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L’età della pensione: riflessioni internazionali

L’età della pensione: riflessioni internazionali

di Giuseppe Pennisi*

L’età “ottimale” della pensione è tema già affrontato in questa rubrica. In un’ottica libera e con un sistema previdenziale essenzialmente pubblico a ripartizione ma in cui le spettanze sono calcolate secondo un metodo contributivo figurativo (come quello italiano), la decisione di lasciare il lavoro e di percepire la pensione, dovrebbe essere lasciata all’individuo. Naturalmente, di solito, quanto prima si “va in pensione”, tanto più basso è il “montante” accumulato e tanto minori sono le spettanze annuali o mensili per una data aspettative di vita. Tuttavia, il mondo non è così semplice. Dove esiste una previdenza pubblica, occorre porre dei “paletti” in termini di età in cui cominciare e percepire le spettanze al fine di evitare che il sistema venga messo a repentaglio da “bracconieri” che andando in pensione troppo presto (nella speranza che anche ove si esaurisse la pensione basata sul montante ci sarebbe comunque un sostegno sociale).

La Yale Law School ha in corso di pubblicazione un volume che tratta i problemi della terza età , dal titolo “New Deal for Old Age”. I singoli capitoli vengono pubblicati in via telematica, prima di essere finalizzati, come “Yale Law School Public Law Reserch Paper”. Il numero 566 di questi Paper è un saggio di Anne Alstott (luminare di diritto pubblico di Yale) proprio su questo tema.  

Anne Alstott parte dalla premessa che un coro di economisti e giuristi americani chiede una revisione al rialzo dell’età per poter percepite la Social Security, pilastro di base del sistema previdenziale federale americano (spesso i pensioni americani contano su tre pilastri: una pensione “professionale” derivante dalla contrazione ed una frutto di fondi pensioni privati). Attualmente l’età per accedere alla Social Security è 66 anni. Tuttavia, a questo coro si contrappongono, a mò di contrappunto, voci  secondo le quali, alzare i requisiti di accesso, pur avvantaggiando i giovani, penalizza i poveri e coloro che vengono espulsi dal mercato del lavoro prima di raggiungere la vecchiaia. Tra l’altro, i poveri, coloro che guadagnano poco e gli espulsi hanno statisticamente un’aspettativa di inferiore a quella di coloro che hanno redditi medio-alti. Quindi si pone un problema di fondo di politica previdenziale: come giungere ad un equilibrio tra equità intergenerazionale ed equità infragenerazionale.

Anne Alsott sottolinea che l’età è una “categoria contingente” il cui significato fisico e sociale varia. Invece di “partire dall’età” occorre esaminare in profondità gli obiettivi della politica previdenziale. Il saggio mostra come sia, tecnicamente e politicamente, possibile mantenere la possibilità di andare in pensione relativamente presto per i lavoratori che ne hanno effettiva esigenza e, al tempo stesso, mettere in atto un sistema di incentivi per i lavoratori che vogliono e possono lavorare di ritardare l’età in cui cominciare a percepire la Social Security.

È una lettura da cui si traggono lezioni anche per temi su cui sta tribolando l’Italia.

*Presidente del board scientifico di ImpresaLavoro

La partita Italia-Ue sulla crisi delle Banche

La partita Italia-Ue sulla crisi delle Banche

di Giuseppe Pennisi – Formiche

La crisi di alcuni istituti di credito italiani (grandi e piccoli) è sparita da circa una settimana dalle prime pagine dei giornali. Ad esempio, su Il Sole-24 Ore del 17 luglio solo una (quasi invisibile) breve a p. 17 riportava un comunicato dell’ufficio dell’alto rappresentate per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, Federica Mogherini, secondo cui ‘il Governo italiano e le autorità europee stanno lavorando positivamente’. Comunicato poco utile perché era da supporsi che le parti in causa stessero lavorando e da auspicarsi che stessero operando ‘positivamente’ verso un accordo.
In effetti, è in corso un negoziato la cui conclusione è tecnicamente semplice, sotto il profilo giuridico (basterebbe un’interpretazione estensiva per un periodo determinato – ad esempio sino al termine del 2016 – per l’applicazione di alcune regole delle direttiva sui dissesti bancari), ma politicamente molto difficile.

In primo luogo, il Governo italiano è stato oggettivamente indebolito dai risultati delle elezione amministrative, è alle prese con la riapertura del dibattito sulla legge elettorale, sta perdendo quota nei sondaggi di un referendum per il quale non è stata ancora stabilita una data ed ha la necessità di giungere ad un accordo ‘bancario’ con l’Ue nel più breve tempo possibile. Tanto il Governo italiano quanto quelli del resto dell’Ue e la stessa Commissione europea (Ce) sanno che le famiglie italiane hanno nei loro portafogli 200 miliardi di euro che, in mancanza di soluzione positiva dei negoziati con l’Ue, verrebbero triturati dal bail in, rendendo ancora più forti le opposizioni all’attuale Esecutivo.

In secondo luogo, la Ce vorrebbe dare una mano al Governo italiano (anche perché non vede alternative all’orizzonte) ma perderebbe di brutto la faccia (dopo la ha già persa giù un paio di volte negli ultimi mesi) se regole appena introdotte con la ratifica di tutte le parti in causa venissero applicate in modo lasco alla loro prima prova per favorire uno ‘degli Stati fondatori’ subito dopo la Brexit.

In terzo luogo – come spiega bene David Schäfer della London School of Economics nel saggio pubblicato nell’ultimo fascicolo del Journal of Common Market Studies – ‘unione bancaria’ si basa sull’’ordoliberalismo’ (il liberalismo delle regole) proprio con il fine (più volte ribadito da Berlino) ‘di rompere il circolo vizioso tra Stati e sistema bancario’. Poco importa se in passato i Länder della Confederazione – non le autorità federali- siano intervenute in aiuto di casse di risparmio e di banche di cui i Länder sono azionisti di riferimento: è un problema di ciascun singolo Land non del Governo federale. Per tale motivo si tratta di istituti non soggetti alla vigilanza della Banca centrale europea ed in gran misura al di fuori dell’unione bancaria.

In quarto luogo, nonostante la buona volontà ai piani alti della Ce e nonostante la disponibilità della Germania a stendere una mano pietosa all’Italia, siamo alla prese con un accordo inter-governativo in cui , salvo fare un ricorso alla Corte di Giustizia Europea (ed avere una sentenza definitiva tra tre-cinque anni), pesa anche il parere degli altri firmatari. Non pochi di loro leggendo i rapporti dalle loro ambasciate a Roma, oppure i giornali italiani ed alcuni quotidiani internazionali, non hanno fiducia in un Governo ed in Parlamento che alla firma ed alla ratifica del trattato di Maastricht si sono impegnati a portare il rapporto debito pubblico: Pil dal 105% al 60% entro un tempo ragionevole e venticinque anni dopo supera il 130% . Un debito pubblico molto elevato in rapporto al prodotto nazionale lordo – è noto- è un nemico della stabilità finanziaria , elemento essenziale per un buon funzionamento del sistema bancario. Infine, non pochi Stati del club dell’unione bancaria, notano che i flebili segni di ripresa in Italia si sono smorzati e si chiedono come possa il sistema bancario riprendere a funzionare bene in un’economia che ristagna o scivola in stagflazione.

ImpresaLavoro, oltre 200 persone al convegno con Nicola Porro e Massimo Blasoni

ImpresaLavoro, oltre 200 persone al convegno con Nicola Porro e Massimo Blasoni

Udine20 

“Sold out” per l’incontro di ieri sera a palazzo Kechler dal titolo “Estate 2016: opinioni su economia, lavoro, Tv e giornali” . Oltre duecento persone erano presenti al convegno organizzato dal Centro Studi “ImpresaLavoro” che ha visto protagonisti il Presidente di “Impresalavoro”, l’imprenditore udinese Massimo Blasoni e il conduttore televisivo NIcola Porro, vicedirettore de Il Giornale e reduce dalla fortunata esperienza alla guida di Virus, in prima serata su Rai2. Introdotti dal direttore del Centro Studi, Simone Bressan, i due protagonisti sono stati incalzati dalle domande del giornalista Vittorio Pezzuto. Blasoni e Porro si sono confrontati in un acceso dibattito sull’attualità economica e sui principali temi in agenda in queste settimane: dalla Brexit alla crisi delle banche, dall’emergenza profughi al futuro delle pensioni.

In apertura, Nicola Porro ha raccontato i retroscena della sua dipartita dalla RAI parlando di “mano forte della censura televisiva”. Con una versione “politically correct”, la RAI ha dato il benservito al giornalista motivando una volontà di “trovare nuovi linguaggi televisivi”. “in un contesto storico così delicato mi hanno voluto imbrigliare, togliere la possibilità di parlare dimostrando una debolezza politica scollegata alla realtà”, ha sottolineato Porro.

Numerosi i temi di grande attualità affrontati durante la serata. Dall’immigrazione, della quale Blasoni ha evidenziato i costi, 4 miliardi di cui soltanto 120 i milioni di aiuti provenienti dall’Europa, alla Brexit e le conseguenze dell’uscita della Gran Bretagna dallo scacchiere dell’UE. Continuando con il terrorismo per il quale Porro definisce “inaccettabile il senso di colpa occidentale” e le riforme costituzionali. Blasoni si è soffermato sulla presenza pervasiva dello Stato, definendo “troppo ampio il perimetro di azione” e ponendo l’accento sugli eccessi e sui difetti. Eccessi in quanto ”troppe persone vogliono vivere di politica”, difetti identificati nella “poca capacità degli amministratori”. Per Blasoni “bisogna ridurre la burocrazia e ridare speranza perché non sarà lo Stato a rilanciare il paese, ma le imprese”. Blasoni, imprenditore di prima generazione, in conclusione ha volutamente lanciato una provocazione: la proposta di una legge che preveda un’esperienza lavorativa di almeno 5 anni per accedere alle massime cariche politiche.

“ImpresaLavoro” è un centro studi di ispirazione liberale che promuove sul panorama nazionale studi e ricerche sui temi dell’economia e del lavoro. L’attività di ricerca è coordinata da un board scientifico presieduto dall’economista Giuseppe Pennisi, ex dirigente della Banca Mondiale e attuale consigliere del Cnel, e composto da Salvatore Zecchini (Presidente Commissione Ocse sulle Pmi), Luciano Pellicani (sociologo e professore alla LUISS) e Cesare Gottardo (professore di materie economiche). Recentemente il centro, che ha una sede anche a Roma, ha pubblicato il suo report annuale sulla Libertà Fiscale in Europa e un articolato rapporto sulla sanità digitale in Italia, realizzato in collaborazione con il Censis.

Fisco di massa, servono i controlli non gli accertamenti

Fisco di massa, servono i controlli non gli accertamenti

di Mino Rossi

Gli incassi veri, in proporzione, sono da guardare al microscopio. Dal 2000 al 2015 l’Agenzia delle Entrate ha consegnato a Equitalia addebiti da riscuotere, gravanti su famiglie e imprese, per la cifra monstre di 795 miliardi di euro.

Tuttavia, dopo contenziosi, cartelle, pignoramenti e notifiche, la riscossione ha fruttato, in sedici anni, incassi pari a 35 miliardi (praticamente, il 4,4 per cento). Sono questi i dati recentemente diramati dalla Corte dei Conti (Rendiconto generale dello Stato per il 2015 del 23 giugno 2016 – volume I pagina 30, Tavola 1.7 – vedi qui).

Inoltre, la quota del “magazzino insoluti” che Equitalia stessa valuta come non più riscuotibile – a causa di pignoramenti andati a vuoto, sgravi, fallimenti, ditte cessate, nullatenenti, eccetera – ad oggi è pari a 694 miliardi (cifra che in futuro potrà ulteriormente aumentare). Il dato risulta a tabella 3 allegata al testo della Audizione del 9 febbraio 2016 presso la Commissione Finanze del Senato dell’amministratore delegato di Equitalia (vedi qui). Una cifra pazzesca, quindi! Destinare al macero quasi il 90% del carico iniziale da riscuotere significa che tutta la macchina del contrasto è tutt’altro che affidabile e gira a vuoto.

Inoltre, stando alle intenzioni trapelate di recente, in Equitalia non ci sarà nessuno che certifichi l’inesistenza, fra i crediti inesigibili cestinati, di soggetti in realtà ricchi e possidenti. E questo, soprattutto di fronte a una cifra così ingente, sarebbe un fatto assolutamente inammissibile.

E’ indubbio, tuttavia, che questi numeri incredibili sono la spia di una gravissima crisi di funzionamento di un sistema che già da un pezzo è oltre la soglia del collasso.

Una delle principali anomalie che sono alla base di tutto questo, è nel fatto che la macchina di contrasto all’evasione di massa, anziché dedicarsi ai controlli, soprattutto negli ultimi lustri si è concentrata solo sugli accertamenti, la maggior parte dei quali basati su cifre ipotetiche, per legge calcolate presuntivamente.

I due concetti, però (accertamento e controllo), non sono la stessa cosa. Per funzionare, sono indispensabili entrambe le fasi: il controllo che è attività contestuale (che sorveglia e previene), e l’accertamento che invece è attività postuma (che punisce e reprime).

Quando si dice “l’Agenzia delle Entrate ha fatto 302mila controlli” (è questo il dato 2015), non è vero. Si tratta di 302mila accertamenti, eseguiti, al contrario, in assenza di qualunque controllo “in flagrante”. E, per questo, strutturalmente inficiati, nella maggior parte dei casi, da un inconveniente non da poco. E cioè di essere un tantino approssimativi nel quantum (trattandosi di accertamenti presuntivi).

Il Fisco italiano, inoltre, è l’unico in cui la macchina di contrasto è fuorviata dalla ossessione diffusa – purtroppo ingannevole e anche assai controproducente per le casse erariali – dei cosiddetti recuperi da evasione. Destinando però agli accertamenti il cento per cento delle risorse dedicate, esso dimentica che siamo in un sistema basato sull’autotassazione, per cui il suo compito primo è solo di fare controlli (non incassi).

Dal punto di vista di chi presiede alla governance, peraltro, si può dire che il controllo è “fatica” (con pochi poteri), mentre l’accertamento è “potere”, potere di presumere, quando il Fisco non è stato in grado di provare la cifra evasa (ciò che avviene nella maggior parte dei casi).

La metafora del calcio può aiutare. Per far funzionare questo sport servono sì le squalifiche in differita e a tavolino (fase della repressione). Ma, prima ancora di questo, serve in campo un arbitro che faccia l’arbitro (fase della prevenzione). In altre parole, serve una persona che corre e suda dietro il pallone e che fotografa da due passi i fatti di gioco (dove i margini di discrezionalità sono minimi). Per poi trasferire questa fotografia nelle mani di colui che, in presenza di fatti gravi oggettivamente provati – deciderà chi e come squalificare (avvalendosi solo a questo punto – ma in via eccezionale – di poteri discrezionali praticamente illimitati).

Nel Fisco italiano, invece, succede da sempre che la partita si gioca senza arbitro. Il controllore (l’Agenzia delle Entrate) o non c’è proprio (97% dei casi), oppure, quando c’è (3%), osserva la partita lontano dal campo di gioco (il riferimento è agli accertamenti emessi in differita di alcuni anni). Eppure, non è difficile rendersi conto che quando non c’è nessuno che sorveglia, le partite (quasi tutte le partite) non possono che finire in rissa.

Ecco perché si può dire, fuor di metafora, che in un sistema così architettato l’aumento della evasione di massa è garantito a vita, essendo esso la precondizione necessaria senza la quale un meccanismo così non può esistere.

Nessuna ripresa con un fisco così duro

Nessuna ripresa con un fisco così duro

Una delle ragioni cruciali della nostra crisi (e della crisi europea in cui si colloca) va individuata nell’espansione del prelievo fiscale. Se non si riuscirà a invertire il processo in atto, questo crescente spostamento di risorse dal settore privato al settore pubblico è destinato a mettere in grave crisi l’intera società occidentale. Nel corso della storia sono numerose le società fallite a causa di una tassazione abnorme: deve allora farci riflettere il fatto che nel corso del ventesimo secolo, nonostante il massiccio ricorso all’indebitamento e all’espansione monetaria, la tassazione abbia raggiunto livelli sempre più alti e sia aumentata mediamente di cinque volte nella maggior parte dei Paesi occidentali.

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Dipendenti pubblici: non sono troppi, ma male distribuiti

Dipendenti pubblici: non sono troppi, ma male distribuiti

Il numero di dipendenti pubblici in Italia è inferiore a quello delle altri grandi economie europee, ma la sua distribuzione sul territorio nazionale non è affatto omogenea, né in rapporto al numero dei residenti, né rispetto agli occupati. È questo il dato più significativo che emerge da una ricerca del centro studi ImpresaLavoro su elaborazione dei dati di Ragioneria Generale dello Stato, Istat ed Eurostat.

A fronte di una media italiana del 5,30%, sono le Regioni a Statuto speciale quelle con la maggior concentrazione di dipendenti pubblici rispetto alla popolazione residente. A guidare la classifica è infatti la Valle d’Aosta con 12.118 dipendenti, pari al 9,50% dei residenti (bambini e anziani inclusi), davanti al Trentino Alto Adige (81.072 pari al 7,68% dei residenti) e al Friuli Venezia Giulia (85.583 dipendenti, pari al 6,96% dei residenti). Segue il Lazio, che sconta l’elevato numero di sedi istituzionali presenti a Roma (403.650 dipendenti pari al 6,85% dei residenti) e un’altra regione a Statuto speciale come la Sardegna (111.791 dipendenti, pari 6,72% dei residenti).

Distanti, invece, le regioni più popolate ed economicamente più sviluppate, che presentano un tasso di dipendenti pubblici nettamente più basso: 4,11% in Lombardia, 4,63% in Veneto, 4,76% in Emilia Romagna e 4,98% in Piemonte. Al di sotto della media nazionale anche la Campania e la Puglia, che si fermano rispettivamente al 5,01% e al 5,05%.

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La classifica cambia piuttosto nettamente se si prende in esame il rapporto tra il numero dei dipendenti pubblici e quello degli occupati. La Valle d’Aosta resta in prima posizione, con il 22,11% (più di 1 su 5). Subito dietro si colloca la Calabria, con il 21,58% degli occupati che vengono retribuiti con denaro pubblico. In cima a questa classifica compaiono tutte le regioni del Mezzogiorno, con un’incidenza dell’impiego pubblico di gran lunga superiore alla media nazionale (14,47%): Sicilia (21,38%), Sardegna (20,40%), Campania (18,83%), Basilicata (18,82%), Molise (18,78%) e Puglia (18,07%). In coda alla classifica: Lombardia (9,70%), Veneto (11,06%) ed Emilia Romagna (11,07%).

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Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, in rapporto al numero dei residenti solo la Valle d’Aosta ha una percentuale di dipendenti pubblici superiore a quella di Francia (8,50%) e Regno Unito (8,20%). Mentre la media italiana (5,30%) è più bassa di quella di Spagna (6,30%) e Germania (5,60%), con 11 Regioni italiane che vantano un tasso di presenza dei dipendenti pubblici inferiore alla media tedesca.

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Le cose cambiano, ma solo marginalmente, prendendo in esame il numero di dipendenti pubblici in rapporto al numero degli occupati. In questo caso, le percentuali di Valle d’Aosta, Calabria, Sicilia e Sardegna sono superiori a quella della Francia (20,00%), ma non a quelle di Regno Unito (17,00%) e Spagna (16,00%). Mentre la percentuale di dipendenti pubblici in Italia (14,47%) è superiore soltanto a quella della Germania (11,00%).

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Il necessario cambio di passo della sanità digitale

Il necessario cambio di passo della sanità digitale

di Carla Colicelli* – Sole 24 Ore**

Una recente indagine Censis del 2015 sul tema della digitalizzazione della Pubblica amministrazione ha mostrato che tra coloro che usano internet il 39% si dichiara poco o per nulla in grado di utilizzare i servizi online della Pa, quota che sale al 49% tra gli ultrasettantacinquenni; mentre i servizi online più usati sono quelli legati alla comunicazione e all’informazione, e tra gli utilizzatori dei servizi online circa il 66% ha utilizzato la posta elettronica, il 39,8% ha letto giornali online, oltre il 36% frequenta social network. Quote più basse hanno svolto attività transattive, quali lo svolgimento di operazioni bancarie (24%), l’acquisto di beni e servizi (15,6%, comprese prenotazioni di visite mediche), la gestione di pratiche con gli uffici pubblici (12,7%, comprese richieste di servizi).

Questi ed altri dati certificano un sostanziale gap tra Italia ed altri paesi europei nella diffusione della utilizzazione dei servizi informatici che riguardano la pubblica amministrazione e i suoi servizi, e ciò nonostante la evidente ampia propensione degli italiani ad accogliere di buon favore le innovazioni tecnologiche e le loro applicazioni in altri ambiti. Ugualmente ampi sono, al tempo stesso, i benefici attesi a seguito della diffusione della digitalizzazione della pubblica amministrazione, anche e soprattutto in area sanitaria, in termini di efficienza e qualità. Le motivazioni che stanno alla base delle attese in tema di processo di digitalizzazione in sanità sono sia di natura sociale che di natura economica. Dal punto di vista sociale il valore sta principalmente nella opzione di rendere il cittadino fulcro dei processi di cura, offrendogli strumenti perché riesca ad assumere un ruolo maggiormente attivo nella gestione della propria salute. In questa prospettiva, i cittadini vengono considerati non tanto utenti finali dei servizi digitali quanto veri e propri co-protagonisti della digitalizzazione del sistema. A questo proposito fondamentali sono gli obiettivi della condivisione delle informazioni, della interazione fra pazienti, operatori e strutture, della riduzione dell’errore medico e della gestione delle patologie croniche. Non mancano al tempo stesso, dal punto di vista sociale, importanti criticità legate ad alcune implicazioni sociali e culturali, quali la partecipazione degli utenti al processo, la facilitazione della acquisizione di una avanzata cultura digitale dei servizi ed il contrasto delle forme di divide culturale esistenti e future, che rischiano ed ancora più rischieranno di rendere vani gli sforzi. Da questo punto di vista è evidente che per transitare verso una sanità moderna ed efficiente, alla quale la digitalizzazione può dare un contributo primario, occorre agire sulle carenze informative, sulle lacune tecnologiche ed in particolare informatiche, sulla scarsa considerazione del ruolo che spetta al fattore umano nella relazione terapeutica, e sulla effettiva fruibilità dei canali tecnologici.

Dal punto di vista economico, invece, va innanzitutto sottolineato che ancora troppo poco si è indagato sui risparmi possibili grazie alla utilizzazione della strumentazione informatica in chiave prospettica, per la scelta delle terapie più appropriate, per la personalizzazione delle cure, per l’integrazione dei servizi e per il superamento delle lungaggini burocratiche. E troppo poco si è riflettuto sulla necessità di consolidare gli investimenti rendendoli quanto più possibile fruttuosi.

Proprio per inquadrare nel medio periodo le prospettive della sanità digitale italiana in termini di fabbisogno finanziario e strategico, lo studio prodotto da Censis e Impresalavoro, e presentato al pubblico presso il Censis martedì 5 luglio (Le condizioni per lo sviluppo della Sanità Digitale: scenari Italia-UE a confronto), esamina lo stato dell’arte e gli scenari al 2020, prospettando la necessità di una accelerazione dell’impegno, sia in termini di investimento che in termini di architettura e governance del sistema. In particolare Giuseppe Pennisi, presidente del Board scientifico di Impresalavoro, ha analizzato i dati relativi alla spesa per sanità digitale in Italia ed Europa, gli scenari evolutivi prevedibili ed auspicabili e le implicazioni di policy. La conclusione cui si arriva è che ci sia bisogno di un cambio di passo e di risorse aggiuntive considerevoli, se vorremo contrastare l’allargamento della distanza tra noi ed il resto d’Europa che si è verificato negli ultimi anni. Ma al tempo stesso bisogna essere consapevoli del fatto che l’investimento finanziario non basta, e che bisogna mettere mano anche alla architettura del sistema di offerta e di gestione dei servizi sulla base di un nuovo approccio, che tenga conto dei modelli di valutazione del rischio e della compatibilità strategica generale.

*Advisor scientifico della Fondazione Censis
**Dal Sole 24 Ore del 12 luglio 2016

Olimpiadi 2024 a Roma: serve una (seria) analisi costi-benefici

Olimpiadi 2024 a Roma: serve una (seria) analisi costi-benefici

di Giuseppe Pennisi

Non sta certo a me esprimere un’opinione sul dibattito relativo alle possibili Olimpiadi del 2024 a Roma. Da economista, però, ritengo di avere il dovere etico di ricordare che da decenni si fanno analisi economiche sulla base di solidi numeri per quantizzare costi e ricavi, delineare strategie vincenti, mettere in guardia da tattiche perdenti.

Ad esempio, l’Università di Amburgo ha esaminato (in uno studio pubblicato su Hamburg Contemporary Economic Discussions) 48 candidature nell’arco di tempo tra il 1992 e il 2012 e costruito un modello che tiene conto della logistica, della situazione climatica, e del tasso di disoccupazione. Una conclusione importante è che il parco infrastrutturale, i trasporti pubblici e la nettezza urbana devono essere eccellenti. Questo non il caso di Roma.

Le Olimpiadi, comunque, non sono affatto “un affare” in termini di ricavi finanziari (giustapposti ai costi finanziari) per la città, o le città, che le ospitano. Tre economisti greci hanno condotto una valutazione ex-post delle Olimpiadi di Atene del 2004 (è pubblicata sulla rivista Applied Financial Economics, Vo. 18 n. 19 del 2008); finanziariamente, hanno guadagnato solo gli sponsor, le azioni delle cui imprese hanno avuto una rapida ma breve impennata quando la capitale greca è stata scelta – quindi, un effetto annuncio. Di recente, economisti greci hanno individuato nelle Olimpiadi del 2004 una delle determinanti dell’impennata del debito pubblico greco.

Interessante una dettagliata valutazione dei giochi invernali: i costi superano i benefici, anche senza contabilizzare le spese per le infrastrutture (perché permanenti e non connesse solo all’evento) e quantizzando “l’orgoglio della città e della Provincia” di ospitare le gare. In effetti, stime analitiche dei probabili flussi turistici sono modeste (ed i costi associati al turismo olimpico superano i ricavi) come peraltro già rilevato in occasione di altre Olimpiadi, ad esempio quelle tenute nel 1996 ad Atlanta in Georgia).

Uno dei lavori sugli esiti economici non brillanti delle Olimpiadi di Atlanta è intitolato: “Perché gareggiare per essere sede di Giochi?”. La risposta viene data da due saggi relativi uno alle Olimpiadi di Pechino del 2008 (pubblicato nello Sports Lawyer Journal) e l’altro alla Coppa del Mondo giocata in Germania nel 2006 (CESifo Working Paper No. 2582). I costi per la collettività vengono in questi casi superati, anche di molto, dai benefici per la collettività perché l’evento riguarda l’intera Nazione e contribuisce al “Nation Building”.

Si potrebbe dire che le Olimpiadi di Roma del 1960 contrassegnarono la ripresa dopo una lunga fase di guerre. Dimentichiamo che allora il Pil dell’Italia cresceva del 5-6% l’anno, il debito pubblico era un terzo del debito nazionale e il tasso di disoccupazione si avvicinava al 3% toccato nel 1963. Si dovrebbe anche ricordare che Ferenc Janossy (uno dei maggiori economisti, in un lavoro del 1971 (tradotto in tedesco) giudicò le Olimpiadi del 1960 (e le spese improduttive ad esse connesse) come un segno della fine del miracolo economico.

Ho la mente aperta: la proposta di tenere olimpiadi a Roma nel 2024 dovrebbe essere corredata da un’analisi costi-benefici dinamica secondo il metodo Dixit-Pindyck, insegnato per anni alla Scuola Nazionale d’Amministrazione e di cui tanto il Ministero dell’Economia e Finanza quanto il Ministero dello Sviluppo Economico hanno dimestichezza, al fine di uscire da monologhi alterni e di valutare con un metodo solido che impone analisi anche esse solide.

Università davvero all’italiana

Università davvero all’italiana

di Massimo Blasoni – Metro

Come fanno le Università a finanziare la ricerca se spendono in stipendi quasi tutti i loro fondi? Semplice, non lo fanno. Non stupisce così che i nostri atenei stentino a brillare nelle graduatorie internazionali. Nel Qs World Universities Ranking 2014-2015 l’Università italiana al primo posto è Bologna, piazzata al 182esimo (nel 2010 era la 176esima), seguita dalla Sapienza di Roma al 202esimo posto e dal Politecnico di Milano al 229esimo. Ai primi tre posti troviamo il Mit di Boston, Cambridge in Inghilterra e Harvard sempre negli Stati Uniti. La classifica tiene conto della capacità di produrre cervelli, della didattica, dei costi per gli studenti, delle pubblicazioni accademiche, del livello occupazionale degli studenti, della capacità di internazionalizzazione delle università. Tutti settori in cui non eccelliamo.

Che dire poi della proliferazione – quasi sempre ingiustificata – di mini Facoltà, sedi distaccate e micro corsi, nati talora dall’esigenza politica di accontentare un territorio in cambio di rinnovate alleanze, talora per giustificare questa o quella cattedra spesso ottenuta attraverso la procedura, tutta italica, dell’«idoneità multipla»? Tra il 2000 e il 2006 le Università hanno bandito 13.232 posti per professori. Ne sono usciti 26.004 idonei. Più professori, più corsi, più fondi, più potere. A tutto discapito della qualità dell’offerta. In Italia ci sono decine di corsi di laurea che non arrivano nemmeno a 15 iscritti (qualcuno con un solo studente) e comportano costi elevatissimi e una quantità d’offerta inversamente proporzionale al suo pregio. In Italia esistono più di 20 Facoltà di agraria, in Olanda una sola. Facile pensare che lì sia concentrata l’eccellenza.

L’abolizione del valore legale del titolo di studio, vecchia battaglia di Luigi Einaudi, avrebbe costretto le Università a competere facendo emergere le eccellenze esistenti tanto dei corsi di laurea che della ricerca. Oggi invece una laurea conseguita in una nota Università vale tanto quanto quella ottenuta dall’unico studente iscritto a Camerino. Così i migliori tendono ad andare all’estero, le aziende non assumono chi non ha le abilità richieste e ai laureati tocca adattarsi a lavori che non c’entrano nulla con la loro preparazione.

Economia, lavoro, tv e giornali: Massimo Blasoni e Nicola Porro a Udine

Economia, lavoro, tv e giornali: Massimo Blasoni e Nicola Porro a Udine

Domani, giovedì 7 luglio, a Udine, incontro a Palazzo Kechler per un dibattito tra il Presidente del centro studi ImpresaLavoro, Massimo Blasoni, e il vicedirettore de “Il Giornale”, Nicola Porro. Vittorio Pezzuto intervista gli ospiti su “economia, lavoro, tv e giornali”. Introduce il direttore di ImpresaLavoro, Simone Bressan.

udine-07-07-16