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Il settembre nero dei negozi, due chiusure ogni apertura

Il settembre nero dei negozi, due chiusure ogni apertura

Paolo Baroni – La Stampa

Arriva settembre, finiscono le ferie, e molte serrande restano abbassate. A chiudere (per sempre) sono bar e ristoranti, negozi di abbigliamento e librerie, imprese che magari hanno una lunga storia imprenditoriale alle spalle ma anche attività nate anche da poco: spesso chiudono in sordina, a volte per pudore non lo comunicano nemmeno alle loro associazioni. «Per molti – spiegano alla Confesercenti – la chiusura del negozio in cui hanno lavorato tutta la vita, magari insieme alla famiglia, è una sconfitta personale. Per questo qualcuno approfitta delle ferie per chiudere».

I primi dati elaborati da Confesercenti ci dicono che tra luglio e agosto, nel settore del commercio, per ogni nuova impresa che ha aperto i battenti ben due li hanno chiusi. E quel che è peggio è che questi dati (2.603 aperture a fronte di 5.463 chiusure) replicano quelli del 2013, che fino a ieri risultava in assoluto l’anno peggiore di sempre. Oggi – denuncia Confesercenti – un’impresa su 4 dura addirittura meno di tre anni: a giugno 2014 oltre il 40% delle attivita aperte nel 2010 – circa 27mila imprese – è già sparito bruciando investimenti per circa 2,7 miliardi.

È crisi nerissima insomma: confermata anche dallo stallo dei consumi, che in sei mesi ha già fatto perdere al terziario altri 2,2 miliardi di euro di fatturato, e da una pessima stagione dei saldi, che quest’anno si sono rivelati un vero flop, con una riduzione delle vendite (stime Codacons) del 5-8% e una spesa media per famiglia che non supera i 65 euro.

In base ai dati dell’Osservatorio Confesercenti relativi ai primi sei mesi solo il commercio ambulante fa segnare un leggero miglioramento, si arresta la corsa delle vendite on line (82 nuove imprese avviate nei primi sei mesi dell’anno contro le 530 del 2013), mentre tutto il resto va male. A cominciare dai ristoranti (saldo negativo per 2.500 unita) che traina all’ingiù tutto il comparto del turismo, che già prima di questa pessima estate presentava un saldo negativo di 6mila imprese tra

hotel, bar, ecc. doppio rispetto al 2013. Poi vanno molto male il commercio in sede fissa (-14mila), i negozi di sigarette elettroniche (4 chiusure ogni nuova apertura), l’abbigliamento (-3300) e le rivendite di giornali (4 chiusure/2 aperture). Tra le regioni più colpite ci sono la Sicilia (15 chiusure al giorno e solo 5 aperture) ed il Lazio (6 aperture ogni 15 chiusure). Tra le grandi citta malissimo Roma, che ha fatto segnare un saldo complessivo negativo di 1.111 imprese nel solo settore del commercio in sede fissa, seguita da Napoli (-812) e Torino (-543).

«L’avvio del 2014 è stato peggiore di quanto ci aspettassimo – commenta il segretario generale di Confesercenti, Mauro Bussoni -. Siamo entrati nel terzo anno di crisi e molte imprese semplicemente non ce la fanno più, schiacciate dalla diminuzione dei consumi e l’aumento della pressione fiscale». Spaventa, inoltre, «la doppia batosta Tari/Tasi», senza contare poi i «danni» delle liberalizzazioni introdotte da Monti: dovevano rilanciare consumi e occupazione e si sono rivelate «un vero flop: i previsti effetti benefici sono tuttora “non pervenuti”, ed il settore ha perso oltre 100mila posti, registrando allo stesso tempo 28,5 miliardi di minori consumi da parte delle famiglie».

La paralisi delle riforme, mancano all’appello 700 decreti attuativi

La paralisi delle riforme, mancano all’appello 700 decreti attuativi

Valentina Conte e Roberto Mania – La Repubblica

Si fa presto a dire riforme: solo per attuare quella della pubblica amministrazione del ministro Marianna Madia ci vorranno almeno 77 decreti attuativi. Ventisei – ha calcolato la Cgil – per applicare, entro dodici-diciotto mesi, il decreto convertito in legge e pubblicato già sulla Gazzetta ufficiale (quello sulla mobilità degli statali, per capirci) e ben 51 per il disegno di legge delega (il “cuore” della riforma) che deve ancora cominciare il suo iter parlamentare. Tempi lunghi, insomma, al di là della promessa, e degli sforzi, della Madia di rendere totalmente operativo il decreto entro la fine di quest’anno. Anche per il Jobs Act di Giuliano Poletti serviranno per ciascuno dei cinque articoli di cui è composta la legge delega «uno o più decreti legislativi». Dunque almeno cinque. Senza pensare che tra sessanta giorni, altri due decreti legge – giustizia sui processi civili e Sblocca Italia – saranno leggi bisognose di attuazione. E dunque di regolamenti ministeriali. Passo dopo passo, la montagna si è stratificata a tal punto che per dare compimento a tutti i provvedimenti dei governi della Grande Crisi – Monti-Letta-Renzi – servono ancora 699 decreti attuativi, come confermato ieri dallo stesso Renzi e da Maria Elena Boschi, ministro (appunto) per l’Attuazione del programma.

Il passaggio delle riforme dalla carta all’attuazione pratica non è mai lineare e soprattutto non è mai veloce: le Province, per dire, sono ancora vive e vegete. La legge Delrio le avrebbe cancellate, ma senza i relativi decreti attuativi è come se le norme fossero scritte sulla sabbia. I decreti per la loro abolizione dovevano arrivare a luglio, ora tutto è slittato a questo mese. Vedremo. Ma questo è il nostro sistema di produzione legislativa nel quale solo una parte del compito spetta a Parlamento e governo mentre tutta la parte applicativa viene delegata ai “potenti” uffici ministeriali. L’ha scritto Sabino Cassese, uno dei maggiori studiosi italiani del diritto amministrativo: «Ma chi è il legislatore? Formalmente il Parlamento, nei fatti le burocrazie operanti sotto il comando del governo. Per lunghi periodi della storia italiana, attribuzione di pieni poteri al governo, controllo dei governi sul Parlamento, deleghe del Parlamento all’esecutivo hanno consentito alle burocrazie e ai governi di legiferare. Quasi nessuna delle grandi leggi della storia italiana è prodotto del solo Parlamento».

D’altra parte – è il governo Renzi che lo certifica nel suo “Monitoraggio sullo stato di attuazione del programma di governo“ aggiornato al 7 agosto scorso – il 62% dei provvedimenti legislativi varati dall’attuale esecutivo ha bisogno per essere effettivamente attuato di altri decreti, visto che meno della metà (precisamente il 38%) si applica da solo: in termini assoluti, su 40 solo 15 sono autoapplicativi. Risultato: servono 171 regolamenti. In percentuale il governo Renzi si muove nella media dei suoi predecessori. È stato infatti il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, nelle sue ultime Considerazioni, a ricordare come delle 69 riforme approvate dai governi tra il novembre del 2011 (quando si insedia l’esecutivo di emergenza guidato dal professor Mario Monti) all’aprile del 2013 (governo di Enrico Letta) solo la metà era stata realizzata a dicembre 2013. Anche questo incide sulla nostra scarsa competitività. Ancora oggi, alla vigilia della nuova legge di Stabilità, mancano all’appello 59 provvedimenti attuativi della legge di Bilancio del governo Letta. Di più: per 25 di quei provvedimenti è addirittura scaduto il termine entro il quale andavano adottati.

Il decreto soprannominato enfaticamente “Decreto del fare” è rimasto al palo per circa la metà dei previsti decreti attuativi: su 79 ne sono stati adottati 40. Ne mancano ancora 39 per 12 dei quali sono pure scaduti i termini temporali. Pensiamo se fosse stato chiamato con un altro nome… Pessima la performance del “Destinazione Italia”: dei 32 decreti attuativi richiesti ne mancano ancora 26, dunque ne sono stati applicati solo sei. Continua ad essere in affanno anche il “Salva Italia” (governo Monti, fine 2011): mancano tuttora 12 decreti attuativi per cinque dei quali è scaduto il termine. Nel complesso ci sono ancora 258 provvedimenti amministrativi da adottare per rendere completamente operative le leggi varate dal governo Monti; 273, invece, per quelle del governo di Enrico Letta. In tutto ce ne sono da varare ancora 531 (ieri la Boschi ha detto che sono scesi a 528) relativi ai precedenti governi che sommati ai 171 dell’esecutivo Renzi fanno 702 decreti mancanti al 7 agosto, ora diminuiti a 699.

Come sempre, in questa lunga stagione di crisi economica, la parte del leone la fa il ministero dell’Economia: sono 36 su 171 i provvedimenti che devono essere definiti dalla struttura guidata da Pier Carlo Padoan. Segue il ministero dell’Ambiente con 24 e poi la presidenza del Consiglio dei ministri con 22. Vero è che il governo Renzi ha smaltito un arretrato del 40% targato Monti-Letta da quando si è insediato, a febbraio (889 provvedimenti da approntare, portati in agosto a 531, ora a 528). Innalzando così la percentuale di attuazione rispettivamente di 12 punti percentuali (governo Monti al 64%) e ben 23 punti (governo Letta al 37%, poco più di un terzo).

Ma ciò che colpisce è l’incredibile vacanza di decreti per leggi importanti, ormai “datate”. È il caso ad esempio della legge Fornero del lavoro, la molto discussa 92 del 2012. Ebbene, anche in questo caso mancano all’appello sei decreti attuativi su 16. Nel frattempo però, si sono succeduti ben due governi, l’attuale ha già modificato la disciplina dei contratti a termine e si appresta a varare il nuovo Codice del lavoro tramite il Jobs Act. La stratificazione normativa e la corsa a legiferare ad ogni costo portano a questi paradossi. Negando benefici concreti a chi poi deve applicare le regole, vecchie e nuove. Anzi aggiungendo confusione e favorendo conflitti interpretativi. Per rimanere nel campo del lavoro, c’è da segnalare l’assurda storia del credito d’imposta previsto dal decreto Sviluppo 83 del 2012 (“Misure urgenti per la crescita del Paese”), entrato in vigore il 26 giugno di due anni fa e predisposto dall’allora ministro Corrado Passera. La norma assicura benefici fiscali (un abbattimento del 35% del costo aziendale per un massimo di dodici mesi) a quelle imprese che assumono a tempo indeterminato ricercatori, laureati o dottorati per svolgere attività di ricerca e sviluppo. Ecco, fino a pochi giorni fa questo bonus non era operativo, pur essendo previsto da una legge dello Stato. L’attuazione era demandata al solito decreto interministeriale da emanare entro 60 giorni. Decreto arrivato il 23 ottobre 2013 (oltre un anno dopo, governo Letta) che a sua volta prevedeva un “decreto direttoriale” del ministero dello Sviluppo, firmato il 28 luglio scorso (governo Renzi) e pubblicato in Gazzetta ufficiale solo il 9 agosto scorso. Oltre due anni dopo la legge che lo istituisce, “urgente” e “per la crescita del Paese”. Con una disoccupazione giovanile alle stelle, la fuga dei cervelli e la spesa in ricerca ai minimi storici, passaggi burocratici biblici come quelli descritti lasciano davvero attoniti.

Riforme economiche a passo di carica

Riforme economiche a passo di carica

Stefano Micossi – Corriere della Sera

Caro direttore, è chiaro a tutti che l’agenda del governo debba ora concentrarsi sulla realizzazione dell’ambizioso programma di riforme economiche annunciato al momento della sua costituzione – si può sperare, con lo stesso passo di carica adottato per le riforme costituzionali in Senato. La partita si vince o si perde con la nuova Legge di stabilità (il bilancio 2015-2017) e i1 Jobs Act. Su questo, la discussione in corso non mi sembra sempre sufficientemente lucida.

In primo luogo, meglio prendere atto che non vi sono margini nel bilancio pubblico per un sostegno significativo della domanda; continuare a parlarne è una perdita di tempo. Va anche ricordato, però, che il bonus in busta di 80 euro, le misure già adottate per sbloccare i pagamenti arretrati delle amministrazioni pubbliche e quelle in gestazione per sbloccare i cantieri, spendendo quel che già è stato stanziato, implicano una spinta notevole all’economia, che certamente inizierà a manifestarsi con intensità crescente a partire dall’autunno.

In secondo luogo, la discussione sulla Legge di stabilità dovrebbe riferirsi ai dati reali: i tagli di spesa programmati, o sperati, dalla spending review – per ricordare, 17 miliardi entro il 2015, 34 miliardi a regime – sono già quasi interamente impegnati. Infatti, il govemo eredita dai predecessori circa 16 miliardi di aumenti di spese e riduzioni di entrata non coperti, ai quali occorre aggiungerne altri dieci per la copertura permanente del bonus e, con ogni probabilità, qualche altro millardo per restituire la Robin tax tremontiana sui petrolieri (che la Corte costituzionale si appresta a dichiarare contraria alla Costituzione). Quel poco che avanza, andrà destinato al miglioramento del saldo strutturale di bilancio. Dunque, da qui non può venire neanche un penny per abbattere il cuneo fiscale: la spending review non libera risorse, serve solo per evitare maggiori tasse per risorse già distribuite.

Le risorse per ridurre il cuneo fiscale nella misura necessaria – due punti percentuali di Pil, come recentemente suggerito anclie sulle colonne del Corriere – non possono allora che venire da una riforma fiscale che sposti i carichi d’imposta verso le imposte indirette, attraverso la graduale convergenza (su un arco pluriennale) di tutte le aliquote dell’Iva verso l’aliquota ordinaria (22 per cento). Essa richiede, naturalmente, di cornpensare i nuclei famigliari meno abbienti con trasferimenti diretti di reddito i quali, trattandosi di persone che non compilano la dichiarazione dei redditi, possono essere realizzati attraverso l’lnps. L’aumento dell’lva produrrà due ulteriori effetti benefici: farà salire l’inflazione, pericolosamente vicina allo zero, e migliorerà la competitiviltà di prezzo dei nostri prodotti sul mercato domestico (una specie di svalutazione fiscale). Si tratta di una delle riforme che le istituzioni europee ci chiedono da tempo; la Legge di stabilità è lo strumento giusto per realizzarla.

Poi viene il Jobs Act. Con le regole attuali, assumere, gestire il rapporto di lavoro e licenziare è troppo complicato; il precariato e i bassi tassi di occupazione ne sono la diretta conseguenza. Serve un contratto di lavoro nuovo, molto libero a meno di poche garanzie fondamentali, nel quale durata e principali condizioni siano fissate liberamente tra le parti. L’idea che la riforma si risolva in una vacanza temporanea dalle regole attuali è stupida e autolesionistica. Inoltre, la riforma sarebbe monca se non si accelerasse la piena attuazione al meccanismo dell’Aspi, introdotto dal governo Monti, e non si iniziasse fin d’ora ad utilizzare i contratti di ricollocamento per superare il barocco sistema della cassa integrazione straordinaria e in deroga e muovere con decisione verso il nuovo sistema di flexi-security. Anche qui servono risorse, forse fino a due punti percentuali di Pil: possono venire in parte dallo smantellamento dei sostegni attuali alla disoccupazjone, in parte dai fondi strutturali, come da ternpo va suggerendo anche Tito Boeri.

Ecco, questo è il carnet impegnativo, ma non impossibile, con il quale il presidente del Consiglio potrebbe presentarsi in Europa quest’autunno: argomentando, allora sì con credibilità, che di nuove manovre correttive non se ne parla, né per il disavanzo né per il rientro dal debito, fino a che l’economia non avrà ripreso a crescere.

L’uomo dei risparmi ora aumenta il bus

L’uomo dei risparmi ora aumenta il bus

Roberto Onofrio – Il Secolo XIX

Un taglio netto alle società partecipate, che in Italia sono più di 10 mila. Bene. Nel giro di un anno se ne potrebbero eliminare almeno 2 mila, garantendo a Regioni e Comuni 500 milioni di minori spese. Ottimo. Una politica anti-sprechi che in 3 anni assicurerebbe dai 2 ai 3 miliardi di risparmi. Fantastico. Il programma snocciolato ieri dal commissario alla spendíng review, Carlo Cottarelli, a proposito di società partecipate, ha un tono convincente, armonico. Giusto. Èpiù che corretto voler

sfoltire una giungla di municipalizzate che la politica italiana ha fatto crescere in questi anni in modo sconsiderato, per moltiplicare esponenzialmente incarichi, poltrone, consulenze. È più che legittimo volersi almeno avvicinare un po’ a Paesi molto più virtuosi, su questo fronte, come la vicina Francia, che non ha più di mille società partecipate.

Quello che stona, però, nel ragionamento proposto da Cottarelli, è il richiamo riferito al trasporto pubblico locale, perennemente deficitario. Che cosa “inventa” il commissario per risanare i bilanci in rosso di queste partecipate? L’aumento di ticket e abbonamenti. Per allinearsi ai parametri europei, dice, che contemplano prezzi più alti di quelli italiani. Peccato: c’è un sentore di già visto e

già sentito in questa ricetta, che difficilmente può disegnare un futuro diverso. Il cittadino, così, continua ad avere la sensazione – che è più di una sensazione – di dover essere comunque il terminale a cui chiedere il vero sacrificio per risanare i deficit di chi ha ideato e gestito (male) le varie aziende del trasporto pubblico. Non solo. Il paragone con i costi più alti richiesti in altri Paesi europei, che dovrebbe giustificare gli aumenti, è improprio. Per essere corretto dovrebbe mettere a confronto anche l’efficienza del servizio, l’ampiezza della rete, i tempi di percorrenza, la puntualità, la pulizia e il decoro dei mezzi e delle strutture. Tutte condizioni che, se realizzate anche in Italia, allargherebbero la platea degli utenti e quindi anche gli incassi.

Pagare il biglietto è giusto, cosi come trasformare i controllori in pubblici ufficiali, se può servire a scoprire chi fa il furbo. Meno nobile (e fin troppo semplice) sembra l’intenzione di chiedere un sovrapprezzo a chi continua a sopportare in silenzio disagi e disservizi.

Solo a settembre 307 mazzate fiscali

Solo a settembre 307 mazzate fiscali

Antonio Spampinato – Libero

Matteo Renzi si è preso 1.000 giorni di tempo per portare a termine la sua agenda di riforme: si va dal lavoro, allo snellimento della pubblica amministrazione, alla giustizia, al fisco, al ridisegno delle istituzioni. Un’indiretta ammissione sull’impossibilità di fare qualcosa di conclusivo nei primi 122 giorni di governo, bollando, di fatto, le precedenti promesse come irrealizzabili, quantomeno nei tempi programmati al momento del suo insediamento. «L’Italia cambia. Con calma e il passo giusto arriviamo dappertutto››, ha detto. Mettiamoci comodi, dunque, che fretta c’è. A proposito di fisco – e a proposito di riforme – ci permettiamo di segnalare che tra i numeri elencati nel corso della conferenza stampa il premier ne ha dimenticato uno, particolarmente caro a tutti: quello relativo alle scadenze fiscali. E, a questo proposito, settembre è uno di quei mesi da bollino rosso.

Tra Irpef, cedolare secca e addizionali varie, il portafoglio si prosciuga, ma soprattutto impazzisce, dovendo stare dietro a un numero spropositato di adempimenti. Il fisco amico, quello aperto al dialogo con i contribuenti, solo per il mese di settembre ha infatti fissato 371 appuntamenti con le famiglie e le imprese italiane. Di questi, 307 riguardano versamenti veri e propri, 17 sono dichiarazioni, 19 comunicazioni, 3 adempimenti contabili, 18 ravvedimenti e 7 tra richieste, domande e istanze. Non tutte da onorare da tutti, ovviamente.

Quello che però vorremmo mettere in risalto sono le catene che legano i contribuenti al fisco, l’esagerato numero di adempimenti che gli italiani sono costretti a segnarsi in agenda per non finire nel libro nero degli evasori. Persino i commercialisti faticano ad aggiornare i loro database, visti i continui ripensamenti e, purtroppo, aggiunte, che i burocrati sfornano in continuazione, quasi non facessero parte anche loro del tartassato mondo dei contribuenti italiani.

Ieri è stato il giorno della prima scadenza del versamento di Irpef addizionali e cedolare secca per i contribuenti non titolari di partita Iva che hanno rateizzato il primo acconto 2014. Dei 51 versamenti previsti, 7 riguardavano l’Irpef, 8 le addizionali, 4 la cedolare secca e poi l’Iva (1), imposte di registro (3) e imposte sostitutive (4). Sotto la voce “altro”, ci sono scadenze quali il versamento dell’imposta dovuta sui premi ed accessori incassati nel mese di luglio 2014 nonché gli eventuali conguagli dell’imposta dovuta sui premi ed accessori incassati nel mese di giugno 2014. Martedì 16 sono previste ben 206 scadenze, di cui 205 relative a versamenti: sempre per Irpef, addizionali e cedolare secca, è fissata la scadenza per i contribuenti titolari di partita Iva che hanno rateizzato il primo acconto 2014. Inoltre, per i pensionati, è previsto il versamento della quota del canone Rai.

E si arriva a venerdì 19 con l’invio del modello 770 relativo all’anno 2013. Ma gli adempimenti del mese di settembre si chiuderanno martedì 30 con l’invio del modello Unico 2014 e del modello Irap 2014. Oltre a 51 diversi tipi di versamenti, anche questi suddivisi per tipologia di contribuente. Ma non è finita qui: a settembre si tornerà a parlare anche di Tasi. Mercoledì 10, infatti, i Comuni devono approvare e inviare alle Finanze le delibere sulla Tassa sui servizi indivisibili, la nuova imposta comunale istituita dalla legge di stabilità 2014. E martedì 30 i Comuni devono approvare il bilancio di previsione (comprese le aliquote Imu e le tariffe Tari, la tassa sui rifiuti). Sul sito dell’Agenzia delle entrate, proprio per venire incontro alla necessaria esigenza di trasparenza, il fisco, sempre quello amico, invece di tagliare con l’accetta il numero di scadenze, ha preferito pubblicare un comodo calendario in cui cittadini e imprenditori possono cliccare su decine, centinaia di link per capire in quale modo possono contribuire al risanamento dei conti pubblici e al rilancio del Paese. La suddivisione è fatta per adempimento e per tipologia di contribuente. Il tutto consultabile standosene seduti davanti al computer di casa o dell’ufficio. Comodo no?

Sta per scoppiare la bolla speculativa chiamata Matteo

Sta per scoppiare la bolla speculativa chiamata Matteo

Maurizio Belpietro – Libero

C’è una bolla speculativa che minaccia di esplodere provocando vari danni nel nostro Paese. La bolla si chiama renzismo, fenomeno mediatico che è stato gonfiato ad arte da chi aveva il compito di vigilare e invece ha preferito, per calcolo o incapacità, chiudere non solo un occhio ma tutti e due. Il renzismo è un atteggiamento di totale fiducia che ha colto gli italiani dopo anni di delusioni. Senza che nessuno li mettesse in guardia, gli elettori si sono dunque affidati ciecamente alle promesse del presidente del Consiglio, accogliendo senza perplessità ogni sua dichiarazione. Risultato, dopo sei mesi di governo con la disoccupazione alle stelle, il debito pubblico fuori controllo, un’inflazione che ci ha fatto tomare indietro di 50 anni e un Pil in discesa, la fiducia in Renzi comincia a vacillare e con essa l’idea che bastasse un rottamatore per rottamare la crisi.

I segnali che ci fanno intravedere il rischio di un’esplosione della bolla speculativa sono più d’uno e tutti portano il marchio della disillusione. Come spesso accade, anche perché quando ha un’idea in testa non si tiene un cecio in bocca, il primo a parlare è stato Diego Della Valle, cioè l’imprenditore che aveva seguito con gioia la discesa in campo del pifferaio magico di Firenze. Il padrone delle Tod’s all’improvviso, mentre ancora Renzi aveva il vento in poppa perché non erano stati resi noti i dati riguardanti il Prodotto interno lordo, se n’è uscito con un’invettiva contro i riformatori al gelato, accusando il premier di voler cambiare la Costituzione senza avere rispetto del sistema di pesi e contrappesi messo a punto dall’Assemblea costituente. Poteva sembrare un’invettiva dettata da rancori personali, magari dalla stangata sulle aziende ferroviarie che rischia di mettere in ginocchio una delle società dell’imprenditore a pallini. E invece, dopo la sparata di Della Valle ne sono arrivate altre e quasi tutte di gente che sei mesi fa aveva gratificato il capo del governo di un’ampia apertura di credito.

Prima Giorgio Squinzi, il quale da presidente di Confindustria aveva salutato Enrico Letta con la carta vetrata, minacciando di rivolgersi direttamente al capo dello Stato. Un calcio negli stinchi cui era seguito un incontro proprio con Renzi, non ancora premier ma già segretario del Partito democratico. Ma se quella di Squinzi allora era sembrata un’investitura da parte del capo degli imprenditori, qualche giorno fa è arrivata la sconfessione, con un discorso molto critico sulla situazione economica e i famosi 80 euro. Come se non bastasse, si è aggiunta la botta di Sergio Marchionne, un altro che aveva guardato a Renzi con grande entusiasmo. Al manager con il pullover non è piaciuto il presidente del Consiglio gelataio e non ne ha fatto mistero, spiegando che non bastano le battute a far ripartire un Paese.

Tre imprenditori e tutti di primo piano già significano qualcosa e cioè che l’industria e la finanza cominciano a non credere più nel cambiamento di verso promesso dal premier. Tuttavia a questa presa di distanza se ne sono aggiunte altre, quasi sempre di persone che in principio avevano creduto nel progetto di rinnovamento dell’ex sindaco. Luca Ricolfi, sociologo di sinistra e autore di molti ragionati editoriali sulla Stampa e Panorama, ha confessato sul giornale piemontese il proprio pessimismo, spiegando che non si risolve una crisi sperando semplicemente che passi. Per Ricolfi aspettare confidando nel fatto che prima o poi torni il sole e la ripresa rimetta le cose a posto è un’illusione che rischia di rivelarsi catastrofica. Previsioni fosche si intravedevano anche sulla prima pagina del Corriere della Sera, a commento del tanto sbandierato pacchetto di misure economiche soprannominato «Sblocca Italia». Dario Di Vico, l’editorialista cui è stato affidato il compito di commentare, non ha nascosto la delusione, lasciando trasparire anche un sospetto, ossia che il presidente del Consiglio, invece di pensare a come far uscire l’Italia dalla crisi, pensi piuttosto a come farla entrate al più presto in campagna elettorale, portando il Paese alle urne già nel 2015. Insomma, altro che mille giorni: qui l’ex rottamatore sembra pensare ai prossimi cento.

I dubbi che ci hanno colpito di più sono però quelli di Giuliano Ferrara, cioè di uno che fin dal principio ha sostenuto il renzismo e per giunta stando seduto sull’altra sponda e non su quella comoda della sinistra. Da renzista devoto qual è, ieri l’Elefantino ha lanciato un barrito, scrivendo sul Foglio dei Fogli un editoriale in cui racconta un presidente del Consiglio in trappola, vittima degli stessi nemici e degli stessi errori di Berlusconi. «Non vorrei che tutti gli elogi alle grandi doti di comunicatore, per Renzi oggi come per Berlusconi ieri, alludano all’artista compiaciuto di sé che prende il posto dello statista». Da statista a ballista. E se le balle scoppiano fanno male.

Imu, Tasi e Tari: il percorso (impossibile) delle tasse sulla casa

Imu, Tasi e Tari: il percorso (impossibile) delle tasse sulla casa

Gino Pagliuca – Corriere della Sera

È cominciato l’autunno delle tasse sulla casa. Da qui a metà dicembre infatti il calendario è punteggiato di appuntamenti che riguarderanno in pratica tutti coloro che occupano un’abitazione. Tre sono i tributi che incombono: la Tasi, a carico del proprietario se la casa non è locata, altrimenti va suddivisa tra proprietario (che deve pagare tra il 70 e il 90%) e l’inquilino; la Tari (tassa sui rifiuti) dovuta da chi occupa l’immobile; l’Imu, sempre a carico del proprietario. Oltre al danno c’è spesso la beffa: oltre a dover pagare, molti contribuenti dovranno farlo in tempi stretti perché le amministrazioni comunali se la stanno prendendo comoda con le delibere delle tariffe. Dal data base presente sul sito del ministero delle Finanze ieri risultava infatti che su un complesso di 8.057 Comuni italiani sono state pubblicate 3.243 delibere Imu, 4.567 delibere Tasi e 2.982 delibere Tari. Ma vediamo che cosa succederà nei prossimi mesi tributo per tributo.

Tasi: il rebus di acconti e saldi
E cominciamo dalla Tasi, la nuova tassa sui servizi indivisibili. Per i tempi di pagamento bisogna tener conto dell’epoca della pubblicazione della delibera sul sito www.finanze.it. Nei circa duemila Comuni in cui le amministrazioni sono riuscite a pubblicare entro fine maggio e che non abbiano deciso tempistiche diverse, i contribuenti hanno già pagato la prima rata entro il 16 giugno e dovranno versare il saldo entro il 16 dicembre. Nei Comuni che avranno deliberato le aliquote tra inizio giugno e il 10 settembre, con pubblicazione entro il 18 settembre, i contribuenti dovranno versare la prima rata entro il 16 ottobre e il saldo il 16 dicembre. In questa situazione si trovano, tra gli altri, i proprietari di casa di Milano e di Roma. Ci sono però ancora circa 3.500 amministrazioni che hanno solo poco più di due settimane di tempo per deliberare. Nei Comuni che infine non pubblicassero entro il 18 settembre la delibera, si pagherà tutto a saldo il 16 dicembre: i proprietari di abitazione principale dovranno pagare sulla base dell’aliquota dello 0,1%; sugli immobili diversi dall’abitazione principale invece si pagherà lo 0,1% solo se l’aliquota Imu non supera lo 0,96%, altrimenti si pagherà un’aliquota che sommata a quella dell’Imu arrivi all’1,06% (esempio se l’aliquota Imu 1,03%, la Tasi sarà allo 0,03%). Siccome si parla tanto in questi mesi di semplificazioni diciamo che in questo campo c’è molto spazio per esercitarsi. La base imponibile della Tasi è la stessa dell’Imu ma il meccanismo delle detrazioni per la prima casa è diverso da quello del vecchio tributo perché i Comuni hanno un’ampia discrezionalità nel determinare le agevolazioni. Per questo se si vuol fare da sé (i comuni non mandano infatti i modelli F24 precompilati) è necessario leggere attentamente la delibera sul sito del ministero. Da mesi infuria la polemica se la Tasi sulla prima casa sia più cara rispetto all’Imu. Una risposta univoca, basata su medie alla Trilussa, non sarebbe attendibile. Rimane però chiaro che il meccanismo della Tasi è più «regressivo» rispetto a quelle dell’Imu, nel senso che favorisce i proprietari di immobili di alto valore fiscale e penalizza le case piccole. Nella tabella che abbiamo elaborato si evidenzia, ad esempio, che una casa civile di 70 metri quadrati a Milano paga 228 euro, 63 in più rispetto all’Imu 2012; un’abitazione medio signorile di 120 metri, invece, paga 530 euro, con un risparmio di 118 rispetto a due anni fa. A Roma, dove l’aliquota Imu era dello 0,5%, si risparmia praticamente sempre. Tra le città da noi considerate il peggiore aggravio l’avrà Frosinone: per la casa da 70 metri nel 2012 il proprietario non pagava e ora dovrà sborsare 121 euro.

Tari: la caccia alla posizione tributaria
Minori incombenze per la Tari, nuove denominazione della tassa sui rifiuti. Per pagare bisogna infatti aspettare la richiesta del Comune: di norma viene calcolata una prima parte in acconto sulla base della tariffa del 2013 e il saldo a conguaglio sulla base della tariffa nuova. Ai Comuni è lasciata anche per quest’anno la facoltà di usare, adeguandole, le vecchie tariffe Tarsu ma la maggior parte delle amministrazioni già lo scorso anno aveva adottato un sistema di determinazione dei costi per il residenziale basato sull’incrocio tra numerosità del nucleo familiare e superficie dell’alloggio. Il calcolo, una volta che si disponga della delibera, non è particolarmente complesso ma farselo non servirebbe a nulla. Per pagare infatti è necessario indicare nel modello F24 il numero della posizione tributaria di cui evidentemente non si dispone. Nei Comuni che non hanno variato metodologia di calcolo la tariffa è rimasta simile a quelle del 2013. Da un’analisi di Federconsumatori emerge che una famiglia con tre persone in una casa di 100 metri quadrati a Milano quest’anno risparmierà 7 euro, a Roma pagherà lo stesso e a Lodi spenderà 49 euro in più. Al saldo della tassa del 2013, però, si era pagato un contributo fisso (pari a 0,30 centesimi per metro quadrato) a titolo di contributo per i servizi indivisibili, ora è assorbito dalla Tasi.

Imu: percorso collaudato
Nessuna novità infine per l’Imu, che si paga ancora per le abitazioni principali di categoria A/1, A/8 e A/9 e per tutti gli immobili diversi dalla abitazioni principali. Nelle grandi città l’aliquota era già al massimo nel 2013 e non potrà aumentare. Se il Comune non delibera si paga sulla base dell’aliquota 2013. La prima rata è stata versata il 16 giugno, la scadenza del saldo è fissata per il 16 dicembre. Chi possiede un’abitazione non affittata nello stesso comune in cui ha anche l’abitazione principale dovrà pagare anche l’Irpef sul 50% del valore catastale dell’immobile a disposizione. Per il saldo però potrà aspettare la liquidazione dell’Unico o del 730, a giugno 2015.

I conti di Cottarelli: nel 2015 mezzo miliardo di risparmio dalle partecipate

I conti di Cottarelli: nel 2015 mezzo miliardo di risparmio dalle partecipate

Andrea Ducci – Corriere della Sera

Una ricetta che nel 2015 può valere mezzo miliardo di risparmi. La condizione per raggiungere l’obiettivo è eliminare almeno 2.000 società partecipate dagli enti locali. Il suggerimento arriva dal commissario straordinario alla spending review, Carlo Cottarelli, illustrando il programma di razionalizzazione delle aziende partecipate da Comuni, Province e Regioni. Il documento è quello reso noto all’inizio di agosto, ma ieri Cottarelli ha voluto spiegarne il principio ispiratore. Quel «sfoltire e semplificare da 8.000 a 1.000 le municipalizzate», scandito per la prima volta dal premier, Matteo Renzi, lo scorso aprile. Le misure, illustrate da Cottarelli, che si è tenuto alla larga dal fornire chiarimenti su una sua permanenza, ormai ballerina, nell’incarico di commissario straordinario, puntano, perciò, a tagliare 7.000 partecipate pubbliche. Una maxi sforbiciata che dovrebbe tradursi nell’arco di 3-4 anni in un risparmio stimato di 2-3 miliardi di euro.

Tra la teoria e la pratica resta la necessità di fissare, nella legge di Stabilità, norme e sanzioni certe per imporre agli enti locali le dismissioni e le chiusure di una moltitudine di carrozzoni. A precisarlo è lo stesso Cottarelli, tenuto conto che già la legge finanziaria del 2008 vieta la creazione di società partecipate che non abbiano a che fare con le finalità istituzionali dell’ente di appartenenza. La norma stabilisce, tra l’altro, la vendita o la chiusura delle aziende fuori regola. Nei fatti il divieto è stato ignorato o trascurato, e, a detta del commissario, la misura «non è efficace perché la valutazione è lasciata all’amministrazione partecipante». Il risultato è una giungla di aziendine e società locali, il cui esatto numero resta indefinito. Secondo la banca dati del ministero dell’Economia sarebbero 7.726, ma la banca dati della presidenza del Consiglio ne rileva circa 10.000. Cottarelli e i suoi tecnici stimano quest’ultima cifra la più veritiera.

Il piano del commissario straordinario riporta anche i costi delle inefficienze e degli sprechi. Le perdite palesi nel 2012 hanno raggiunto quota 1,2 miliardi di euro, a cui vanno aggiunte le perdite celate da contratti di servizio e trasferimenti in conto corrente per aggiustare bilanci altrimenti pericolanti. L’aggravio finale è rappresentato dai costi pagati dai cittadini per servizi che potrebbero essere più economici ed efficienti. Totale, insomma, i circa 3 miliardi che lo studio fissa come obiettivo di risparmio.

Nel documento è ribadito anche il principio a cui ancorare il mantenimento di una società in mano pubblica. «Il campo di azione delle partecipate deve essere strettamente limitato ai compiti istituzionali dell’ente di controllo, che non includono la produzione di beni e servizi che possono essere forniti dal settore privato». Basta, insomma, a società comunali o regionali che producono «uova piuttosto che prosciutti», dice Cottarelli. E poco importa se quelle società realizzano profitti. Sul piatto vanno infatti considerati altri fattori: il rischio di alterare il corretto funzionamento del mercato, il rischio di creare perdite a carico della collettività, la necessità di monitorare le partecipate pubbliche, sottraendo così risorse umane alle finalità e ai compiti istituzionali dell’ente. Non a caso, lo studio sulla spending review delle partecipate suggerisce l’introduzione di alcuni paletti: il limite alle partecipazioni indirette e di secondo grado, il limite alla detenzione di partecipate da parte di piccoli comuni, l’uscita da quote di minoranza (ci sono 1.400 società in cui la quota azionaria pubblica si ferma al 5%, e 2.500 casi in cui non va oltre il 20%), e, infine, la chiusura delle scatole vuote (sono 3.000 le aziende con meno di 6 dipendenti).

Un’ultima riflessione la merita il numero delle cariche di vertice. Il meccanismo dei poltronifici pubblici ha prodotto 37.000 incarichi nei consigli di amministrazione e circa 26.500 amministratori. Il costo pro quota di questa proliferazione di posti è circa 450 milioni di euro. L’imperativo è disboscare.  

Il renzismo si sta un po’ afflosciando

Il renzismo si sta un po’ afflosciando

Marco Bertoncini – Italia Oggi

La conferenza stampa sui mille giorni è stata in linea perfetta col personaggio Matteo Renzi. Dal trionfalismo alle battute, dagli annunci alla passione quasi sfrenata per i lanci di agenzia (nel senso che i suoi cinguettii, i suoi messaggi, i suoi lucidi, i suoi siti, vivono essenzialmente di fosforescenti immagini, di sintesi, di avvisi), c’era tutto R. nella compiaciuta presentazione di programmi, impegni, realizzazioni.

Per lui l’ideale sarebbe una generale sospensione di giudizio, sino al termine dei mille giorni, come non ha mancato di auspicare. Le valutazioni, tuttavia, già arrivano. Non è vero che siano riedizioni di negativi commenti già falliti prima del voto europeo. Infatti, oggi non ci sono soltanto alcuni sondaggi che indicano una minor presa di R. sugli elettori, del resto quasi scontata, anche perché il successo, le attese, le speranze, la percentuale medesima ottenuta alle europee, erano talmente elevati da non poter rimanere senza qualche caduta. No: l’elenco dei critici e degli insoddisfatti cresce. Si guardi ai republicones, dagli assalti del Fondatore contro il «Pifferaio» ai dubbi sui conti e sulle mancate coperture che si leggono con frequenza su L’Huffington Post. Si vedano i segnali non amichevoli giunti dal sindacato degli imprenditori (e collegato giornale): non paiono di sostegno talune dichiarazioni di personaggi quali Marchionne o Della Valle. Fior di commentatori, di analisti, di osservatori, validi o tali presunti o, insomma, quotati per la maggiore, hanno espresso dubbi, riserve, critiche, così su La Stampa come sul Corriere. Mentre il montismo durò fino alle urne, il renzismo pare un po’ afflosciarsi. Soltanto il Cav resta in attesa, magari non benevola, però attesa.

Non solo i gufi sanno leggere i numeri

Non solo i gufi sanno leggere i numeri

Gaetano Pedullà – La Notizia

I conti sono tutti nelle pagine interne. Chi avesse voglia e pazienza di andare a leggere scoprirà che neanche volando sarà possibile realizzare tutto quello che il premier ha promesso ieri. Figuriamoci procedendo passo a passo. A dirlo non sono i gufi, ma i numeri. E i numeri, si sa, sono argomenti testardi. Tra vecchi decreti attuativi mai applicati dall’amministrazione Letta e i nuovi bisognerebbe approvare una media di un provvedimento al giorno; sabato, domenica e Natale compresi.

Palazzo Chigi ha messo il countdown su Internet, ma la sparata è talmente grossa che a questo punto anche a un giornale riformista come questo, dunque ben felice che l’Italia cambi verso, viene un fortissimo sospetto. Anziché andare avanti con proposte ambiziose ma fattibili, vuoi vedere che si sta alzando la posta così tanto da poter poi dire che il Parlamento mette il carro davanti ai buoi e a quel punto giustificare il ritorno alle urne? Se così fosse, si sta commettendo un peccato mortale, perché anziché portarci subito alle urne e provare a dar vita a una maggioranza meno traballante di quella attuale, si sta buttando via altro preziosissimo tempo.

Il perdurare della crisi sta deteriorando oltre ogni limite la tenuta delle nostre imprese, l’assoluta impossibilità dei giovani (e anche dei meno giovani) di trovare un lavoro sta creando un clima depressivo dal quale sarà durissima riprendersi. Mai come in questi tempi i medici stanno prescrivendo tranquillanti e psicofarmaci. La prima riforma, dunque, deve essere quella di non perdere più tempo. E non prenderci in giro.