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Europa a due velocità

Europa a due velocità

Dopo lo sdoganamento da parte del Cancelliere Merkel della possibilità di un’Europa a due o più velocità ci si interroga se tale ipotesi sia desiderale e, soprattutto, fattibile. La lettura in materia è sterminata. Un utile e coinciso lavoro è stata pubblicato nel settembre 2015 da tre giovani studiosi del “Centro Marco Biagi” dell’Università di Modena e Reggio Emilia: Paola Berolini, Francesco Pagliacci e Antonio Pisciotta.

Il lavoro prende l’avvio dalla “Strategia Europa 2020” e sottolinea come l’Unione europea si presenti come un insieme tutt’altro che omogeneo. Già nel 2006 Jacques Sapir, analizzando i principali modelli sociali europei, aveva individuato «quattro diversi modelli sociali europei, ciascuno con la propria performance in termini di efficienza ed equità». Tali modelli erano di fatto riconducibili a quattro diverse aree geografiche all’interno dell’Ue a 15: i Paesi nordici (Danimarca, Finlandia e Svezia oltre che i Paesi Bassi) si caratterizzavano per alta efficienza ed alta equità; i Paesi anglosassoni (Irlanda e Regno Unito) apparivano efficienti ma non equi; i Paesi continentali (Austria, Belgio, Francia, Germania e Lussemburgo) erano equi ma non efficienti; infine, i Paesi mediterranei (Grecia, Italia, Portogallo e Spagna) presentavano tratti tali da non assicurare né equità né efficienza. Sapir osservava quindi la sostanziale inadeguatezza della “Strategia” di fronte a sistemi sociali così difformi e che avevano bisogno di essere riformati in vista delle sfide poste dalla globalizzazione e dalle dinamiche demografiche dell’UE.

Pochi Stati membri hanno raggiunto l’obiettivo comunitario del 75% di occupati sulla popolazione in età da lavoro. Rispetto alle aggregazioni per modelli sociali, è possibile vedere il netto distacco del Nord Europa, che nel complesso ha già raggiunto (e superato) l’obiettivo comunitario, sebbene il confronto temporale segnali un peggioramento per quasi tutti i Paesi (a eccezione della Svezia). All’opposto, il modello mediterraneo mantiene la peggiore performance, con un ulteriore peggioramento prodotto dalla crisi: anche il Portogallo, infatti, che si stava avvicinando al modello anglosassone (Sapir, 2006), vede peggiorare nettamente la propria posizione. La situazione dell’Est Europa appare invece alquanto eterogena. Inoltre va segnalato che gli obiettivi nazionali definiti dai singoli Paesi, in queste due aree, appaiono in molti casi irrealistici, alla luce dei dati e della performance perseguita nel periodo.

In posizione particolarmente arretrata si notano Grecia, Spagna, Ungheria, Bulgaria, Portogallo e Italia; per tutti questi Paesi, è difficile ipotizzare il raggiungimento dei rispettivi obiettivi entro il 2020. Infine va notato che l’area continentale – pur mantenendo una distanza, anche se relativamente contenuta, sia rispetto all’obiettivo europeo sia rispetto all’area nordica – mostra la migliore resilienza in termini occupazionali rispetto alla crisi, dato che l’occupazione nel periodo è cresciuta o non ha subito rilevanti flessioni.

Passando alla spesa interna lorda in Ricerca e Sviluppo, anche in questo caso si nota una grande eterogeneità negli obiettivi fissati dai singoli Stati membri, essendo diverse le possibilità degli stessi. Ad esempio nel 2013 i Paesi nordici erano già al di sopra dell’obiettivo europeo del 3% e non sorprende di vedere obiettivi nazionali al 4%. La periferia sud-orientale dell’Europa, invece, presenta la peggiore performance (meno dell’1% del Pil): in particolare, i Paesi mediterranei, oltre ad avere in media una performance peggiore rispetto all’area orientale, presentano incrementi della spesa per R&D inferiori a quest’ultima area, dove alcuni Paesi hanno visto crescere in modo significativo il valore dell’indicatore (ad esempio Repubblica Ceca, Estonia e Slovenia). I Paesi dell’Europa centrale migliorano nettamente gli investimenti in R&D nell’arco del periodo considerato, mentre l’area anglosassone presenta difformità tra Irlanda e UK e un investimento medio comunque ben inferiore all’indicatore della Strategia

L’analisi delle differenze esistenti tra Stati membri nel perseguimento degli obiettivi previsti dalla “Strategia Europa 2020” restituisce un’immagine nitida circa il gap tra i territori centrali del continente e le sue periferie. Tali differenze sono il risultato di processi di portata storica: non è pensabile che essi possano essere colmati nell’arco di pochi anni (o di qualche decennio).

Su tali differenze è lecito attendersi che la crisi economica abbia avuto un impatto molto diverso, data la difformità delle economie e dei modelli sociali sviluppati. Con riferimento al tasso di occupazione, la crisi economica ha certamente determinato un allargamento dello scarto esistente tra le aree considerate. La spesa percentuale in R&S è invece aumentata ovunque nel Continente, anche se in modo non particolarmente significativo, probabilmente per gli effetti del perdurare della crisi economica. I maggiori progressi sono stati compiuti dai Paesi dell’Europa orientale (+0,3%) ma anche da quelli dell’Europa centrale (+0,12%), mentre nell’area meridionale non si registrano miglioramenti significativi. I Paesi nordici, che partivano già da livelli molto elevati nel 2008, hanno continuato ad accrescere tali investimenti. La quota di energia prodotta da fonti rinnovabili è aumentata in modo sensibile, vedendo in questo caso accomunati i Paesi della periferia sud-orientale con quelli nordici (nonostante livelli di partenza molto difformi). I Paesi anglosassoni, caratterizzati da un ridotto utilizzo di energie prodotta da fonti rinnovabili, hanno registrato i minori progressi in termini percentuali. È evidente che, nonostante la Strategia abbia stimolato i Paesi a migliorare la loro performance, neppure in questo caso è possibile parlare di processo di convergenza a livello europeo.

Rispetto al livello di educazione terziaria, invece, si registrano ottime performance per quasi tutti i Paesi dell’Est Europa (che al 2013 hanno superato, in media, quelli dell’Europa mediterranea) e dei Paesi anglosassoni. I risultati peggiori, invece, riguardano proprio la dimensione inclusiva della crescita. In nessuna delle cinque aree considerate si registra una diminuzione della percentuale di popolazione a rischio di povertà. Tuttavia, proprio i modelli sociali caratterizzati, secondo Sapir (2006), da maggiore equità (ovvero il modello nordico e quello centrale) si sono dimostrati maggiormente capaci di limitare tale aumento (rispettivamente +0,9% e + 0,3%). Al contrario, nei Paesi anglosassoni e in quelli mediterranei la popolazione a rischio di povertà è aumentata in misura molto sensibile (di quasi il 4%). I Paesi dell’Europa orientale, nonostante una decisa caduta dei tassi occupazionali nel periodo 2008-2013, hanno avuto un incremento contenuto del rischio di povertà, anche se l’analisi per Stati evidenzia differenze significative.

L’analisi evidenzia performance molto difformi anche all’interno delle macro-aree individuate. Adesempio colpisce la distanza tra Irlanda e Regno Unito nel modello anglosassone, il progressivo allontanamento dell’Olanda dal modello nordico e la relativa difformità che sta emergendo in questo gruppo di paesi; ciò potrebbe segnalare il cambiamento di impostazione nella politica sociale di tali aree. Significativa è anche la profonda differenza di performance nell’area orientale, che potrebbe indicare una difformità di modelli sociali anche in quest’area. Di conseguenza, sarebbe interessante una nuova e più approfondita riflessione sui modelli sociali europei alla luce dei cambiamenti indotti sia dall’allargamento che dalla crisi.

Certamente, a dieci anni dal Rapporto Sapir, molto poco è stato fatto in concreto per rendere l’Unione europea un’area più omogenea e coesa rispetto agli obiettivi di “Europa 2020”. D’altro canto la Strategia non si è dimostrata efficace a tale scopo: date le perduranti difformità, a metà del suo ciclo di vita, il raggiungimento di molti dei suoi obiettivi sembra ormai compromesso. Soprattutto, ad oggi appare sempre più urgente un efficace contrasto alle tendenze centrifughe che stanno interessando l’Ue e in particolare le sue aree più periferiche.

E-business: soltanto il 7,6% delle imprese italiane vende online i propri beni e servizi

E-business: soltanto il 7,6% delle imprese italiane vende online i propri beni e servizi

Soltanto il 7,6% delle imprese italiane vende online i propri beni e servizi: un dato in leggero aumento rispetto al 6,7% del 2015 e al 5,3% del 2014 ma comunque nettamente inferiore alla media degli altri paesi europei (17,80%). Il nostro paese è al terzultimo posto in Europa, seguito soltanto dalla Romania e dalla Bulgaria dove le imprese che nel 2016 vendevano online erano rispettivamente il 7,4% e il 5,4%.  Al primo posto nell’utilizzo commerciale della Rete si collocano le imprese irlandesi (30,3%), segue la Danimarca con il 27,7% di imprese che vende online, la Svezia (26,8%) e la Repubblica Ceca (26,6%). Rispetto ai loro principali competitor, le aziende italiane perdono nettamente il confronto anche con le imprese tedesche (26,2%), britanniche (19,40%), spagnole (19,10%), francesi (16,6%) e addirittura greche (10,2%).

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In termini di valori degli scambi, in Italia le transazioni commerciali online costituiscono soltanto l’8,8% del totale. Peggio di noi in Europa fanno soltanto Romania, Lettonia, Grecia, Cipro e Bulgaria. Anche in questo caso risultiamo nettamente sotto la media europea (16,4%) e molto distanti dalle grandi economie: Regno Unito (19%), Francia (16,7%) e Germania (14,4%). Su tutti spicca comunque il dato dell’Irlanda (35,1%), che si conferma un’economia particolarmente aperta al mercato digitale. Seguono il Belgio, dove le transazioni online rappresentano il 31,3% del valore totale delle transazioni effettuate,  la Repubblica Ceca (30,5%) e la Norvegia (24%).

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Elaborando i dati Eurostat, si osserva ad esempio come al settore ICT appartengano soltanto il 2,9% delle nuove imprese nate in Italia nel 2014, per un totale di 9.600 nuovi posti di lavoro. Mentre nel Regno Unito, in quello stesso anno, sono state invece l’8,4% per complessivi 45mila nuovi occupati.

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Perché divergono i giudizi delle agenzie di rating

Perché divergono i giudizi delle agenzie di rating

Le agenzie di rating e i voti che attribuiscono sono croce e delizia di Governi e investitori. Domani scadono i termini della risposta dell’Italia alla lettera dell’Unione Europea con cui si chiede al nostro Paese di modificare il deficit di bilancio previsto per l’anno in corso: la correzione richiesta è di 3,4 miliardi di euro. Se le autorità europee non vengono soddisfatte scatterebbe una procedura d’infrazione. «Una procedura d’infrazione sarebbe un grosso problema in termini di reputazione che l’Italia ha costruito, sarebbe un’inversione a U rispetto a quello che è stato costruito fino ad adesso»: così ha risposto alla stampa il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, a Bruxelles per l’Ecofin. Per l’Italia sarebbe un «grande problema» se la Commissione europea dovesse bocciare il bilancio 2017. In effetti a Via XX Settembre e dintorni, si temono in particolare le reazioni delle agenzie di rating. Un eventuale ulteriore ribasso del nostro rating potrebbe fare scattare una vera fuga dai titoli di Stato italiani, con effetti gravissimi sul nostro debito pubblici e sul suo rifinanziamento alle scadenze. Già oggi non siamo messi particolarmente bene tra i Paesi industrializzati a economia di mercato, come indica la tabella:

Nazione

S&Poor’s

Moody’s

Fitch

Dagong

Italia BBB- Baa2 BBB+ BBB-
Germania AAA Aaa AAA AA+
Francia AA Aa2 AA A+
Spagna BBB+ Baa2 BBB+ BBB+
Portogallo BB Ba1 BB+ BB
Stati Uniti d’America AA+ Aaa AAA A-
Regno Unito AA Aa1 AA A+
Giappone A+ A1 A A+
Svizzera AAA Aaa AAA AAA
Federazione Russa BB+ Ba1 BBB- A
Canada AAA Aaa AAA AA+
Australia AAA Aaa AAA AA+

Sono piuttosto noti i criteri micro-economici e finanziari che le agenzie di rating utilizzano quando valutano un’azienda: tasso di rendimento, flusso di cassa, margine operativo lordo, tasso di indebitamento e via discorrendo. In breve, gli attrezzi del mestiere del’analisi finanziaria e della matematico attuariale. Meno conosciuti i criteri impiegati per valutare lo stato attuale e le prospettive future di un Paese nonché la loro evoluzione negli ultimi anni. Risponde questa domanda un utile paper di Antonio Afonso e di André Massena Alburqueque, ambedue dell’Università di Lisbona: “I cattivi abbinamenti nella valutazione dei crediti sovrani” (“Sovereign Credit Rating Mismatches“, ISEG Economics Department Working Paper No. WP 02/2017/DE/UECE).

Il lavoro esamina le differenze di valutazione da parte delle quattro maggiori agenzie di rating nel periodo 1980-2015. Viene impiegato un sistema statistico abbastanza sofisticato. Il primo risultato è che, contrariamente alle aspettative, negli ultimi dieci anni gli squilibri strutturali e la insolvenze hanno contato relativamente poco nel giudizio complessivo. Al contrario negli ultimi cinque anni le variabili che più hanno pesato sul ‘rating’ di un Paese sono stati il livello del debito netto, il Pil procapite e un’insolvenza. Ciascuna agenzia attribuisce un peso differente a questi principali indicatori; da qui ‘i cattivi abbinamenti’ e le discordanze. Un’insolvenza nei tre- cinque anni precedenti diminuisce la differenze di ‘rating’ tra S&P e Fitch. Una differenza nel debito estero, invece, riduce le divergenze tra S&P e Moody’s.

La nostra crescita è prigioniera della burocrazia

La nostra crescita è prigioniera della burocrazia

di Massimo Blasoni – Il Giornale

Non è un caso che nel luogo al mondo dove vi è più innovazione, la California, quando un’azienda vuole introdurre un nuovo prodotto o un nuovo servizio non si usano le vecchie regole: se ne scrivono di nuove. E queste regole vengono scritte insieme, dall’azienda e dall’autorità pubblica. In Italia non è così: il nostro è un sistema costruito sulla gestione dell’esistente.

La regola prevale sull’innovazione e spesso ne blocca lo sviluppo. Legge elettorale e riforme costituzionali rappresentano temi rilevanti per il Paese ma – non lo si ripete mai abbastanza – i problemi fondamentali restano quelli del lavoro e dell’economia. Questioni tutt’altro che risolte, come purtroppo certificano gli ultimi dati sulla disoccupazione giovanile che è tornata a crescere sino a un preoccupante 39,4%. Posto che non vi è la possibilità di far ripartire l’occupazione incrementando la spesa pubblica (molti lo vorrebbero ma con questo debito è impensabile), non resta che convincersi che l’unica strada per far ripartire crescita e lavoro è sostenere lo sviluppo delle nostre imprese. E qui il tema si complica perché parte dei partiti e degli imprenditori hanno sempre interpretato questo sostegno come l’elargizione di contributi. Una policy che ha dimostrato di non funzionare. Servono piuttosto opportunità per lo sviluppo che però troppo spesso vengono negate agli imprenditori da una burocrazia asfissiante e dall’inadeguatezza delle infrastrutture. Secondo i dati del report Doing Business una concessione edilizia in Italia richiede 227 giorni e servono a un medio imprenditore 240 ore solo per pagare le tasse: quasi due mesi sottratti alla produzione. Ben diversa la situazione in Francia o Inghilterra, dove per gli stessi adempimenti si deve invece dedicare la metà del tempo.

Quanto alle infrastrutture, si pensi non solo a quelle fisiche (strade, aeroporti, ferrovie…) ma soprattutto a quelle digitali. Siamo tra gli ultimi in Europa per velocità e diffusione della banda ultra larga e in fondo alla classifica per rapidità del download. Non si tratta solo di statistiche. Purtroppo, in un’economia dominata dalla velocità, procedere più lentamente ha un prezzo rilevante. Così proliferano tre fenomeni: aziende che chiudono, altre che se ne vanno e altre ancora che vengono acquistate da gruppi stranieri. La lista delle imprese italiane cedute all’estero è lunghissima. In un’economia globale il fenomeno non è di per sé negativo. Colpisce però lo sbilanciamento e la minor penetrazione dei nostri imprenditori all’estero. Siamo troppo piccoli: la Borsa di Milano non solo è anni luce distante da quella di Wall Street, ma con i suoi 522 miliardi di capitalizzazione è un terzo di quella di Francoforte e Parigi. Tra l’altro, banche e Fondi di investimento che potrebbero accompagnare lo sviluppo hanno da noi dimensioni molto più contenute. Ovviamente vi sono molte responsabilità degli imprenditori. Tuttavia in Italia – e questa è una colpa dello Stato – vige un modello tortuoso, formalista, burocratico, fatto di bolli e autorizzazioni con una produzione legislativa eccessiva o superata dall’evoluzione dei rapporti sociali che limita fortemente la crescita e qualche volta la sussistenza stessa delle aziende. E non dimentichiamo la debolezza del nostro governo.

Certo, siamo in Europa ma la competizione tra Stati resta evidente e la capacità francese o tedesca di difendere le proprie esportazioni mette ancora più in luce la nostra fragilità. Il cahiers de doléances sarebbe ancora molto lungo. Basti ricordare l’incredibile lentezza della giustizia civile e la complessità delle cause di lavoro: due veri deterrenti agli investimenti. Oppure il nodo irrisolto delle liberalizzazioni e privatizzazioni. Il punto è chiedersi perché vi sia una scarsa propensione del mondo politico ad affrontare questi temi. Le risposte sono molte ma certo tra esse vi sta anche la scarsa presenza di imprenditori e partite Iva nelle istituzioni. Eppure non investire in innovazione e continuare a nutrire le mille inefficienze della PA rappresenta un danno enorme per tutti i cittadini. Occorre porre i temi liberali di nuovo al primo punto dell’agenda politica. I nostri irrisolti problemi sono ancora lì a suggerircelo.

Tra le molte note dolenti chiudo con una positiva. Il numero di giovani imprenditori è in forte crescita; per desiderio di intraprendenza e realizzazione prima ancora che per motivi economici. Sono 120mila le nuove imprese aperte da under 35 nel 2015: più della metà sono sopravvissute. Pagano tasse e creano occupazione. Per farne crescere il numero non ci vorrebbe poi molto. C’è necessità di opportunità più che di aiuti, quelle che gli ultimi governi non hanno saputo offrire.

Immigrazione: 64,5 miliardi di euro di rimesse dal 2005 al 2015. Italia al terzo posto in Europa per volume, dopo Francia e Spagna

Immigrazione: 64,5 miliardi di euro di rimesse dal 2005 al 2015. Italia al terzo posto in Europa per volume, dopo Francia e Spagna

Dal 2005 al 2015 (ultimo dato disponibile) le rimesse dei lavoratori stranieri in Italia ai loro Paesi di origine hanno raggiunto la cifra considerevole di 64,522 miliardi di euro. Lo rivela un’analisi del Centro Studi “ImpresaLavoro” su elaborazione di dati Bankitalia. Osservando la ripartizione per anno, si osserva come la crisi economica italiana abbia comportato negli ultimi anni una significativa contrazione delle somme inviate da questi lavoratori alle loro famiglie di origine: dai 7,394 miliardi del 2011 ai 6,833 miliardi del 2012 (-7,6%) fino ai 5,251 miliardi del 2015 (-28,98%). Stime prudenziali contenute in alcuni paper pubblicati dalla Banca d’Italia sembrano suggerire che a queste cifre che transitano via intermediari ufficiali (money transfer, banche, poste) vadano aggiunti circa 700 milioni l’anno di rimesse che sarebbero inviate all’estero tramite canali “informali”.

Limitatamente a quest’ultimo anno, si osserva inoltre come i lavoratori stranieri che hanno trasferito in patria il maggior quantitativo di denaro siano stati quelli residenti in Lombardia (1 miliardo e 156,6 milioni), nel Lazio (920,2 milioni), in Toscana (564,1 milioni), in Emilia-Romagna (449,7 milioni), in Veneto (411,3 milioni) e in Piemonte (303,984 milioni). Quanto alle diverse nazionalità, nella classifica stilata dal Centro studi ImpresaLavoro (che contempla cittadini di 229 nazionalità differenti) risulta che nel 2015 i lavoratori stranieri in Italia che hanno trasferito in patria il maggior quantitativo di denaro sono quelli romeni (847,621 milioni), cinesi (557,318 milioni), bengalesi (435,333 milioni) e filippini (355,360 milioni). A seguire, fortemente distanziati, si collocano quelli provenienti dal Marocco (262,851 milioni), dal Senegal (261,883 milioni), dall’India (248,363 milioni), dal Perù (205,038 milioni), dallo Sri Lanka (175,539 milioni) e dal Pakistan (166,776 milioni).

Decisamente più contenute risultano invece le somme di denaro che i lavoratori provenienti dai principali Paesi dell’Unione europea hanno trasferito in patria nell’ultimo anno: al primo posto della classifica risultano i polacchi (43,123 milioni) seguiti dai bulgari (41,940 milioni), dagli spagnoli (40,143 milioni), dai tedeschi (29,208 milioni), dai francesi (27,711 milioni), dai britannici (21,135 milioni) e infine dai greci (8,966 milioni). Ampliando il confronto a livello europeo, emerge inoltre come le rimesse inviate all’estero dai lavoratori stranieri residenti in Italia siano elevate in confronto a quelle di altri Paesi. L’Italia è infatti al terzo posto per volume di rimesse verso l’estero dopo la Francia e, seppur di misura, la Spagna.

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L’azienda Italia si blocca in tribunale

L’azienda Italia si blocca in tribunale

di Gianni Zorzi * e Elisa Qualizza **

Quanto costano i ritardi della giustizia in Italia? Quanto incide l’inefficienza giudiziaria sull’economia? Il Centro studi ImpresaLavoro ha tentato di quantificare l’impatto negativo della lunghezza dei processi e dell’arretrato di cause pendenti su variabili chiave come l’attrattività degli investimenti esteri, la nascita e lo sviluppo delle imprese italiane, la disoccupazione e i volumi del credito bancario.

Il punto di partenza è la posizione piuttosto arretrata dell’Italia nelle varie classifiche internazionali che considerano l’efficacia della macchina giudiziaria. Il confronto internazionale è possibile grazie alla base dati armonizzata Cepej-Stat, messa a disposizione dalla Commissione per l’efficienza della giustizia del Consiglio d’Europa; risultati analoghi trovano conferma nei dati Doing Business incrociati con le statistiche di Eurostat. Gli ultimi dati, benché riferiti al 2014, permettono di inquadrare il problema nella sua gravità. Prendendo in considerazione le sole cause civili e di diritto commerciale, rimanevano in attesa di giudizio, in Italia, oltre 2 milioni e 758 mila processi: un record assoluto per tutti i Paesi dell’Europa allargata, in grado di oscurare il milione e mezzo di cause pendenti in Francia e le 750 mila scarse della Germania.

Il dato assoluto è riferito ai soli processi di primo grado, ed è fortunatamente in calo rispetto agli anni precedenti. Sta di fatto che a fine anno rimangono pendenti 45 processi ogni mille abitanti in Italia contro i 24 della Francia, i 18 della Spagna e i soli 9 della Germania. Il peso dell’arretrato si riflette anche nella difficoltà di diminuire la durata media dei processi: attorno all’anno e mezzo. I 532 giorni medi necessari per le sentenze di primo grado sono il doppio rispetto alla media europea e con la sola eccezione di alcuni Paesi dell’Est e di Malta tutti gli ordinamenti se la cavano con durate (ampiamente) inferiori all’anno. Analisi più estese, che tengono in considerazione anche il secondo e terzo grado di giudizio, mostrerebbero numeri ancor più impietosi: da noi servono quasi tre anni, in media, per gli appelli e altri tre e mezzo per i giudizi in cassazione.

A migliorare con la rapidità dei giudizi e la riduzione degli arretrati sono ad esempio i tempi di pagamento tra imprese, con tutti i relativi effetti in termini di maggiore liquidità in circolazione, minor numero di insolvenze e minore disoccupazione. Anche i tempi e i costi di recupero dei crediti sono collegati all’efficacia della giustizia e ciò dovrebbe far riflettere sul problema della valorizzazione e dello smaltimento della montagna di crediti deteriorati accumulati dalle banche. Uno studio basato su un campione di Paesi mostra inoltre che l’efficienza del sistema giudiziario migliora i tassi di imprenditorialità e di innovazione nelle imprese.

Nell’economia globale l’attenzione dei capitali si rivolge ai Paesi in cui è migliore il rapporto tra redditività attesa e livello di rischio. Se non supportata da solide prospettive di crescita, la possibilità di creare valore per le imprese passa da una riduzione degli elementi di incertezza: quelli di tipo giudiziario sono in grado di frenare in modo netto il flusso di investimenti nei Paesi meno efficienti. Se ci riferiamo al caso italiano, la media degli ultimi tre anni evidenzia investimenti netti annui dall’estero per un magro 0,72 per cento del Pil. Il dato non si riferisce solo alle acquisizioni ma all’effettiva apertura di nuovi centri, filiali e strutture in genere da parte dei non residenti: si tratta dunque di nuovi investimenti privati provenienti da investitori internazionali, il cui livello, molto inferiore alla media UE, mostra la scarsa attrattività del nostro Paese. Secondo un recente studio pubblicato dalla Commissione Europea, la riduzione delle cause pendenti per numero di abitanti è collegata all’incremento di questo tipo di investimenti: portarle al livello della media europea potrebbe di per sé generare afflussi extra dall’estero per un valore tra lo 0,66 e lo 0,86 del Pil (tra i 10,8 e i 14,1 miliardi annui: il doppio dell’attuale).

Ma non è l’unica via che contribuirebbe sicuramente a una più sana e robusta crescita. Ridurre di un quarto i tempi dei tribunali potrebbe infatti aumentare il tasso di natalità delle imprese e cioè incrementare il ritmo di nascita di nuove iniziative imprenditoriali di circa 143mila unità all’anno: una volta e mezza il tasso attuale. Lo shock positivo sarebbe ancora più evidente nel caso i tempi si dimezzassero, portandosi dunque alla media europea: la stima in questo caso varia tra le 192 mila e le 240 mila nuove imprese all’anno in più rispetto ai ritmi correnti. Se si potesse raddoppiare la velocità dei tribunali potremmo attenderci anche una crescita della dimensione delle nostre imprese, per circa l’8,5% in media, come stimato da Banca d’Italia. È condiviso inoltre che un sistema giudiziario meno tempestivo fornisce minori incentivi agli investimenti e all’assunzione di nuovo personale, decisioni sulle quali l’incertezza può solo fungere da deterrente. Il dato, peraltro, non è poco rilevante per un Paese come il nostro in cui il 70 per cento del valore aggiunto è prodotto da piccole e medie imprese.

Anche dal punto di vista della disponibilità di credito le conclusioni sono importanti. Diversi studi hanno esaminato il legame tra tempi della giustizia, costo dei finanziamenti e loro disponibilità presso il canale bancario: secondo le relazioni più significative, raggiungere il livello medio UE nei tribunali potrebbe aprire l’opportunità di nuovi prestiti alle imprese per ben 29,3 miliardi di euro, pari a un aumento del 3,7 per cento rispetto allo stock attuale.

E infine, anche il mercato del lavoro ne potrebbe beneficiare. Si pensi che un’analisi di ImpresaLavoro basata sugli ultimi dati del Ministero della Giustizia suddivisi per distretti giudiziari ha individuato in ben 5,7 punti il potenziale di disoccupazione riducibile con riferimento alle aree più disagiate. La stima è coerente anche con quanto rilevato in un report del Fondo monetario internazionale, il quale confermerebbe un incremento di diversi punti della probabilità di impiego in seguito a un tale efficientamento della macchina giudiziaria. Altri studi hanno evidenziato i benefici che si avrebbero, oltretutto, in termini di riallocazione più efficiente e rapida delle risorse umane, di produttività e di maggiore intensità di capitale nelle nostre aziende.

A fronte di tutti questi dati, almeno due elementi emergono al di là di ogni altra considerazione: l’inefficienza giudiziaria agisce come un freno allo sviluppo della nostra economia e ridurre il peso di questa inefficienza potrebbe finalmente liberare un volume importante di potenzialità ancora inespresse.

* docente di finanza dell’impresa e dei mercati

** ricercatrice Centro Studi ImpresaLavoro

Istituzioni e debito pubblico ritardano l’Italia

Istituzioni e debito pubblico ritardano l’Italia

La Banca centrale europea si è dotata di un servizio studi da fare invidia anche a quello della Federal Reserve Usa, formato tramite sia concorsi pubblici a livello di tutta l’eurozona sia tramite una accurata politica di distacchi e comandi dalle banche centrali nazionali. Purtroppo la stampa italiana pare non averne contezza (a differenza di quelle inglesi, francesi e tedesca) e non fruga in un cassettone pieno di vere e proprie gemme. I suoi working paper, spesso di una qualità superiore di quelli prodotti dalle banche centrali nazionali, sono scaricabili dal sito della Bce e i loro abstract vengono inviati via mail ogni settimana a chiunque li richieda.

Un lavoro interessante e molto pertinente ai dibattiti anche politici di queste settimane riguarda ad esempio il ruolo che le istituzioni e il debito pubblico rivestono nei differenziali di crescita in Europa ed in particolare nei Paesi dell’eurozona. Si tratta de “Institutions, Public Debt and Growth in Europe” (ECB Working Paper No. 1963) curato da Klaus Masuch e Beatrice Pierluigi (ambedue nello staff della Bce) e da Edmund Moshammer (componente del Meccanismo europeo di Stabilità, il cosiddetto “Fondo Salva Stati”).

Il lavoro utilizza un modello econometrico sofisticato e – dopo avere controllato per reddito pro-capite e rapporti debito pubblico/Pil le differenze iniziali tra i vari Paesi membri in termine di assetto, efficacia ed efficienza istituzionale – spiega in modo significativo le differenze del loro andamento economico a partire dal 1995. Viene provato anche che un miglioramento della qualità delle istituzioni può portare ad aumenti significativi del Pil pro-capite. Dimostra inoltre come un livello iniziale di debito pubblico superiore al 60-70% del Pil, unitamente a una qualità delle istituzioni inferiore alla media dell’Unione Europea, tende a essere associato con una crescita reale dell’economia più debole. E’ interessante notare che gli effetti negativi di un alto debito pubblico tendono a essere mitigati da un buon assetto istituzionale. Questo potrebbe essere determinato in vari modi: ‘buone’ istituzioni possono facilitare un efficace consolidamento della finanza pubblica nel lungo termine, un miglior uso della spesa pubblica, una maggiore attenzione alla crescita economica, una migliore equità sociale e un’amministrazione tributaria di livello. Questi risultati vengono confermati se il campione viene esteso all’OCSE (che include anche Paesi extra europei).

I risultati empirici dell’importanza della qualità delle istituzioni sono statisticamente ‘robusti’ rispetto a varie misure di crescita dell’output, differenti indicatori istituzionali, diversi campioni, vari raggruppamenti di Paesi e l’inclusione di più variabili di controllo. Complessivamente, i risultati dimostrano che le riforme strutturali che più aiutano la crescita sono quelle che promuovono l’efficienza della pubblica amministrazione e del settore giudiziario nonché la lotta contro le rendite e la corruzione.

Gli immigrati mandano 64 miliardi all’estero

Gli immigrati mandano 64 miliardi all’estero

di Adriano Scianca – La Verità

L’immigrazione fa bene all’economia? Sicuramente a quella dei Paesi che gli immigrati li mandano da noi. Basti pensare al fenomeno delle rimesse, cioè dei soldi mandati in patria dai lavoratori stranieri e quindi sottratti (legalmente, per carità) all’economia nazionale. Dal 2005 al 2015 (ultimo dato disponibile) le rimesse dei lavoratori stranieri in Italia ai loro Paesi di origine hanno raggiunto la cifra considerevole di 64,522 miliardi di euro. Lo rivela un’analisi del Centro Studi ImpresaLavoro su elaborazione di dati Bankitalia. Nel 2005 erano poco meno di 4 miliardi, nel 2015 poco più di 5. Il dato più alto è stato registrato nel 2011, con quasi 7 miliardi e mezzo. In 10 anni, quindi, abbiamo perso più di 64 miliardi di euro, finiti in Paesi europei o extraeuropei.

Ovviamente chi sta qui a lavorare ha tutto il diritto di fare ciò che vuole con i soldi guadagnati, e inviarli alla propria famiglia è un’opzione più che comprensibile. Osservando macroscopicamente il fenomeno, tuttavia, non si può non notare come questo determini un netto impoverimento per la nazione ospitante. Altro che “risorse”. Certo, la crisi si fa sentire anche per gli immigrati. E infatti, osservando la ripartizione per anno, si nota come la difficile congiuntura economica italiana abbia comportato negli ultimi anni una significativa contrazione delle somme inviate da questi lavoratori alle loro famiglie di origine: dai 7,394 miliardi del 2011 ai 6,833 miliardi del 2012 (-7,6%) fino ai 5,251 miliardi del 2015 (-28,98%). Stime prudenziali contenute in alcuni paper pubblicati dalla Banca d’Italia sembrano inoltre suggerire che a queste cifre che transitano via intermediari ufficiali (money transfer, banche, poste) vadano aggiunti circa 700 milioni l’anno di rimesse che sarebbero inviate all’estero tramite canali “informali”, che quindi non fruttano neanche nulla in termini di commissioni e tassazioni.

Limitatamente al 2015, si osserva inoltre come i lavoratori stranieri che hanno trasferito in patria il maggior quantitativo di denaro siano stati quelli residenti in Lombardia (1 miliardo e 156,6 milioni), nel Lazio (920,2 milioni), in Toscana (564,1 milioni), in Emilia-Romagna (449,7 milioni), in Veneto (411,3 milioni) e in Piemonte (303,984 milioni). Quanto alle diverse nazionalità, nella classifica stilata dal Centro studi ImpresaLavoro (che contempla cittadini di 229 nazionalità differenti) risulta che nel 2015 i lavoratori stranieri in Italia che hanno trasferito in patria il maggior quantitativo di denaro sono quelli romeni (847,621 milioni), cinesi (557,318 milioni), bengalesi (435,333 milioni) e filippini (355,360 milioni). A seguire, fortemente distanziati, si collocano quelli provenienti dal Marocco (262,851 milioni), dal Senegal (261,883 milioni), dall’India (248,363 milioni), dal Perù (205,038 milioni), dallo Sri Lanka (175,539 milioni) e dal Pakistan (166,776 milioni).

Tolti i cittadini della Romania, in cima alla classifica assoluta dei più generosi con i parenti in patria, decisamente più contenute risultano invece le somme di denaro che i lavoratori provenienti dai principali Paesi dell’Unione europea hanno trasferito nelle località d’origine nell’ultimo anno: al primo posto della classifica risultano i polacchi (43,123 milioni) seguiti daI bulgari (41,940), dagli spagnoli (40,143 milioni), dai tedeschi (29,208 milioni), dai francesi (27,711 milioni), dai britannici (21,135 milioni) e infine dai greci (8,966 milioni). Ampliando il confronto a livello europeo, emerge inoltre come le rimesse inviate all’estero dai lavoratori stranieri residenti in Italia siano elevate in confronto a quelle di altri Paesi. L’Italia è infatti al terzo posto per volume di rimesse verso l’estero dopo la Francia e, seppur di misura, la Spagna. Colpisce l’assenza sul podio della Germania.

Un rapporto del Fondo internazionale per lo Sviluppo agricolo risalente al 2015 stimava in 109,4 miliardi di dollari il flusso di denaro che nel 2014 i lavoratori stranieri che vivono in tutta Europa avevano spedito a casa. In quella rilevazione, l’Italia era al quinto posto con 10,4 miliardi di dollari. Il primo Paese per quantità di rimesse risultava invece essere la Federazione Russa (20,6 miliardi), seguita da Regno Unito (17,1 miliardi), Germania (14 miliardi) e Francia (10,5 miliardi). Dopo l’Italia si piazzava la Spagna con 9,6 miliardi. Certo, l’aspetto positivo della cosa potrebbe essere costituito dal fatto che mandare le rimesse all’estro è un modo di aiutare gli immigrati “a casa loro”, come spesso si auspica. Creare benessere lì, affinché non vengano più qui. Ma, a parte il fatto che le rimesse partono da immigrati che sono già qui, e quindi è dura farne una bandiera contro l’immigrazione, dato che esse la presuppongono, bisogna anche ricordare che l’Italia e l’Europa aiutano già con moneta sonante i popoli degli altri continenti. All’inizio di gennaio avevamo raccontato di come, nel solo mese di dicembre, l’Unione Europea abbia staccato assegni per circa 5 miliardi di euro da destinare a 29 Paesi del Continente Nero, spesso con finalità e modalità più che discutibili, andando a finanziare governi corrotti, economie irrecuperabili, progetti insensati. Insomma, li aiutiamo facendo passare i soldi dalla porta e poi li aiutiamo una seconda volta infilando denari anche nelle finestra. Un po’ troppi aiuti, per un’Europa che ai suoi cittadini predica austerity.

La politica tributaria di Donald Trump

La politica tributaria di Donald Trump

Sulla stampa italiana si sono letti numerosi accenni, confusi e contraddittori, sulla politica tributaria che il nuovo Presidente degli Stati Uniti e il nuovo Congresso Usa intendono attuare. A tal riguardo è bene scaricarsi online e leggere con attenzione il lavoro appena pubblicato da David A. Weisbach: “A Guide to the GOP Tax Plan. The Way to a Better Way” (University of Chicago, Coase Sandor Institute for Law and Economics Research, Paper No. 788).

Si apprende infatti come la riforma tributaria (A Better Way) presentata dal Presidente della Commissione Finanze e Tesoro della Camera dei Rappresentati Ken Brady e dal Presidente della Camera Paul Rayan sarebbe, se attuata, la più completa dal varo dell’imposta sul reddito nel 1913. Riguarda in gran misura le imposte sulle aziende con l’abolizione delle imposte sui nuovi investimenti e delle detrazioni per spese al netto degli interessi, con eliminazione di imposte e tasse del reddito da vendite all’estero (ma tassando le importazioni a valore di mercato). I redditi da capitale verrebbero tassati ad aliquote pari alla metà dei redditi delle persone fisiche. Verrebbero poi abolite le tasse di successione sulla proprietà immobiliare trasmesse ad alcune categorie di eredi diretti come i figli ed i nipoti. La tassazione e l’imposizione si sposteranno infine gradualmente verso l’introduzione di un’imposta sul valore aggiunto analoga all’Iva europea.

Il documento riassume il lungo percorso per giungere alla formulazione ora completa e che riprende il programma di riforma tributaria allestito nel 2005 dalla Commissione di Esperti nominata da Bush (Growth and Investment Tax), il cui punto centrale era la riduzione dei redditi delle persone fisiche e giuridiche così come l’introduzione dell’Iva.

Restano ancora aperti diversi problemi: a) il disegno complesso dell’imposizione sulle imprese; b) le aliquote relative per imprese, partnerships, reddito da lavoro e imposte sul reddito da lavoro e da capitale delle persone fisiche; c) la tassazione internazionale ; d) l’imposizione su istituzioni e strumenti finanziari; e) la tassazione di fusioni ed incorporazioni aziendali; f) il differimento delle imposte sul reddito da capitale delle persone fisiche; g) i problemi collegati alla base tributaria delle persone fisiche come la deduzione sui mutui edilizi; f) la transizione dal sistema attuale al nuovo. Alcuni di questi possono essere facilmente risolti, altri sono più complessi e richiederanno mediazioni e compromessi. Tuttavia, il tracciato è chiaro.

 

 

Enti Locali: nel 2016 la spesa corrente di Province e Città Metropolitane si è attestata a 6,8 miliardi di euro

Enti Locali: nel 2016 la spesa corrente di Province e Città Metropolitane si è attestata a 6,8 miliardi di euro

Domenica 8 gennaio 2017 si sono tenute le elezioni per il rinnovo dei Consigli in diverse Province italiane. Elezioni a cui hanno partecipato con diritto di elettorato attivo e passivo soltanto sindaci e consiglieri comunali delle province interessate: una modalità istituita dalla legge Delrio in attesa della possibile abolizione totale delle Province, contenuta nella Riforma Costituzionale bocciata dal referendum dello scorso 4 dicembre. Le province, quindi, restano in Costituzione e rimane aperto il dibattito su quale potrà essere il loro futuro.

Al di là delle semplificazioni giornalistiche e politiche, però, anche dopo l’approvazione del ddl Delrio di Aprile 2014, le Province hanno continuato ad esistere e funzionare. Secondo le stime del Centro Studi ImpresaLavoro, infatti, la spesa corrente degli enti sovracomunali (oltre alla Province ci sono le Città Metropolitane di recente istituzione) si è attestata nel 2016 a 6,8 miliardi di euro. Una cifra stabile rispetto all’anno precedente ma in calo sia rispetto al 2014 (7,3 miliardi) che al 2011 (8,4 miliardi).

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Larga parte di queste uscite sono attribuibili proprio alle amministrazioni provinciali che hanno fatto registrare nel 2016 spese correnti per 4,7 miliardi di euro, in leggero calo rispetto ai 4,9 miliardi del 2015. La flessione è più marcata se confrontata con gli 8,4 miliardi di spese correnti che le Province hanno sostenuto nel 2011.

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Il risparmio è stato in parte riassorbito dalle spese correnti sostenute dalle neo-costituite Città Metropolitane che hanno registrato nel 2016 uscite per questa funzione pari a 2 miliardi di euro (erano 1,8 nel 2015).

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Una diversa analisi della spesa corrente nelle singole Province e Città Metropolitane consente di evidenziare situazioni molto diverse tra loro. ImpresaLavoro ha preso in considerazione la media delle uscite correnti delle Province e Città Metropolitane capoluogo di regione, ricavandone poi il dato pro-capite. Si tratta di un’elaborazione che non intende mettere in evidenza eventuali inefficienze amministrative, quanto più sottolineare come sul territorio nazionale la riforma ha avuto effetti diversi e come quello che comunemente definiamo come “Province” finisce per assumere competenze e raggi di azione molto diversi da territorio a territorio. In testa per spese correnti effettuate c’è la Provincia di Trieste con 321 euro pro-capite, seguita da Potenza (216 €), la Città Metropolitana di Firenze (172€), quella di Torino (154 €) e la Provincia de L’Aquila (154 €). Spendono, invece, meno di 100 euro pro-capite all’anno per cittadino le Città Metropolitane di Palermo (71 €), Bologna (80 €), Milano (95 €) e Napoli (99€). Numeri che certificano come la fase di transizione si stia confermando piuttosto caotica con forti differenze territoriali rispetto alle spese sostenute dai singoli enti: a più di due anni dall’approvazione della riforma Delrio, infatti, le province continuano a impegnare 4,7 miliardi di euro in spese correnti, a cui vanno aggiunti i 2 miliardi delle Città Metropolitane. Un’incertezza destinata ad aumentare in forza della mancata approvazione definitiva della riforma costituzionale.

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