About

Posts by :

La battaglia per le libertà nelle economie costituzionali

La battaglia per le libertà nelle economie costituzionali

Tra breve gli italiani saranno chiamati ad esprimersi su una riforma costituzionale approntata né da un’assemblea eletta a questo scopo né da una forte maggioranza di parlamentari eletti, ma nominati dalle segreterie dei partiti. Può essere utile, nelle circostanze, leggere alcuni paper recenti di storici dell’economia. Interessante l’articolo di Luke Norris della Facoltà di Giurisprudenza della Columbia University “Consitutional Economics:Lochner, Labor and the Battle for Liberty” apparso nell’ultimo fascicolo del Journal of Law & the Humanities. Lochner, e il Lochnerismo, sono poco noti agli italiani. Il “caso” Lochner si riferisce ad una sentenza del 1905 della Corte Suprema Usa. Il caso riguardava la costituzionalità di una legge sul lavoro dello Stato di New York in base alla quale un lavoratore di un forno per produrre pane non potesse lavorare più di dieci ore al giorno per un totale di sessanta ore la settimana. La Suprema Corte respinse la tesi a maggioranza (cinque su quattro), secondo la quale la norma era necessaria per proteggere la salute del lavoratore; anzi la considerò “un’interferenza non necessaria, irragionevole ed arbitraria nei riguardi della libertà contrattuale degli individui”.

Da allora – ci ricorda Norris – è passato più di un secolo. Nei primi venticinque anni dalla sentenza, la Corte Suprema dichiarò incostituzionali numerose legge federali o statuali dirette a regolare le condizioni ed i rapporti di lavoro. In parallelo, la Corte Suprema cominciò ad utilizzare il Quattordicesimo Emendamento alla Costituzione Americana per tutelare la libertà di parola e la privacy. La svolta avvenne nel 1937, subito dopo la Grande Depressione, nella vertenza West Coast Hotel Co versus Parrish quando la Corte Suprema adottò un punto di vista più espansivo dell’intervento regolatorio. Non, però, in senso statalista: mentre la sentenza Lochner si basava su una visione della libertà che premiava la libertà “da”, dal 1937 hanno prevalso sentenze sulla libertà “di”. Negli Usa il cambiamento è stato incoraggiato anche dai sindacati che lo hanno associato alla libertà di associazione repubblicana nella sfera politica. La libertà “di” in una sfera come il luogo di lavoro e stata gradualmente estesa ad altre sfere e ha trasformato il diritto costituzionale americano.

L’ennesimo falso miracolo di (San) Matteo

L’ennesimo falso miracolo di (San) Matteo

Panorama

Era il 13 marzo 2014 quando Matteo Renzi, ospite di Porta a Porta e di Bruno Vespa, promise di saldare i debiti della pubblica amministrazione verso le imprese “entro il 21 settembre successivo”, cioè entro il giorno di San Matteo. Insomma, il presidente del Consiglio, con una battuta delle sue, voleva autocelebrarsi come divino. Ecco, si è invece rivelato demoniaco.

Basta far di conto. Alla fine del 2014 il passivo dello Stato nei confronti dei suoi fornitori di beni e servizi era di circa 70 miliardi contro i 90 raggiunti durante l’era di Mario Monti a Palazzo Chigi. È pacifico, dunque, che il premier ha disatteso da subito la sua promessa. E dopo, come sono andate le cose? Alla faccia della trasparenza, sul sito del ministero dell’Economia l’ultimo aggiornamento sui pagamenti pubblici risale all’11 agosto 2015.

A quella data la somma versata ai creditori risultava essere di 38 miliardi di euro: mancavano quindi all’appello ancora 32 miliardi, cifra peraltro considerata in realtà superiore da molti economisti indipendenti. Quanto ai giorni a noi più vicini, in assenza di dati ufficiali, ci si può appellare solo ai centri studi. Secondo ImpresaLavoro, al 31 dicembre 2015 i debiti della pubblica amministrazione sono arrivati a 61,1 miliardi; per Giorgio Merletti, presidente di Confartigianato, “il conto in sospeso” era invece “di 65 miliardi e mezzo”.

E a metà 2016, a parere dell’Ance, l’associazione nazionale costruttori edili, “la situazione non è migliorata neanche con il superamento del patto di stabilità interno previsto dalla Legge di stabilità”. Questo perché “in media le imprese che realizzano lavori pubblici sono pagate 168 giorni (5 mesi e mezzo) dopo l’emissione degli Stati di avanzamento lavori, contro i 60 giorni previsti dalla normativa Ue”. Fatti e circostanze rendono quindi l’Italia il peggiore Stato pagatore d’Europa. E tra poco più di un mese è di nuovo San Matteo. Due anni dopo. (F.B.)

Il Tesoro & C., 15 anni di previsioni sbagliate

Il Tesoro & C., 15 anni di previsioni sbagliate

da Il Fatto Quotidiano

Il dato sul Pil di ieri certifica che per la dodicesima volta in quindici anni un governo italiano dovrà rivedere al ribasso le sue previsioni sulla crescita. Ormai è un fatto che si dà quasi per scontato, eppure quelle stime rosee inquinano il dibattito pubblico finché non vengono smentite (ma sempre con l’aggiunta: “La crescita ripartirà nel prossimo semestre” o “l’anno prossimo”, a seconda).

Una ricerca di ImpresaLavoro – su dati del Tesoro e dell’Ocse tra il 2002 e il 2015 – ha rivelato che le previsioni dei governi per l’anno successivo sono state prudenziali o esatte solo in tre casi (2006, 2007 e 2010), per il resto tanto ottimismo. Questi i risultati: fatto 100 il Pil del 2001, se le stime governative si fossero avverate il Prodotto italiano oggi sarebbe 123,75 e invece è 97,8. Si dirà, è difficile prevedere cosa succederà un anno dopo il momento in cui si scrive: in realtà, però, anche sull’anno in corso – cioè sulle stime di aprile rispetto al risultato di dicembre – c’è negli ultimi anni un errore medio vicino allo 0,5%. La cosa è un fatto talmente risaputo che l’ha scritta lo stesso Pier Carlo Padoan nel Documento di economia e finanza del 2014: gli ultimi governi hanno “mediamente sovrastimato la crescita economica per 0,5 punti in primavera e 0,2 punti nelle previsioni formulate in autunno (cioè a ottobre, ndr)”. Non sono solo i governi, però, a sbagliare per eccesso le previsioni.

Uno studio dell’ufficio studi della Cgil sugli anni 2008-2014 mostra con palmare evidenza che tutte le istituzioni che hanno costruito il racconto ideologico che ha guidato i nostri governi (deflazione salariale, austerità, privatizzazioni) sbagliano le loro stime con regolarità; in questo periodo, ad esempio, i governi Berlusconi, Monti e Letta hanno errato per eccesso del 14,3%, inventandosi circa 330 miliardi di Pil; la Banca d“Italia, però, ha sbagliato per 13,6 punti percentuali, la Commissione europea per 12,4 e il Fondo monetario per 11,6. La più accurata, per così dire, è stata l’Ocse, che ha sbagliato “solo” del 10,5% (che comunque, in soldi, fa la bella cifretta di 200 miliardi di euro di Pil inesistente). E’ appena il caso di ricordare, infine, che al momento della presentazione dell’ultimo Def da parte del Tesoro, l’Ufficio parlamentare di bilancio (una sorta di Autorità sui conti pubblici) non aveva validato le previsioni per il biennio 2017-2018 perché troppo ottimistiche. Il futuro non sarà diverso dal passato.

La nostra benzina a peso d’oro: siamo i terzi più cari d’Europa

La nostra benzina a peso d’oro: siamo i terzi più cari d’Europa

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

Estate, tempo di viaggi in auto. Il mese di agosto è quello che mette gli italiani dinanzi a una realtà che nel resto dell’anno si può anche evitare di vedere: benzina e diesel sono troppo cari, nonostante il prezzo del petrolio abbia recuperato solo parzialmente la gran discesa dei prezzi dell’ultimo biennio.

In Italia, però, di tutto questo non c’è evidenza: il costo dei carburanti è superiore dell’11,9% rispetto alla media europea. In particolare, il differenziale è del +10,4% rispetto alla Germania, del +12,6% rispetto alla Francia, del +20,7% rispetto alla Slovenia e addirittura del +30,4% rispetto all’Austria. Non si può, pertanto, non provare un po’ di invidia per friulani e altoatesini che hanno una possibilità di scelta, negata invece al resto dei connazionali. La ricerca, elaborata dal Centro studi ImpresaLavoro in base ai dati Weekly Oil Bulletin della Commissione europea, evidenzia come la «resistenza» rispetto alle oscillazioni ai prezzi di mercato sia legata all’eccessivo carico fiscale sulle benzine. Tasse e le accise pesano in media per il 68,8% sul prezzo finale praticato al consumatore. L’Italia si colloca al terzo posto di questa speciale graduatoria, a pari merito con la Gran Bretagna e subito dopo Olanda (70,9%) e la Svezia (68,9%). Il malcostume non è solo italico: in tutta Europa l’incidenza delle tasse sul prezzo finale non scende mai sotto il 53,07% della Bulgaria. Anzi, la media dei 28 Paesi è del 66%, dunque quasi tutti i cittadini europei finanziano i loro stati con i due terzi del costo dei carburanti. La prassi, però, ha molto più senso laddove le imposte sui redditi sono più basse e il carico fiscale si sposta, pertanto sui consumi. In Paesi come l’Italia, la Svezia, la Danimarca, la Francia e il Belgio, invece, i contribuenti sono tassati due volte: quando guadagnano e quando spendono.

In valore assoluto un litro di benzina Euro-Super 95 costa, secondo i dati dell’Ue, 1,4325 euro, in calo rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Un prezzo che in Europa è inferiore solo a Olanda (1,4510) e Danimarca (1,4438). In Germania un litro dello stesso carburante costa 1,2970 euro, in Francia 1,2714 euro e in Spagna 1,1345 euro. Solo in Bulgaria (0,9973) e in Polonia (0,9972) un litro di benzina costa meno di un euro.

Quanto al diesel, il suo costo medio in Italia è di 1,2894 euro al litro: anche in questo caso si tratta del terzo prezzo più caro in Europa, dopo quello praticato nel Regno Unito (1,3299 euro al litro) e in Svezia (1,2896 euro al litro), a fronte di un prezzo medio europeo di 1,1203 euro al litro. I cinque Paesi nei quali è più conveniente rifornirsi sono la Bulgaria (0,9673 euro), la Lettonia (0,9627 euro), la Lituania (0,9625 euro), la Polonia (0,9427 euro) e soprattutto il Lussemburgo (0,9120 euro). Anche per il diesel, sono le tasse a portar via larga parte del prezzo finale praticato al consumatore. Imposte e accise pesano per il 68,2% del prezzo finale nel Regno Unito, il 65,9% in Italia e il 63,3% in Francia. Anche in questo caso, in tutta Europa, l’incidenza delle tasse rimane sempre sopra il 50% del prezzo finale (60,9% la media Ue). Il fatto di essere tartassati non è comunque un buon motivo per non godersi le vacanze.

Benzina più cara d’Europa: il petrolio cala, le tasse no

Benzina più cara d’Europa: il petrolio cala, le tasse no

di Antonio Castro – Libero

Ogni estate è la stessa storia: gli italiani si mettono al volante e il prezzo della benzina lievita (prezzo medio ieri 1,432 euro/litro, diesel prezzo medio 1,272). Un costo/litro che in Europa è inferiore solo a Olanda (1,4510) e Danimarca (1,4438). Pochi centesimi di ritocco certo (siamo lontani dai 2 euro al litro toccati nell’agosto 2012), però, a ben guardare, 4 anni fa il prezzo del petrolio viaggiava verso i 115 dollari al barile (il Wti a 97,41 dollari, il Brent a 115,1). Ieri a Wall Strett il greggio di tipo Wti (quello più pregiato), faceva fatica a reggere i 41,7 dollari al barile, mentre il Brent superava di poco i 44,2 dollari. E allora sorge il dubbio: perché se i prezzi sono dimezzati, il costo di un litro di carburante si è ridotto di meno di un quarto?

Esistono due risposte: una tecnica, noiosissima e un po’ traballante. E una molto più semplice. Quella tecnica scansiona gli equilibri mondiali, la geopolitica e le fluttuazioni sui mercati finanziari. Tutto vero, per carità. Poi c’è quella papale papale: paghiamo la benzina uno sproposito perché oltre il 69% del prezzo di questo (e il 66% del gasolio), è fatto di tasse, accise, Iva e balzelli vari (dati Unione Petrolifera). In teoria c’è dentro l’addizionale per la guerra d’Etiopia (1935), una manciata di terremoti e disastri (l’ultimo quello in Emilia del 2012), e pure il “Salva Italia” di Monti del 2011.

Il problema dell’iper tassazione dei prodotti petroliferi è comune a tutta Europa. Ma noi in Italia siamo speciali: nel nostro Paese il prezzo dei carburanti continua a restare tra i più alti in Europa: +11,9% rispetto alla media europea e in particolare +10,4% rispetto alla Germania, +12,6% rispetto alla Francia, +20,7% rispetto alla Slovenia e addirittura +30,4% rispetto all’Austria. Il Centro studi ImpresaLavoro, ha elaborato i dati della Commissione Europea e messo in colonna la classifica dei più tartassati.

L’Italia si colloca al terzo posto di questa speciale graduatoria, subito dopo l’Olanda (70,9%) e la Svezia (68,9%). Tralasciando il dettaglio che in questi due Paesi i governi finanziano generosamente chi intende passare a vetture a impatto zero (elettriche, idrogeno). Loro alzano le tasse per scoraggiare comportamenti inquinanti, da noi solo per fare cassa. «Le entrate derivanti dalle accise sugli oli minerali, energia elettrica e gas naturale nel corso del 2015 si sono attestare a circa 31,3 miliardi di euro», spiega la Relazione 2016 dell’Up. Una torta troppo grande golosa per rinunciarvi.

Carburanti: in Italia ancora prezzi tra i più alti in Europa

Carburanti: in Italia ancora prezzi tra i più alti in Europa

Nonostante la sensibile riduzione del costo del petrolio, in Italia il prezzo dei carburanti continua a restare tra i più alti in Europa: +11,9% rispetto alla media europea e in particolare +10,4% rispetto alla Germania, +12,6% rispetto alla Francia, +20,7% rispetto alla Slovenia e addirittura +30,4% rispetto all’Austria. Lo attesta una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro su elaborazione dei dati della Commissione Europea (Weekly Oil Bulletin, 01 Agosto 2016).

differenza

MAGGIOR COSTO IN ITALIA RISPETTO A…

A incidere in maniera determinante sul caro carburanti nel nostro Paese sono le tasse e le accise, che pesano infatti per il 68,8% sul prezzo finale praticato al consumatore. L’Italia si colloca al terzo posto di questa speciale graduatoria, subito dopo l’Olanda (70,9%) e la Svezia (68,9%). In tutta Europa l’incidenza delle tasse sul prezzo finale non scende mai sotto il 53,07% della Bulgaria.

tassebenzina

In valore assoluto un litro di benzina Euro-Super 95 costa secondo i dati della Commissione Europea 1,4325 €, in calo rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Un prezzo che in Europa è inferiore solo a Olanda (1,4510) e Danimarca (1,4438). In Germania un litro dello stesso carburante costa 1,2970 €, in Francia 1,2714 € e in Spagna 1,1345 €.

prezzobenzina

Quanto al diesel, il suo costo in Italia è di 1,2894 euro al litro: anche in questo caso si tratta del terzo prezzo più caro in Europa – dopo quello praticato nel Regno Unito (1,3299 euro al litro) e in Svezia (1,2896 euro al litro) – a fronte di un prezzo medio europeo di 1,1203 euro al litro. I cinque Paesi nei quali è più conveniente rifornirsi sono la Bulgaria (0,9673 euro al litro), la Lettonia (0,9627 euro al litro), la Lituania (0,9625 euro al litro), la Polonia (0,9427 euro al litro) e soprattutto il Lussemburgo (0,9120 euro al litro).

prezzodiesel

Anche per il diesel, sono le tasse a portarsi via larga parte del prezzo finale praticato al consumatore. Imposte e Accise pesano per il 68,21% del prezzo finale nel Regno Unito, il 65,92% in Italia, il 64,85% in Svezia, il 63,29% in Francia. Anche in questo caso, in tutta Europa, l’incidenza delle tasse rimane sempre sopra il 50% del prezzo finale.

tassediesel

Che brutta figura!

Che brutta figura!

di Giuseppe Pennisi

Tassiamo o, di converso, paghiamo tanto in tasse ed imposte. Spendiamo ancora di più di quanto incassiamo (con deficit che di anno in anno hanno portato il debito pubblico al 135% del Pil) ma – quel che è peggio – spendiamo male.

Nella calura estiva ce lo ha ricordato uno studio approfondito di Antonio Alfonso e di Mina Kanzemi (ambedue dell’Università di Lisbona, capitale del Portogallo, altro Paese che non se la passa proprio bene). Lo studio, Assessing Public Spending Efficiency in 20 OECD Contries , diramato come ISEG Economics Department Working Papers No WP 12/20/2016/DE/UECE. Lo studio aggiorna e compara lavori precedenti sullo stesso tema, soffermandosi sul periodo 2009-2013. Mette a raffronto in particolare indicatori sulla qualità del settore pubblico (Public Sector Performance – PSP) e sulla efficienza del settore pubblico (PSE). Per assicurare coerenza tra i vari indicatori viene utilizza una tecnica statistica chiama la Data Envelopment Analis (DEA). L’analisi mostra che solamente in Svizzera la spesa pubblica opera al pieno livello della tecnologia. In media, negli altri diciannove Paesi, hanno un indicatore di efficienza, dal lato degli input, pari a 0,732; in linguaggio colloquiale ciò vuol dire che si sarebbero mediamente ottenuti gli stessi risultati spendendo il 26,8% di meno. Dal lato dell’output l’indicatore è 0,769, ossia in media si sarebbe potuto ottenere, con i livelli di spesa erogati, il 23,1% di più.

L’Italia nella classifica si situa piuttosto male: siamo costantemente tra Portogallo e Grecia. Anche se tecnico, il lavoro dovrebbe interessare non solo pochi economisti ma la politica.

Quel lusso che non possiamo più permetterci

Quel lusso che non possiamo più permetterci

di Massimo Blasoni – Metro

Dalla più banale azione quotidiana alle complesse relazioni industriali o fra istituzioni e organismi, quasi tutto è esageratamente regolamentato e spesso in modo cervellotico. Vi sono innumerevoli professionisti che traggono il loro sostentamento dall’interpretazione dei regolamenti, qualche volta quasi sovrastrutture a quello che potrebbe essere semplice. Accanto ai tradizionali avvocati e commercialisti, abbiamo così esperti certificatori e decrittatori di norme sulla sicurezza, sul lavoro e innumerevoli altri. Quante volte queste prestazioni paiono ridondanti, rese necessarie dall’eccesso e dalla complessità della produzione normativa?

Continua a leggere su Metro

Micro-incassi Equitalia: è un problema la pratica diffusa degli accertamenti presuntivi

Micro-incassi Equitalia: è un problema la pratica diffusa degli accertamenti presuntivi

di Mino Rossi

Il dato è ormai stabilizzato. Dal 2011 in avanti l’Agenzia delle Entrate aumenta ogni anno di 65 miliardi il magazzino dei crediti forzosi di Equitalia (vedasi qui Corte dei Conti, Rendiconto generale 2015 vol. I, pagina 76, Tavola 3.12). Stando alla prassi ultradecennale, tuttavia, si tratta di somme che frutteranno all’erario una quota pressoché simbolica: meno del 10 per cento, e per di più diluiti in un tempo infinito (10-15 anni). Nel 2015, ad esempio, gli incassi forzosi, per la catasta di accertamenti insoluti degli ultimi 15 anni, sono stati appena 1,8 mld, rateazioni comprese.

E così, a passo di lumaca, di fronte a un ammontare da riscuotere di 800 mld, ne sono stati incassati 35, mentre 700 mld (l’87%) si sa già che sono destinati al macero per inesigibilità (ne abbiamo parlato qui). Com’è intuibile, la consistenza vistosamente “marziana” di quest’ultima cifra non poteva che ingolfare il sistema, che da anni è pericolosamente fuori controllo, specie riguardo al funzionamento delle garanzie di imparzialità e di effettività dei recuperi.  Nel senso che né Equitalia, né l’Agenzia delle Entrate, sono materialmente in grado di rilasciare il cosiddetto discarico dei crediti inesigibili. E questo significa che – a causa di una sorta di overbooking – nessuno più oggi sorveglia sul fatto che in questo spaventoso mare magnum di partite da cestinare, non si ritrovino infilati, magari senza volerlo, fronde di intestatari-evasori viceversa ricchi e possidenti.

I numeri visti sopra sembrano appartenere a un altro pianeta, altro che tesoretto! C’è da chiedersi davvero se gli altissimi costi di sistema, compresi quelli sulla tenuta sociale, non superino i vantaggi monetari, che, come visto, sono (e saranno) sempre esigui. D’altro canto, è evidente che il tappezzare di cartelle Equitalia tutto il Paese non poteva che deprimere l’economia piuttosto che risollevarla. Soprattutto se lo hai fatto in forma massiva e a casaccio, come ha dimostrato di fare, del tutto incolpevolmente – e nonostante gli elevati livelli di professionalità raggiunti (è bene chiarirlo) – l’Agenzia delle Entrate.

Prendiamo a esempio, il tasso di errore delle somme date in riscossione forzosa. In un normale sistema, quando vai ad armare la mano del “fuciliere”-Equitalia, autorizzandone l’esercizio di poteri letali sulla incolumità patrimoniale dei destinatari, non dovrebbero essere tollerati errori superiori allo zero virgola zero. E, invece, è successo che l’Agenzia delle Entrate, dopo aver consegnato all’esattore un elenco sconfinato di condanne a “morte economica” (oltre 150 milioni di posizioni, tre per ogni italiano, neonati compresi), ha cancellato il debito, fuori tempo massimo, nel pieno svolgersi della fase esecutiva. E lo ha fatto per una cifra stratosferica: 180 mld, pari al 22% del carico.

L’entità dell’errore non lascia adito a dubbi. Non può essere che l’Agenzia fiscale sia incorsa in uno svarione megagalattico. Trattasi, piuttosto, di segno evidente che la riscossione forzata ha in pancia problemi enormi. Il più rilevante dei quali è dato dal tasso di imprecisione oggettivo della cifra originaria da riscuotere. Una imprecisione che, a sua volta, dipende dal carattere strutturalmente inagguantabile, e oggettivamente ballerino, del quantum evaso.Se riguardasse solo una percentuale ridotta di casi, l’anomalia non avrebbe riverberi e questo non sarebbe un problema per il sistema. Ciò che preoccupa, invece, è che il “vizio” della approssimazione è presente nella stragrande maggioranza dei casi, essendo diventato fenomeno di massa.

E, invero, tolte le situazioni di morosità in dichiarazione (dove, è ovvio, la cifra in riscossione ha “fisiologicamente” un tasso di precisione del cento per cento), negli altri casi, che rappresentano forse i due terzi del carico, si viene chiamati da Equitalia per una cifra presuntiva, e dunque per un quantum, “sistematicamente” inficiato a monte da un tasso di imprecisione elevato. L’altra cosa paradossale è che, mentre sui crediti granitici (morosità in dichiarazione) la penalità è del 30 per cento, è invece quattro volte tanto, la sanzione applicata agli addebiti presuntivi. Ciò nonostante che, in questi ultimi casi, la base di calcolo – cioè, l’imposta evasa – resta niente più che una ipotesi (per quanto qualificata e assolutamente probabile).

La responsabilità di tutto questo non può che essere nelle procedure di legge: sono esse il problema. Te ne accorgi anche da una controprova: in sede di accertamento con adesione, l’Agenzia delle Entrate, in ossequio alle regole vigenti, fa in molti casi dietrofront e si autoriduce l’evasione accertata, applicando uno sconto del 44 per cento. Non si tratta di situazioni sporadiche, ma della riduzione media applicata a circa un quinto del plafond accertato. A dimostrazione che la stessa Agenzia “sa” dell’alto tasso di approssimazione che è insito nei suoi “prodotti”. Per il 2014, a esempio, un’evasione inizialmente quantificata in 4,391 mld, in adesione è stata autoridotta dalle Entrate a 2,459 mld (somma riferita a solo imposte – vedasi qui il Rapporto sui risultati del contrasto all’evasione – Tabella I.16 pagina 15).

Ecco perché, quindi, al di là della regolarità formale degli atti mandati in riscossione, si può dire che l’esiguità degli incassi è anche dovuta alla intrinseca dubbiosità (anzi, ancor più, della dubbiosità percepita) del quantum accertato. Un problema, quest’ultimo, dovuto all’errore di aver consentito – come regola, piuttosto che come eccezione – la diffusione della comoda scorciatoia dell’accertamento presuntivo. Benché prevista per legge, infatti, questo tipo di procedura già di per sé costituisce sanzione assai grave. Proprio per gli effetti che ne derivano, anch’essi letali, pertanto, essa andrebbe piuttosto utilizzata solo in casi eccezionali e dopo il superamento di alcuni filtri. Così era nello spirito saggio della riforma dei primi anni ’70 (legge 825 del 1971), che aveva puntato sul cosiddetto accertamento induttivo, ma solo per casi eccezionali, in presenza di scorrettezze contabili molto gravi, e dopo averne verificato de visu le prove, in sede di controllo in flagrante (vidimazioni periodiche, tempestività e regolarità delle annotazioni contabili, eccetera).

A chi piace e a chi non piace la spesa pubblica

A chi piace e a chi non piace la spesa pubblica

di Giuseppe Pennisi

In Italia , la spesa pubblica e il debito pubblico crescono e così pure la pressione e l’oppressione tributaria. Nonostante che tutti se ne lamentino. Cosa incide sulle preferenza per forti spese pubbliche e forti tasse?

Ci sono indubbiamente determinanti storiche e storico sociali. In Paesi a basso livello di reddito- procapite la capacità impositiva è molto limitate ed i meccanismi tributari sono primitivi, con il risultato che la spesa pubblica supera raramente il 15% del Pil e si concentra su sicurezza interna e difesa internazionale. Nei Paesi emergenti, la bassa imposizione è strumento per attirare investimenti dall’estero. Nella società americana , raramente (principalmente in caso di guerra,) il gettito supera il 35% del Pil in quanto le libertà dell’individuo e della impresa sono alla base del compatto sociale. In Europa Occidentale, specialmente nell’eurozona, la pressione fiscale giunge al 45-50% del Pil per sostenere un vastissimo perimetro di spesa pubblica-. Italia e Francia sono gli Stati con più alta pressione tributaria e più alta spesa pubblica.

Spesso gli elettori non se ne rendono conto. Un lavoro interessante è stato messo online dal CESifo (Working Paper Series No 5938) . Sulla base di una inchiesta empirica ed esperimenti, sviscera come e quanto le informazioni (in cui hanno un ruolo importane i media) incidono sulle preferenze per la spesa pubblica, sovente senza tener presente il suo contrappeso (la tassazione). Ne sono autori Philipp Lergetporer della Università di Innsbruck, Guido Scherdt del CESifo,, Katharina Werner del CESifo e Ludger Woessmann dell’Università di Monaco. La conclusione è che “l’elettorato non ha cognizione di come il perimetro della spesa pubblica causa distorsioni tra le preferenze di chi vota”. La squadra di economisti e statistici ha condotto una serie di indagini campionarie prendendo l’avvio dagli attuali livelli di spesa pubblica. Quando coloro che sono oggetto del campione hanno l’informazione, sono essi stessi a proporre riduzioni di spesa nei campi più vari, dalle pensioni alla difesa. Nel passato recente, analisi sulle spese pubbliche per la scuola e sulle retribuzioni degli insegnanti indicano che le reazioni (in favore di riduzione della spesa) sono più per coloro che inizialmente sottostimavano i livelli di spesa . Quindi, la corretta informazione è essenziale per sostenere una revisione della spesa.