About

Posts by :

Un Pesc nei conti

Un Pesc nei conti

Davide Giacalone – Libero

Per sapere come saranno sistemati i conti pubblici il ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan, ha rimandato tutti a settembre, quando sarà presentato il Def (documento di economia e finanza). Per sapere quale sarà l’assetto dei vertici europei, quindi le nomine nella Commissione e nel Consiglio, è stato tutto rimandato a fine agosto. C’è un legame, fra questi due rinvii. E c’è un presagio di guai, per l’Italia.

Il governo ha negato e nega la necessità di una correzione dei conti. O, meglio, nega la “manovra”, un concetto che di suo non significa nulla, ma tradizionalmente è sinonimo di tasse. Bene. Solo che Padoan, riferendo in Parlamento, ha messo le mani avanti: confermiamo gli 80 euro anche per l’anno prossimo, confermiamo il taglio (minimale) del cuneo fiscale, ma la crescita del prodotto interno lordo è stata troppo bassa. Quindi i conti non tornano, tanto è vero che per il pagamento dei debiti verso fornitori privati ha detto che «verrà ulteriormente rafforzato», affermazione che cancella l’impegno preso da Matteo Renzi, secondo cui sarebbero dovuti essere totalmente saldati entro settembre. C’è dell’altro.

I tre pilastri dell’azione di governo, ovvero «più apertura al mercato, riforme strutturali e più investimenti», non solo sono piantati nel nulla, ma nessuno ha la benché minima probabilità di sortire effetti entro la fine dell’anno. Quindi, ancora una volta, i conti dovranno essere aggiustati. In quanto alle sollecitazioni provenienti dalla Commissione europea e dall’Ecofin, Padoan ha osservato che questi signori non tengono conto «delle minori spese pianificate, ma non ancora specificate nel dettaglio, e dei maggiori introiti attesi dalle privatizzazioni, in via di programmazione». Rileggetela, questa frase, perché è un capolavoro di evanescenza: a. i tagli sono nei conti, ma non si è ancora detto quanti, quali e come; b. gli introiti si riferiscono a privatizzazioni, che però non si sa neanche quali e quando; c. e, cosa assai grave, quei soldi sarebbero indirizzati a compensare il deficit anziché ad abbattere il debito. Quest’ultima è la via della perdizione, come una famiglia che vendesse la casa non per cancellare debiti che non riesce a pagare, ma per evitare di far scendere il proprio tenore di vita.

In queste condizioni il rapporto fra il governo italiano e le autorità europee diventa determinante, circa le modalità e i tempi per correggere i conti. Ed è qui che le cose si mettono male, per colpa nostra. E’ qui che entra il problema postosi con la richiesta di nomina in capo a Federica Mogherini. Premetto che non provo alcun piacere nel vedere il governo del mio Paese non ottenere quel che chiede, o trovare degli ostacoli. Premetto anche che non sono minimamente in grado di esprimere un giudizio sul nostro ministro degli esteri, perché, letteralmente, non so chi sia. Non ho idea di quale linea abbia in mente o di quali siano le sue capacità diplomatiche. Taluno ha osservato che anche Catherine Ashton era priva di esperienza, quando fu nominata altro rappresentante per gli affari esteri europei. Trovo che sia osservazione la più offensiva possibile, nei confronti di Mogherini, visti i risultati (e comunque falsa, perché era già stata commissaria al commercio). Esaurite le premesse, veniamo al punto: Renzi ha sostenuto che ciascun governo nomina chi gli pare e gli altri non si devono impicciare. Erroraccio.

Un misto d’arroganza e disperazione, condito da quel «almeno rispettateci». Ma pur sempre un erroraccio. Perché se Commissione e Consiglio sono da considerarsi abbozzi di governo europeo (al contrario del Consiglio dei ministri, dove, effettivamente, ciascun Paese manda il ministro che più gli aggrada), allora si può chiedere loro di tenere presenti considerazioni politiche generali, come equilibri di crescita e opportunità di riforme. Ma se, invece, sono la sommatoria dei delegati da ciascuno, allora il solo compito che possono ragionevolmente svolgere è quello della vicendevole guardiania sul rispetto dei trattati e dei vincoli. Il che ci uccide. Renzi ha battuto i pugni, come tante volte i beoti di ogni colore hanno auspicato, ma per ottenere quel che ci nuoce. Il tutto in cambio di un posto (Pesc) che non conta nulla, per il quale non s’è svolto alcun dibattito circa le politiche da seguirsi (i contenuti non dovevano venire prima dei nomi?), e che servirà da inutile bandierina. E lo scrivo con rammarico. Per il mio Paese e per i nostri conti che, infatti, hanno fatto dire a Padoan: «i margini sono stretti, non ci sono scorciatoie». E c’è poco da interpretare.

Perché Berlino non fa i compiti?

Perché Berlino non fa i compiti?

Giorgio Ponziano – Italia Oggi

Non bisogna nascondere i propri problemi sotto il tappeto degli altri. Ma guardare a fondo l’economia tedesca e il sistema pubblico che la sorregge non significa cercare di autoassolversi, poiché il debito italiano rimane un moloch soffocante, può però servire per non restare silenziosi dietro la lavagna. Insomma al tavolo europeo i più bravi vanno lodati ma non debbono barare al gioco. I tasselli del mosaico che fotografa l’altra faccia della Germania provengono da analisi e studi di economisti, giornalisti, ricercatori, tra i quali Patricia Szarvas, Francesco Cancellato, un’èquipe dell’università di Linz, Lucrezia Reichlin, Mario Baldassarri, eccetera. Eccolo, il mosaico.

1. Franco Bassanini, presidente della Cdp, cassa depositi e prestiti, controllata per l’80 % dal ministero dell’Economia, ogni anno emette 320 milioni di euro di obbligazioni e il ministro Pier Carlo Padoan quei soldi li deve contabilizzare nel debito pubblico italiano. In Germania vi è un istituto fotocopia, che si chiama Kfw, Kreditanstalt für Wiederaufbau, anch’esso per l’80% appartenente al governo federale. Emette obbligazioni per finanziare i suoi interventi, l’ultimo anno ne ha emesse per 500 miliardi di euro. Ebbene, di quei 500 miliardi non c’è traccia nel deficit pubblico tedesco perché in Germania vi è una legge che esclude dal conteggio (e quindi dalle tante statistiche sul rapporto debito/pil) le società pubbliche che coprono la metà dei propri costi con ricavi di mercato. Avviene quindi che nonostante le due strutture finanziarie siano pubbliche e si tratti di risorse reperite sul mercato con obbligazioni, in un caso è considerato debito pubblico e nell’altro no. Trattandosi di centinaia di miliardi non è cosa da poco.

2. In Italia, non essendoci federalismo amministrativo, tutto finisce nel calderone della finanza pubblica. I deficit di regioni, comuni e province (finché ci saranno) vengono contabilizzati dallo Stato e formano la massa del debito, tanto che si è dovuti ricorrere alla camicia di forza della spending review per bloccare le spese dei comuni e il presidente del consiglio, giustamente, ha annunciato un maggiore controllo anche sulle spese delle regioni, che in genere continuano a sgarrare rispetto al patto di stabilità. In Germania invece c’è federalismo e quindi i 600 miliardi di debito dei länder rimangono nei loro bilanci locali. Anche in questo caso si tratta di una disparità, rispetto ai conti pubblici italiani, difficile da comprendere. È vero che Angela Merkel, comunque preoccupata per il progressivo aumento del deficit dei länder, ha imposto il dietrofront, con l’obiettivo del pareggio dei loro bilanci, ma dovranno tagliare il traguardo nel 2020 e non nel 2015 come invece viene chiesto (e imposto) all’Italia.

3. Nelle classifiche sull’occupazione, la Germania svetta col suo (solo) 5% di disoccupati ma dietro questo dato vi è quello delle persone a rischio povertà, addirittura il 24%. Perché? Perché il 25% dell’offerta di lavoro è costituita dai mini job, lavori part time a basso costo: le statistiche tedesche considerano occupati coloro che hanno un contratto di mini job, in realtà essi hanno contratti di tre mesi, senza alcuna garanzia e la media del salario è 400 euro netti al mese. In molti casi si tratta quindi di una disoccupazione nascosta. Ovvero lo scarto tra il 12,7% della disoccupazione in Italia e il 5% di quella in Germania non è veritiero, la forbice è molto più stretta.

4. L’economia sommersa è una vergogna non solo italiana. In Germania il nero è calcolato dagli economisti tedeschi nel 13% della produzione tedesca, con 8 milioni di lavoratori e 350 miliardi di euro sottratti alle casse dello Stato. Soprattutto nella capitale Berlino, trainata dal poderoso settore dell’edilizia, la diffusione del lavoro nero sembra la regola più che l’eccezione. Né il rigore né i controlli degli appositi uffici tedeschi sono riusciti a rendere meno abnorme il fenomeno. L’aggiramento della legge è uno sport non solo italico.

5. Dopo varie peripezie, in Italia il sistema bancario è oggi privato e con la svolta del Montepaschi è caduta l’ultima roccaforte dell’incesto tra pubblico e privato. Al contrario, in Germania la svolta non c’è stata, il 45 % del sistema bancario tedesco è saldamente in mani pubbliche, comprese le banche regionali, poiché ogni länd ha il proprio istituto di credito. È scontato il fatto che il sistema pubblico tedesco funziona meglio di quello italiano e che la politica è meno invasiva ma rimane da rilevare che i 637 miliardi di crediti quasi inesigibili delle Landesbanken, appunto gli istituti dei länder, sono in ultima analisi sul groppone dello Stato, così come più o meno una cifra analoga pesa sui bilanci delle banche nazionali controllate dallo Stato. Quindi il passivo del sistema bancario pubblico tedesco non compare nel bilancio generale e non concorre al deficit e al rapporto tra debito e pil, eppure si tratta a tutti gli effetti di una passività pubblica. Non solo. Questo controllo del governo sulle banche può in teoria (o in pratica) essere usato per indirizzare politiche finanziarie a favore o contro altri Paesi. Un esempio. Silvio Berlusconi, da presidente del consiglio, rivolge parole volgari alla Merkel? Le banche pubbliche tedesche vendono titoli di Stato italiani, mettono Piazza Affari sotto pressione, lanciano allarmi finanziari: lo spread sale e il paese sotto tiro va in crisi. Si tratta di un uso politico della finanza che non ci sarebbe se l’Ue imponesse la privatizzazione delle banche, com’è avvenuto per altri settori. Ma la Germania non vuole e nulla si muove, mentre l’Italia deve fare i compiti a casa.

6. Si sono svolte anche recentemente aste dei titoli di Stato tedeschi e, come a volte succede, una parte non è stata assorbiti dal mercato primario. Invece di ricorrere al mercato secondario (con tassi più alti e perdita di valore dei titoli) è intervenuta direttamente, per acquistarli, la Bunbdesbank, anche se ciò è espressamente vietato dal trattato di Maastrich. Ma chi ha il coraggio di sgridare la banca centrale tedesca? In questo modo però essa evita la crescita del debito pubblico, una sorte a cui invece vanno incontro gli altri Paesi, che rispettano il trattato.

7. L’Italia si sta svenando per rispettare il six pack, cioè le sei direttive concordate nel 2011 che prevedono che un Paese non debba registrare un passivo superiore al 3% del pil e un surplus (export meno import) di oltre il 6%. La Germania è negli ultimi 5 anni largamente al di fuori di quest’ultima percentuale e se ne infischia. Il suo avanzo è attorno al 7% del pil e secondo il six pack avrebbe dovuto essere sanzionata, invece niente, mentre per noi il 3% è sacro e i tedeschi ce lo ripetono ogni giorno. Due pesi e due misure, che fanno crescere le ingiustizie e le differenze tra i sistemi economici degli Stati.

8. Infine l’Ocse. Avverte la Germania: oggi il vento soffia a favore (anche se da marzo si registra un rallentamento) ma attenzione al futuro. Dormire sugli allori può essere pericoloso. L’invecchiamento demografico, l’enfasi eccessiva sull’export, la bassa crescita della produttività, la scarsa concorrenza interna nel settore dei servizi, la burocrazia efficiente ma tentacolare sono nodi che la Repubblica Federale deve affrontare e risolvere per il suo bene ma anche per quello dell’Europa.

L’Italia è un Paese tossico per le multinazionali di successo

L’Italia è un Paese tossico per le multinazionali di successo

Edoardo Narduzzi – Il Foglio

E se l’Italia fosse già diventata un semplice mercato, una country, una semplice linea di affari nel bilancio consolidato di una multinazionale di successo nel mercato globale? Mentre proseguono le inutili polemiche post acquisizione della Indesit da parte della Whirlpool con le solite grida «Al lupo! Al lupo!» per segnalare il pericolo di un made in Italy sotto attacco da parte dei predatori internazionali, si registrano altre fughe dal Belpaese di multinazionali macina utili. L’italianissima Gtech, un tempo Lottomatica, ha appena concluso l’offerta sull’americana Igt, leader mondiale dei casinò e nel social gaming, per 4,6 miliardi. Ne nasce il gruppo più importante del pianeta nel settore del gioco, anche di quello digitale. Contestualmente all’acquisto Gtech ha annunciato che sposterà la sede fiscale del gruppo dall’Italia a Londra e che procederà al delisting del titolo da Piazza Affari. Qualche mese prima era stata la Fiat di Sergio Marchionne a muovere la sede fiscale del nuovo gruppo nato dalla fusione con Chrysler, Fca, a Londra e quella legale in Olanda.

I commentatori banali si fermerebbero a evidenziare il solo shopping fiscale come ragione prevalente, se non unica, della fuga dall’Italia. La realtà, purtroppo, è ben più negativa per l’Italia e il motivo fiscale è solo uno dei tanti. Certo, l’Irap che esiste e si paga solo in Italia e che è incomprensibile alla totalità dei manager internazionali nelle sue logiche di calcolo e nella sua peculiare base imponibile, che ne fa una patrimoniale sulle imprese, non aiuta a trattenere le multinazionali. Certo, il tax rate fino a 10 punti più alto di quello che offre il Regno Unito di Dabid Cameron, che ha per ben due volte ridotto l’aliquota sugli utili societari, è una sirena alla quale è difficile resistere. Certo, il cuneo fiscale più alto perfino di quello tedesco non può non fare da acceleratore della fuga. Ma, se l’Italia avesse una Pubblica amministrazione degna nella sua qualità media e nei suoi meccanismi di funzionamento dell’Eurozona, gran parte dei problemi fiscali potrebbero essere gestiti. Le multinazionali di successo scappano da un paese con una giustizia civile da quinto mondo e con una macchina burocratica pensata per essere un postificio, un atipico strumento di politica occupazionale keynesiana capace solo di scavare buche laddove strade e ponti non saranno mai costruiti. La Pa italiana non garantisce i servizi essenziali per le multinazionali contemporanee in termini di qualità media e tempi di lavorazione e le nostre multinazionali fanno shopping burocratico all’interno della Ue. Eppoi, le multinazionali italiane di successo scappano anche da un mercato dei capitali periferico e da un sistema bancario nel quale il credito è non solo rarefatto ma anche senza grandi protagonisti internazionali in grado di accompagnare il business dall’America alla Cina, dalla Russia al Canada.

Gtech in qualche modo è l’idealtipo del made in Italy di successo nell’high tech. Apparentemente è una società che fa business con lotterie e gratta&vinci, nella realtà una formidabile Amazon del gioco digitale capace di anticipare i megatrend mondiali del settore. In parte grazie alla deregolamentazione del comparto dei giochi adottata nel passato dall’Italia (liberalizzare fa sempre bene e produce crescita e sviluppo), in parte grazie a un management di ottima qualità, negli anni Lottomatica ha saputo costruire delle piattaforme proprietarie per gestire i suoi tanti giochi e capire che le stesse potevano facilmente diventare degli erogatori di servizi nei vari mercati della globalizzazione. L’evoluzione della tecnologia nella direzione del cloud e delle app ha consacrato questa visione di business.

Gtech e Fca che fanno rotta all’estero segnalano quanto sia concretamente difficile fare business per una multinazionale che oggi si presenta sui mercati internazionali a raccogliere capitali con base in Italia e strategia operativa a livello globale. Gli azionisti, in primis quelli istituzionali operativi nei vari continenti, non amano avere in portafoglio titoli o azioni made in Italy. Su questi titoli, stante la comprovata atipicità italica, chiedono un premio per il rischio aggiuntivo per investire. Premio che non ha senso pagare e che nessuna multinazionale che vuole essere davvero competitiva si può permettere di pagare.

Ecco spiegato perché, mentre a Palazzo Chigi vengono presentate e illustrate le dettagliate slide che spiegano le molte riforme di cui l’Italia ha bisogno, i ritardi accumulati nel passato spingono alla delocalizzazione le nostre migliori multinazionali. Ovviamente, la colpa non è del bravo e determinato premier che è arrivato al governo da soli quattro mesi. Ma è altrettanto ovvio che di tempo Matteo Renzi non ne può più guadagnare: o riforma per davvero e rapidamente oppure si ritrova a governare un paese condannato a crescere dello zero virgola ogni anno.

Il supplizio di Italo

Il supplizio di Italo

Il Foglio

Antonello Perricone, presidente della società privata che gestisce Italo, treno ad alta velocità, è un manager a cui certamente non mancano grande garbo e grande equilibrio. Ma l’altra sera, dopo aver ascoltato la relazione annuale dell’Autorità dei trasporti, ricca di buoni propositi e di puntuali raccomandazioni al governo, ha abbandonato per un momento il suo tradizionale aplomb e ha dettato alle agenzie di stampa una dichiarazione durissima: «A parole, in sede elettorale, tutti sono sempre a favore della concorrenza, quando però occorre dimostrarlo nei fatti arrivano i problemi». Un richiamo pesantissimo non tanto all’Authority appena istituita ma a quanti nelle istituzioni dovrebbero garantire libertà di impresa e di mercato. E come dargli torto?

La storia di Ntv, società che vede tra i principali azionisti Luca di Montezemolo e Diego Della Valle, è la storia di una lotta impari tra la concorrenza e il monopolio, tra chi ha investito un miliardo di euro per creare una nuova occasione di sviluppo e di occupazione e chi invece vuole mantenere le cose come stanno, senza nulla rischiare e nulla creare, tanto i cittadini non hanno scelta e se i bilanci traballano c’è sempre una misericordiosa mano pubblica pronta a tappare buchi e voragini, a ripianare deficit e storture.

La storia di Ntv, di fatto, è la storia di un supplizio. In due anni di vita, anziché ricevere agevolazioni e incoraggiamenti, i treni nati per sfidare sul mercato le Frecce rosse hanno dovuto superare ostacoli addirittura grotteschi, come il cancello della stazione Ostiense con il quale le Ferrovie dello Stato impedivano ai passeggeri in partenza da Roma di raggiungere i convogli targati Italo. Uno stillicidio di norme controvento che purtroppo non accenna a fermarsi. Anzi. L’ultima pena è legata all’aumento della bolletta elettrica, previsto dall’articolo 29 del decreto sulla competitività. Un aggravio di 1,20 euro per ogni chilometro percorso che, fatti i dovuti calcoli, significa per Italo una batosta pari a 20 milioni di euro l’anno. Un colpo alla nuca per la società e per gli oltre mille giovani che in questa impresa hanno trovato lavoro. Perricone non ha dubbi: se la norma non cambia, il governo di Matteo Renzi «si assume una responsabilità gravissima: cambiare, in corsa e in peggio, le regole del gioco e aprire le porte al ritorno di una situazione di monopolio». Un pessimo esempio per tutti quegli investitori stranieri ai quali chiediamo continuamente di considerare l’Italia un paese moderno, agile e produttivo.

Sparigliare il gioco

Sparigliare il gioco

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Non ci siamo. La scossa che il paese attendeva, e sul presupposto della quale si è costruita la ripresa della fiducia di famiglie e imprese – importantissima sul piano della tenuta sociale – non è arrivata, e ora tutto sembra ancor di più maledettamente in salita. Il ministro Padoan, poco avvezzo alle sparate mediatiche, ci comunica che la ripresa è lenta, eufemismo per dire che non è nemmeno partita, e oppone un «no comment» all’ipotesi di una manovra correttiva dei conti pubblici, che poi un po’ penosamente è costretto a trasformare in un «no, non c’è nessuna manovra in arrivo». Al presidente di Confindustria Squinzi, che da tempo sembra mordersi la lingua per evitare di sbottare, scappa detto che «il tempo per riforme concrete, profonde, incisive, a 360 gradi, è ormai agli sgoccioli», che è un modo per manifestare scontento per quanto fin qui non c’è stato. Può essere che l’Istat fra poco ci comunichi che nel secondo trimestre il Pil abbia fatto +0,2 per cento anziché quel -0,1 per cento che sommando all’analogo risultato dei primi tre mesi ci avrebbe riportato in recessione (per la verità altre voci dicono che comunicherà lo zero senza virgola, così giusto per evitare il segno meno, ma niente di più), ma è dal fronte della produzione industriale che giungono i segnali maggiormente preoccupanti. Per maggio l’Istat ha già certificato il peggior risultato da novembre 2012, con un calo dell’1,2 per cento su aprile (dell’1,5 per cento per il manifatturiero puro) e dell’1,8 per cento sull’anno precedente. Considerato che nel primo trimestre la caduta era stata dello 0,9 per cento e pur mettendo in conto che per giugno Confindustria stima un aumento dello 0,7 per cento su maggio, è plausibile che nel secondo trimestre si arrivi a un’ulteriore riduzione dello 0,5 per cento sul precedente, e che dunque questa dinamica metta a rischio la possibilità di un recupero, seppure marginale, del Pil nella prima metà dell’anno. È ormai evidente, quindi, che gli otto decimi di punto di crescita previsti nel Def dal governo – peraltro del tutto insufficienti a farci rialzare la testa, visto che dal 2008 di punti di Pil ce ne siamo mangiati 9,4 – sono una chimera e che nel migliore dei casi si chiuderà il 2014 con il -0,4 per cento predetto dall’Istat (ma occorrerebbe una seconda parte dell’anno brillante, a essere realisti è più probabile la metà). Insomma, c’è da essere preoccupati, molto preoccupati. E non solo perché tutti i dati economici (persino l’inflazione allo 0,2-0,3 per cento è un problema grosso) sono talmente negativi da spezzare i sogni di ripresa anche dei più inguaribili ottimisti – a proposito, questi ultimi, signor presidente del Consiglio, sono i veri “gufatori” – ma soprattutto perché, mentre la positiva congiuntura internazionale a cui ci siamo aggrappati in questi mesi sembra volgere al termine, rischiamo che la speculazione finanziaria torni a colpirci.

In questo quadro, con la coperta corta che ci ritroviamo addosso della ripresa che non c’è e delle risorse che il rispetto dei vincoli europei ci impedisce di disporre, l’unica chance che abbiamo è sparigliare il gioco. Come? Certamente non tirando la giacca a Bruxelles e a Berlino per ottenere qualche margine di manovra in più, come, per esempio, usare i fondi Ue inutilizzati (nel 2013 ne abbiamo usati solo poco più della metà di quelli di cui avevamo diritto, ultimi in classifica insieme con la Romania). No, qui dobbiamo mettere in campo una doppia manovra. Da un lato, l’operazione straordinaria sul patrimonio pubblico di cui si parla ormai da troppo tempo – e che anche Delrio ultimamente ha evocato, anche se non si capisce se a titolo personale o a nome del governo – finalizzata sia all’abbattimento una tantum di una fetta dello stock di debito sia all’acquisizione di risorse per fare investimenti pubblici e favorire quelli privati abbassando le tasse sulle imprese e sul lavoro. Dall’altro, un piano industriale nazionale che ci consenta di incrementare la quota sul Pil del manifatturiero e dei servizi ad alto valore aggiunto a esso connessi, e di portare – come ha giustamente suggerito in un ottimo intervento sul Sole 24 Ore il viceministro Calenda – dal 30 al 50 per cento, come la Germania, la quota di export sul Pil. Gli strumenti sono ormai individuati, e lo stesso Calenda li riassume efficacemente nella magica parola «riforme strutturali». Il postulato è quello ripetuto più volte in questa rubrica: la crisi non supera dal lato della domanda – che più di tanto non si fa stimolare e che comunque richiederebbe risorse che non abbiamo – ma agendo da quello dell’offerta, che deve essere ripensata partendo dal presupposto che essa deve soddisfare i consumatori del mondo e non più soltanto quelli italiani. Si tratta di rimuovere le cause di contesto che frenano lo sviluppo, specie quelle che hanno a che fare con la Pubblica amministrazione e il mercato del lavoro, così come di favorire il ridisegno di interi settori (turismo, filiera agroalimentare, energie rinnovabili, utilities, trasporto e logistica, facility management, solo per citarne alcune) e la moderna infrastrutturazione, materiale e immateriale, del paese. Attendiamo segnali. Anche a Ferragosto.

Le buone idee di Calenda e le coalizioni di Renzi

Le buone idee di Calenda e le coalizioni di Renzi

Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore

Dire che i dibattiti su flessibilità e crescita sono rimasti finora su piano dell’indeterminatezza, come scrive Carlo Calenda sul Sole di martedì, è un eufemismo: sarebbe più esatto dire dell’ambiguità, ambiguità voluta, in modo da poter presentare l’esito di una discussione nel modo politicamente più conveniente. L’idea è di scrivere un Piano industriale per l’Italia, inteso come aumento della competitività dell’offerta e non come stimolo della domanda, agendo quindi sulle condizioni al contorno. Riforma del lavoro, struttura della legge fallimentare, eliminazione dell’Irap, «il tanto che si può ancora fare sul tema delle utility nazionali e locali» (ancora?), spending review e analisi delle procedure di ogni singolo dicastero. Per chi questi temi li ha tante volte evocati vederli autorevolmente sostenuti è motivo di soddisfazione ma anche di perplessità.

Perché ai grilli parlanti il Governo può anche non rispondere, ma quando a parlare è il viceministro dello Sviluppo economico in carica, non può non rispondere a chi gli chiede: scusa, a che punto siamo? E non si dica che la carne al fuoco è tanta, che le Camere sono ingolfate dalle riforme costituzionali e istituzionali, che ci sono centinaia di decreti attuativi da approvare (come se questa fosse una scusa): in politica, è sempre politica la causa per cui non si fa una cosa. Il ddl di semplificazione delle leggi sul lavoro è stato presentato da Pietro Ichino: sicuro che la maggioranza sarebbe compatta nel votarlo? Quanto all’articolo 18, basta nominarlo che partono i fumogeni. E non mi risulta che il premier Renzi li abbia inclusi nei provvedimenti su cui si gioca la testa.

Parliamo di imposte. Nella lunga intervista pubblicata domenica scorsa dal Corriere della Sera, Matteo Renzi dice che vorrebbe allargare la platea di chi riceve gli 80 euro al mese anche a «famiglie, partite Iva, pensionati»; Calenda ricorda l’abolizione dell’Irap; e l’Unione europea si sta muovendo per la riduzione del cuneo fiscale. Come finanziare tutto questo senza imporre nuove tasse? Il premier, a proposito di debito pubblico, ha lasciato cadere un riferimento alle ricchezze dei cittadini, (oltre che un pesantissimo affondo sulle banche) che non è certo servito a migliorare le «condizioni al contorno», come le chiama Calenda. Le imposte – commenta Angelo Panebianco – sono il tabù della sinistra. Tagliare gli stipendi dei politici, come si vanta di aver fatto Matteo Renzi porta qualche voto ma pochi soldi. E su quanto si possa ottenere con i tagli veri, sia da spending review sia da analisi del funzionamento dei dicasteri, si sta sempre nel vago. Tanto da far venire il dubbio se sia perché non si sanno individuare gli sprechi o perché spaventano le riduzioni del personale che inevitabilmente ne conseguirebbero: se per gli esuberi di Alitalia alcuni sindacati sembrano disposti a seminare di mine anche l’ultima spiaggia, figurarsi che cosa succederebbe se si dovessero toccare Sanità o Pubblica istruzione. O Poste, per restare in campo aeronautico.

La diligente razionalità del “piano” di Calende mette ancora più in evidenza la complessa varietà dei temi con cui deve fare i conti il progetto di Renzi. Di un piano si chiede lo stato di avanzamento, di un progetto politico ci si interroga sulla sostenibilità: a quale maggioranza si rivolge Renzi, e quale è il programma che pensa di riuscire a farle approvare? La maggioranza, in Parlamento e nel Paese, che ha sostenuto il Renzi istituzionale, quello della cesura verso le nomenclature di partito, verso l’ideologia dell’antiberlusconismo, verso lo stallo in cui erano finite le riforme istituzionali e costituzionali, è diversa dalla maggioranza, in Parlamento e nel Paese, di cui ha bisogno il Renzi governante: lo sosterrà qualora le dovesse proporre riforme che negano alcuni principi base della sinistra, la redistribuzione fiscale, la solidarietà in tema di immigrazione, il potere dello stato di controllare l’andamento economico? Sosterrebbe riforme come quelle che hanno fatto Tony Blair e Gerhard Schroeder? O non è invece più probabile che Renzi sia indotto a percorrere strade più tradizionali?
Alla fine il risultato potrebbe essere che la maggioranza che ha consentito a Renzi di arrivare al governo del Paese, e che ha anche accettato i compromessi necessari per portare in porto le “grandi” riforme, si trovi a essere governata dalla solita “normale” socialdemocrazia.

La cautela sull’economia mostra la sfida che il premier ha davanti

La cautela sull’economia mostra la sfida che il premier ha davanti

Massimo Franco – Corriere della Sera

Il «no comment» del ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, in risposta a una domanda sull’eventualità di una manovra correttiva in autunno era obbligato. La sua prudenza rispecchia l’incertezza che domina i conti pubblici e l’evoluzione della crisi finanziaria, e dunque va apprezzata. Ma gli avversari del governo hanno voluto vederci la conferma di una situazione in via di peggioramento, e una reticenza che non promette niente di buono. Forse anche per questo, nel pomeriggio Padoan è stato costretto a precisare: «Ma “no comment” non significa solo “non ho nulla da aggiungere”? Non c’è nessuna manovra in arrivo, semplicemente». L’ennesimo attacco di Forza Italia, figlio di un’opposizione «governativa» sulle riforme istituzionali e ipercritica sull’economia, tende a raffigurare Matteo Renzi sulla difensiva: cosa in parte vera, anche se ad essere realmente in panne è Silvio Berlusconi.

Il problema del presidente del Consiglio è che il fronte tedesco gli sta riservando critiche inattese. I popolari vicini alla cancelliera Angela Merkel continuano ad accusarlo di non avere voluto proporre l’ex premier Enrico Letta alla presidenza del Consiglio dell’Ue: un’intromissione che espone Renzi ma anche lo stesso Letta, indicato dal Ppe contro la candidata del governo italiano a «ministro degli Esteri» europeo: Federica Mogherini. Il risultato è un rinvio delle nomine a fine agosto. «Un rinvio estremamente pesante soprattutto per il semestre italiano», commenta preoccupato l’ex presidente della Commissione, Romano Prodi. Non solo. Il Pd appare lacerato più di quanto non sia; e, seppure supervotato il 25 maggio, è come se il suo peso politico a Bruxelles rimanesse marginale. È una difficoltà che Palazzo Chigi cerca di circoscrivere procedendo sulla riforma del Senato e soprattutto sulla politica economica.

Sa che è l’unica alla quale l’Unione Europea sia davvero attenta. Padoan ammette che la lentezza della ripresa rende i margini più stretti. «Non ci sono scorciatoie per la crescita», avverte. Ma conferma che il taglio del cuneo fiscale diventerà permanente con la legge di Stabilità. Si tratta di una marcia parallela a quella per modificare il bicameralismo. Più passano le ore, però, più diventa chiaro che la filiera degli oppositori non cederà facilmente. Ieri uno dei relatori del testo, il leghista Roberto Calderoli, ha sostenuto che non si comincerà a votare in Aula nemmeno lunedì, perché gli emendamenti sono troppi e richiedono una discussione ulteriore. La strategia del rinvio rivela anche una guerra dei nervi con il premier e con il ministro Maria Elena Boschi.

Eppure l’esito appare segnato. Gli alleati del Nuovo centrodestra insistono che bisogna far tutto prima dell’estate. E il sottosegretario a palazzo Chigi, Graziano Delrio, risponde che sulle riforme «è in ritardo il Paese, non il governo». Insomma, nonostante i malumori dell’Anci, che vorrebbe con Piero Fassino più sindaci senatori, il patto Berlusconi-Renzi dovrebbe portare all’approvazione in tempi relativamente rapidi. Resistono e fanno ostruzionismo sia una ventina di senatori del Pd, sia quanti dentro FI parlano di subalternità di Berlusconi a Renzi. E dall’esterno, costituzionalisti come Stefano Rodotà sostengono la tesi dell’«imposizione indecente, senza alcuna cultura istituzionale». Ma Renzi può replicare che la proposta è stata modificata; e reagire alle accuse del Movimento 5 Stelle sull’immunità parlamentare.

Nel testo governativo non c’era, dice, facendo capire che l’avrebbero inserita altri. Sono le convulsioni che accompagnano un cambiamento storico, per quanto a dir poco controverso; e che si intrecciano con le manovre di disturbo di Beppe Grillo in vista della prossima sfida: il sistema elettorale. Il capo del M5S manda i suoi a parlarne con Renzi e il Pd. Si punzecchiano ma alla fine sembrano tutti soddisfatti. «Non siamo divisi dal Rio delle Amazzoni ma da un ruscello», commenta Renzi. Attraversarlo, però, sarà ugualmente difficile perché la sensazione di un minuetto politico è comune a entrambi gli interlocutori. Il presidente del Consiglio si chiede se Luigi Di Maio, numero due della Camera e mediatore per conto di Grillo, sia in grado di portarsi dietro l’intero movimento. Visti i precedenti, è una domanda legittima.

Costi della politica, ecco il rapporto. I tagli possibili, dalla Rai ai vitalizi

Costi della politica, ecco il rapporto. I tagli possibili, dalla Rai ai vitalizi

Sergio Rizzo – Corriere della Sera

La Rai, per esempio. «A ogni cambio di governo, maggioranza e ad ogni scadenza del consiglio d’amministrazione segue normalmente un giro di nomina dei direttori dei telegiornali, i quali a loro volta nominano e promuovono 3-4 tra vicedirettori e capiredattori per governare con persone fidate. I passati capi tornano a disposizione mantenendo però stipendi, titoli e ruolo che avevano precedentemente. Il risultato è che ad esempio nel Tg1 solo un terzo dei giornalisti è un redattore ordinario e gli altri due terzi sono graduati». La mazzata alla tivù di Stato è tutta qui. Ma tremenda. E non tanto per la stoccata alla nave ammiraglia. Già un anno fa il deputato del Pd Michele Anzaldi denunciava che dei 113 giornalisti del Tg1 appena 32 erano redattori ordinari, mentre i soli capiredattori risultavano ben 34. Rapporto fra soldati semplici e graduati? Uno a 2,5.

La botta è micidiale perché nel rapporto sui costi della politica commissionato dal direttore d’orchestra della spending review Carlo Cottarelli a un pool di esperti coordinato da Massimo Bordignon, la Rai è assunta a simbolo poco edificante. L’emblema di quell’enorme indotto costituito dalle imprese pubbliche sulle quali la stessa politica scarica un peso economico non indifferente. Tanto da indurre gli autori del documento – che il governo ha deciso di rendere pubblico – a formulare una raccomandazione: quella che «le posizioni apicali nelle imprese pubbliche soggette a nomine politiche devono avere carattere temporaneo, con la previsione che la retribuzione segua la funzione effettivamente svolta». Vale per la Rai, come per tutte le altre migliaia di aziende controllate dal pubblico. Dove per pubblico si intende Stato, Regioni, Province e Comuni. E non è un caso che questo passaggio si trovi nell’ultimo capitolo, quello intitolato «Il sistema del finanziamento dei partiti», che comincia a pagina 86 del rapporto fino a ieri svanito e oggi finalmente ritrovato. Perché, come abbiamo tante volte ricordato, i canali attraverso cui la politica drena risorse pubbliche sono così numerosi da sfuggire a un calcolo preciso. Ragion per cui le raccomandazioni degli esperti di Cottarelli si sprecano. Come quella di «introdurre la massima trasparenza sui finanziamenti ai gruppi parlamentari», che nel solo 2012 hanno incassato 73 milioni: somma andata ovviamente ad aggiungersi ai rimborsi elettorali. O quella di alzare almeno al 10 per cento l’Iva sulle spese elettorali, che una legge d’altri tempi aveva fissato al 4 per cento appena: stesso livello vigente per i beni di prima necessità. Oppure quella di portare ad almeno 10 centesimi il francobollo per le lettere di propaganda politica, contro i 4 attuali. O ancora, quella di tagliare ancora del 20 per cento i sussidi alla stampa di partito. Anche se i risparmi non sarebbero certo dell’ordine di quelli che si potrebbero ottenere intervenendo sugli apparati istituzionali.

E qui viene il bello. Come abbiamo anticipato ieri, la relazione di 106 pagine consegnata nello scorso mese di marzo a Cottarelli contiene una radiografia approfondita dei costi della politica nei Comuni e nelle Regioni. Arrivando alla conclusione che su questo fronte si potrebbero realizzare economie per 630 milioni di euro l’anno oltre a quelle già portate a casa con le riforme fatte a partire dal governo di Mario Monti. Quasi metà, pari a 300 milioni e 698 mila euro l’anno, deriverebbe da interventi sulle amministrazioni comunali. Il rapporto suggerisce l’accorpamento dei piccoli Comuni (quelli sotto i 5 mila abitanti), la riduzione del 20 per cento del numero di consiglieri e assessori (oggi quasi 139 mila), l’eliminazione del trattamento di fine rapporto per i sindaci e il taglio compreso fra il 10 e il 20 per cento delle remunerazioni per il personale politico nei municipi al di sotto dei 15 mila abitanti. Tutte misure, si aggiunge nel documento, che andrebbero necessariamente estese anche alle Regioni a statuto speciale alle quali viene riconosciuta autonomia finanziaria nella gestione della finanza locale, quali Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia. Altri 330 milioni sarebbero i risparmi attesi dall’applicazione dei «costi standard» agli apparati politici regionali. Alcuni dei quali, va detto, si sono mostrati decisamente riluttanti di fronte ai tagli già imposti sull’onda degli scandali di Batman&co. alla Regione Lazio. Innanzitutto sulla trasparenza. Nonostante in seguito al decreto Monti sia stata fissata una retribuzione lorda onnicomprensiva uguale per tutti i consiglieri (11 mila euro mensili), i dati pubblicati per legge sui vari siti «non dicono», sostiene il rapporto, «quanti consiglieri cumulano all’indennità di carica le varie indennità di funzione previste, ed è dunque impossibile calcolare la retribuzione effettiva». Poi c’è il caso della Sardegna, che ha fatto ricorso alla Corte costituzionale contro il decreto Monti e non l’ha applicato, dov’è fissata «un’indennità di carica molto più alta (14 mila euro) della soglia su cui possono cumularsi le altre indennità».

Del resto le differenze nei costi delle assemblee, fra Regione e Regione, restano rilevantissime anche dopo la quasi generale equiparazione delle indennità. La media nazionale per consigliere «è superiore ai 900 mila euro ma Lazio, Calabria e Sicilia spendono più di un milione e mezzo mentre Molise e Marche sono attorno ai 500 mila euro», rivelano gli autori. Affermando la necessità di ridurre anche qui, ulteriormente, di 266 unità il numero di assessori ed eletti, con un risparmio possibile di 35 milioni: più altri 25 se si allineasse lo stipendio del consigliere a quello del sindaco del capoluogo. In tutto, dunque, sessanta milioni. Che salirebbero a 107 se, come propone il rapporto, si eliminasse anche il rimborso forfettario mensile. «In fondo», scrivono gli esperti di Cottarelli, «ai percettori di redditi di lavoro dipendente non è in genere riconosciuto un rimborso per le spese attinenti alla loro attività». Non si capisce quindi per quale ragione i consiglieri regionali debbano averne diritto. Altri 50 milioni di minore spesa potrebbero derivare dalla revisione dei vitalizi pagati agli ex consiglieri in base ai cosiddetti diritti acquisiti: semplicemente ricapitalizzando i contributi effettivamente versati sulla base del sistema contributivo e ricalcolando così gli assegni mensili. I vecchi vitalizi rappresentano una fetta gigantesca del costo della politica regionale: 173,4 milioni nel 2012. Che continua a lievitare. Basti pensare che nella sola Regione Lazio l’esborso è salito di oltre il 30 per cento in due anni, da 15,9 milioni nel 2012 a più di 20 quest’anno.

L’altro Nazareno

L’altro Nazareno

Davide Giacalone – Libero

Silvio Berlusconi e Matteo Renzi hanno contemporaneamente riunito i propri parlamentari e simultaneamente chiesto loro di essere leali e avere fiducia nelle capacità dei loro capi. Ovvero di loro due. Hanno stretto un patto, denominato “del Nazareno”, da quel patto è nato il governo Renzi, da quello s’è avviato il cambiamento della Costituzione, come la riforma del sistema elettorale. Ciascuno dei due ha pagato un prezzo, ciascuno ha avuto la propria convenienza, entrambe si mostrano fermi nel mantenere la parola data. Sarebbe tutto assai bello, se non fosse che il patto verte su ciò che forse è necessario, ma non su quello che certamente è urgente.
La sera del 25 febbraio 2013, quando si contarono le schede elettorali, fui tra quelli che ebbero modo di dirlo subito: questa legislatura si governa ed ha un senso solo se si stringe un accordo fra la destra e la sinistra. L’accordo deve reggersi su due punti: la messa in sicurezza dei conti e il cambiamento del sistema elettorale. Il Partito democratico, allora nelle mani di Bersani, rifiutò questa impostazione e si massacrò. Mi sento, quindi, un nazareniano ante Nazareno. Così come, del resto, fui tra quanti guardarono con interesse e simpatia al giovane sindaco di Firenze e ai suoi primi tentativi di dire la sua sulla scena nazionale. Il fatto è, però, che sia dall’accordo che dall’azione di governo è stato cancellato il primo, più urgente e più importante punto: i conti. Anzi, leggo (incredulo) che si sostiene la possibilità di animare l’intesa sulla Costituzione e lasciare dilagare la rissa sull’economia. Questo significa che i due ritengono prioritario controllare le frizioni e i conflitti all’interno dei gruppi parlamentari, piuttosto che provare a governare gli inevitabili conflitti sociali connessi a riforme economiche che, se vere, non sono indolori. È una davvero curiosa inversione delle priorità. Che risponde ad una logica culturale e politica: governare veramente non è possibile, ma è necessario controllare le Aule parlamentari, possibilmente riducendole al singolare, perché da quelle dipende non la continuità di governo, ma la stabilità dei governanti. Rassegnarsi a questo è suicida.
Tanto più che senza un Nazareno economico la sfida continuerà a svilupparsi in senso dannoso. Come Berlusconi volle alzare le pensioni minime così Renzi ha voluto alzare alcuni redditi, entrambe convinti che da quello dipenda il consenso e ambedue speranzosi che la spinta della domanda interna regga il prodotto interno lordo. Il tandem, purtroppo, pedala in senso opposto: crescendo i redditi (di poco per ciascuno, ma abbastanza nell’insieme) senza che cresca il lavoro diminuisce la produttività e la competitività, azzoppando la sola parte d’Italia che ancora prova a correre. E siccome senza sviluppo e con più spesa non si può far crescere il debito (che cresce per i fatti suoi), né sfondare il deficit (che è il preludio di nuovo debito), ne discende che, oggi come ieri, quel che si da con una mano si toglie con quella fiscale. Magari non esattamente agli stessi, ma in un forsennato gioco a non cambiare nulla. Questa logica non solo non cura il male, ma è il male.
Siccome tutto questo è evidente, e siccome è altrettanto chiaro che dominare i conflitti sociali, in un Paese che s’impoverisce, è difficile se altri si mettono a soffiare sul fuoco o bassamente speculano sulle difficoltà oggettive, ecco che aveva ed ha un senso che su quel terreno si stringa un accordo: mettiamo in equilibrio i conti, tagliamo la spesa pubblica da tagliare (tanta), dismettiamo patrimonio e abbattiamo il debito, nel frattempo riformiamo il sistema elettorale e lasciamo che sia il tempo a dimostrare quanto siamo stati ragionevoli, rimandando a subito dopo la ripresa della normale e sana dialettica fra diversi. E se qualche parlamentare scalpita, provando a farsi famoso intralciando questo importante lavoro, che si usi pure la frusta. Invece ci si è incaponiti su una cosa, la riforma costituzionale, che se la guardi da lontano ti sembra utile, ma non certo risolutiva, e se la guardi da vicino preferisci sperare che sia inutile. Il metodo giusto per la cosa sbagliata. Una maledizione.

L’impeto senza metodo non realizza il cambiamento

L’impeto senza metodo non realizza il cambiamento

Fabrizio Forquet – Il Sole 24 Ore

Uno Sturm und Drang che ancora non conosce la sistemazione teorica dell’idealismo: il riformismo renziano acquista sempre più la fisionomia di un impeto senza organicità. Il Sole ha provato a darne una razionalizzazione, e ne sono nate le pagine 2 e 3 di questo giornale, ma anche con una certa esperienza di norme si fa fatica a seguire le linee e i contorni del disegno complessivo.

Lo slancio, appunto, c’è. Così come lo sforzo evidente e meritevole di produrre il cambiamento necessario, a partire proprio dall’economia. Va incoraggiato il premier nel tentativo di superare le resistenze di un’Italia che, nel suo immobilismo, si è messa ai margini delle trasformazioni che hanno cambiato il mondo negli ultimi 25 anni. Ma l’impeto, pur necessario in questa fase, non basta. Produce antitesi, quasi mai sintesi.

Lo dimostra, una su tutte, la vicenda del Jobs Act. Renzi ne presentò con grande urgenza le linee guida nei primissimi giorni dell’anno, quando non era ancora premier. Letta ragionava sul programma 2014, Renzi in poche ore tirò fuori la sua “rivoluzione” del lavoro. Sono passati sei mesi e l’approdo in Aula al Senato del Ddl 1428, la delega sul lavoro appunto, è slittato a fine mese, in attesa che la maggioranza trovi l’intesa sul contratto a tutele crescenti. Poi toccherà alla Camera e, quindi, ai decreti delegati. La rivoluzione, insomma, può attendere.

Anche perché le norme sul lavoro si devono far largo nel vero e proprio ingorgo parlamentare di questi giorni. Tra decreto competitività, Dl e Ddl pubblica amministrazione, riforme istituzionali, sono centinaia gli articoli da discutere e approvare, con il termine dei due mesi che incombe pericolosamente per la conversione dei decreti. Il tutto complicato ulteriormente dalla mole delle norme attuative che continuano a moltiplicarsi mentre si fa fatica a smaltire quelle ereditate dai precedenti governi.
La «nostra novità è il metodo» annunciava Renzi all’esordio del suo governo. Oggi quello che manca è proprio il metodo e l’organizzazione. Il solista c’è, così come la visione e il coraggio, ma lo schema di gioco non ancora. E così la palla, banalmente, non va in porta.