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Stato imprenditore nella Silicon Valley

Stato imprenditore nella Silicon Valley

Edoardo Segantini – Corriere della Sera

Capita spesso di ascoltare opinioni autorevolmente superficiali sull’innovazione tecnologica «made in Usa», giudizi che sembrano attribuirne il successo a un’ondata recente di imprenditori geniali. È questo un quadro pop fatto di distruzione creativa, sregolatezza regolata e start-up rivoluzionarie. E lo Stato? Non esiste. Dalla nuova retorica non è rimasto immune neppure il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, al suo ritorno dalla California. Chi conosce quei posti sa bene invece che le cose non stanno così. La Silicon Valley, cuore dell’innovazione americana, è ben altro: nasce da settant’anni di investimenti pubblici e militari nella tecnologia. Trae origine da una politica industriale lungimirante, concepita da uomini come il presidente Franklin Delano Roosevelt, Vannevar Bush e Jcr Licklider. Ora, negli Stati Uniti, esce un bel libro di Walter Isaacson, l’autore della biografia di Steve Jobs, tradotta da Mondadori nel 2011, che ha il merito di spiegare l’«innesto» degli innovatori di oggi nell’albero degli innovatori di ieri. Si intitola, per l’appunto, The Innovators.

Gli eroi di questa storia, esaltante e attuale, sono personaggi straordinari come il Nobel Jack Kilby, autore del primo circuito integrato con Robert Noyce, William Shockley, protagonista dello sviluppo del transistor, e Alan Turing, il leggendario crittografo e informatico inglese del progetto Enigma, che morì suicida. Ma emergono anche altre figure come Doug Engelbart, pioniere dell’interazione uomo-macchina, e Stewart Brand, il futurologo che fece i primi esperimenti con l’Lsd e contribuì a iniettare nella Silicon Valley quella cultura hippie che l’ha resa famosa. Le stelle di oggi – da Page a Bezos, da Jimmy Wales (Wikipedia) a Evan Williams, cofondatore di Twitter – possono brillare, oltre che per indiscussi meriti propri, grazie alla potente luce accesa anni fa da uomini come Fred Terman, il «padre» della Silicon Valley insieme a Shockley, e Vannevar Bush. Quest’ultimo svolse un ruolo chiave nel sistema innovativo a stelle e strisce. Un sistema in cui il talento individuale trova un terreno fertilissimo negli investimenti pubblici e militari in ricerca, nella finanza e nella politica industriale. Direttore del Mit di Boston negli anni Trenta, Vannevar Bush durante la Seconda guerra mondiale è messo da Roosevelt a capo dell’Office of Scientific and Research Development (Osrd) per coordinare seimila scienziati nello sforzo bellico.

Il «trasferimento tecnologico», quel nastro veloce che trasporta il sapere dai laboratori fino alle applicazioni, nasce da uomini e da istituzioni come questi, e sarà, da allora in poi, alla base della potenza innovativa – militare e civile – dell’America. Ed è a una nuova agenzia pilotata da Bush – il National Defense Research Committee – che verrà assegnato il compito di far lavorare insieme il governo, le forze armate, le aziende e le università. Una sinergia che verrà resa permanente con risultati formidabili. L’innovazione «Made in Usa» ha poi un altro, illustre antenato nel National Inventors Council, istituito con l’obiettivo di raccogliere e selezionare le invenzioni utili per la difesa nazionale. L’agenzia è voluta, ancora una volta, dal presidente Roosevelt che ne affida la responsabilità a Charles Kettering, direttore della ricerca alla General Motors, uno dei più eminenti inventori del ventesimo secolo, cui si devono l’invenzione del motorino di avviamento e del frigorifero elettrico. Il ruolo degli investimenti pubblici e militari resta fondamentale anche oggi, in piena epoca di app, accanto a quello delle imprese e del capitale finanziario. Non ci sarebbero gli innovatori di oggi senza i loro antenati di ieri, nei laboratori e nelle aziende, ma anche al Pentagono e alla Casa Bianca. Crearono un «tavolo» in cui i singoli talenti diedero – danno – luogo a un sistema Paese, coordinato dalla politica. I politici di oggi dovrebbero ricordarsene.

Tagliamo le imposte, ma per tutti

Tagliamo le imposte, ma per tutti

Carlo Lottieri

La proposta avanzata da Matteo Renzi in tema di fisco, con il progetto di ridurre per tre anni le imposte azzerando i contributi a chi assuma nuovi dipendenti, sta riscuotendo successo: anche in ambienti culturali lontani dalla maggioranza di centro-sinistra oggi al governo. C’è però da chiedersi se non vi sia qualche falla in questa maniera di procedere.
Un punto è chiaro e fuori e discussione: le imposte vanno ridotte. È necessario che lo Stato si ritragga, tagliando le spese, e che in tal modo sia possibile abbassare la pressione fiscale senza sfasciare ancor più i conti pubblici con altro debito. Ma è giustificabile una politica che privilegi, in questo caso, le aziende che decidono di assumere nuovi dipendenti a scapito delle altre?
L’intenzione è positiva, perché non c’è dubbio che rimanere senza lavoro è qualcosa di tragico ed è giusto fare il possibile perché chiunque abbia una vera chance di essere produttivo: di mettersi al servizio dei bisogni degli altri. Nondimeno una simile misura suscita qualche perplessità.
In primo luogo, essa è discriminatoria. L’impresa che ha assunto un anno fa non godrà del beneficio tributario riconosciuto a quanti si sono presi in azienda altri dipendenti dopo l’approvazione della norma: e questo comporta due conseguenze. Una sul piano della giustizia (perché due aziende sono trattate in maniera differente solo perché una ha assunto prima e l’altra dopo) e l’altro sul piano della competitività, dal momento che l’azienda che assume solo all’indomani dell’approvazione della norma può fare prezzi inferiori a quella che aveva assunto in precedenza.
In secondo luogo, questa scelta può modificare il comportamento degli amministratori delle aziende, ad esempio portandoli ad assumere invece che a rinnovare i macchinari, e non è detto che sia una scelta economicamente ragionevole (capace, insomma, di soddisfare al meglio i consumatori). Se vi sono norme che mi inducono ad assumere invece che utilizzare altrimenti le mie risorse, è possibile che io assuma anche quando altre iniziative sarebbero state migliori.
In fondo, tutto si riassume nella pretesa dei governanti di “indirizzare” le scelte delle imprese private. Ma non è in questo modo che cresce un’economia libera. Sarebbe allora molto meglio che la riduzione del prelievo fiscale, se mai si farà, sia fatta senza dividere tra figli e figliastri: senza aiutare chi investe e chi non, chi assume e chi non, chi esporta e chi produce per il mercato interno, e così via.
Un ordine economico di libero mercato non nasce dalla programmazione di politici che orientano le scelte degli individui, ma quale risultante delle decisioni di quanti (imprenditori, dipendenti, consumatori, ecc.) sono in condizione di poter decidere della propria vita e dei propri beni. Ben venga quindi un vero taglio al prelievo fiscale e, assieme a questo, anche un dimagrimento dell’apparato pubblico. Ma se si riuscisse a togliere ogni elemento dirigistico (e con esso l’illusione che la politica possa creare occupazione) sarebbe molto meglio.
Mai prima d’ora

Mai prima d’ora

Davide Giacalone – Libero

Va di moda il “non si era mai fatto prima”. Si è passati dal cronoprogramma sincopato alla più lunga maratona dei mille giorni, passo dopo passo. Il che potrebbe essere salutato come un approdo al realismo, se non fosse che ad ogni passo ci viene chiesto di credere che “non si era mai fatto prima”. E neanche mi preoccupa la pretesa, in sé infantile, ma che molti, specialmente fra i politici teleparlanti, mostrino di crederci. O addirittura ci credano. Perché questa non è semplice mancanza di memoria, ma ignoranza allo stato brado.

Silvio Berlusconi, allora presidente del Consiglio, ebbe a dire che i suoi governi avevano realizzato più cose di tutti quelli precedenti, dalla nascita della Repubblica a quel momento. Boom! La sparata era talmente tonante che non sarebbe neanche stato necessario metterla in dubbio, eppure non passava giorno, anzi non passava ora senza che si sostenesse e facesse valere, su ogni mezzo di comunicazione, una corbelleria eguale e contraria: non ha fatto nulla e nulla sta facendo. Salvo gli affari suoi, naturalmente, perché questo voleva e vuole la vulgata luogocomunista. Insomma: Berlusconi non era certo immune dal dirle tonde, ma cadevano su un terreno vaccinato, se non prevenuto. Ora mi preoccupa una certa predisposizione al contagio della balloneria.

Mai prima d’ora si erano fatti sgravi fiscali. No, se ne sono fatti diversi. Se proprio serve indicarne uno: la cancellazione dell’Ici sulla prima casa, poi replicata con l’Imu, sotto il governo Letta. Ed era appena ieri. Solo che gli sgravi si sono fatti, ma la pressione fiscale continuava a crescere, come ora. Mai prima d’ora s’era messo mano alla Costituzione. No, lo si è fatto un sacco di volte. Purtroppo. Ma mai prima d’ora s’erano diminuiti i parlamentari. Certo che lo si è fatto, solo che il partito il cui segretario oggi crede d’essere il primo, il Pd, allora volle un referendum per cancellare la diminuzione. Lo stesso referendum che servì a far cadere la riforma della pessima riforma del Titolo quinto della Costituzione, che ora è condannata da chi la votò, mentre è reclamata la riforma da chi la affossò. Già, ma mai prima d’ora ci si era dedicati al bicameralismo paritario. Eccome, tanto che nella Costituzione del 1948 non c’era. Solo che a difenderlo era quella sinistra che ora crede d’essere la prima a detestarlo. Mai prima d’ora s’erano messi dei soldi nelle tasche degli italiani. Certo che lo si fece, ad esempio con la social card (osservo che la criticai per la stessa ragione per cui ho criticato gli 80 euro, il che dimostra che non solo non è la prima volta, ma facciamo le stesse cose da troppo tempo). Mai prima d’ora s’è pensato di rivoluzionare la scuola e la giustizia. Ci hanno pensato tutti, fin troppo spesso, solitamente con idee più chiare di quelle fin qui presentateci dai primatisti. Mai prima d’ora s’era messo in discussione l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori. Ne parliamo da quaranta d’anni ed è stato riformato due anni addietro, mentre la delega alla riforma è vuota.

Potrei continuare, ma temo di arrivare ad essere contagiato anch’io, concludendo che: mai prima d’ora si sono detti tanti sfondoni. Me lo risparmio, perché sarebbe una bella gara. Faccio solo osservare che le non raffinate menti di quelli che guardano alla sostanza, nonché i grossolani figuri della Commissione europea tendono ad attenersi alle regola di Totò: è la somma che fa il totale. E se fra di addendi ci si mette i proventi della lotta all’evasione fiscale, pretendendo che sia la prima volta nella storia, va a finire che si ricordano d’averla già sentita. Così che se si dice di voler diminuire i premi delle lotterie, va a finire che qualcuno s’accorge che trattasi di prelievo fiscale. E presto gli sovverrà che non è la prima volta, ma l’ennesima.

In compenso ora, per la prima volta, leggeremo il testo della legge di stabilità, non dovendola desumere da un fiume d’interviste contraddittorie. La studieremo senza prevenzione alcuna. Se conterrà cose mai viste prima, ne daremo atto. Se ci vedremo conti che tornano sopravvalutando le entrate e sottovalutando le uscite, rimandando tutto alla prima trimestrale di cassa, a tutto penseremo, tranne che alle novità.

Sempre meno banche in Europa

Sempre meno banche in Europa

Alessandro Merli – Il Sole 24 Ore

Il settore bancario dell’eurozona si presenta all’appuntamento della fine dell’esame da parte della Banca centrale europea, fra meno di due settimane, con meno banche e un attivo ridotto, ma con una redditività tuttora modesta, secondo uno studio della stessa Bce pubblicato ieri. Un rapporto dell’agenzia di rating Fitch nota che la conclusione dell’esame delle banche condotto dalla Bce è solo il primo passo per uniformare l’accesso ai fondi privati e la capacità di aumentare il credito. Fitch osserva che i livelli di crediti problematici non coperti da accantonamenti resta alto nei Paesi maggiormente investiti dalla crisi, come Italia, Spagna, Grecia e Irlanda, rendendo alcune banche ancora vulnerabili. Solo un piccolo numero di banche, secondo l’agenzia, fallirà il test della Bce.

Il consolidamento del settore è continuato nel 2013, l’anno cui lo studio Bce si riferisce, portando il numero degli istituti sotto quota 6mila, a 5.948. Nel 2008, prima dello scoppio della crisi finanziaria, erano 6.690. L’attivo totale si è contratto a 26.800 miliardi di euro da 33.500 prima della crisi, soprattutto per effetto dell’azione delle grandi banche: metà della riduzione è dovuto alla chiusura di posizioni sui derivati. «Il deleveraging delle banche europee continua – ha detto il vicepresidente della Bce, Vitor Constancio, nel presentare il rapporto -. Questo è stato compensato da un significativo aumento dell’attività del settore bancario “ombra”, che dev’essere osservata da vicino». Le preoccupazioni sull’evoluzione dell’attività creditizia da parte di entità fuori dal perimetro della regolamentazione bancaria sono state al centro della discussione anche nei giorni scorsi a Washington alle riunioni dell’Fmi.

Il processo di razionalizzazione del settore, sostiene la Bce, suggerisce che l’efficienza complessiva del sistema continua a migliorare. Tuttavia i risultati di bilancio e la redditività restano bassi, anche se in nessun Paese dell’eurozona il sistema bancario nel suo complesso ha accusato una perdita operativa nel 2013. La redditività continua a subire l’impatto negativo dei tassi d’interesse molto bassi, il continuo peggioramento della qualità dell’attivo, i costi di ristrutturazione e di procedimenti giudiziari e cause legali. La scarsa redditività delle banche europee è stata sottolineata la settimana scorsa anche dal Fondo monetario, che ha sollevato dei dubbi sulla loro capacità di finanziare la ripresa.

Le banche europee hanno anche ridotto la loro dipendenza dai mercati dei capitali, affidandosi maggiormente alla raccolta da clientela, e dalla Bce, con il rimborso di buona parte dei prestiti Ltro concessi dall’Eurotower nel 2011-2012. Il valore mediano del capitale tier è aumentato da 12,1 nel 2012 a 13% a fine 2013. Fitch sostiene che la capitalizzazione delle 130 banche all’esame della Bce si è rafforzata notevolmente dall’ultimo stress test del 2011, continuando nel 2014. Secondo l’agenzia, le banche hanno raccolto capitale per 65 miliardi di euro nella prima metà del 2014. Fitch prevede che ulteriori aumenti di capitale e ristrutturazioni, soprattutto da parte delle banche più deboli, seguiranno la pubblicazione dei risultati della valutazione appronfondita della Bce. Questa avverrà il 26 ottobre prossimo. Le banche hanno poi due settimane di tempo per presentare i propri piani su come far fronte alle carenze di capitale. Secondo Fitch, questo riguarderà solo un piccolo numero di banche. Il quotidiano tedesco Handelsblatt riferiva ieri che in Germania solo la landesbankdi Amburgo, Hsh, fortemente esposta al settore in crisi del trasporto marittimo fallirebbe il test.

L’imposta più odiata

L’imposta più odiata

Salvatore Padula – Il Sole 24 Ore

L’Irap, sin dalla sua nascita, si porta dietro la sgradevole immagine di “tassa ingiusta”. Tasse simpatiche non se ne conoscono, d’accordo. Ma una tassa che colpisce il lavoro e che si paga anche quando i bilanci chiudono in perdita è qualcosa davvero difficile da farsi piacere. Economisti, giuristi e politici si confrontano da sempre sulla coerenza di un prelievo così congegnato e anche segnato da innumerevoli promesse di soppressione, puntualmente disattese. Anche per questo, l’annuncio del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, di voler azzerare la componente del costo del lavoro dall’Irap rappresenta una svolta di grande rilievo. E non solo perché in questo modo il prelievo sulle attività produttive sarà alleggerito di circa 6,5 miliardi all’anno.

L’intervento sull’Irap annunciato dal premier va nella direzione giusta anche per altri motivi. E risponde alla priorità di avviare una reale riduzione del cuneo fiscale sul lavoro. Un intervento così congegnato, infatti, andrà a premiare le imprese che danno più lavoro, le attività labour intensive. Una misura di questo tipo appare più efficace del taglio lineare dell’aliquota (come è stato fatto sempre dal governo Renzi poco prima dell’estate), che produrrebbe una riduzione del prelievo “democratica” – ovvero uguale per tutti – ma forse poco lungimirante nella fase attuale, nella quale il lavoro ha bisogno di essere sostenuto. Spostare tutto, come intende fare il governo sul costo del lavoro, risponde così all’esigenza di rendere più competitive le imprese, visto che proprio la componente Irap gioca in questo senso un ruolo decisamente negativo. Un ruolo anche poco comprensibile all’estero, tanto che – per fare un esempio – le statistiche internazionali sul costo del lavoro redatte dall’Ocse non includono per l’Italia la componente Irap, facendo apparire il nostro cuneo fiscale non così diverso da quello degli altri paesi, cosa che ovviamente non è.

Certo, rispetto al 1997 – anno dei primi pagamenti dell’Irap – molte correzioni, semplificazioni e riduzioni del prelievo sono arrivate. Talvolta lo si è fatto per adeguarsi o per rimediare alle sentenze delle Corti, dalla Cassazione alla Corte costituzionale; altre volte per rispondere – ancorché parzialmente – all’allarme del mondo produttivo sugli effetti devastanti di questa imposta. Nel corso degli anni, solo per citare alcune misure volte a ridurre l’impatto dell’imposta, sono arrivate detrazioni fisse dalla base imponibile e detrazioni legate in modo specifico al costo del lavoro che hanno escluso dall’imposta moltissimi soggetti economici di piccole dimensioni. Un segnale è giunto anche con l’introduzione della possibilità di dedurre dall’Ires una quota dell’Irap pagata. Non c’è dubbio, però, che la misura ora annunciata dal governo rappresenti una scossa, che non può essere paragonata agli interventi del passato.

Proprio qualche giorno fa il direttore dell’agenzia delle Entrate, Rossella Orlandi, ha parlato delle necessità di un fisco che favorisca lo sviluppo. E ha lanciato l’idea di un nuovo “patto” di fiducia con le imprese e i professionisti. Ecco, questa può essere, anzi, questa deve essere la direzione da seguire. Perché, come si è detto sul Sole 24 Ore di sabato scorso, in un paese come l’Italia che ha una pressione fiscale a livelli insostenibili, il “patto” sul fisco richiede in primo luogo uno sforzo nella direzione della riduzione del prelievo. Dal governo sta per arrivare una prima, importante, risposta. Che pone le basi per costruire davvero un nuovo rapporto tra fisco e contribuenti.

La partita italiana nel gioco globale

La partita italiana nel gioco globale

Roberto Napoletano – Il Sole 24 Ore

L’allargamento al mercato cinese può essere per l’Italia di oggi dello stesso segno e importanza di quello che fu l’allargamento dell’Italia di ieri al mercato europeo e americano. Questa è la grande occasione che non possiamo permetterci di sprecare oggi. Dipende, in gran parte, da noi. Questa almeno è la sensazione che si ricava dalla lettura dell’articolo («L’albero sempreverde dell’amicizia tra Cina e Italia») che il premier cinese, Li Keqiang, ha voluto riservare al Sole 24 Ore di ieri come presentazione della sua missione nel nostro Paese.

Ci è sembrata un’apertura interessante perché parte dall’Italia storica ma arriva in fretta a quella attuale. Ci sono il Colosseo e il Pantheon, per intenderci l’inchino alla bellezza cosmopolita italiana che viene dal suo passato, ma ci sono, soprattutto, un riconoscimento diretto all’Italia imprenditoriale come “leader mondiale nell’innovazione e nel design” e l’indicazione operativa di un’alleanza strategica per potenziare gli investimenti cinesi in Italia, favorire gli investimenti nostri in Cina e sviluppare “nuovi prodotti di marca progettati e realizzati da Cina e Italia” destinati ai mercati globali.

Il pragmatismo che spinge a indicare una per una, dall’energia ai macchinari, le aree di intervento, gli accordi di peso in via di imminente sottoscrizione tra Cassa depositi e prestiti e China development bank per fare crescere insieme le imprese italiane e cinesi sui mercati globali e quelli in dirittura d’arrivo tra il Fondo strategico italiano e il Fondo sovrano cinese, si propongono di consegnare al nostro Paese carente di risorse una dote di capitali preziosa perché indirizzata all’innovazione e attratta dalla calamita della creatività, del saper fare e di tutto ciò che appartiene a quell’unicum italiano, manifatturiero e di servizi, che vale ancora oggi 400 miliardi di esportazioni e un surplus di 100.

Abbiamo ancora un deficit di interscambio bilaterale molto alto e questo ci dice che non bastano i nostri imprenditori dinamici (meno male che esistono) e bisogna fare in modo che la dimensione delle nostre aziende cresca e la rete di intelligenze tra territori, imprese, scuola e università diventi, anzi torni ad essere, una realtà. Se le imprese tedesche vendono in Cina macchine per fare pane e prodotti da forno tre o quattro volte più di noi, vuol dire che il modello organizzativo italiano non consente di arrivare dove meritiamo di essere. Vuol dire che le imprese italiane devono fare la loro parte fino in fondo e il sistema Paese deve essere in grado, alla voce fatti, di azzerare i vincoli burocratici, ridurre il carico fiscale e contributivo, promuovere l’internazionalizzazione.

L’allargamento al mercato cinese, in un quadro geopolitico complicato, può consentirci di fare un ulteriore, significativo passo in avanti sui mercati esteri. Non siamo, ovviamente, indifferenti al tema dei diritti umani e al futuro di democrazia che la Cina deve riuscire, nel suo interesse, a costruire. Siamo, però, altrettanto certi che proprio queste aperture economiche e la scelta strategica di partnership mirate, aiutino la Cina ad adeguarsi alle regole condivise dei brevetti e della proprietà intellettuale del mondo occidentale, aumentino la consapevolezza dello spirito della concorrenza globale e dei principi del mercato. Siamo certi che passi per la via economica la crescita del tasso di apertura verso un futuro democratico della Cina e sappiamo bene quanto ciò sia importante per loro e per il mondo. Se la Merkel almeno due volte all’anno è in visita a Pechino per consolidare le alleanze e stringere accordi commerciali, altrettanto (anzi, di più) dobbiamo fare noi. I rapporti politici, da sempre, hanno un peso nella costruzione della pace e della democrazia, ma anche nell’economia. Soprattutto se l’integrazione tra capitale umano e finanziario, può far crescere l’innovazione e valorizzare il talento italiano.

Una scossa da realizzare con serietà

Una scossa da realizzare con serietà

Guido Gentili – Il Sole 24 Ore

Fosse solo una partita di poker, tra lanci e rilanci, sarebbe divertente. Ma non lo è. La posta in gioco è tremendamente più seria e cruciale: la ripresa di un Paese stremato e il suo rapporto con l’Europa e con i mercati. Dietro e davanti l’annuncio del premier Matteo Renzi di una legge di stabilità da 30 miliardi senza aumenti fiscali; la spending review per 16 miliardi; l’abbattimento dell’Irap per 6,5 miliardi; il taglio per 3 anni dei contributi per chi assume a tempo indeterminato; la possibilità di ricevere il Tfr in busta paga ci sono questi numeri e questa impostazione. Mix che se confermato in modo chiaro nel testo di legge può segnare la svolta attesa. Oppure, in caso contrario, aprire una finestra sul burrone.

Renzi ha messo sul piatto la credibilità sua e della terza economia dell’Eurozona. Lo ha fatto tirando dritto su una strada dove non mancano le curve pericolose (a partire dall’esame non scontato dell’Europa sulla deviazione dal pareggio di bilancio) e che può essere attraversata da molte incognite. Le preoccupazioni formulate da Bankitalia hanno un loro spessore di veridicità e sarebbe un errore non tenerne in debito conto. Sarebbe sbagliato sottovalutare anche le contestazioni. Infine, ieri come oggi, non è possibile trattare il tema delle coperture finanziarie con un’alzata di spalle. D’altra parte gli impegni assunti dal premier suonano con toni diversi da quelli di uno spot di giornata. Al contrario. La strategia d’attacco prospettata indica una scelta di politica economica e non un compromesso dove tutto “si tiene”. Di queste mezze soluzioni inservibili ne abbiamo collezionate a bizzeffe e l’Italia ha pagato un prezzo altissimo. Se ne ricordi, domani, il Governo.

Sforbiciata sulla Sanità e sui trasporti per il pendolari

Sforbiciata sulla Sanità e sui trasporti per il pendolari

Paolo Russo – La Stampa

La legge di stabilità rischia di falciare i servizi sanitari delle regioni più virtuose e i treni dei pendolari. Il contributo richiesto ai governatori è ancora di 2 miliardi, anche se si tratta per abbassare l’asticella a 1,5-1,2 miliardi. Un taglio «fai da te», perché il governo non indicherebbe alcuna misura per conseguire il risparmio, ma lascerebbe mani libere alle Regioni. Libere per modo di dire, visto che 1’80% dei loro bilanci è assorbito dalla sanità e la restante parte in larga misura dal trasporto regionale. Messa così la sforbiciata altro non sarebbe che un taglio lineare, destinato a mettere con le spalle al muro proprio chi in sanità la spending review l’ha già fatta. Per indorare la pillola potrebbe non essere iscritta a deficit la spesa per investimenti, mentre un aiutino alle Regioni arriverebbe dalla conferma anche per il 2015 del 5% di taglio dei prezzi dei dispositivi medici.

Per risparmiare quei 2 miliardi il menù sanitario esiste già. È quello del Patto per la salute, sottoscritto appena a fine luglio da governo e Regioni che contiene misure per 10 miliardi di risparmio in tre anni. Quel Patto prevede prima di tutto la centralizzazione degli acquisti, sconosciuta a larga parte delle Asl del Sud. Poi la razionalizzazione della rete ospedaliera, con la chiusura e il riaccorpamento dei reparti sottoutilizzati o con performance scadenti. Tutte misure largamente applicate dalle regioni a Nord del Lazio. Dietro l’angolo potrebbe esserci l`aumento di ticket. A fine novembre i tecnici di Stato e Regioni sforneranno la proposta che riduce il numero degli esenti per rendere meno salato il contributo chiesto per visite specialistiche e accertamenti diagnostici.

Oltre due milioni di pensioni sotto i 500 euro

Oltre due milioni di pensioni sotto i 500 euro

La Stampa

Nel 2013 quasi la metà dei pensionati (il 43,5%, pari a 6,8 milioni di persone), aveva un reddito pensionistico inferiore a 1.000 euro al mese. Lo si legge nel Bilancio sociale Inps. Oltre 2,1 milioni di pensionati (il 13,4%) aveva un reddito inferiore ai 500 euro mentre quasi il 70% aveva meno di 1.500 euro al mese. Crollo dei lavoratori pubblici nel 2013: rispetto al 2012 – si legge nel Bilancio sociale dell’Inps – sono diminuiti di 64.491 unità (-2,1%). I dipendenti del sottore privato sono diminuiti di 140.195 unità (-1,1%) mentre i parasubordinati hanno perso oltre 100.000 iscritti (-9,3). Nel complesso gli iscritti sono diminuiti di 357.000 unità (-1,6%).

Nel 2013 è salita la spesa per ammortizzatori sociale. Al netto dei contributi figurativi l’esborso dell’Inps è risultata pari a 14.514 milioni, con un incremento di 1.982 milioni (+15,8%) rispetto ai 12.532 del 2012 a cui si aggiunge la spesa per contributi figurativi di 9.077 milioni, la spesa totale risulta pari a 23.591 milioni di euro, con un incremento di 938 milioni (+4,1%) rispetto ai 22.653 milioni del 2012. I lavoratori hanno percepito un ammortizzatore sociale sono stati oltre 4 milioni e mezzo: le prestazioni (tenendo conto che uno stesso individuo può aver fruito di prestazioni di tipo diverso) sono state 4.897.868, contro 4.330.905 del 2012, quindi oltre 560 in più.

L’incremento maggiore della spesa è stato rilevato per l’indennità di mobilità che ha superato il 17%; la spesa per la Cig nel suo complesso è cresciuta del 9,6% mentre la spesa per indennità di disoccupazione è calata dell’1%. La Cig in particolare ha coinvolto più di 1 milione e mezzo di lavoratori (+1,1% rispetto al 2012), la mobilità ne ha interessati oltre 300 mila e la disoccupazione nel suo complesso quasi 3 milioni e mezzo. «L’analisi dei dati riguardanti il numero dei beneficiari di ammortizzatori sociali nel 2013 – si legge nel Rapporto – testimonia il perdurare delle difficoltà affrontate da imprese e lavoratori italiani». La permanenza media pro capite in Cig è stata pari a 2 mesi e 4 giorni lavorativi.

L’ora degli esami per il premier

L’ora degli esami per il premier

Michele Brambilla – La Stampa

Domani il governo approverà la manovra. Vedremo come sarà. Da essa dipenderà, certamente, il futuro della nostra economia (almeno per i prossimi mesi): ma, probabilmente, anche quello del premier. Matteo Renzi sta infatti governando grazie a una formidabile apertura di credito ricevuta da una parte del Paese ben più numerosa di quella riferibile all’elettorato del suo partito. C’è tutto un mondo che per la prima volta, alle scorse europee, ha messo la ics sul simbolo del Pd nella convinzione che Renzi sia l’uomo giusto per dare il via a una serie di riforme di stampo liberale. Questo mondo finora ha dimostrato di saper aspettare, di non pretendere da Renzi, in pochi mesi, risultati che altri non hanno conseguito in decenni. Ma quanto durerà la pazienza? Insomma quanto durerà questa «apertura di credito»?

Prendiamo il Veneto, esempio perfetto. Da sempre è stato un feudo del centrodestra: nel 2010, Pdl e Lega insieme raggiunsero il 59 per cento. Quest’anno, in maggio, alle europee il centrosinistra ha vinto per la prima volta. Il Pd ha toccato il 37,52 per cento, contro il 21,6 di appena un anno prima (alle politiche): da solo, ha avuto più consensi di Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia e Ncd messi insieme. Non occorre un mago dei flussi elettorali per comprendere che una simile rivoluzione ha un nome e un cognome: Matteo Renzi. Il leader di centrosinistra che, alle orecchie degli imprenditori del Nord-Est, finalmente parla il loro linguaggio, e non quello di una vecchia sinistra, che è poi quella che ieri a Bergamo l’ha contestato.

Nei giorni di quell’exploit renziano, Luca Zaia disse: «La luna di miele tra Renzi e il Veneto finirà prima che arrivino le regionali». Ebbene, in questi giorni la Swg ha fatto un sondaggio appunto sulle prossime regionali, che si terranno in primavera, e i numeri direbbero che Zaia è in vantaggio di quindici punti sulla probabile candidata del centrosinistra, Alessandra Moretti, che pure nel maggio scorso, alle europee, aveva preso 230.000 preferenze, un’enormità. Non solo: il sondaggio darebbe il Pd attorno al 30 per cento, sette punti in meno rispetto a cinque mesi fa. Vero che il sondaggio è stato commissionato dalla Lega: ma il direttore scientifico della Swg, Enzo Risso, ha detto ieri al quotidiano L’Arena di Verona che un lavoro analogo gli è stato commissionato anche dal Pd, facendo capire che i risultati sono gli stessi.

Ora, è fin troppo banale sottolineare che le elezioni europee sono una cosa, e le regionali un’altra; che Zaia ha un seguito personale fortissimo, eccetera. Ovvio. Tuttavia, è innegabile – come filtra da ambienti di Confindustria Veneto – che tra gli imprenditori un po’ di impazienza cominci a circolare: «Renzi è venuto più volte qui in Veneto facendo grandi promesse, ora deve stare attento a non deluderle. La sua idea sul Tfr in busta paga, ad esempio, ha fatto venire molti mal di pancia». «Tra gli elettori passati dal centrodestra a Renzi comincia a montare qualche insofferenza», conferma Francesco Jori, scrittore veneto, autore di saggi sulla Lega. L’ex sindaco di Oderzo Bepi Covre, uno degli imprenditori leghisti che hanno votato per Renzi, dice che continua ad avere fiducia nel premier, ma pure che un cambio di passo non è rinviabile: «Il Pil Veneto nel 2014 sarà del più 2,5: come la Germania. Ma la media del Paese porterà a un meno 0,3 o 0,4: è chiaro che non si possono dare le stesse medicine per malattie diverse. Il governo deve restituire competitività alle piccole e medie imprese abbassando il cuneo fiscale. Più soldi in busta paga e meno tasse». Ieri a Bergamo Renzi ha promesso agli imprenditori proprio questo: meno tasse, almeno per chi assume. Non solo in Veneto, ma in tutta Italia, c’è tutto un mondo che lo giudicherà sulle sue parole.