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Banda larga: neostatalismo largo e uso largo di denaro pubblico?

Banda larga: neostatalismo largo e uso largo di denaro pubblico?

7 luglio 2016 – ore 10/13  Camera dei Deputati – Sala del Mappamondo
(ingresso da Piazza del Parlamento 24)

Introducono e coordinano i parlamentari:
Massimo Corsaro e Daniele Capezzone

Intervengono:
– Raffaele Barberio, direttore Key4biz
– Lorenzo Castellani, direttore scientifico Fondazione Einaudi
– Franco Debenedetti, presidente Istituto Bruno Leoni
– Luigi Gabriele, associazione consumatori Codici
– Pietro Paganini, direttore generale Fondazione Einaudi
– Giuseppe Pennisi, economista, presidente Board scientifico ImpresaLavoro
– Massimiliano Trovato, Istituto Bruno Leoni
– Francesco Vatalaro, Università di Roma Tor Vergata, docente di telecomunicazioni

Per partecipare è necessario accreditarsi scrivendo a d.capezzone@gmail.com

Sanità digitale: presentazione dello studio Censis-ImpresaLavoro

Sanità digitale: presentazione dello studio Censis-ImpresaLavoro

LE CONDIZIONI PER LO SVILUPPO DELLA SANITÀ DIGITALE: SCENARI ITALIA-UE A CONFRONTO

Martedì 5 luglio – ore 10.30 Censis – Piazza di Novella, 2 – Roma

Apertura e introduzione:
Giorgio De Rita – Segretario Generale Censis
Massimo Blasoni – Presidente Centro Studi ImpresaLavoro

Presentazione dello studio Censis-ImpresaLavoro:
Carla Collicelli – Advisor Scientifico Censis
Giuseppe Pennisi – Presidente Board Scientifico ImpresaLavoro

Tavola rotonda
Introduce e modera Giuseppe Greco – Segretario Generale Isimm Ricerche

Intervengono:
Tonino Aceti – Coordinatore Tribunale per i Diritti del Malato
Luigi Boggio – Presidente Assobiomedica
Massimo Casciello – Direttore Generale Digitalizzazione Ministero della Salute
Giacomo Milillo – Segretario Generale Fimmg

Conclusioni:
Federico Gelli – Commissione Affari Sociali Camera dei Deputati

I benefici attesi dalla sanità digitale in termini di efficienza e qualità sono evidenti, dalla condivisione delle informazioni, alla interazione fra pazienti, operatori e strutture, alla riduzione dell’errore medico, alla gestione delle patologie croniche. Per inquadrare nel medio periodo le prospettive della sanità digitale italiana in termini di fabbisogno finanziario, lo studio esamina lo stato dell’arte e gli scenari futuri al 2020, prospettando la necessità di una accelerazione dell’impegno, sia in termini di investimento che in termini di architettura e governance del sistema.

Si diventa più liberi nella scuola pubblica o in quella privata?

Si diventa più liberi nella scuola pubblica o in quella privata?

E’ una domanda fondamentale raramente posta in Italia dove, per motivi storici, le scuole private sono state per decenni essenzialmente scuole cattoliche e quelle pubbliche, invece, scuole laiche che avrebbero dovuto iniettare negli studenti i valori prima del Regno e poi della Repubblica. Sempre per ragioni storiche, la libertà non era tra i valori che avessero grande priorità né nelle scuole private né in quelle pubbliche.

Interessante vedere come alla domanda rispondono M. Danish Shakeel e Corey A. De Angeliis nel EDRE Working Paper No. 2016-9. Insegnano e conducono ricerche alla University of Arkansas, dove diversi decenni orsono ha preso avvio il movimento dei diritti civili di cui la libertà è valore essenziale. Il saggio è intitolato Who is more free? A Comparison of the Decision Making of Private and Public School Principals (Chi è più libero un confronto del metodo decisionale dei presidi delle scuole pubbliche e private).

La letteratura economica e pedagogica sulla scuola pone l’accento sui risultati degli studenti in termini di apprendimento specialmente nelle discipline matematiche e scientifiche (quelle che meglio si adattano ai confronti internazionali, come quelli pubblicati periodicamente dall’Ocse). Il metodo utilizzato è differente poiché l’accento è sui valori,segnatamente sulla libertà.

L’analisi si basa sulla School and Staffing Survey SASS (del 2011 e del 2012) e riguarda in particolare la capacità dei presidi ad incidere su decisioni importanti delle scuole a loro affidate. Sotto il profilo tecnico, tramite una serie di regressioni statistiche per studiare le differenze (su sette temi principali) in cui i presidi di scuole pubbliche e private prendono decisioni. Vengono utilizzati due modelli: uno che tiene conto del background e della caratteristiche dei presidi ed uno che invece non ne tiene conto. La conclusione è che i presidi delle scuole private hanno una maggiore sfera di azione nelle principali aree di attività. E quindi riescono meglio dei presidi delle scuole pubbliche ad inculcare principi di libertà negli allievi.

Porti, aeroporti, logistica: un mercato su cui scommettere

Porti, aeroporti, logistica: un mercato su cui scommettere

di Mino Giachino*

Il Paese dopo quasi cinque anni di riforme o pseudo riforme annunciate, approvate è ancora a metà del guado, cresce ancora troppo poco, la metà della media europea. Gli effetti della forte disoccupazione e del calo del business si son visti chiaramente nell’esito delle recenti elezioni amministrative. La domanda di trasporto ad esempio è ancora inferiore a quella del 2011.

Dopo il Brexit occorre cambiare la politica europea della Austerity che anche l’Italia aveva accettato chiamando MONTI. A cinque anni ci troviamo con una bassa crescita, con l’aumento della disoccupazione, con l’aumento del Debito pubblico di 300 miliardi e dopo aver perso tante aziende importanti e aver visto la chiusura di tantissime piccole e medie aziende, senza aver conquistato un etto di competitività in più. Occorre fare molto di più e meglio e occorre fare altro. Se è vera la previsione del prof. Prodi che in futuro sarà difficile attendersi di più dalle esportazioni occorre dedicarsi ai settori dove le potenzialità dell’Italia sono enormi come la logistica e i trasporti.

La logistica che per il nostro Paese vale più del 10% del PIL può dare molto di più sia dal punto di vista della crescita economica e occupazionale sia dal punto di vista della competitività e attrattività del nostro sistema produttivo. Potenziare i nostri porti e aeroporti e investire nella realizzazione delle reti ferroviarie europee rappresentano un interesse strategico e nazionale. L’Italia infatti è l’unico Paese europeo che perde traffici merci a Lei diretti. Quasi un milione di Containers diretti alla Pianura padana arrivano infatti ai porti del Nord Europa e lasciano là tasse portuali, Iva e lavoro logistico per circa 4 miliardi. Quasi la metà della merce spedita via aerea italiana parte da Francoforte. Nel nostro Paese la inefficienza logistica dovuta alla carenza di infrastrutture e ad una organizzazione logistica non competitiva incide sul costo di produzione dei nostri prodotti dal 10 al 20% in più. Eppure il nostro Paese gode di una posizione privilegiata sia per i traffici da e verso l’Africa, da e verso il Medio Oriente, da e verso l’Estremo Oriente. Eppure il nostro Paese dispone di gruppi logistici integrati mare-terra e di terminalisti di livello europeo. Il Ministro Delrio è nelle condizioni attraverso la attuazione del Piano dei porti e delle logistica di mettere in moto investimenti infrastrutturali decisivi come ad esempio la nuova diga foranea al porto di Genova e il collegamento ferroviario tra i nostri porti del Nord Tirreno e del Nord Adriatico con il mercato europeo.

Così come superare rapidamente il regime commissariale che tocca la maggioranza dei nostri porti è un’altra condizione a costo zero come la attuazione del regolamento delle concessioni per mettere in moto importanti investimenti privati pluriennali nei nostri terminal. La ripresa del mare bonus e del ferrobonus due esperienze importanti che gestimmo per primi al Governo sono una grande opportunità. Andrebbe ripresa la indicazione cui avevo lavorato della vendita franco destino perché purtroppo la domanda di trasporto complessiva nel nostro Paese è’ ancora inferiore al 2011. Così come andrebbero accelerate la riforma degli interporti e ampliati i collegamenti ferroviari tra i porti liguri, la Pianura Padana e il mercato europeo. Mi auguro che il Convegno dei Propeller a Napoli Venerdì prossimo dia un contributo positivo.

*ex Sottosegretario ai Trasporti, presidente di Saimare Spa

L’ignoranza politica e la Brexit

L’ignoranza politica e la Brexit

di Pietro Masci*

Il Regno Unito con il referendum del 23 giugno ha scelto di uscire dall’Unione Europea (UE). Una scelta democratica espressa dal 52% dei votanti con una partecipazione al voto pari al 72% degli aventi diritto al voto.
Il Regno Unito era entrato nell’Unione Europea nel 1972. Nel 1975, gli inglesi indissero un referendum popolare per l’entrata nell’UE, dove il 67% fu a favore con una partecipazione al voto pari al 65%. Dopo oltre 40 anni, gli elettori inglesi hanno cambiato idea. L’instabilità è una prerogativa democratica e merita grande rispetto.
Vale la pena sottolineare che il Regno Unito, dal momento in cui saranno concluse le procedure di ritiro sarà un paese terzo all’Unione Europea.

Cerchiamo di evidenziare gli aspetti principali di questa complessa vicenda: la tradizione inglese dei rapporti con l’Europa; la diffusione nel mondo dell’ignoranza politica, vale a dire la situazione di un pubblico disinformato che costituisce il tema conduttore di questo articolo; le implicazioni per il Regno Unito, e per gli Stati Uniti; quelle per l’Europa e per l’Italia.

Sotto il profilo storico, la partecipazione inglese al progetto europeo, pur promovendo liberismo economico e riduzione del ruolo dello Stato, è stata sempre abbastanza ambigua con numerose eccezioni che hanno indebolito la coesione europea.
Un pilastro della politica estera inglese nel corso dei secoli è stato sempre quello di interessarsi principalmente delle colonie e del commercio internazionale e disinteressarsi delle vicende europee. L’attenzione inglese si è rivolta all’Europa continentale quando nel continente si è manifestata la minaccia di una potenza egemone – Spagna nel XVI secolo, la Francia di Napoleone, la Germania di Hitler- che potesse compromettere gli interessi commerciali globali del Regno Unito. Queste considerazioni storiche riecheggiano nelle affermazioni dei promotori dell’uscita dall’Unione Europea – Farage e Johnson – che sostengono che il Regno Unito ha riconquistato la propria indipendenza e il paese potrà ora esercitare il ruolo mondiale che le compete.

Per quanto riguarda il tema dell’ignoranza politica, recentemente, negli Stati Uniti, è uscito un libro – Democracy and Political Ignorance: Why Smaller Government Is Smarter – che puntualizza il tema dell’ignoranza politica (e direi non solo) negli Stati Uniti e che si applica analogamente ad altri paesi. L’autore – Ilya Somin – studia il collegamento tra l’ignoranza politica e l’influenza sproporzionata dei gruppi di potere, e rivela un grave pericolo per la democrazia.
A proposito di questo libro, nella sua seconda edizione (la prima edizione è stata pubblicata anche in italiano), vi sono molte considerazioni che vanno anche al di là di questo articolo. Tali considerazioni riguardano l’emergere – a livello mondiale – di una classe politica impreparata e senza etica, ideali e scrupoli, ostaggio di grandi interessi economici e finanziari che attraverso le moderne tecniche di propaganda riescono a promuovere i propri interessi. D’altra parte, l’elettorato – sopratutto quello meno sofisticato – si sente trascurato, vede minacce economiche, di sicurezza, terrorismo, immigrazione dai quali non si sente protetto da politici e non ha fiducia nei c.d. esperti visti come un’estensione dei politici spregiudicati. In tali circostanze, altri politici riescono ad interpretare le insoddisfazioni e lavorano per dar loro espressione politica, spesso con scelte politiche radicali. Trump negli Stati Uniti ne è il perfetto esempio. L’ignoranza politica nella quale prosperano politici ugualmente ignoranti e senza scrupoli andrebbe analizzata assieme ad un altro aspetto che sembra consolidarsi – quello della democrazia autoritaria,- fenomeno non limitato esclusivamente ai paesi meno avanzati.
Nel caso del referendum nel Regno Unito, l’ignoranza politica ha giocato un ruolo rilevante, considerato che i dati mostrano che le persone meno istruite hanno votato per lasciare l’Unione Europea. Nè va trascurata la circostanza che la stragrande maggioranza – il 75% – dei giovani tra i 18 e i 24 anni hanno votato a favore di rimanere nell’Unione Europea.
L’ignoranza politica ha battuto la razionalità: i vari sondaggi sul voto e le aspettative dei mercati finanziari che davano al 25% le probabilità che vincesse l’opzione dell’uscita (il giorno prima del referendum le borse erano salite di oltre l’1%). L’uccisione della parlamentare Cox da parte di un esaltato nazionalista non sembra aver avuto alcun impatto sul voto a favore dell’Unione Europea. Quanto ai principali esponenti politici coinvolti nel voto inglese, non mi sembra intravedere un elevato livello di preparazione civica, etica e politica, ma diffusa mediocrità dei personaggi politici protagonisti. Da una parte, Cameron ha fatto errori di calcolo giganteschi. Non solo -come peraltro prevedibile- ha posto in secondo piano gli interessi europei a quelli del suo partito, ma sopratutto non ha compreso l’atteggiamento preoccupato dell’elettorato inglese più fragile, delle paure della classe media che hanno reso possibile la vittoria dell’uscita dall’Unione Europea. Inoltre, Cameron ha invitato il Presidente Obama a parlare a favore del voto per rimanere in Europa e il risultato – come non era tanto difficile prevedere- è stato quello di accentuare l’opposizione del pubblico verso l’Unione Europea. Il leader laburista Corbyn – che in un’alleanza spuria con Cameron avrebbe dovuto presentare un caso cogente per rimanere in Europa ed era ragionevole attendersi che avrebbe portato passione ed entusiasmo – ha brillato per la sua assenza, come se il tema non fosse rilevante per lui e per il suo partito. Il parlamentare Chuka Umunna ha criticato la leadership del signor Corbyn durante la campagna referendaria, dicendo che: “Il nostro attaccante principale, spesso non era in campo, e quando c’era, non è riuscito a mettere la palla in rete.” Una campagna a favore dell’Unione Europea surreale.
Dall’altra parte, Farage e Johnson – i vincitori – hanno basato la campagna su generalizzazioni e imprecisioni, ancorchè presentate sotto il profilo – corretto – della mancanza di partecipazione democratica nel sistema dell’Unione Europea

Quanto alle implicazioni dell’uscita, per il Regno Unito, sotto il profilo economico, perlomeno nel breve termine, gli inglesi dovranno fare i conti con instabilità e incertezza politica (non si sa chi potrebbe essere il leader del Partito Conservatore; se si dovrà andare a nuove elezioni; mentre il Partito Laburista ha di fatto perso il referendum e dubita sulle capacità del suo capo Corbyn) ed economica. Non è da escludere che l’elettorato inglese si renderà conto che il voto non costituisce la ricetta magica che cambia la situazione dalla notte al mattino. Esistono, e sono state presentate al pubblico inglese prima del voto per l’uscita dall’Europa, varie stime di declino del Prodotto Interno Lordo, aumento dei costi per ricorsi a prestiti e possibili misure di austerità. È recentissima la dichiarazione di Standards and Poors che dopo il voto per l’uscita dall’Unione Europea, il Regno Unito perderà il rating AAA; e quella dell’agenzia Moody che ha abbassato il rating obbligazionario del governo inglese da stabile a negativo alla luce dell’incertezza che esiste in merito agli accordi commerciali che determineranno lo status del Regno Unito dopo l’uscita dall’Unione Europea.

Viene da domandarsi come potrà la parte più debole dell’elettorato inglese che ha votato per l’uscita -vale a dire persone più anziane, pensionati, lavoratori colletti blu che soffrono la globalizzazione e anche l’immigrazione – far fronte ad una caduta dell’attività economica. C’è da sperare che i fautori dell’uscita abbiano un progetto e un piano al riguardo che non sia solo quello di utilizzare i contributi inglesi al bilancio comunitario, vale a dire 8 miliardi di sterline al netto dello sconto che viene praticato al Regno Unito e degli acquisti dell’Unione Europea nel Regno Unito (Carl Emmerson, Paul Johnson, Ian Mitchell, David Phillips. Brexit and the UK’s Public Finances. IFS Report 116, May 2016). Rimane poi il dubbio che il gruppo maggioritario che ha portato alla vittoria l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea costituisca una solida e dinamica forza sociale capace di gestire una transizione che rischia di essere costosa e anche lunga.
Sotto il profilo politico–internazionale, le possibili implicazioni a breve, medio termine e lungo termine, per il Regno Unito, comprendono:
• Come e quando il Regno Unito avrà un trattato di libero scambio con l’Unione Europea, o quantomeno una posizione per l’accesso al mercato commune dell’Unione Europea?;Questo punto appare il più importante, considerati gli interessi commerciali inglesi. Al momento si possono intravedere tre possibilità:
– Che il Regno Unito ottenga una posizione speciale analoga a quella della Norvegia- un paese non membro dell’Unione Europea- che ha accesso al mercato comune sottoponendosi alle regolamentazioni dell’Unione Europea e al pagamento di contributi, vale a dire proprio i punti sul quale si è giocato il referendum per l’uscita.
– Che il Regno Unito ottenga un trattamento di accesso al mercato unico limitato, del tipo di quello del Canada.Questo costituirebbe una soluzione possibile, ma da negoziare.
– Che il Regno Unito venga trattato alla stregua dei paesi terzi (ad esempio Russia, Cina, Brasile) e per l’accesso al mercato valgano le regole del World Trade Organization (WTO).
• Come e quando il Regno Unito avrà un trattato di libero scambio con gli Stati Uniti?;
• Londra rimarrà un centro finanziario mondiale?
• Altre parti del Regno Unito che hanno votato per restare in Europa- la Scozia e l’Irlanda del Nord- – accetteranno di rimanere parte del Regno Unito, o chiederanno l’indipendenza?
• Quanto a lungo il Regno Unito riuscirà a mantenere il rango di quinta potenza economica mondiale?;
• Chi sosterrà ancora la logica che il Regno Unito sia membro del Consiglio di Sicurezza dell’ONU?.
Nè va sottovaluta la circostanza che anche la “Nuova Argentina” di Macri possa continuare a rivendicare le Malvine in un contesto internazionale più favorevole e con un Regno Unito più debole date le incertezze della guida politica.
Inoltre, la Spagna, potrebbe intraprendere con maggiore determinazione l’azione “para retomar el penon de Gibraltar”.
Peraltro, non è da escludere che le azioni contro la “perfida Albione” trovino simpatia e sostegno.

L’esito del referendum lascia il Regno Unito profondamente diviso, senza guida politica, con grandi rischi economici e finanziari, e addirittura ripensamenti (si stanno raccogliendo le firme per un secondo referendum). Insomma, una situazione complessiva d’incertezza che l’ignoranza politica di elettori e politici ha generato.

Per quanto riguarda le implicazioni per gli Stati Uniti, è presumibile che il Regno Unito punterà a rafforzare ulteriormente i legami oltre-Oceano. Sotto il profilo economico, specialmente nel breve periodo, l’impatto dell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea non dovrebbe essere significativo per gli Stati Uniti, salvo comportare un apprezzamento del dollaro con effetti non desiderati sulla caduta delle esportazioni ed aumento delle importazioni americane, turbulenze sui mercati finanziari; ritardo dell’aumento dei tassi d’interesse da parte della Federal Reserve. Per il momento non si ritiene che l’uscita del Regno Unito possa determinare una nuova recessione economica. Si ritiene, tuttavia, che l’impatto dell’uscita del Regno Unito sarà distribuito nel tempo. Sotto il profilo politico, negli Stati Uniti prevale l’impostazione che la relazione speciale tra Stati Uniti e Regno Unito continuerà; che la NATO e l’Europa costituiscono alleati indispensabili. C’è da domandarsi come il Regno Unito – fuori dell’Unione Europea – possa costituire un alleato effettivo sul quale gli Stati Uniti possono fare leva nei riguardi degli Europei continentali (si pensi al tema dei rapporti con la Russia). Pertanto, non è da escludere che una relazione più diretta tra Stati Uniti e Unione Europea – e sopratutto la Germania- venga consolidata. Quanto ai candidati presidenziali americani, Trump celebra il voto degli inglesi per uscire dall’Unione Europea e fa il parallelo con la ribellione contro il sistema che si sta registrando negli Stati Uniti. Clinton, più cautamente, è preoccupata per il clima d’incertezza e critica aspramente l’irresponsabilità di Trump.

Quanto agli scenari per l’Unione Europea, dopo il bagno di sangue finanziario dei prossimi giorni derivante dall’incertezza, ritengo che le prospettive nell’Unione Europea potranno migliorare perchè rimangono nell’Unione coloro che ci credono e desiderano restare. Non sono troppo convinto della fuga di catalani, polacchi, francesi, austriaci e vari altri, perchè i danni – compresa la diffusa incertezza- che il Regno Unito dovrà sostenere saranno significativi e visibili e faranno riflettere seriamente coloro che desiderano uscire dall’Unione Europea, L’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea farà perdere una spinta significativa verso una maggiore iniziativa individuale e il ruolo dei mercati. Tuttavia, faciliterà la coesione tra i paesi membri – come ad esempio nel campo del coordinamento delle politiche fiscali che il Regno Unito ha sempre osteggiato.
Il referendum inglese ha ricordato le carenze del progetto europeo, soprattutto la limitata democrazia e l’eccesivo intervento dello Stato. Questo è un momento fondamentale per i politici. Appare cruciale che i politici autentici – non quelli che guardano a vantaggi di breve termine- e i leali servitori dello Stato (come il nostro Draghi che sembra destinato a doversi occupare di problemi di colossali dimensioni) – sappiano afferrare le opportunità che l’uscita del Regno Unito presenta; siano in grado di riformare l’Unione Europea in senso più democratico e meno burocratico con una classe dirigenziale e amministrativa e dei c.d. esperti indipendente; siano in grado di ritrovare lo spirito dei Trattati di Roma del 1957, e rigenerare l’Unione Europea mantenendo le diversità che il Vecchio Continente presenta.
I leaders europei che possono far riprendere il cammino dell’Unione Europea sono vari, ma un ruolo primario lo dovrà svolgere la signora Angela Merkel – che peraltro ha già dichiarato che l’uscita del Regno Unito non significa disgregazione e che l’Unione Europea saprà trovare le risposte giuste. D’altro canto, i Presidenti del Consiglio, Commissione e Parlamento europeo – Donald Tusk, Jean-Claude Juncker e Martin Schulz, rispettivamente – e Mark Rutte, il primo ministro dei Paesi Bassi, che detiene la presidenza di turno dell’Unione europea, hanno dichiarato che qualsiasi ritardo per l’uscita della Gran Bretagna equivale a “inutilmente prolungare incertezza”.
Mi pare fondamentale che i paesi dell’Unione Europea dimostrino coesione nel come procedere nei negoziati per l’uscita del Regno Unito ed i suoi tempi per ridurre l’incertezza; e nel determinare l’essenziale aspetto dello status futuro del Regno Unito. Chiarezza e determinazione appaiono fondamentali per eliminare le fragilità che possono derivare dal voto inglese ed i tentativi d’imitazione e sconfiggere le predizioni di un effetto domino. Infatti, al di là delle divisioni all’interno del paese, le tradizioni storiche del Regno Unito non possono non suscitare l’idea che l’obiettivo inglese rimane quello di eliminare l’Unione Europea e tornare agli stati-nazione in modo tale da non pagare nessuna conseguenza, sopratutto sotto il profilo economico, finanziario, commerciale e politico dell’uscita dall’Unione Europea.

Per l’Italia – purtroppo in una situazione di fragilità e incertezza – si apre una grande opportunità – di essere – a fianco di Germania e Francia – uno dei pilastri di una “rigenerata Europa”. È sperabile che i politici italiani non riescano nella difficile impresa di essere emarginati e comprendano la lezione che la risposta al referendum inglese è: più democrazia, meno Stato, più politici preparati, responsabili e con valori etici e più indipendenza della classe dirigente. Questa sembra la ricetta per combattere l’ignoranza politica e costruire uno stabile e duraturo sistema democratico europeo.

 

*Esperto di politiche pubbliche, residente negli Stati Uniti; docente Istituto Studi Europei, Roma

Burocrazia, un vampiro peggiore del fisco

Burocrazia, un vampiro peggiore del fisco

di Massimo Blasoni – Il Giornale

Vi sono aspetti quasi paradossali della nostra società a cui siamo talmente abituati che finiamo per accettarli, come fossero ineluttabili. Così è dell’eccesso di burocrazia, il vero macigno che frena la crescita del nostro Paese e la vita delle imprese. È questo il primo problema del nostro sistema produttivo, più ancora della pur pesantissima pressione fiscale.

In un Paese normale dovremmo immaginare frotte di funzionari pubblici pronti a stendere tappeti rossi a chi è disponibile a investire o a dare vita a una start up. Percorsi agevolati, autorizzazioni all’esercizio pressoché immediate, adempimenti ridotti e non tortuosi. Un atteggiamento dovuto se pensiamo che gli occupati in Italia sono oggi meno di quelli del 2008 e che in ogni caso il nostro tasso di occupazione è dieci punti inferiore a quello della media UE. Se vogliamo maggiore occupazione devono nascere nuove imprese e quelle esistenti debbono poter lavorare, visto che è ben difficile ipotizzare significativi ampliamenti degli organici nella pubblica amministrazione, che anzi deve dimagrire.

Invece il nostro imprenditore spesso si trova alle prese con il Processo di Kafka. Servono 269 ore – fonte Doing Business- solamente per pagare le tasse. Quasi due mesi di lavoro da perdere con bolli e scartoffie sono un enorme peso per un artigiano, che rischia anche di essere irriso dal suo omologo francese che per questi adempimenti deve utilizzare 137 ore. Se il nostro imprenditore vuole costruire un nuovo capannone sa che disgraziatamente lo aspetteranno 227 giorni per la concessione contro i 64 richiesti in Danimarca. Anche i tempi per l’allacciamento alla rete elettrica sono tra i peggiori d’Europa: ben 124 giorni contro i 28 della Germania. Nell’import-export i moduli da compilare sono decine, dalla scheda di trasporto alla comunicazione all’Agenzia delle Entrate passando per la dichiarazione Intrastat. E il cahier de doléance potrebbe continuare per pagine.

Conosco i temi, ho dato vita a un’azienda che oggi occupa quasi duemila persone. Situazioni come queste hanno spinto tanti imprenditori a mandare tutto quanto a quel paese e ad andarsene all’estero. Anche perché le attese dovute alla burocrazia qualche volta sono infinite: rimangono eclatanti gli oltre quarant’anni che l’imprenditore della grande distribuzione Caprotti ha dovuto attendere per aprire un supermercato a Galluzzo. Accanto ai casi noti sono innumerevoli quelli di tanti altri, di cui magari si parla per un giorno solo e che spesso costano la chiusura dell’azienda. Viene da chiedersi perché il sistema non possa essere semplificato e i controlli fatti a posteriori. Insomma realizzo un’opera o avvio un’attività sulla base di un progetto certificato dai miei professionisti e poi lo Stato controlla, superando costosi indugi.

Il tempo è la variabile che separa un’idea dalla sua attuazione e molto spesso segna la differenza fra successo e insuccesso. Raramente l’ufficio pubblico vedrà come obiettivo preminente la rapidità nel rilascio di qualche permesso o la riduzione di orpelli e procedure. Non vi è una visione socio-economica, a cui l’ufficio non è tenuto, ma solo una formale e in ordine a questo la politica ha enormi responsabilità. Al contrario, lo Stato è molto sollecito quando deve incassare. Prima l’Agenzia delle Entrate poi Equitalia non fanno sconti. Di più: arriviamo al paradosso per cui a seguito di un accertamento l’imprenditore deve comunque anticipare un terzo delle imposte contestate per guadagnarsi il diritto a fare ricorso. Tutto questo in un contesto in cui premi diretti o indiretti spingono talvolta ad accertamenti inizialmente rilevantissimi. Cifre che poi magari si sgonfiano ma che potenzialmente hanno distrutto l’azienda e limitato il suo merito creditizio. In ogni caso a queste contese la nostra partita Iva deve dedicare altro tempo sottratto alla produzione.

Non tutti gli imprenditori sono dei santi, è ovvio. Occorre però scommettere sul nostro sistema produttivo, non con incentivi ma con regole più semplici. L’economia globale è ben più competitiva che solidale e soprattutto non fa sconti.

Non reagiamo alla crisi

Non reagiamo alla crisi

di Massimo Blasoni – Metro

La crisi è l’effetto dei nostri errori passati e dell’incapacità di riformare il presente. Non è vero che sia solo di natura economica: sia il declino sia l’incapacità di reagirvi sono il frutto di qualcosa di più complesso. Formalismi e burocrazia sembrano le uniche patenti di credibilità e invece frenano le idee e l’innovazione. Tutto sembra difficile da realizzare, soprattutto se è nuovo, e gli elementi migliori spesso migrano all’estero (come hanno fatto, negli ultimi dieci anni, ben 896.510 nostri connazionali).

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I nuovi “poteri” in arrivo per Renzi e Padoan

I nuovi “poteri” in arrivo per Renzi e Padoan

di Giuseppe Pennisi – Il Sussidiario

Le riforme più incisive sono sovente quelle incrementali che, a piccoli passi e senza farsi troppo notare, modificano equilibri consolidati. Dato che maiora premunt (ballottaggi, Brexit, consolidamento finanza pubblica, “gridi di dolore” dal Mezzogiorno e non solo), pochi hanno notato che il 15 giugno la commissione Bilancio della Camera ha approvato un emendamento alla normativa di aggiornamento (e attuazione) della nuova Legge di bilancio tale da potere mutare gli equilibri di poteri all’interno dell’esecutivo. È proprio uno quei cambiamenti incrementali che possono cambiare il funzionamento della gestione della finanza pubblica.

Andiamo con ordine. Da qualche anno lo strumento principale per la politica di finanza pubblica è la Legge di stabilità (che ha sostituito la Legge finanziaria del 1978). La Legge di stabilità ha avuto vita breve, e anche piuttosto tormentata. Dal prossimo settembre, di Legge di stabilità non si parlerà più. Entrerà pienamente in vigore la Legge di bilancio, la cui architettura e i cui punti fondamentali sono stati approvati nel 2009, ma di cui si stanno mettendo a punto gli strumenti attuativi tramite una serie di emendamenti al testo di sette anni fa.

Non solamente, la Legge di bilancio fonde in un unico documento normativo quanto, in passato, era dapprima nella Legge finanziaria e successivamente nella Legge di stabilità (ossia la manovra di finanza pubblica per rispettare gli obbiettivi concordati in sede europea) e quanto veniva proposto, discusso, emendato e approvato nel Bilancio di previsione (e negli Stati di previsione dei singoli Ministeri). La nuova legge amplia soprattutto le flessibilità del bilancio in fase sia di formazione, sia di esecuzione dello stesso. In particolare, introducendo la tassonomia tra spese rimodulabili e non rimodulabili, prevede, per le prime, possibilità di variazione degli stanziamenti, nei limiti relativi alla natura economica della spesa e dell’invarianza complessiva dei saldi.

Nella normativa di aggiornamento e attuazione, in discussione alla Camera, sono stati aggiunti alcuni aspetti (dei quali taluni nel 2009 erano ancora nel grembo degli Dei) come l’introduzione dell’indice di Benessere equo e sostenibile (Bes, un indicatore elaborato dal Cnel e dall’Istat) e del Bilancio di Genere. Ancora più significativo è il rendere permanente la revisione della spesa o spending review: in primavera, i Ministeri specificheranno gli obiettivi di contenimento della spesa e le valutazioni verranno effettuate secondo modalità quali quelle indicate nella Guida Operativa recentemente pubblicata dal Centro Studi ImpresaLavoro; in tal modo si elimineranno, o almeno ridurranno, i defatiganti negoziati in settembre a ridosso della Legge di bilancio.

Ma andiamo al punto cruciale approvato il 15 giugno in Commissione e che da domani 21 giugno sarà in aula, prima di passare all’esame del Senato. La misura rafforza le funzioni di controllo da parte del ministero dell’Economia e delle Finanze (in pratica della Ragioneria Generale dello Stato): se nel corso di un esercizio finanziario emergono scostamenti dalla previsioni, il Mef-Rgs, “sentito il Ministero competente”, provvede a spostare le risorse da un capitolo all’altro del dicastero. Nel caso che gli stanziamenti del Ministero “sotto vigilanza” si rivelassero insufficienti (o eccessivi), su proposta del Mef, e “previa delibera del Consiglio di Ministri”, il Presidente del Consiglio “provvederà con proprio decreto” alle revisioni.

La misura può essere interpretata sotto diversi aspetti. Da un lato, accentua la funzione del Presidente del Consiglio: non solo coordinatore, ma, “sentito il Consiglio dei Ministri” e dopo interazione tra Mef e dicasteri interessati, dotato di funzione d’intervento dirette sull’attuazione del bilancio dello Stato. Una caratteristica che, pur senza mutare la Costituzione, rende il Presidente del Consiglio molto simile a un Cancelliere, in materia di finanza pubblica e non solo. Ciò può piacere e non piacere. Tuttavia, occorre ricordare che l’autonomia dei singoli Ministeri (pur vigilati, per aspetti differenti, da Rgs, Corte dei Conti e quant’altro) non ha sempre avuto aspetti positivi. Nei cinque anni, ad esempio, in cui ho servito come componente del Consiglio Nazionale dei Beni Culturali e Paesaggistici (questa era la denominazione dell’epoca), mi sono confrontato con ben 254 “Contabilità speciali” di cui si era dotato il dicastero, dove , nonostante il “pianto greco” di mancanza di risorse dal 1990 al 2008 la spesa per restauri, investimenti, supporto ai beni librari e via discorrendo era stata mediamente pari al 44% delle risorse assegnate. Le Contabilità speciali “inguattavano” impegni di spesa che sovente non erano neanche basati su contratti.