuiti sotto forma di dividendi (sono tassati sia gli utili che i dividendi), e il complesso e non sempre equo meccanismo di compensazione tra guadagni e perdite nel regime del risparmio amministrato. Si tratta di norme che, nel loro insieme, possono aumentare anche notevolmente il prelievo effettivo operato sulle tasche dei risparmiatori: per esempio, la tassazione su alcuni guadagni continua a intervenire anche se nel frattempo la stessa o altre attività detenute fanno registrare delle perdite. Si può quindi chiudere in perdita un portafoglio di investimenti, oppure in alcuni casi anche un singolo investimento, ed essere stati nel frattempo ugualmente tassati. Per i piccoli risparmiatori, tra rendimenti in picchiata e tassazione in aumento, il rebus investimenti si fa ancora più complesso.

La tassazione del risparmio in Italia

La tassazione del risparmio in Italia

ABSTRACT

Secondo le più recenti rilevazioni di Banca d’Italia, il totale delle attività finanziarie detenute dalle famiglie supera i 3.800 miliardi di euro. Su questa massa di attivi si è registrato a partire dalla fine del 2011 un progressivo e repentino inasprimento fiscale, che potrebbe proseguire nel futuro prossimo colpendo anche le rivalutazioni sugli strumenti della previdenza complementare. La stretta fiscale ha assunto forme diverse: in prima istanza, l’incremento delle aliquote sui redditi di natura finanziaria, più che raddoppiate – salvo eccezioni – tra la fine del 2011 e la metà del 2014; in secondo luogo, l’introduzione di una tassa su una parte delle transazioni finanziarie (la Tobin Tax) a partire dal marzo 2013; infine, la trasformazione dell’imposta di bollo sul deposito titoli in una vera e propria patrimoniale (che grava anche su conti deposito e altri strumenti finanziari), introdotta nel 2012 e già raddoppiata nel giro di due anni.
Nell’immaginario collettivo persiste ancora lo spettro di un possibile e improvviso prelievo forzoso sulle attività finanziarie, come quello del 6 per mille operato sui conti correnti dal Governo Amato nel 1992; in realtà, tale intervento peserebbe oggi sulle tasche degli italiani per circa 3 miliardi di euro una tantum, mentre l’incremento della fiscalità ordinaria sul risparmio delle famiglie ha già assunto, in pochi anni e nel suo complesso, dimensioni ben più rilevanti. Secondo le nostre ricerche, infatti, ciò corrisponderebbe a un incremento di 9 miliardi annui (corrispondente al +130%) per il periodo 2011-2015, e si dovrebbe per 4,7 miliardi all’aumento delle aliquote sui rendimenti, per 4 miliardi all’introduzione dell’imposta di bollo proporzionale, e per 0,3 miliardi alla Tobin Tax. Secondo le stime, basate su dati e indici Banca d’Italia, ABI, MEF e Fideuram, il prelievo complessivo passerebbe quindi dai 6,9 miliardi del 2011 ai 15,9 attesi per il 2015.
L’incremento appare vertiginoso anche in considerazione del drastico calo della redditività, sia dei titoli di stato che dei depositi bancari. Se ciò non bastasse, per il futuro prossimo circola l’ipotesi di un giro di vite fiscale anche sulla rivalutazione di fondi pensione, casse previdenziali, e trattamento di fine rapporto. Lo studio mostra che un incremento delle aliquote sui fondi pensione al 17% potrebbe ridurre il montante contributivo atteso (e quindi la pensione) dei giovani lavoratori di una percentuale compresa tra il 3,3% ed il 5,7%, mentre un aumento al 26% lo ridurrebbe fino al 14,6%. Considerazioni analoghe si possono esprimere sia sulle casse previdenziali che sul TFR: con un aumento dall’11% al 17% i giovani lavoratori potrebbero subire una decurtazione della liquidazione di fine rapporto compresa tra il 3,6% ed il 6,2%.
Tornando alle rendite finanziarie in generale, lo studio evidenzia che le varie riforme succedutesi in questi anni non hanno provveduto a risolvere alcune delle criticità intrinseche alla normativa, quali la doppia tassazione degli utili distribuiti sotto forma di dividendi, il complesso e non sempre equo meccanismo di compensazione tra guadagni e perdite. Si è rilevata anche la complessità dei calcoli di convenienza relativi alle opzioni di affrancamento concesse dal legislatore al momento degli aumenti fiscali. Vi è inoltre l’aspetto relativo alla tassazione di favore concessa ai titoli di stato rispetto ai titoli emessi da banche e imprese, a partire dal 2012. Le famiglie italiane potrebbero consolidare le tendenze riscontrate nel periodo 2011-2013, con la riduzione in misura lieve dell’impiego diretto nei titoli di stato (-1,3%), e un forte incremento di quello indiretto costituito da fondi comuni (+30,7%) e polizze vita (+9,5%), che godono di un’aliquota intermedia determinata dal peso della componente investita nel debito pubblico.
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Le popolari pagano l’incapacità di riformarsi

Le popolari pagano l’incapacità di riformarsi

Marco Onado – Il Sole 24 Ore

È un fatto che le banche popolari abbiano seri problemi di governance grazie all’uso disinvolto che molti istituti (ma non tutti) fanno del voto capitario. È un fatto che la categoria si sia dimostrata incapace di un adeguato processo di autoriforma, visto che i problemi si trascinano fin dai tempi del Testo Unico, quando le proposte della Commissione Draghi vennero stralciate in attesa di una riforma (ça va sans dire) «più complessiva», il classico termine politichese per “calende greche”. E così infatti è stato. A confronto Penelope sembra un operaio tessile cinese.

Diamo atto al Governo di aver finalmente affrontato il problema della governance nelle banche Popolari. Ma da qui a mettere al bando l’assetto cooperativo imponendo per decreto alle popolari oltre una certa soglia dimensionale la forma di società per azioni, corre un abisso. Non solo, in linea di principio, per la soluzione scelta, ma anche perché le motivazioni indicate prestano il fianco a qualche perplessità.

La prima riguarda il divieto della forma cooperativa per l’esercizio dell’attività bancaria per le popolari più grandi. Lasciando ad altri la valutazione sulla legittimità di un intervento a gamba tesa sulla libertà statutaria, va ricordato che in quasi tutti i paesi le cooperative di credito sono una componente importante dei sistema bancario e in particolare di quello più vicino alle esigenze del territorio. Ci sono ovviamente molti esempi negativi, non solo in Italia, in cui il voto capitario serve a costruire roccaforti inattaccabili per il management o i loro danti causa, ma anche casi – come il Regno Unito – in cui si è dovuto costatare che le grandi building societies che a partire dagli anni Ottanta abbandonarono la forma cooperativa si sono lanciate nelle operazioni più spericolate, fino a crollare miseramente al primo stormire della crisi. Northern Rock è solo l’esempio più clamoroso ma non l’unico.

Il punto debole della corporate governance delle banche popolari è l’uso eccessivo e disinvolto del voto capitario, non il voto capitario in sé. Banche che hanno raggiunto dimensioni ragguardevoli e che hanno nell’azionariato investitori istituzionali anche internazionali non possono limitare le deleghe a numeri micragnosi e soprattutto devono raccoglierle in forma trasparente. Senza dimenticare le popolari non quotate (ma con azioni scambiate sistematicamente) che alimentano mercati assai poco trasparenti delle azioni proprie. Sono questi i nodi fondamentali che la categoria ha eluso per troppo tempo e che a questo punto possono giustificare un intervento dall’alto.

Ma perché tanta fretta da scegliere una soluzione così radicale, per di più con lo strumento del decreto? Stando alle dichiarazioni ufficiali, perché in questo modo si favorirebbero aggregazioni che appaiono indispensabili e perché si creerebbero le condizioni per riaprire i rubinetti del credito, che continua a scarseggiare, soprattutto per le piccole e medie imprese. Al mercato naturalmente le aggregazioni piacciono, perché provocano aumenti nel breve periodo dei prezzi azionari e infatti la borsa ha reagito positivamente, ma non diversamente da quanto ha fatto di fronte ad ogni operazione di fusione, comprese quelle che hanno dato frutti velenosi: se non vogliamo scomodare l’Antonveneta, basta pensare all’acquisizione di Abn Amro da parte di Royal Bank of Scotland, salvata solo grazie al pesante salasso del contribuente britannico. La storia delle fusioni insegna che nell’attività bancaria le economie di scala sono assai difficili da conseguire e che al crescere delle dimensioni i costi unitari non scendono necessariamente. Ogni fusione nasce con il suo corredo di promesse di “sinergie”, certificate da ponderosi studi di banchieri di investimento e consulenti vari, tutti profumatamente remunerati, ma il numero delle delusioni è vicino a quello dei successi.

E ancora: abbiamo “troppi banchieri” come dice il Presidente del consiglio? A parte che pare difficile credere che l’eccesso stia tutto nei vertici delle grandi popolari, il problema – in Europa più che in Italia – è quasi l’opposto. Come ha certificato un recente studio della massima autorità di vigilanza (European Systemic Risk Board) il sistema bancario europeo è troppo grande rispetto all’conomia reale (334 per cento del pil, cioè il doppio degli Stati Uniti), soprattutto perché sono cresciute a dismisura le maggiori banche, che si sono alla fine dimostrate troppo grandi non solo per fallire, ma anche per essere gestite correttamente. Insomma: prima di lanciare la grande corsa alle fusioni nelle fasce dimensionali medio-grandi, bisogna almeno pensarci due volte.

Infine, non è detto che le dimensioni siano la soluzione al nodo del credit crunch. La paralisi del credito ha infatti origini strutturali, tanto che assume particolare gravità in tutti i paesi della periferia d’Europa. E comunque, in Italia, proprio la categoria delle popolari è quella che negli ultimi anni ha ampliato il credito in essere. La Banca d’Italia ha invitato più volte le banche popolari (a cominciare dalle grandi quotate) a risolvere i problemi derivanti dalla rigida applicazione del modello cooperativo, puntando su due criteri fondamentali: l’autodisciplina e i meccanismi di mercato. La riottosità della categoria giustifica l’abbandono del primo criterio, ma il secondo, cioè il rispetto del mercato, rimane sacrosanto.