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Recuperi da evasione per 7,4 miliardi. Tutta repressione e zero prevenzione: va bene così?

Recuperi da evasione per 7,4 miliardi. Tutta repressione e zero prevenzione: va bene così?

di Mino Rossi

Nel corso del 2015 l’incasso dall’attività di contrasto all’evasione fiscale è stato di 7,4 miliardi di euro, dei quali 1,8 introitati sugli accertamenti arretrati tramite Equitalia. Il che equivale, nel complesso, a poco meno del 2% delle entrate tributarie totali (i dettagli sono consultabili qui). Ciò detto, vorrei esprimere più di una perplessità sul luogo comune per cui i recuperi da evasione siano la strada giusta nel contrasto all’evasione. Vale a dire: è davvero utile per il Paese concentrarsi in toto sull’aumento di quel 2 per cento, trascurando invece di presidiare il residuo 98 per cento? In altre parole, conviene davvero che la quasi totalità degli uomini anti-evasione siano impegnati nella repressione sul passato (a caccia di “recuperi”), mentre nel contempo sono pressoché zero le risorse dedicate a contrastare l’evasione corrente?

In effetti, dentro un sistema nel quale le entrate tributarie derivano quasi tutte da versamenti spontanei, decisi nel quantum dai cittadini stessi, non ha molto senso per lo Stato abdicare ai controlli di prevenzione sull’oggi, rimanere quindi indifferente alla evasione attuale, per farsi prendere la mano, nel contempo, dall’ingordigia dei recuperi sul pregresso (recuperi limitati per forza di cose a un’evasione “che fu”). A ben guardare, dunque, i miliardi introitati dal contrasto all’evasione (non troppi, in verità) sono il frutto malsano di un approccio profondamente sbagliato che porta molti più guai che vantaggi al sistema Paese. E che, invero, contribuisce in misura determinante a soffocare l’economia, sopratutto dei “piccoli”.

Tale scelta comporta infatti, da parte del Fisco, la rinuncia totale ai veri controlli, che sono quelli “in flagrante”, gli unici che sarebbero in grado, da un lato di evitare gli esiti funesti sulle imprese causati dal ricorso massivo agli accertamenti di tipo presuntivo (tecnica di per sé molto approssimativa e dunque fallace per definizione). E, dall’altro lato, di essere percepiti dal contribuente-tipo come dieci, cento volte più frequenti, e quindi di fare vera deterrenza, con effetti moltiplicativi sugli incassi erariali spontanei (cioè, su quel 98%).

Per questo è davvero auspicabile, nella fiscalità di massa, il varo di un regime su base opzionale che punti a una sensibile intensificazione dei controlli sul presente, la quale potrebbe essere bilanciata, verso chi si sottopone a questo meccanismo (anche accettando adempimenti più stringenti), dalla soppressione dei temutissimi (ma discutibilissimi) accertamenti presuntivi postumi. Io penso che la diffusione di massa dell’evasione, in Italia, sia invero un effetto generato esso stesso dalle illogiche modalità di contrasto tuttora vigenti. Che – per via di normative obsolete ereditate dal passato – vanno nella direzione di creare, piuttosto che eliminare, l’evasione fiscale diffusa. L’approccio più razionale, infatti, non può essere quello in uso oggi, che è finalizzato solo a punire e a castigare. Ma semmai quello diametralmente opposto, consistente nel presidiare serenamente il territorio, facendo percepire la presenza del Fisco mediante normalissimi controlli di prevenzione. Ovvero controlli riferiti agli scambi commerciali avvenuti sotto gli occhi del controllore (o, comunque, entro tempi ravvicinati rispetto alla trasgressione).

E’ vero, in Italia le partite Iva sono un’infinità, oltre 5 milioni, mentre il numero dei controllori, al confronto, è men che simbolico. Tuttavia, di fronte alla rivoluzione in atto delle tecnologie digitali, ma soprattutto, grazie al successo ottenuto di recente con alcune tecniche di prevenzione capillare basate sul coinvolgimento del privato nelle funzioni di controllo, questi vincoli di scala non possono più essere un tabù. A quest’ultimo riguardo, il primo riferimento è agli oltre 12 miliardi annui (sic!) sottratti alla delinquenza fiscale, e risparmiati dallo Stato in termini di minori truffe, grazie proprio alla collaborazione del privato. Stiamo parlando di una colossale evasione abituale, rimasta sottotraccia fino a oggi, perpetrata impunemente da centinaia di migliaia di partite Iva, e per oltre dieci anni sfuggita ai controllori del Fisco. La quale, tuttavia, dal 2010 in avanti è stata sventata con una misura banalissima a costo zero: il visto di conformità del commercialista (introdotto con l’articolo 10 del decreto legge n. 78 del 2009 in materia di false compensazioni – vedasi qui).
Purtroppo, a causa di un contesto normativo vecchio di quarant’anni, oggi l’Agenzia delle Entrate viene chiamata a intercettare le violazioni non all’istante, nel momento in cui esse si realizzano, ma dopo che addirittura sono passati alcuni anni dai fatti. Se però avviene per sistema che si mandano le verifiche solo a fatto compiuto, è già nelle cose la garanzia certa che i buoi siano già tutti scappati. E’ matematico. Giunti a questo punto, invero, nelle mani del Fisco come strumento di reazione resta solo la sterile (e consolatoria) “punizione/vendetta” (in questo caso attuata mediante l’arma cruenta delle presunzioni).

Insomma nella fiscalità di massa siamo purtroppo caduti in un circolo vizioso nel quale le cose stanno pressappoco così: durante l’anno in corso i contribuenti sono completamente incontrollati e quindi liberi di evadere quanto gli pare, mentre per gli anni passati è il Fisco che a sua volta, quasi per contrappasso, è libero di accertare, e addebitare a chiunque, qualsivoglia importo (grazie all’ammissibilità pressoché automatica del metodo ipotetico-presuntivo). In siffatto contesto, pertanto, l’evasione diffusa è indispensabile. Essa è la condizione prima senza la quale un sistema di contrasto in tal modo organizzato non può funzionare.

Sull’altare del tesoretto annuo, pertanto, il meccanismo odierno sacrifica non solo la vera lotta all’evasione (che, al contrario, necessiterebbe di controlli sul presente e addebiti su prove certe), ma anche la propensione a intraprendere degli autonomi. Verso i quali un Fisco così gioca, a prescindere, una funzione inibitoria e fortemente ostativa. Essendo percepito sovente come un orco-castigatore, anteposto persino alle sempre più spinose preoccupazioni di business. E’ pertanto urgente voltare pagina e liberare gli autonomi da questo tappo altamente nocivo. Conviene a loro (alla parte sana di essi, che sono la stragrande maggioranza), ma sopratutto al Fisco e, dunque, all’economia nazionale.

Stritolati dal fisco

Stritolati dal fisco

di Gianni Zorzi e di Elisa Qualizza – Panorama

Giugno è considerato il mese della verità per i proprietari di immobili chiamati a versare gli acconti relativi alle tasse ricorrenti sulle proprie case, edifici e terreni. Anche quest’anno alla scadenza di inizio estate si è accompagnata l’ennesima novità – questa volta fortunatamente positiva – introdotta a livello di tassazione immobiliare. Come rivela uno studio confezionato da ImpresaLavoro, infatti, dopo il livello record raggiunto nel 2015 (52,3 miliardi di euro), il gettito complessivo sugli immobili in Italia dovrebbe ridursi per quest’anno a 49,1 miliardi con una flessione quantificabile nel 6,1 per cento. La pressione fiscale sul mattone sarebbe comunque ancora ben lontana dai livelli del 2011, rispetto ai quali l’incremento risulta superiore agli 11 miliardi annui, segnando in termini relativi un corposo più 30,2 per cento.

Ciò che ha subito il maggiore incremento nel periodo considerato è la quota patrimoniale del prelievo, quasi triplicata (più 173 per cento) secondo quanto riporta la stessa Corte dei Conti, a differenza delle entrate attribuibili agli atti di trasferimento (meno 29 per cento) e a quelle sul reddito immobiliare, sostanzialmente inalterate secondo quanto risulta a ImpresaLavoro, nonostante la crescita del gettito da locazioni favorita dall’introduzione della cedolare secca sugli affitti.

La flessione di circa 3 miliardi e mezzo prevista per il 2016 rispetto all’annata precedente, invece, si deve interamente a una delle misure principali contenute al riguardo nell’ultima legge di stabilità: l’esenzione delle abitazioni principali dalla TASI. Va subito notato, però, che proprio la fiscalità sulle case di residenza è quella che ha subito il maggior numero di variazioni negli ultimi anni, rappresentando un vero emblema dell’incertezza che domina da un anno all’altro il destino dei tributi sulle case nel nostro Paese.

Nata formalmente nel 2014 come imposta sui servizi locali, la TASI si è comportata negli effetti da malcelata patrimoniale, tesa a ripristinare a favore degli enti locali il gettito inizialmente perso dall’IMU sulle prime case. La sua abrogazione sarà ora destinata a perdurare nel tempo? Così non è stato, finora, per le imposte che l’hanno preceduta.

L’introduzione dell’IMU a partire dal 2012 (intervento contenuto nel decreto Salva Italia dell’inverno del 2011) ha fatto balzare d’un tratto di oltre 12 miliardi il gettito fiscale sugli immobili, con una quota di quasi quattro miliardi attribuibile proprio alle abitazioni principali, le quali erano rimaste indenni dal 2008 per effetto dell’esenzione dalla vecchia ICI. Il nuovo tributo è stato subito oggetto di riforma per il 2013, con l’abolizione sulle abitazioni di residenza (non di lusso), salvo ricomparire per l’appunto l’anno successivo con regole diverse e sotto il nuovo nome di Tassa sui Servizi Indivisibili. L’intervento ha dunque portato il prelievo complessivo delle tasse sul mattone a sfondare per la prima volta nel 2014 il muro dei 50 miliardi, raggiungendo l’anno successivo il record storico di 52,3.

Sono cambiate negli anni anche le regole per le detrazioni, la quantificazione dei versamenti in acconto e a saldo, nonché le regole per i casi più particolari (il comodato ai parenti, le case dei residenti all’estero). Aliquote, coefficienti applicabili e codici per il versamento dei tributi si sono moltiplicati determinando una oggettiva complessità per i contribuenti a fronte di un quadro impositivo così mutevole e intricato.

Oltre a questo, uno studio di Banca d’Italia ha dimostrato che negli ultimi due anni il nuovo prelievo aveva prodotto l’effetto (probabilmente non voluto) di ridurre notevolmente la progressività delle imposte andando dunque a pesare più di prima sui ceti più deboli e sulle case di valore più modesto. L’effetto dovrebbe ridursi quest’anno proprio grazie alle norme della legge di stabilità, ma è anche vero che non è destinato ad annullarsi, visto l’incremento tendenziale che si rileva ogni anno su altre tasse locali.

Coinvolta anch’essa nel balletto degli acronimi (dai vecchi TARSU e TIA all’odierno TARI, passando per la fugace apparizione della TARES, rimasta in vigore solo nel 2013), l’imposta sui rifiuti ha infatti registrato nel periodo 2011-2015 un incremento netto del 50 per cento, arrivando a toccare 8,4 miliardi secondo le più recenti stime presentate da Confcommercio. Il peso della fiscalità sugli immobili nei bilanci degli enti locali, del resto, nello stesso periodo è incrementato in tutte le sue singole voci passando nel complesso dal 46 all’81,6 per cento, e dimostrando quindi una progressiva decentralizzazione di questo tipo di prelievo.

A meno di sorprese, dunque, il 2016 dovrebbe segnare una prima riduzione del carico fiscale complessivo sulle case, con una compensazione solo parziale derivante da voci attese in crescita come quella del gettito sui trasferimenti (in particolare le compravendite) nonché della cedolare secca sugli affitti, che conti alla mano non smette di crescere dall’anno della sua introduzione (2011).

Ma è proprio sui trasferimenti immobiliari che sono necessarie alcune considerazioni. A partire dal 2014, alcune imposte che colpiscono le compravendite (in particolare le imposte di registro, ipotecaria e catastale) hanno subito un allentamento per quanto concerne le prime case, e l’agevolazione da quest’anno spetta anche a chi acquista una prima casa pur avendone già un’altra (a patto che quest’ultima venga infine ceduta entro il termine di dodici mesi). Queste misure, tese a far riprendere il numero degli scambi sul mercato immobiliare, non sembrano tuttavia aver impedito il crollo di valore delle abitazioni italiane.

Secondo alcune interpretazioni, sarebbe invece ipotizzabile una correlazione tra l’aumento delle tasse sul mattone e la discesa dei prezzi delle abitazioni. In effetti, i numeri evidenzierebbero un certo impatto anche se, incrociando i dati Istat e Banca d’Italia sull’andamento dei prezzi e dello stock delle abitazioni in Italia, ImpresaLavoro stima in una quota media compresa tra il 5 e il 10 per cento la perdita di valore del patrimonio attribuibile a fronte dell’incremento più netto rilevato sulle imposte (quello rilevato tra il 2011 e il 2015).

In effetti, rispetto al calo dei valori di mercato il peso medio effettivo delle imposte è salito in modo ancor più vistoso, raggiungendo il 7,7 per mille nel 2015 con una componente patrimoniale pari al 5,4 per mille: sarebbe dunque possibile che quest’ultimo elemento incida sui prezzi e i volumi delle compravendite ancor più di eventuali riduzioni delle imposte una tantum sulle transazioni.

È ancora molto presto, in ogni caso, per parlare di riduzione strutturale della fiscalità sulle case, anche perché come abbiamo dimostrato, l’abolizione TASI sulle abitazioni di residenza determina per ora solo una prima inversione di tendenza, a cui dovrà necessariamente seguire una stabilizzazione sia del livello dell’imposizione che del quadro stesso delle regole che compongono la fiscalità sui nostri immobili.

A tal proposito, due grandi minacce sembrano incombere sia sulla semplificazione che sul livello delle tasse sulle case, risalito già ampiamente nelle graduatorie internazionali come documentato anche dall’Ocse. La prima minaccia è costituita dall’evolversi della dialettica tra erario e autonomie locali sulla scomposizione e suddivisione dei tributi che colpiscono le abitazioni.

La seconda è quella relativa alla cosiddetta riforma del catasto, di cui si parla da tantissimo tempo senza tuttavia averne stabilito i tratti fondamentali: il rischio a questo punto per le tasche dei contribuenti è quello di una revisione al rialzo delle rendite, ossia della base imponibile su cui poggiano più di 40 dei 49,1 miliardi che paghiamo ogni anno sui nostri immobili.

La vera notizia sarebbe dunque, nei prossimi anni, quella di non ritrovare ulteriori modifiche, aumenti o nuovi acronimi che facciano rientrare dalla finestra ciò che è uscito quest’anno dalla porta. Quella della nostra prima casa per l’appunto.

La battaglia per le libertà nelle economie costituzionali

La battaglia per le libertà nelle economie costituzionali

Tra breve gli italiani saranno chiamati ad esprimersi su una riforma costituzionale approntata né da un’assemblea eletta a questo scopo né da una forte maggioranza di parlamentari eletti, ma nominati dalle segreterie dei partiti. Può essere utile, nelle circostanze, leggere alcuni paper recenti di storici dell’economia. Interessante l’articolo di Luke Norris della Facoltà di Giurisprudenza della Columbia University “Consitutional Economics:Lochner, Labor and the Battle for Liberty” apparso nell’ultimo fascicolo del Journal of Law & the Humanities. Lochner, e il Lochnerismo, sono poco noti agli italiani. Il “caso” Lochner si riferisce ad una sentenza del 1905 della Corte Suprema Usa. Il caso riguardava la costituzionalità di una legge sul lavoro dello Stato di New York in base alla quale un lavoratore di un forno per produrre pane non potesse lavorare più di dieci ore al giorno per un totale di sessanta ore la settimana. La Suprema Corte respinse la tesi a maggioranza (cinque su quattro), secondo la quale la norma era necessaria per proteggere la salute del lavoratore; anzi la considerò “un’interferenza non necessaria, irragionevole ed arbitraria nei riguardi della libertà contrattuale degli individui”.

Da allora – ci ricorda Norris – è passato più di un secolo. Nei primi venticinque anni dalla sentenza, la Corte Suprema dichiarò incostituzionali numerose legge federali o statuali dirette a regolare le condizioni ed i rapporti di lavoro. In parallelo, la Corte Suprema cominciò ad utilizzare il Quattordicesimo Emendamento alla Costituzione Americana per tutelare la libertà di parola e la privacy. La svolta avvenne nel 1937, subito dopo la Grande Depressione, nella vertenza West Coast Hotel Co versus Parrish quando la Corte Suprema adottò un punto di vista più espansivo dell’intervento regolatorio. Non, però, in senso statalista: mentre la sentenza Lochner si basava su una visione della libertà che premiava la libertà “da”, dal 1937 hanno prevalso sentenze sulla libertà “di”. Negli Usa il cambiamento è stato incoraggiato anche dai sindacati che lo hanno associato alla libertà di associazione repubblicana nella sfera politica. La libertà “di” in una sfera come il luogo di lavoro e stata gradualmente estesa ad altre sfere e ha trasformato il diritto costituzionale americano.

L’ennesimo falso miracolo di (San) Matteo

L’ennesimo falso miracolo di (San) Matteo

Panorama

Era il 13 marzo 2014 quando Matteo Renzi, ospite di Porta a Porta e di Bruno Vespa, promise di saldare i debiti della pubblica amministrazione verso le imprese “entro il 21 settembre successivo”, cioè entro il giorno di San Matteo. Insomma, il presidente del Consiglio, con una battuta delle sue, voleva autocelebrarsi come divino. Ecco, si è invece rivelato demoniaco.

Basta far di conto. Alla fine del 2014 il passivo dello Stato nei confronti dei suoi fornitori di beni e servizi era di circa 70 miliardi contro i 90 raggiunti durante l’era di Mario Monti a Palazzo Chigi. È pacifico, dunque, che il premier ha disatteso da subito la sua promessa. E dopo, come sono andate le cose? Alla faccia della trasparenza, sul sito del ministero dell’Economia l’ultimo aggiornamento sui pagamenti pubblici risale all’11 agosto 2015.

A quella data la somma versata ai creditori risultava essere di 38 miliardi di euro: mancavano quindi all’appello ancora 32 miliardi, cifra peraltro considerata in realtà superiore da molti economisti indipendenti. Quanto ai giorni a noi più vicini, in assenza di dati ufficiali, ci si può appellare solo ai centri studi. Secondo ImpresaLavoro, al 31 dicembre 2015 i debiti della pubblica amministrazione sono arrivati a 61,1 miliardi; per Giorgio Merletti, presidente di Confartigianato, “il conto in sospeso” era invece “di 65 miliardi e mezzo”.

E a metà 2016, a parere dell’Ance, l’associazione nazionale costruttori edili, “la situazione non è migliorata neanche con il superamento del patto di stabilità interno previsto dalla Legge di stabilità”. Questo perché “in media le imprese che realizzano lavori pubblici sono pagate 168 giorni (5 mesi e mezzo) dopo l’emissione degli Stati di avanzamento lavori, contro i 60 giorni previsti dalla normativa Ue”. Fatti e circostanze rendono quindi l’Italia il peggiore Stato pagatore d’Europa. E tra poco più di un mese è di nuovo San Matteo. Due anni dopo. (F.B.)

Il Tesoro & C., 15 anni di previsioni sbagliate

Il Tesoro & C., 15 anni di previsioni sbagliate

da Il Fatto Quotidiano

Il dato sul Pil di ieri certifica che per la dodicesima volta in quindici anni un governo italiano dovrà rivedere al ribasso le sue previsioni sulla crescita. Ormai è un fatto che si dà quasi per scontato, eppure quelle stime rosee inquinano il dibattito pubblico finché non vengono smentite (ma sempre con l’aggiunta: “La crescita ripartirà nel prossimo semestre” o “l’anno prossimo”, a seconda).

Una ricerca di ImpresaLavoro – su dati del Tesoro e dell’Ocse tra il 2002 e il 2015 – ha rivelato che le previsioni dei governi per l’anno successivo sono state prudenziali o esatte solo in tre casi (2006, 2007 e 2010), per il resto tanto ottimismo. Questi i risultati: fatto 100 il Pil del 2001, se le stime governative si fossero avverate il Prodotto italiano oggi sarebbe 123,75 e invece è 97,8. Si dirà, è difficile prevedere cosa succederà un anno dopo il momento in cui si scrive: in realtà, però, anche sull’anno in corso – cioè sulle stime di aprile rispetto al risultato di dicembre – c’è negli ultimi anni un errore medio vicino allo 0,5%. La cosa è un fatto talmente risaputo che l’ha scritta lo stesso Pier Carlo Padoan nel Documento di economia e finanza del 2014: gli ultimi governi hanno “mediamente sovrastimato la crescita economica per 0,5 punti in primavera e 0,2 punti nelle previsioni formulate in autunno (cioè a ottobre, ndr)”. Non sono solo i governi, però, a sbagliare per eccesso le previsioni.

Uno studio dell’ufficio studi della Cgil sugli anni 2008-2014 mostra con palmare evidenza che tutte le istituzioni che hanno costruito il racconto ideologico che ha guidato i nostri governi (deflazione salariale, austerità, privatizzazioni) sbagliano le loro stime con regolarità; in questo periodo, ad esempio, i governi Berlusconi, Monti e Letta hanno errato per eccesso del 14,3%, inventandosi circa 330 miliardi di Pil; la Banca d“Italia, però, ha sbagliato per 13,6 punti percentuali, la Commissione europea per 12,4 e il Fondo monetario per 11,6. La più accurata, per così dire, è stata l’Ocse, che ha sbagliato “solo” del 10,5% (che comunque, in soldi, fa la bella cifretta di 200 miliardi di euro di Pil inesistente). E’ appena il caso di ricordare, infine, che al momento della presentazione dell’ultimo Def da parte del Tesoro, l’Ufficio parlamentare di bilancio (una sorta di Autorità sui conti pubblici) non aveva validato le previsioni per il biennio 2017-2018 perché troppo ottimistiche. Il futuro non sarà diverso dal passato.

La nostra benzina a peso d’oro: siamo i terzi più cari d’Europa

La nostra benzina a peso d’oro: siamo i terzi più cari d’Europa

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

Estate, tempo di viaggi in auto. Il mese di agosto è quello che mette gli italiani dinanzi a una realtà che nel resto dell’anno si può anche evitare di vedere: benzina e diesel sono troppo cari, nonostante il prezzo del petrolio abbia recuperato solo parzialmente la gran discesa dei prezzi dell’ultimo biennio.

In Italia, però, di tutto questo non c’è evidenza: il costo dei carburanti è superiore dell’11,9% rispetto alla media europea. In particolare, il differenziale è del +10,4% rispetto alla Germania, del +12,6% rispetto alla Francia, del +20,7% rispetto alla Slovenia e addirittura del +30,4% rispetto all’Austria. Non si può, pertanto, non provare un po’ di invidia per friulani e altoatesini che hanno una possibilità di scelta, negata invece al resto dei connazionali. La ricerca, elaborata dal Centro studi ImpresaLavoro in base ai dati Weekly Oil Bulletin della Commissione europea, evidenzia come la «resistenza» rispetto alle oscillazioni ai prezzi di mercato sia legata all’eccessivo carico fiscale sulle benzine. Tasse e le accise pesano in media per il 68,8% sul prezzo finale praticato al consumatore. L’Italia si colloca al terzo posto di questa speciale graduatoria, a pari merito con la Gran Bretagna e subito dopo Olanda (70,9%) e la Svezia (68,9%). Il malcostume non è solo italico: in tutta Europa l’incidenza delle tasse sul prezzo finale non scende mai sotto il 53,07% della Bulgaria. Anzi, la media dei 28 Paesi è del 66%, dunque quasi tutti i cittadini europei finanziano i loro stati con i due terzi del costo dei carburanti. La prassi, però, ha molto più senso laddove le imposte sui redditi sono più basse e il carico fiscale si sposta, pertanto sui consumi. In Paesi come l’Italia, la Svezia, la Danimarca, la Francia e il Belgio, invece, i contribuenti sono tassati due volte: quando guadagnano e quando spendono.

In valore assoluto un litro di benzina Euro-Super 95 costa, secondo i dati dell’Ue, 1,4325 euro, in calo rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Un prezzo che in Europa è inferiore solo a Olanda (1,4510) e Danimarca (1,4438). In Germania un litro dello stesso carburante costa 1,2970 euro, in Francia 1,2714 euro e in Spagna 1,1345 euro. Solo in Bulgaria (0,9973) e in Polonia (0,9972) un litro di benzina costa meno di un euro.

Quanto al diesel, il suo costo medio in Italia è di 1,2894 euro al litro: anche in questo caso si tratta del terzo prezzo più caro in Europa, dopo quello praticato nel Regno Unito (1,3299 euro al litro) e in Svezia (1,2896 euro al litro), a fronte di un prezzo medio europeo di 1,1203 euro al litro. I cinque Paesi nei quali è più conveniente rifornirsi sono la Bulgaria (0,9673 euro), la Lettonia (0,9627 euro), la Lituania (0,9625 euro), la Polonia (0,9427 euro) e soprattutto il Lussemburgo (0,9120 euro). Anche per il diesel, sono le tasse a portar via larga parte del prezzo finale praticato al consumatore. Imposte e accise pesano per il 68,2% del prezzo finale nel Regno Unito, il 65,9% in Italia e il 63,3% in Francia. Anche in questo caso, in tutta Europa, l’incidenza delle tasse rimane sempre sopra il 50% del prezzo finale (60,9% la media Ue). Il fatto di essere tartassati non è comunque un buon motivo per non godersi le vacanze.

Benzina più cara d’Europa: il petrolio cala, le tasse no

Benzina più cara d’Europa: il petrolio cala, le tasse no

di Antonio Castro – Libero

Ogni estate è la stessa storia: gli italiani si mettono al volante e il prezzo della benzina lievita (prezzo medio ieri 1,432 euro/litro, diesel prezzo medio 1,272). Un costo/litro che in Europa è inferiore solo a Olanda (1,4510) e Danimarca (1,4438). Pochi centesimi di ritocco certo (siamo lontani dai 2 euro al litro toccati nell’agosto 2012), però, a ben guardare, 4 anni fa il prezzo del petrolio viaggiava verso i 115 dollari al barile (il Wti a 97,41 dollari, il Brent a 115,1). Ieri a Wall Strett il greggio di tipo Wti (quello più pregiato), faceva fatica a reggere i 41,7 dollari al barile, mentre il Brent superava di poco i 44,2 dollari. E allora sorge il dubbio: perché se i prezzi sono dimezzati, il costo di un litro di carburante si è ridotto di meno di un quarto?

Esistono due risposte: una tecnica, noiosissima e un po’ traballante. E una molto più semplice. Quella tecnica scansiona gli equilibri mondiali, la geopolitica e le fluttuazioni sui mercati finanziari. Tutto vero, per carità. Poi c’è quella papale papale: paghiamo la benzina uno sproposito perché oltre il 69% del prezzo di questo (e il 66% del gasolio), è fatto di tasse, accise, Iva e balzelli vari (dati Unione Petrolifera). In teoria c’è dentro l’addizionale per la guerra d’Etiopia (1935), una manciata di terremoti e disastri (l’ultimo quello in Emilia del 2012), e pure il “Salva Italia” di Monti del 2011.

Il problema dell’iper tassazione dei prodotti petroliferi è comune a tutta Europa. Ma noi in Italia siamo speciali: nel nostro Paese il prezzo dei carburanti continua a restare tra i più alti in Europa: +11,9% rispetto alla media europea e in particolare +10,4% rispetto alla Germania, +12,6% rispetto alla Francia, +20,7% rispetto alla Slovenia e addirittura +30,4% rispetto all’Austria. Il Centro studi ImpresaLavoro, ha elaborato i dati della Commissione Europea e messo in colonna la classifica dei più tartassati.

L’Italia si colloca al terzo posto di questa speciale graduatoria, subito dopo l’Olanda (70,9%) e la Svezia (68,9%). Tralasciando il dettaglio che in questi due Paesi i governi finanziano generosamente chi intende passare a vetture a impatto zero (elettriche, idrogeno). Loro alzano le tasse per scoraggiare comportamenti inquinanti, da noi solo per fare cassa. «Le entrate derivanti dalle accise sugli oli minerali, energia elettrica e gas naturale nel corso del 2015 si sono attestare a circa 31,3 miliardi di euro», spiega la Relazione 2016 dell’Up. Una torta troppo grande golosa per rinunciarvi.

Carburanti: in Italia ancora prezzi tra i più alti in Europa

Carburanti: in Italia ancora prezzi tra i più alti in Europa

Nonostante la sensibile riduzione del costo del petrolio, in Italia il prezzo dei carburanti continua a restare tra i più alti in Europa: +11,9% rispetto alla media europea e in particolare +10,4% rispetto alla Germania, +12,6% rispetto alla Francia, +20,7% rispetto alla Slovenia e addirittura +30,4% rispetto all’Austria. Lo attesta una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro su elaborazione dei dati della Commissione Europea (Weekly Oil Bulletin, 01 Agosto 2016).

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MAGGIOR COSTO IN ITALIA RISPETTO A…

A incidere in maniera determinante sul caro carburanti nel nostro Paese sono le tasse e le accise, che pesano infatti per il 68,8% sul prezzo finale praticato al consumatore. L’Italia si colloca al terzo posto di questa speciale graduatoria, subito dopo l’Olanda (70,9%) e la Svezia (68,9%). In tutta Europa l’incidenza delle tasse sul prezzo finale non scende mai sotto il 53,07% della Bulgaria.

tassebenzina

In valore assoluto un litro di benzina Euro-Super 95 costa secondo i dati della Commissione Europea 1,4325 €, in calo rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Un prezzo che in Europa è inferiore solo a Olanda (1,4510) e Danimarca (1,4438). In Germania un litro dello stesso carburante costa 1,2970 €, in Francia 1,2714 € e in Spagna 1,1345 €.

prezzobenzina

Quanto al diesel, il suo costo in Italia è di 1,2894 euro al litro: anche in questo caso si tratta del terzo prezzo più caro in Europa – dopo quello praticato nel Regno Unito (1,3299 euro al litro) e in Svezia (1,2896 euro al litro) – a fronte di un prezzo medio europeo di 1,1203 euro al litro. I cinque Paesi nei quali è più conveniente rifornirsi sono la Bulgaria (0,9673 euro al litro), la Lettonia (0,9627 euro al litro), la Lituania (0,9625 euro al litro), la Polonia (0,9427 euro al litro) e soprattutto il Lussemburgo (0,9120 euro al litro).

prezzodiesel

Anche per il diesel, sono le tasse a portarsi via larga parte del prezzo finale praticato al consumatore. Imposte e Accise pesano per il 68,21% del prezzo finale nel Regno Unito, il 65,92% in Italia, il 64,85% in Svezia, il 63,29% in Francia. Anche in questo caso, in tutta Europa, l’incidenza delle tasse rimane sempre sopra il 50% del prezzo finale.

tassediesel

Che brutta figura!

Che brutta figura!

di Giuseppe Pennisi

Tassiamo o, di converso, paghiamo tanto in tasse ed imposte. Spendiamo ancora di più di quanto incassiamo (con deficit che di anno in anno hanno portato il debito pubblico al 135% del Pil) ma – quel che è peggio – spendiamo male.

Nella calura estiva ce lo ha ricordato uno studio approfondito di Antonio Alfonso e di Mina Kanzemi (ambedue dell’Università di Lisbona, capitale del Portogallo, altro Paese che non se la passa proprio bene). Lo studio, Assessing Public Spending Efficiency in 20 OECD Contries , diramato come ISEG Economics Department Working Papers No WP 12/20/2016/DE/UECE. Lo studio aggiorna e compara lavori precedenti sullo stesso tema, soffermandosi sul periodo 2009-2013. Mette a raffronto in particolare indicatori sulla qualità del settore pubblico (Public Sector Performance – PSP) e sulla efficienza del settore pubblico (PSE). Per assicurare coerenza tra i vari indicatori viene utilizza una tecnica statistica chiama la Data Envelopment Analis (DEA). L’analisi mostra che solamente in Svizzera la spesa pubblica opera al pieno livello della tecnologia. In media, negli altri diciannove Paesi, hanno un indicatore di efficienza, dal lato degli input, pari a 0,732; in linguaggio colloquiale ciò vuol dire che si sarebbero mediamente ottenuti gli stessi risultati spendendo il 26,8% di meno. Dal lato dell’output l’indicatore è 0,769, ossia in media si sarebbe potuto ottenere, con i livelli di spesa erogati, il 23,1% di più.

L’Italia nella classifica si situa piuttosto male: siamo costantemente tra Portogallo e Grecia. Anche se tecnico, il lavoro dovrebbe interessare non solo pochi economisti ma la politica.

Quel lusso che non possiamo più permetterci

Quel lusso che non possiamo più permetterci

di Massimo Blasoni – Metro

Dalla più banale azione quotidiana alle complesse relazioni industriali o fra istituzioni e organismi, quasi tutto è esageratamente regolamentato e spesso in modo cervellotico. Vi sono innumerevoli professionisti che traggono il loro sostentamento dall’interpretazione dei regolamenti, qualche volta quasi sovrastrutture a quello che potrebbe essere semplice. Accanto ai tradizionali avvocati e commercialisti, abbiamo così esperti certificatori e decrittatori di norme sulla sicurezza, sul lavoro e innumerevoli altri. Quante volte queste prestazioni paiono ridondanti, rese necessarie dall’eccesso e dalla complessità della produzione normativa?

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